A nonna Silvia che,
con la sua
delicata presenza,
ci mostra come
si abbraccia l’infinito.
1) Gli antichi: tra il piangente
Dioniso e il severo Catone
Non è facile rinunciare a una simile rappresentazione della vita umana:
una sorta di montagna in cui ci sarebbe una strada in salita, dall’infanzia
alla vita adulta, e una in discesa, dalla vita adulta alla condizione di
anzianità, che avvicinerebbe alla tragedia della fine. Sul tema vi è una sorta
di saggezza popolare corroborata dalle lamentazioni che qua e là ricorrono
nella letteratura dai greci in poi. Ci sono qui tanti tòpoi, come lo sconsolato lamento di
Mimnermo:
Quale
vita, che dolcezza senza Afrodite d’oro?
Meglio morire
quando non avrò più cari
gli amori
segreti e il letto e le dolcissime offerte
che di giovinezza
sono i fiori effimeri
per
uomini e le donne.
Quando
viene invece la dolorosa vecchiaia,
che rende
l’uomo bello simile al brutto,
sempre nella
mente lo consumano malvagi pensieri;
né più
s’allieta guardando la luce del sole;
ma è
odioso ai fanciulli e sprezzato dalle donne:
tanto
grave Zeus volle la vecchiaia[1].
In questo breve frammento la condizione
anziana è vista, in modo fenomenologicamente ineccepibile, come perdita.
Anzitutto si perdono le gioie dell’amore, che rappresentano una delle fonti più
importanti non solo di godimento, cosa comunque non irrilevante, ma anche di
senso (“meglio morire”). Se si perde la possibilità di godere della vita, ciò
implica evidentemente l’insorgere del dolore: la vecchiaia è dolorosa. Il
dolore è indice di una disarmonia fisico-morale che richiama la bruttezza e
l’essere spregevole. A tale manifestazione esterna, corrisponde uno stato
d’animo attraversato da inquietudini e “malvagi pensieri” - date evidentemente
dall’angoscia della malattia e della morte - che costituiscono il correlato di
un’irrecuperabile situazione depressiva alla quale le consolazioni del mondo
non possono apportare alcun sollievo. Infatti il mondo e la sua solare
corporeità hanno preso congedo al sopraggiungere dell’oscurità della fine, cioè
della sera e della notte. Così, brutto dentro e fuori, il vecchio risulta
inviso ai bambini e disprezzato dalle donne … cioè insomma lontano dai soggetti
vitali per eccellenza: le donne che danno vita e piacere allo stesso tempo e i
bambini nei quali la vita esprime al massimo le sue gioconde e libere
potenzialità.
Ecco un’espressione chiara di quello che
Friedrich Nietzsche considererebbe il dionisismo greco, impietoso verso la vita
in ritirata quanto devoto a tutte le manifestazioni della sua fugace e al tempo
stesso gloriosa temporalità fisico-estetica. Ecco dunque il lamento di Dioniso,
al quale tutti siamo un po’ sensibili, perché il Dio greco ha dalla sua la
cogenza difficilmente resistibile del fenomeno. Mimnermo si lamenta, ma anche
Teognide, ormai in esilio, non è da meno:
Di tutte
le cose, per quelli che vivono sulla terra,
la
migliore è non essere nati
e non
vedere i raggi ardenti del sole;
se sono
nati, passare al più presto le porte dell’Ade
e
riposare coperti di molta terra[2].
Già, almeno si evitano le sofferenze
della vita che gli anziani vedono nel loro mostruoso accumularsi. Così la pensa
pure Anacreonte:
Biancheggiano
già le mie tempie
E calvo è
il capo;
la cara
giovinezza non è più,
e
devastati sono i denti.
Della
dolce vita ormai
Mi resta
breve tempo.
E spesso
mi lamento
Per
timore dell’Ade.
Tremendo
è l’abisso di Acheronte
E inesorabile
la sua discesa:
perché
chi vi precipita
è legge
che più non risalga[3].
Il poeta si concentra non solo sul male
corrispondente al bene perduto, ma sull’abisso del nulla che lo attende. È il
dionisismo che incontra se stesso nel nulla che ha sempre esorcizzato con le
danze e con quella divina dimenticanza che permette di cogliere la vita nel
brillare violento, ma irresistibilmente affascinante, della sua superficie. La
nemesi dell’Ade che chiama e spaventa. Questa è anche la vecchiaia il cui senso
si imprime indelebilmente nel nostro corpo e nella nostra natura finita, dove,
cioè, noi scorgiamo angosciosamente il nostro essere-alla-morte e
retrospettivamente cogliamo la danza di Dioniso semplicemente come una danza … macabra.
A tale prospettiva al tempo stesso disperata e lamentosa, a questo
mormorio che con Saffo esprime tutta l’impotenza dell’uomo greco e la debolezza
in lui del principio-speranza
(“A me invece il corpo, tenero un tempo, la vecchiaia
ha deturpato; da neri i capelli sono diventati bianchi, l'animo si è fatto
pesante e non mi sostengono più le ginocchia che un tempo erano leggere e come
cerbiatte mi permettevano di danzare; ora spesso mi lamento ma che potrei
fare?”[4])
a tutto ciò già gli antichi avevano reagito: Platone nella Repubblica mette in bocca al suo
personaggio, Cefalo, l’opinione secondo cui le perdite della vecchiaia, in
particolar modo quelle connesse alla sfera sessuale, in realtà non sono tali:
sfuggire alle passioni è come
“fuggire da un padrone rabbioso e selvaggio”[5]
e “nella vecchiaia c’è una pace e una libertà assoluta: quando le passioni
cessano di tirare e allentano le briglie […] si può essere più liberi da un
gran numero di padroni folli”[6].
E certamente godere di un certo benessere materiale è importante, ma non
decisivo:
“Un uomo equilibrato non potrebbe certo sopportare
facilmente una vecchiaia unita a povertà, ma neppure un uomo non equilibrato,
per quanto ricco, sarebbe mai in pace con se stesso”[7].
Dunque la condizione anziana è
apprezzabile per l’equilibrio che consente di raggiungere l’attenuarsi
dell’impeto delle passioni, in particolare quelle erotiche, ma tale equilibrio
deve essere stato coltivato fin dall’inizio, altrimenti faticherà a
manifestarsi sotto la coltre di quegli apparenti mali che i poeti e gli uomini
di senso comune temono e considerano decisivi nel giudizio sulla “qualità della
vita” dell’anziano.
La reazione di Cicerone nel Cato Maior de senectute è ancora più
diffusa e sistematica. Platone rimane un punto di riferimento, ma lo diventano
anche gli stoici e soprattutto quell’etica pre-filosofica che affonda le sue
radici nell’opzione fondamentale dei romani nei confronti del mondo, il loro
cosiddetto mos maiorum. Da vecchi,
dice allora Cicerone tramite il suo alter
ego Catone, si può continuare a portare il proprio contributo alla civiltà,
sempre da viri romani, benché non più
da militari, sempre da timonieri della nave benché non più da marinai:
“Nessuna ragione seria portano dunque a sostegno della
loro tesi coloro che affermano che i vecchi non hanno parte nell’attività
politica: costoro assomigliano a quelli che dicono che il timoniere, durante la
navigazione, non fa nulla, dal momento che alcuni salgono sugli alberi, alcuni
corrono qua e là per i ponti, altri vuotano la sentina, e lui invece se ne sta
tranquillo seduto a poppa con in mano una sbarra”[8].
La decadenza fisica, poi, non intacca la forza intellettuale e ancor
più morale dell’uomo, cui sono legate le attività dello spirito. Così Catone
può ribadire:
“Assisto gli amici, mi reco spesso in senato e di mia
iniziativa porto idee su cui ho riflettuto intensamente e a lungo e le difendo
con le energie dello spirito, non con quelle del corpo”[9].
E il piacere, che appare una
così allettante chimera in gioventù, da un lato non è negato nell’età anziana,
dall’altro è maggiormente sotto il controllo dell’attività razionale e non
rischia di degenerare in edonismo volgare. È il piacere non del corpo ma della
cultura, quello della vita dei campi, pensata secondo i canoni classici
dell’idillio, e infine il piacere del prestigio riconosciuto al vecchio che
abbia degnamente vissuto:
“L’autorevolezza
è infatti l’ornamento della vecchiaia … La vecchiaia, soprattutto di chi ha
ricoperto cariche pubbliche, possiede una autorevolezza così grande che vale
più di tutti i piaceri della giovinezza”[10].
In ultimo Cicerone affronta il tema della morte e del suo avvicinarsi.
Qui mette assieme argomenti di Platone e dell’odiato Epicuro - la morte come
totale insensibilità - dei platonici - l’immortalità dell’anima - e degli
stoici - la morte come evento naturale conforme al lògos universale. Ma
pure non disdegna l’esempio del vir
romanus che, fedele alla Stimmung
della sua stirpe, lavora per le generazioni future, sapendo che non vedrà i
frutti di ciò che ha piantato, ma che la sua opera sarà utile e bella per gli
uomini a venire. Ecco allora il tema della gloria:
“Pensi che mi sarei sobbarcato tante fatiche di giorno
e di notte, in pace e in guerra, se avessi pensato che la mia gloria si sarebbe
fermata ai medesimi confini della mia vita? …[Invece] il mio spirito, levandosi
in alto, sempre guardava avanti a sé, alla posterità, quasi che solo dopo
essere uscito dalla vita, potesse finalmente incominciare a vivere. E se non
fosse vero che le anime sono immortali, tutti i più nobili spiriti non
cercherebbero con ogni sforzo di giungere soprattutto a una gloria immortale?”[11].
Considerati complessivamente gli argomenti di Cicerone non sono al
solito privi della loro tipica debolezza eclettica. Certamente, tuttavia, la
diversità delle fonti di ispirazione tende a dare una certa idea dell’uomo
classico, della sua nobile semplicità e quieta grandezza, che la vecchiaia è in
grado di esaltare e che non entra in contraddizione con l’immagine di vigore
giovanile che la civiltà romana voleva offrire di sé.
V’è inoltre la chiara intuizione di un senso spirituale della vita del
quale, grazie al contributo stoico, non manca la percezione di una grandezza
assoluta, anche al di là della dimensione politica e storica, che rimane il
luogo di elezione dell’etica romana e del “costume degli antichi”. La
confutazione ciceroniana della disperazione greca a proposito della vecchiaia
potrà sembrare artificiale e talora retorica in senso deteriore e financo
piagnucolosa, come ingenerosamente l’ha definita Manlio Sgalambro, ma
rappresenta l’occasione per una riflessione seria ed esistenzialmente esigente.
Qui il grande classico latino profonde energie tratte dal vasto patrimonio di
cultura ed erudizione di cui disponeva, ma le colloca in un quadro al quale il
ricordo accorato della figlia Tullia offre un tratto di coinvolgente emozione,
verità e umanità.
2) Agostino: la sesta età
Tale non può che essere il senso della filosofia per il cristiano
Agostino, l’autore delle Confessioni,
il grande intellettuale capace di rendere la dottrina filosofica o teologica
vita e bellezza. Il suo ragionamento sulla vecchiaia ha, come anche in altri
campi, profondità epocale. Due mi sembrano essere i fuochi della sua
riflessione, l’assunto teologico per il quale “Dio fa nuove tutte le cose” (Ap
21,5) e quello antropologico per cui le età della vita hanno un valore precipuo
e provvidenzialmente stabilito. Accanto a ciò appare di grande e originale
prospettiva l’inserimento del tema della vecchiaia in un’ottica
cosmico-escatologica come vecchiaia del mondo. Si tratta di un’intuizione
eccezionale per la quale uomo e mondo si illuminano reciprocamente e che a noi
fornisce un’indicazione profetica per comprenderci all’interno del tramonto dell’occidente. Senza pretese
di completezza ermeneutica, per dare un’idea del pensiero del santo di Ippona,
partirei da questa affermazione:
“Ogni singola età, dall’infanzia alla
vecchiaia, ha in ogni uomo la sua bellezza”,
Infatti
“sarebbe assurdo volere che nell’uomo soggetto al
tempo ci fosse solo l’età giovanile”
poiché
“resterebbe […] privo delle altre bellezze che
hanno il proprio posto ed ordine nelle varie età “[12].
Bisogna trarre spunto dalla natura. La natura
porta in sé una razionalità da individuare e manifestare, perché è la stessa
razionalità divina che ve l’ha posta. Per questo sarebbe assurdo pensare e
cantare come Bob Dylan: Forever young,
benché lì l’autore alluda a una certa eternità morale cui l’essere sempre giovani dovrebbe introdurre:
Possa tu crescere per essere giusto
possa tu crescere per essere sincero
possa tu conoscere sempre la verità
e vedere le luci che ti circondano
possa tu essere sempre coraggioso
stare eretto e forte
e possa tu restare per sempre giovane[13].
Ma se questa nobiltà etica non è raggiungibile se non rimanendo giovani per sempre, ben
si capisce lo sfondo di malinconia che dà il tono all’implorazione del
cantautore: resta giovane, altrimenti tutto è perduto! Così appare
l’arrangiamento musicale, con la sua linea melodica struggente e il suo senso
della disperata ricerca dell’impossibile. Agostino dice che ciò è appunto
assurdo: assurdo è protestare contro la realtà, dunque assurdo è protestare
contro la vecchiaia.
“Non per nulla infatti dice al
riguardo il Signore per mezzo di Isaia: Io sono, e anche quando sarete
invecchiati, io sono. Ecco chi sempre ha da essere lodato: colui che
è. O fanciulli, lodatelo da ora, e voi, vecchi,
lodatelo, nei secoli. E allora la vostra vecchiaia presenterà
una canizie, indizio di sapienza, e non avvizzirà per l'invecchiarsi del corpo.
[…] Per "fanciullezza" riteniamo doversi intendere piuttosto
l'umiltà, a cui si contrappone la grandezza, vana e fallace, della superbia.
Per cui nessuno che non sia fanciullo sa lodare il nome del Signore, poiché il
superbo certo non sa lodarlo. Sia pertanto la vostra vecchiaia una vecchiaia
infantile, e la vostra fanciullezza una fanciullezza adulta. Cioè la vostra
sapienza non sia mescolata a superbia, né la vostra umiltà sia priva di
saggezza, sicché lodiate il Signore e ora e nei secoli. Sì,
dovunque la Chiesa di Cristo si espande per la presenza di tali santi
fanciulli, lodate il nome del Signore. Questo
infatti significano le parole: Dall'oriente all'occidente lodate il
nome del Signore”[14].
La vecchiaia è certo disfacimento
del corpo: tutti desiderano la vecchiaia, ma poi se ne lamentano, rimpiangendo
la passata bellezza: “Se sarai vecchio non sarai bello, perché quando giunge la
vecchiaia, la bellezza se ne va”[15].
Ma, come aveva già notato Cicerone, essa è anche possibilità e indizio di
sapienza, a patto che nel suo avanzare inesorabile si sappia mantenere la
fanciullezza, così che la vecchiaia stessa sia “infantile”. Qui non ricorre il
tema abusato del vecchio che diviene un bambino, cioè che perde la
consapevolezza delle dinamiche della realtà, facendosi vieppiù capriccioso e
irresponsabile. La fanciullezza è al contrario segno di una sapienza
responsabile di fronte a Dio, cioè umile. Umiltà è sapere che si è bisognosi e
anelare alla compagnia di mamma e papà, dove solo si sente protezione, stimolo,
valore e fiducia. Ecco allora la vecchiaia del credente che trova nella
paternità di Dio e nella maternità della Chiesa quell’orizzonte dove si
indirizzano i suoi desideri e i suoi bisogni non mistificati da quella che
chiameremmo la superbia dell’esperienza. La vecchiaia superba è inutile
perché autoreferenziale e definitivamente consegnata alla fine, al nulla. Ma il Signore ha “distrutto l'inutile vecchiaia, per edificare
l'uomo nuovo”[16]. La sua
opera emancipatrice rende possibile la figura del vecchio che assume
l’innocenza del bambino, capace di ascoltare il mistero e l’annuncio: il
mistero nascosto al sapere di questo mondo e ai dotti riconosciuti dalla
società; l’annuncio di un messaggio sorprendente e credibile, che nel vecchio infantile non genera lo scherno
e la fuga come fu nei vecchi filosofi dell’Areopago (Atti 17,32).
Se fino ad adesso abbiamo visto chiarirsi un’immagine non
scontata e cristianamente ispirata dell’uomo vecchio, l’idea
sorprendente per cui egli si realizza veramente solo come uomo nuovo dà accesso all’altro fuoco del discorso agostiniano: la
novità. Come far coesistere l’elogio della novità, già annunciato con l’idea di
una vecchiaia fanciulla, con la senilità?
Sembra strano, ma la risposta agostiniana è che la vecchiaia è l’età del nuovo! Essa infatti coincide con la sesta età
dell’uomo.
“Ora la fine dei tempi, come la
vecchiaia del vecchio uomo - puoi considerare tutto il genere umano come un
solo uomo -, è indicata dalla sesta età, in cui è venuto il Signore. Anche
nell’uomo individuale sei sono infatti le età: infanzia, fanciullezza,
adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia. La prima età del genere umano va
da Adamo a Noè. La seconda da Noè ad Abramo; questi periodi sono evidentissimi
e ben noti. La terza da Abramo a Davide: questa è infatti la divisione
dell’evangelista Matteo. La quarta da Davide alla deportazione di Babilonia. La
quinta dalla deportazione di Babilonia alla venuta del Signore. La sesta
bisogna protrarla dalla venuta del Signore alla fine del mondo: in questa età,
l’uomo esteriore, che si chiama anche uomo vecchio, deperisce per vecchiaia e
l’interiore si rinnova di giorno in giorno”[17].
Il genere umano
come un solo uomo: magnifico “salto” del ragionamento, come se Agostino avesse
voluto ascoltare la lezione platonica della Repubblica
che, quando si tratta di ricercare che cosa sia la giustizia, la pone nello
Stato perché lì quella virtù è come se fosse scritta in caratteri più grandi.
Lo stesso vale per la vecchiaia: per capirla la mettiamo nel cosmo, dove è
scritta a caratteri cubitali, e il cosmo è caratterizzato in modo assai più
visibile dalla signoria divina. Ecco il grande affresco storico escatologico di
Agostino, in cui il Signore viene nella vecchiaia del mondo, mentre il mondo, e
con esso l’uomo vecchio, deperisce esteriormente. Al tramonto avviene qualcosa
di importante. Gesù valorizza il tramonto perché viene in quel momento a rinnovare,
a far rinascere. Allora paradossalmente la vecchiaia è la vera giovinezza,
mentre la giovinezza è semplicemente il dolore che precede la medicina:
“La mia ultima età. Come tra le età della nostra vita
la vecchiaia è l'ultima, così è del corpo di Cristo. Tutto ciò che esso ora
soffre di dolori e di calamità, nelle veglie, nella fame, nella sete, tra gli
scandali, le ingiustizie, le angustie, è la sua giovinezza; la sua vecchiaia,
cioè la sua ultima età, sarà nella letizia”[18].
La furbizia della vecchiaia dunque è
mantenere lo sguardo fisso a Colui che, preparando la letizia con la sua croce,
ha il potere di rinnovare e di
allontanare la morte.
“Quando infatti il serpente - dice Agostino,
commentando il passo evangelico in cui si consiglia di essere “furbi come
serpenti” (Mt 10,16) - è oppresso dalla vecchiaia e sente il peso della
decrepitezza, s'introduce a fatica attraverso un cunicolo e così facendo si
spoglia della pelle vecchia per uscir fuori nuovo. Imitalo tu, o cristiano, che
ascolti il Cristo che dice: Entra attraverso la porta stretta. L'apostolo Paolo dice
inoltre: Spogliatevi dell'uomo vecchio con le sue azioni e rivestitevi
dell'uomo nuovo ch'è stato creato ad immagine di Dio. Hai dunque una
caratteristica da imitare riguardo al serpente: non morire a causa della
decrepitezza. Chi muore a causa di un vantaggio materiale, muore a causa della
decrepitezza materiale. Chi muore a causa del vantaggio della lode umana, muore
a causa della decrepitezza spirituale. Quando invece ti sarai spogliato di tali
forme di decrepitezza, avrai imitato la prudenza del serpente. Imitalo in modo
più sicuro: conserva la tua testa”[19].
Non
bisogna cedere nella vecchiaia alla decrepitezza, ma lavorare per far rinascere
l’uomo nuovo. Grande compito, proprio di tutte le età, ma in particolare della
vecchiaia, perché la pelle indossata per anni si può abbandonare. Anzi forse è
più facile farlo ora, che non prima, quando l’uomo era ancora afflitto dalla
pesantezza delle convenzioni del mondo, del secolo, dei negotia, delle comodità, della ricchezza, della reputazione … tutte
cose che generano decrepitezza materiale e spirituale. Ora si può cambiare,
abbandonando il superfluo per mantenere la testa, cioè l’arché, il punto di comando, la direzione della vita verso Cristo,
che non deve più portarsi dietro zavorre pesanti. Se ora si può cambiare pelle,
adesso è il kairòs della vita, adesso
è il momento, è l’occasione: l’ora della vecchiaia si conferma un’ora giovane e
nuova, mentre la gioventù è ogni momento a rischio di invecchiamento (discorso
profondamente paolino, questo del santo ipponense, che ricorda il continuo
scambio categoriale tra legge, peccato e grazia). Se il kairòs della vecchiaia è l’occasione per diventare realmente
giovani, dove la gioventù mondana è piena di decrepitezza, la vecchiaia è per
eccellenza l’età che ha futuro. L’uomo di fede non vede restringersi il futuro
con gli anni che avanzano, bensì lo vede aprirsi … e la morte ne viene sempre
più allontanata, poiché essa non ha un’origine biologica, ma amartiologica
(ossia nel peccato). Si direbbe allora che Agostino, in fin dei conti, non
protesta contro la vecchiaia per riservare le sue proteste contro la morte
biologica? Sì il cristianesimo aborre la morte, ma suo grido e la sua
ribellione, leciti alla luce del
dispiacere e del pianto che Gesù riserva all’amico defunto (Gv 11,36), trovano la loro ragione nel fatto che la morte biologica è un
simbolo: quello della seconda morte, quello della morte spirituale che dissolve
il vivente nel vuoto eterno. La protesta e il pianto prendono a pretesto il
morire corporeo per giungere a colpire il peccato, cioè la nullificazione della
vita dello spirito. Il nulla è tremendamente serio. Nessuna sottovalutazione della morte è quindi
lecita. E non c’è alcun male nella protesta. La morte fisica, infatti, è, nel
suo dolore immenso, ciò che appena può dare l’idea dello spaventevole abisso
del nulla del peccato. La vecchiaia non è dunque più vicina all’oggetto, ma al
simbolo, all’éidolon. Agostino
riconducendo lo sguardo alla speranza cristiana e alla fine come compimento,
presenta al fedele la possibilità, durante la sua vecchiaia, di una nuova
docilità alla grazia che colpisca l’oggetto, vanificando così la potenza
evocativa del simbolo.
Certo
oggi il ragionamento di Agostino sconta ciò che ieri era il suo pregio, cioè la
sua natura teologica. La teologia ha smesso, almeno apparentemente, di parlare
a tutti, benché tutti ascoltandola possano ancora trarne tessere per comporre
della loro vita un mosaico più bello. Il discorso cristiano, nondimeno, oggi
può al massimo considerarsi un discorso in mezzo ad altri. Ciò forse è
provvidenziale perché esso non teme i confronti, anzi se ne può facilmente
avvantaggiare. Ciò però rende necessario valutare gli altri orientamenti e il
loro contributo anche in ordine al nostro tema. Vedremo che alcune questioni
ritornano e ne potremo trarre indicazioni utili.
3) I moderni: la vecchiaia e
la cosa in sé
Anzitutto
la riflessione moderna e contemporanea si sofferma sulla dimensione della
perdita. Il tentativo è quello di uscire dalla retorica della laudatio della vecchiaia come età della
saggezza, verso uno sguardo più realistico che è disincantato senza essere
disperato. Sembra esserci in sostanza una ripresa - in chiave fenomenologica -
dell’angosciosa percezione del decadimento psicofisico e della sua risonanza
filosofico-esistenziale. Il fenomeno
vecchiaia, nel modo in cui si offre originariamente alla coscienza per essere
descritto nella sua datità, manifesta la centralità del corpo e
dell’anticipazione della morte, heideggerianamente intesa come impossibilità di
ogni possibilità. Si può aggiungere, recuperando un profilo storico, che
entrambe le questioni - corpo e morte - si generano dall’orizzonte della città
secolare, sempre più consegnata alle nebbie dell’immanenza. Chiarezza
fenomenica e opacità della situazione storico-spirituale si avvicendano e si sovrappongono.
In questo chiaroscuro si conferma tuttavia il carattere di inciampo che questa
ha nel divenire della persona umana. Ha ragione chi, come Sgalambro, ne coglie
l’unicità rispetto a tutte le altre. L’età non si sviluppa, accade
all’improvviso:
“L’antiquato concetto di
sviluppo coprirebbe la distanza che separa il fanciullo dal vecchio, dando a
intendere che questo è il normale percorso e che non ve ne sono altri. Lo
‘sviluppo’ è invece la peggiore spiegazione escogitata in tante migliaia di anni
dalla civiltà occidentale. Vecchi si è per un colpo del fato o, se si vuole,
per decisione di Dio”[20].
E,
così accadendo, ha un significato rivelativo: “Il vecchio è l’immagine figurale
della cosa in sé”[21]
(ma di questo si tornerà a parlare). E tale immagine coincide con lo spappolamento:
nella vecchiaia “noi ci incontriamo col corpo
nel momento in cui si spappola […], quando ciò che lo divora appare. Mysterium tremendum!”[22].
In
tale condizione, sostiene Amery, si diventa estranei a sé stessi, ci si
dissocia dal proprio corpo[23],
accorgendosi al tempo stesso che le possibilità esistenziali si restringono e
il possibile diventa impossibile[24].
Ecco allora che subentra ciò che Scheler ha ben definito quando ha sottolineato
l’estraneazione dell’anziano nei confronti della realtà oggettuale, quel
fenomeno per cui gli oggetti perdono il loro interesse vitale. Si potrebbe
dire, commentando questo concetto con Heidegger, che l’uomo non riconosce più negli oggetti il carattere di
utilizzabili dentro il contesto del suo progetto di vita, poiché tale progetto,
qualunque esso sia stato, si avvia alla sua conclusione che appare sempre
un’improvvisa, crudele e insensata interruzione. L’estraneazione riguardo alla
realtà genera poi sempre una peculiare introversione, data altresì dal bisogno
di risparmiare energie. Tale narcisismo di ritorno convive con quel paradosso
che, accanto al distanziamento rispetto al proprio corpo, registra una continua
e ridondante concentrazione sul proprio stato di salute. Naturalmente ciò
assume la forma del tipico edonismo senile, accompagnato dalla perdita di
capacità empatiche[25].
In effetti non è rara la dinamica per cui si ricerca la condizione di massimo
piacere o di minima sofferenza, diventando più soli, perché non si riesce a
cogliere la sofferenza altrui e l’altrui sforzo … una centralità senza
periferia, una centralità solipsistica nella quale gli altri sfumano e via via
escono dall’orizzonte etico, sempre più occupato dalla propria tragedia e dalla
ricerca di consolazioni. E la tragedia sta tutta nella percezione profonda
della caducità[26], che ora si manifesta
senza infingimenti, riverberandosi anche sul piano sociale. Lo ha sottolineato
Simone de Beauvoir, e questo rimane il fondamentale contributo del marxismo: la
vecchiaia è il segreto vergognoso della società capitalistica che relega i
vecchi, giacché non più produttivi, in una condizione di inferiorità sociale.
Quest’ultima è all’origine di gran parte dei suoi mali[27].
Al tempo stesso essa disperatamente si imbelletta da giovane, perché la
vergogna deve in qualche modo essere nascosta, coperta, mistificata con tutti i
mezzi, fosse anche il bisturi. Ma, nascondendosi, il vecchio si marginalizza da
solo. Non solo smette di essere se stesso per consegnarsi ad un’immagine falsa
di sé, ma finisce per cadere, nel rifiuto onnipotente della verità, in un
colpevole occultamento delle possibilità connesse alla sua età[28].
Perché se è vero, come sostiene Rentsch, che essa è l’acme della finitezza, è
altrettanto vero che essa non fa che radicalizzare la strutturale fragilità
umana[29],
manifestando, aggiungiamo noi, una essenzialità noumenica che le due volontà di
potenza, quella del giovane e quella dell’adulto, ambiscono in ogni modo a mascherare.
Dunque
nel mezzo di questa radicale finitezza che cosa ancora si può fare, che cosa
rimane da sperare?
Premessa
di un approccio positivo e sensato (positivo perché sensato e non viceversa)
alla vecchiaia non può che essere, concordano sia Scheler sia Guardini, un
adattamento valoriale che conduca all’accettazione faticosa della caducità[30].
Essa consente di cogliere la vecchiaia come tempo etico: la consapevolezza
dell’intrinseca limitatezza dell’esistenza umana, che si raggiunge con la
vecchiaia, è alla base dell’idea di dignità della persona, “che può essere
intesa come la versione secolarizzata del concetto teologico di grazia”[31].
La dignità, così come la personalità, non sono toccate dall’invecchiamento: in
particolare lo spirito e l’autocoscienza si sottraggono al decadimento
psicofisico[32]. Malgrado possano venire
meno i loro supporti biologici, quel santuario interno della persona in cui
risiede la sua grandezza metafisica e assoluta rimane inviolato. Per tale
motivo è difficile procedere con la prospettiva della secolarizzazione. Sia
soggettivamente sia oggettivamente la vecchiaia è un tempo metafisico e
noumenico: da un lato il soggetto anziano acuisce la sensibilità metafisica[33],
sviluppa le attitudini contemplative[34] e
si apre a ciò che è eterno[35],
dall’altro la vecchiaia radicalizza la situazione fondamentale dell’essere
umano, che ne rivela il “prepotente manifestarsi del senso costitutivo
dell’umanità”[36]. La domanda sul senso
invariabile dell’essere persona[37],
che non ha evidentemente ragioni evolutive o biologistiche, che non poggia su
alcuna compiutezza della forma umana, che emerge nell’ora del disfacimento e
dell’approssimarsi della fine, introduce a una evidenza letteralmente sovrasensibile
del suo senso. Ciò, di nuovo, corrisponde all’attitudine soggettiva a cogliere
questi significati da parte della persona anziana, che possono essere
individuati quando nella dimensione dell’otium
si sperimenta un salutare distacco critico verso l’esistente. Ernst Bloch intende come una salutare presa di
distanza dalla furia del dileguare della società capitalista[38],
e Mittelstraß lo legge heideggerianamente come Gelassenheit come un abbandono che lascia essere le cose nella loro verità senza esprimere alcuna
volontà di dominio e intervento. In tale occasione “la riduzione del non
significativo, dell’irrilevante, del superfluo, rende possibile la
concentrazione sull’essenziale”[39]. La
vecchiaia si precisa dunque, di là dai suoi lati oscuri, o meglio, proprio
attraverso i suoi lati oscuri, come un cammino verso l’essenziale.
L’autenticità
del percorso si misura, tuttavia, sulla sua libertà. In che misura una strada
obbligatoria, che ci pone davanti alla morte o all’invecchiare, può essere
colta in questo suo aspetto di irrinunciabile viaggio al centro dell’essere
uomo, senza l’impressione che vi si sia costretti da una brutale necessità?
Diciamo allora che l’esperienza rivelativa del morire può essere vista come il concentrare,
nella brevità di un evento, ciò che la vecchiaia diluisce nella lunghezza
dell’attesa. Come dice Guardini, la vecchiaia produce l’ars moriendi come sua specifica sapienza, dentro un discorso che la
morte concentra invece nell’irrompere di una
intuizione. Pertanto, nonostante il cammino della vita conduca alla fine,
essa non può equivalere alla cosiddetta “morte improvvisa” che capita senza
preparazione e irrompe decretando una caduta non prevista. Certo, in linea di
principio, tutte le morti sono improvvise - perché il morire sopravviene in un
istante - e nessuna lo è - perché tutto il vivere può essere considerato come
un decorso al cospetto della morte. Nondimeno la tradizione cristiana che, con
san Benedetto XIII, prega per essere liberati dalla morte improvvisa, cioè
dalla sopravvenienza della fine senza un’adeguata preparazione spirituale e
sacramentale, dice che alla morte ci si può preparare, accordandosi peraltro
con la riflessione classica, soprattutto stoica,. E se è meglio prepararsi, allora
è meglio invecchiare, a patto che si sappia comprendere come e perché un certo
tempo è dato e non si scambi il tempo dell’invecchiare con una dilazione
dell’inevitabile. Sicuramente la vecchiaia non è l’unico modo per disporre lo
spirito al momento supremo, ma è quello, diremmo, offerto ordinariamente, al
quale ciascuno, soprattutto oggi, può più facilmente accedere e che di per sé
orienta la persona alle cose inaggirabili, ultime e definitive.
La
vecchiaia è perciò l’età che, in vista dell’éschaton
individuale, si configura come il tempo del tempo. In essa si manifesta in modo
evidente la temporalità dell’esserci umano. La vicinanza dell’“estremo” è
tempo, il cammino verso il definitivo è “tempo”. Il passato che ha reso attuale
tale cammino è ancora “tempo”. Il tremore, l’angoscia, l’attesa, il ricordo, l’attaccamento,
l’amore, la speranza: tutto è tempo. Tutto, però, avviene ex gradu, cioè a partire dal grado massimo, e il grado massimo
della vita è il momento della morte. Il vecchio è “un fascio o massa
stratificata di tempo: porta il tempo nella sua pelle”[40],
quel tempo “di cui prima non sapeva
nulla”[41]. Con
Schopenhauer rileviamo che
“l’autocoscienza nelle
diverse età è legata al modo in cui il presente, che è la nostra condizione
costante, si rapporta al passato e al futuro: il prevalere del primo sul
secondo determina la coloritura specifica del presente dei vecchi. A ciò si
aggiunga la percezione soggettivamente più veloce dello scorrere del tempo, che
implica […] il differente peso specifico delle tappe vitali”[42].
Ma
è soprattutto “l’esperienza della caducità, il tendere dell’esistenza verso il
futuro e al tempo stesso verso il suo limite naturale, la morte”[43]
che dà la sua tonalità al vissuto dell’anziano. Il tempo viene colto nella sua
profondità come un precipitare che distrugge la rassicurante prospettiva macroscopica
del progredire storico e si avvicina maggiormente alla rivelazione
apocalittica. I tempi degli anziani sono tempi ultimi, essenziali, rivelativi e
tremendamente oggettivi. Ciò sembra vero anche quando si accenni ai sentimenti
del tempo, poiché essi risultano essere risonanze interiori di un fatto
ingombrante, di un evento che attiene all’essere e non al puro sentire. Perciò
con l’anziano, a differenza di quanto sostiene Amery[44],
non si può parlare di “durata” bergsoniana o di “tempo vissuto. Al contrario
per “tempo” si deve intendere con Sgalambro non
“il tempo interno ma il
tempo ‘esteriore’, il tempo che sopravviene d’un tratto e getta a capofitto
nell’età. Non il tempo ‘intimo’ che all’occorrenza scalda o dà tepore - quel
tempo, per intenderci, il cui concetto ha spadroneggiato per tutti questi anni,
il cosiddetto ‘tempo vissuto’ (spassosa lusinga di un’immagine). Intendo invece
il tempo che ‘affetta’ l’individuo - il termine kantiano lo considero
insostituibile - , lo tiene fermo e non gli fa fare un solo passo. E
contemporaneamente lo colloca in quel luogo in cui il tremendo, gli elementi
alieni, l’estraneità totale imperversano, incarnandosi tutti in questo
spaventoso individuo, il vecchio. Il vecchio è orribile perché totalmente
occupato dal tempo”[45].
Certo
la serietà ineluttabile dell’oggettivo, di una trascendenza che non si può
avvicinare, di una presenza che non si può dire con eufemismi è ciò che invade
la soggettività anziana. Indomabile, irrefrenabile la prende con sé e la fa
precipitare. Essa ne è “occupata” e ancor più direi “espropriata”, ma
l’orribile è ben altro!
Il
pessimismo di Sgalambro, con le sue immagini fortemente evocative, non riesce a
celare l’artificialità di un compiacimento intellettuale. Egli ci rivelerebbe
che l’andare-a-fondo è l’essenza della barca dell’esistenza: “Non tutto ciò che
esiste merita di andare a fondo. Va a fondo e basta”[46] e
“la distruzione è l’essenza nell’esistenza”[47].
Pertanto
“Alla domanda: ‘Perché
l’essere e non il niente’ la post-risposta, la risposta che viene dopo tutte le
risposte [sarebbe]: ‘Affinché non ci sia niente’. Il niente è il risultato, il
niente è il distrutto. L’Idea intesa come si deve”[48].
Potenza del disincanto:
“ogni De senectute, genere per bacucchi e cuochi in pensione, assegna al
vecchio la saggezza (consigliare al nipote che non deve sposarsi, sospirargli
che veniamo dal nulla e scompariremo nel nulla, che ricordare è la cosa più bella
che ci sia, che bisogna rispettare le idee altrui […] mentre è l’orribile
sapere il vero contraccolpo del tempo su un uomo”[49].
Tale sembra essere il sapere della distruzione
e del nulla, “di quella distruzione da cui tutto ebbe inizio”[50] e
che peculiarmente si associa alla “physis
dell’invecchiato” che “cade pezzo a pezzo”[51].
Tutto molto suggestivo, non c’è dubbio.
Soprattutto lo è quel sentore di aristocrazia del concetto e di superiorità
rispetto al banale discorrere di un pensiero caritatevole, che cerca di
spiegarsi e che usa la particella “cioè”. E pure lo sembra quell’aria di
scoprimento disillusorio che si respira lungo tutte le pagine di Sgalambro,
così irresistibilmente affascinanti nella loro libera creatività. Nondimeno,
accanto alla fenomenologia del disfacimento, che occhieggia a un’ontologia
della distruzione e si disloca in un orizzonte pessimistico e nichilista, è da
rimarcare ancora che l’essenza noumenica cui è votata l’umanità anziana è la
verità come pleroma e non come nulla. Non si può scambiare la
circostanza con la cosa in sé, non si può confondere la perdita come contesto
del disvelamento della verità - cioè la disgregazione psicofisica che
accompagna la scoperta di una verità etica, antropologica e metafisica più
profonda - con la qualità stessa del vero. Non si può cadere in quella
anti-teologia che proietta e oggettiva la disperazione della coscienza a
livello del cosmo e dell’assoluto. Questa teologia va ricondotta alle sue
radici antropologiche: l’oggettivazione della propria angoscia che vive male la
paura della morte, facendo della morte l’essenza del mondo. Ciò è una
componente ingombrante della condizione anziana. Ma il suo stesso orientamento
contemplativo, il suo stesso misticismo è capace di molto di più. Sicuramente
il rapporto con l’assoluto è talora angosciato e disperato, talaltra fiducioso
e sereno. Questi sono i poli depressivo e maniaco della condizione anziana.
Però un conto è il rapporto un conto è la cosa. Lo sforzo di penetrazione deve
collocarsi già oltre. Se dispero allora sono. Se dispero allora qualcosa è. Se
qualcosa è, la disperazione è solo nel soggetto. Di qui, da una indefettibile
coscienza logica può partire tutto il resto: contemplare, vedere, accogliere,
sentire, onorare, amare.
Il
cammino attraverso la vecchiaia rimane nondimeno complicato. Il mondo si è
accorto dei vecchi perché essi stanno diventando numericamente prevalenti nelle
società occidentali. Essi costituiscono perciò una preoccupazione: che possiamo
fare di gente che non lavora e non produce? Ma il problema non è solo questo.
Alla società piacciono oggi forse più i consumatori che i produttori. E i
vecchi devono vivere, a volte essi consumano anche solo per sopravvivere. Ciò è
un affare per chi vede lontano e prepara il grande apparato dell’assistenza. Un
grande fatturato abbiamo davanti a noi, con le soluzioni alternative per chi
vuole finirla prima: si fattura anche con la morte prêt-à-porter.
E
la scomodità di chi si ostina a rifiutare per sé le soluzioni di consumo e di
fuga? E la flebile ma potente voce di chi appella all’essenza, alla stabile
essenza, per contestare le magnifiche sorti e progressive della società del
godimento? Proteste significative si alzano per emarginare e deprivare del loro
potere di influenza sociale e politico tali voci. Togliamo il voto agli
anziani, perché non pensano al futuro e si oppongono al progresso. La miserrima
pusillanimità del cinquantenne attribuisce il suo egoismo all’anziano. Perché
l’anziano dovrebbe pensare al futuro? Se pensa a sé e fra poco morirà, egli
ragionerà dicendo: “Muoia Sansone con tutti i filistei”. E il futuro del
pianeta, e le giovani generazioni? Domande apparentemente ragionevoli … ma in
realtà nient’altro che criminali paralogismi dell’egoismo e dell’edonismo. Sono errori che negano alla radice ciò che
invece rende l’anziano più responsabile, vigile e lungimirante dell’adulto in
carriera: il legame. L’anziano vive dell’autenticità del legame, non solo
parentale ma anche amicale. Vive una gratuità diversa, capace, con gran
sorpresa di comici prestati alla politica, di capitalisti arraffoni e di
amministratori di seconda fila[52],
di autentica preoccupazione per l’altro, di una tensione verso l’altro che,
proprio sotto la minaccia di una temporalità incombente, supera le barriere del
tempo, proprio perché in grado di distaccarsi dalle mitologie del proprio
tempo. Tra queste va compresa l’avversione per la vecchiaia derivante
dal mito prometeico-proteico dell’eterno fitness: un’occasione per decostruire
e post-modernizzare la condizione anziana. O muori o ti alleni di continuo … ma
per che cosa? Dilazionare, dilazionare il più possibile e trasformare la realtà
e l’età in dettaglio allucinatorio … cosa che si ottiene solo mediante un obnubilamento
del senso nell’attivismo, continuo e sistematicamente a-logico e a-teleologico,
di un agitarsi senza ragione e senza scopo.
Nulla di più lontano
dalla vocazione anziana: legami autentici dominati dalla ricerca profonda di
ragioni definitive e appaganti. Gli anziani non hanno tempo, quindi lo
concentrano. Certo il tempo si volatilizza per loro, come è stato notato.
Sicuramente si velocizza. Ma pure si concentra perché l’oggettività del suo
scorrere chiede come risposta la direzione verso l’intensità. Il tempo è
intenso solo se la realtà è ricca. Seneca coglie questo nesso nel De brevitate vitae:
“Non poco tempo abbiamo, ma molto ne perdiamo.
Una vita sufficientemente lunga e per portare a compimento le imprese più
grandi, ci è stata data con abbondanza, se tutta fosse ben collocata a frutto;
ma quando fluisce via nel lusso e nella noncuranza, quando non viene spesa per
nessuna buona cosa, sotto la costrizione infine dell’ultima necessità, la vita,
che non capimmo che procedeva, ci accorgiamo che è passata”[53].
La realtà a sua volta risulta ricca se tale ricchezza sappiamo
cogliere, con i sensi, con l’intelletto e con lo spirito. Tale è il compito
e non la condizione dell’anziano, è ciò che l’anziano è chiamato a realizzare:
il compimento della ricchezza etico-ontologica della realtà. Oltre a queste
espressioni, abbastanza generali, non si può andare, credo. Vale a dire che è
difficile ricondurre alla trasparenza del concetto un simile ideale di
intensità esistenziale, profondamente impregnato di vita. Qui la filosofia
depone le armi e si fa, a suo modo, racconto.
4) Oltre il concetto: un’esistenza concreta
Ebbene l’esistenza concreta che ho di fronte è quella di una signora
ottantaseienne dai tratti indios delicati e dall’espressione calma e
leggerissimamente sorridente. Piccolina e magra, la voce roca e bassissima, i
modi naturalmente raffinati, ella è presenza silenziosa ma centrale nella sua
numerosa famiglia. Tutti i figli cresciuti con amore, la adorano, la servono,
la abbracciano appena possibile, e così i nipoti e gli altri membri, anche più
lontani della sua vasta stirpe. Sembra che in questa relazione, sempre
accompagnata da poche parole benevolenti e profonde, ma anche da una costante
partecipazione a tutta la vita familiare, si esauriscano i suoi orizzonti, ma
non è cosi. Ella lancia il suo sguardo verso il mondo nella partecipazione alla
vita della Chiesa universale. La trovi a Messa, alla domenica, e tutti i giorni
in cui appena può recarvisi, in ginocchio, col suo velo nero, come vuole san
Paolo “a motivo degli angeli” (1Cor 11,10), sempre nella preghiera intensa, con
gli occhi che dicono di un rapporto vitale, originario, con Dio. Quel rapporto
fatto di dialogo interiore - di un modo assolutamente insondabile di dare del
tu a Dio, sempre usando l’“usted” - che apre all’universo della
creazione. Chi ha bisogno di giornali, di media,
di social, di rumori e del vociare
ansioso del mondo, se può guardare le cose dall’alto, associando il suo sguardo
a quello del Cristo crocifisso e della sua Vergine Madre? E quale vastità e
larghezza si raggiunge nella profondità! E quale altezza nell’umile venerazione
dei sacerdoti e delle persone consacrate, nelle quali vede un suo figlio che da
giovane seminarista il Padre volle a sé! E quale forza per viaggiare, seguendo
i suoi figli ovunque nel mondo, ritornando a trovarli, godendone gli abbracci e
appoggiandosi al loro braccio per le città e i paesi, nelle feste, e persino
nella gioia del ballo che non disdegna per danzare la sua gioia! Tutto ella sa
della vita, non c’è filosofo che tenga, non c’è sapienza del mondo che non
appaia paglia di fronte al modo garbato in cui ti saluta e ti stringe debolmente
la mano. La sua ironia coglie i particolari simpaticamente ridicoli della vita
e li restituisce con mitezza per cibare la nostra allegria. La sua carità offre
benedizioni a chi ne ha bisogno, e una sua parola dice di un discernimento che
è già avvenuto e che ha già capito. La sua vita è tempo donato verso il quale
subito ci si sente in debito di riconoscenza. La sua vecchiaia è
un’inevitabile, difficilissima e dolcissima bellezza.
Ecco un piccolo mýthos, un piccolo racconto
platonico, che ho dovuto far intervenire perché il linguaggio descrittivo della
scienza risulta sommamente inadeguato alla manifestazione delle realtà più
grandi. E’ questa semplicemente e puramente vita che normalmente e senza
superbia da sé esibisce il suo senso alto e che la forma logica necessariamente
impoverirebbe. Ogni discorso sulla vecchiaia trova in essa un modello e un
orientamento, allargando il tema del morire bene - una grazia che si può anche
volere e costruire attivamente - a quello del ben invecchiare che è laddove la
nostra ricerca incontra le cose ultime e i tesori per i quali, vivendo, è
lecito tutto abbandonare.
Massimo Maraviglia
[1]
Mimnermo, fr. 1, tr. it. di S. Quasimodo, Lirici
Greci tradotti da Salvatore Quasimodo, Mondadori - Corriere della Sera,
Milano 2004, p. 137.
[2]
Teognide, vv. 425-428 in F. Nietzsche, Teognide
di Megara, tr. it. di A. Negri, Laterza, Roma-Bari, 1985, p. 155. C’è una
vasta tradizione letterario filosofica su questo tema in Grecia, magistralmente
indagata da U. Curi, Meglio non essere
nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri,
Firenze 2008.
[3]
Anacreonte, fr. 36 , Timore dell’Ade,
tr. it. di S. Quasimodo, cit., p. 83
[4] Saffo,
fr. 58 c , 3-7, tr. it. di G. Tedeschi, in Saffo, Frammenti. Antologia di versi con introduzione, testo, traduzione, commento, EUT, Trieste 2014, p. 47.
[5] Platone,
La repubblica, 329 c, tr. it. di F.
Sartori, Laterza, Roma-Bari 19973, p. 30.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, 330 a, p. 31.
[8]
Cicerone, Cato maior. De senectute, VI, 17, tr. it. di N.
Flocchini, Catone il Vecchio la vecchiaia,
Mursia, Milano 1987, p. 83.
[9] Ivi, XI, 38, p. 111.
[10] Ivi, XVII, 61, pp. 141-143.
[11] Ivi, XXIII, 82, pp. 165-167.
[12]
Agostino, Ottantatré questioni diverse,
44, Nuova Biblioteca Agostiniana, a cura di p. A. Trapé, https://www.augustinu
s.it/italiano/index.htm
[13] Bob Dylan, Forever young in
idem, Planet wawes, 1974, tr. it. a
cura di https://www.fabiosroom.eu/. Dal sito della traduzione
apprendiamo che Dylan scrisse il testo quando “si trovava in tour a Tucson, Arizona, e stava pensando
a Jesse, il suo figlio più grande, nato nel 1966” ... ben si capisce allora
come un padre possa desiderare per il figlio l’impossibile e al tempo stesso
come l’ideale della gioventù sia considerato un “bene assoluto” (date anche le
risonanze bibliche di altre sezioni del medesimo testo).
[14]
Agostino, Esposizione del salmo 112,
Nuova Biblioteca Agostiniana, cit.
[15]
Agostino, Omelia, 32, Nuova
Biblioteca Agostiniana, cit.
[16]
Agostino, Sul salmo 59, 3, Nuova
Biblioteca Agostiniana, cit.
[17]
Agostino, Ottantatré questioni diverse,
58 cit.
[18]
Agostino, Esposizione del Salmo 91,
11, Nuova Biblioteca Agostiniana, cit.
[19]
Agostino, Discorso 64,6, Nuova
Biblioteca Agostiniana, cit.
[20] M.
Sgalambro, Trattato dell’età,
Adelphi, Milano 20002, p. 22.
[21] Ivi, p. 21.
[22]
Ivi, p. 15.
[23]
J. Amery, Rivolta e rassegnazione.
Sull’invecchiare, tr. it. Bollati boringhieri, Torino, 1988, in G. Pinna, Il futuro interrotto. La riflessione sulla
vecchiaia nella filosofia del ‘900, in G. Pinna, H. G. Pott, Senilità, immagini della vecchiaia nella
cultura occidentale, pp. 43-62, qui p. 53.
[24]Cfr. A. Gorz, Le
viellissement, “Les temps modernes » XVII (1961-62), pp. 638-655 e
829-852, in G. Pinna, H. G. Pott, cit., p. 52.
[25] M. Scheler, Schrifte aus dem Nachlaß III (Philosophische Antropologie), Gesammelte Werke XII, Manfred S. Frings Bouvier, Bonn, in G.
Pinna, H. G. Pott, cit., p. 47.
[26] Cfr. R.
Guardini, Le età della vita, tr. it.
, Vita e Pensiero, Milano 2003 in G. Pinna, H. G. Pott, cit., p. 49.
[27] Cfr. S.
De Beauvoir, La terza età, tr. .t.,
Einaudi, Torino 1971, in G. Pinna, H. G. Pott, cit., p. 54.
[28] Cfr. E.
Bloch, Il principio speranza,
Garzanti, Milano, 2005, in G. Pinna, H. G. Pott, cit., 55.
[29] Cfr. Th. Rentsch, Altern al Werden zu sich selbst.
Philosophische Ethik der späten Lebenszeit, in Idem, Alter und Gesellshaft, P. Borscheid, Stuttgart, pp. 53-62, in G.
Pinna, H. G. Pott, cit., p. 57.
[30] Cfr. M. Scheler, Vom Umsturz der Werte, Gesammelte Werke III,
Maria Scheler, Franke, Bern- München 1955, in G. Pinna, H. G. Pott,
cit., p. 46 e Guardini, cit., p. 49.
[31] Cfr. Th. Rentsch, Philosophische Antropologie und Ethik der späten Lebenszeit. Eine interdisziplinärer
Studientext zur Gerontologie., De Gruyter, Berlin, pp. 283-304, in
G. Pinna, H. G. Pott, cit., p. 58.
[32] Cfr.
Scheler, Schriften aus dem Nachlaß III, cit., p. 48 e Mittelstraß, cit., p. 60.
[33] Cfr.
Scheler, Schriften aus dem Nachlaß III, cit., p. 48.
[34] Cfr. A.
Schopenhauer, Parerga e paralipomena,
vol I, Adelphi, Milano 2003, in G. Pinna, H. G. Pott, cit., p. 45.
[35] Cfr. R.
Guardini, cit., p. 49.
[36] Cfr. Th. Rensch, Philosophische Antropologie, cit., p.
57.
[37] Cfr. Scheler, Schriften aus dem Nachlaß III, cit., p. 48.
[38] Cfr. E. Bloch, cit., p. 56.
[39] Cfr. Th. Rentsch, Philosophische Antropologie, cit., p.
58.
[40] Cfr. J. Amery, cit., p. 52.
[41] Ibidem.
[42] Cfr. A. Schopenhauer, cit., p. 45.
[43] Cfr. M.
Scheler cit., p. 47.
[44] Cfr. J. Amery, cit., p. 51.
[45]
Sgalambro , cit., p. 17.
[46] Ivi, p. 13.
[47] Ibidem.
[48] Ivi, p. 14.
[49] Ivi, pp. 109-110.
[50] Ivi, p. 130.
[51] Ibidem.
[52]
D. Di Sanzo, L'ultimo delirio di Grillo:
"Togliere il voto agli anziani", “IlGiornale.it” 19/10/2019 http://www.ilgiornale.it/news/politica/lultimo-delirio-grillo-togliere-voto-agli-anziani-1771508.html;
D. Agazzi, Togliere voto agli anziani?
Gori: “Dibattito giusto, ma non concordo con Grillo”, “Bergamonews.it”
20/10/2019, https://www.bergamonews.it/2019/10/20/togliere-voto-agli-anziani-gori-dibattito-giusto-ma-non-concordo-con-grillo/331972/.
[53]
Seneca, La brevità della vita, 1,1,
tr. it. di G. Viansino, Mondadori, Milano 2008, p. 469.
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