Agostino non è un
filosofo sistematico. Questo non facilita le sintesi, cioè le presentazioni
complessive che hanno il pregio di fornire un quadro generale di un filosofo,
in grado di restituire il tono del suo pensiero e introdurre a uno studio più
approfondito. Tale scopo con Agostino a mio parere si raggiunge in altro modo.
Bisogna procedere per illuminazioni successive: prendere temi, questioni,
polemiche, interventi e proporli nella loro intensa trattazione agostiniana.
Magari non ci sarà sempre una connessione, magari il filo rosso non sarà sempre
visibile, ma alla fine scopriremo, senza essercene preoccupati prima, l’unità
di ispirazione, di metodo e di intenti della filosofia del santo vescovo
africano. E girando di qui e di là tra le sue opere verranno a scoprirsi
progressivamente i pilastri nascosti di una grande cattedrale, slanciata verso
le altezze e profondità della sapienza divina, col massimo rispetto per quel
cielo che rimane sempre infinitamente distante anche dalla guglia più alta,
punta aguzza della nostra voglia d’infinito. Qui crediamo di non essere andati
oltre i limiti della legittimità ermeneutica, se abbiamo cercato in lui spunti
e suggerimenti per le pratiche filosofiche, così come sono venute a delinearsi
negli ultimi anni, pur sulla scorta di un’antichissima tradizione …
ritrovandoci alla fine nella medesima cattedrale, in qualche angolo, nicchia o
cappella laterale, nota magari ad altri, ma da noi non ancora esplorata.
1) Fede e comprensione
Nel dialogo giovanile De libero arbitrio,
interrogandosi sul perché l'uomo possa agire male, Agostino pone un’importante
premessa metodologica: «…E poiché ho riflettuto diligentemente per risolvere il
problema, userò con te il metodo con cui io stesso mi sono reso libero. Dio ci aiuterà
e ci farà conseguire con l’intelletto quanto abbiamo accettato per fede.
Abbiamo piena coscienza di seguire il procedimento stabilito dal profeta che ha
detto: ‘Se non avete creduto non comprenderete’ (Is 7,9 nella traduzione dei Settanta)»[1].
Sulla questione
specifica che Agostino sta trattando, egli ci fa notare come la fede stessa ponga
un problema: «Crediamo che tutte le cose che sono provengono da Dio e che
tuttavia Dio non è autore dei peccati. Turba la nostra anima, d’altra parte, un
interrogativo: se i peccati provengono da queste anime che ha creato Dio, e
quelle anime provengono da Dio, come non ricondurre dopo un breve intervallo, i
peccati a Dio?»[2].
Dunque, in questi due passi, da un lato si afferma che
la fede è la condizione per la comprensione, indicando implicitamente anche che
cosa è la comprensione, cioè appunto la comprensione di una fede, dall’altro si
constata come la fede sia di per sé problematica. Esistono tematiche che
nascono al suo interno e dal suo interno scaturiscono come vere e proprie
questioni. Per questo motivo i medievali, detto per inciso, si appassioneranno
alle quaestiones, a partire dal libro di testo di tutte le facoltà
teologiche, il Liber Sententiarum di Pier Lombardo.
Dal siffatto angolo visuale dell’intrinseca
problematicità della fede, quest’ultima si può dire che apre in due sensi: per
un verso pone problemi; per l'altro orienta preliminarmente la loro soluzione. Essa
apre allora nel senso di un non-sapere; Heidegger direbbe di una gettatezza che
cala, senza che noi lo vogliamo o lo sappiamo, in una situazione difficile.
Crediamo, cioè siamo dentro un mondo complicato, entriamo in una certa
prospettiva sull’universo che non dominiamo e che non è a nostra disposizione …
siamo nel cuore dell’Altro. Questo Altro irrompe in noi tanto da sconvolgere la
nostra stessa fede: «Chi può affermare in piena tranquillità: io credo? E chi
mai è obbligato ad affermare definitivamente: io non posso credere? La fede è
sempre in pericolo e sempre in divenire»[3]. La fede: un problema che
torna su se stesso e si problematizza, un problema alla seconda…il problema dei
problemi. Perciò è qualcosa di intrinsecamente filosofico.
Al tempo stesso
la fede è pre-comprensione, sempre nel senso ermeneutico del termine: una
comprensione che avviene prima di ogni interpretazione della realtà, in modo
tale che la stessa «interpretazione non consiste nell’assunzione del compreso,
ma nella elaborazione delle possibilità progettate nella comprensione»[4]. La pre-comprensione
progetta la comprensione, cioè l’interpretazione del reale, le dà un direzione,
le dà il tono iniziale, e pertanto stabilisce un ventaglio di possibilità entro
il quale al problema di partenza, cioè il modo di darsi altro dell’Altro,
verrà data soluzione. Questa dinamica ermeneutica, come dice H. G. Gadamer,
riabilita in certo modo il pregiudizio, cioè tutto quanto avviene prima del
giudizio. Così Gadamer riecheggia Heidegger: «Chi si mette ad interpretare un
testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il
testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E
anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge
con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere
consiste tutta nell’elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente
viene continuamente ripetuto in base a ciò che risulta dall’ulteriore
penetrazione del testo»[5].
Ma questo testo è la realtà, con cui l’uomo ha una connessione
ontico-ontologica[6],
che coincide con la sua apertura originaria al mondo, con l’apertura originaria
del suo essere-nel-mondo. Dire che l’uomo è al mondo significa dire che è
aperto alla sua comprensione, che ha con esso una connessione strutturale
(quella che noi chiamiamo apertura). Ciò vuol dire che non vi è prima
l’uomo e poi il mondo, ma l’uomo e il mondo sono correlati in modo originario e
indissolubile. Perciò l’uomo può comprenderlo. Ma che cos’è il mondo? Il mondo
è la realtà. E che cos’è la realtà per Agostino? Dio, che di tutto è la causa,
il principio e l’unità. E che cos’è la fede? L’apertura a Dio, cioè al mondo,
il nostro essere già in un mondo, prima ancora che lo conosciamo, il nostro
essere già di Dio prima ancora che ci rivolgiamo alle cose da lui create, l’aver
già ricevuto da Dio, prima ancora di relazionarsi con le cose. Se abbiamo
ricevuto, cioè siamo dentro un mondo, creati in un mondo, naturaliter
crediamo: la coscienza credente è la coscienza tout court, a prescindere
dalla fede che possiamo proclamare a parole, oppure a parole possiamo anche
negare.
Ma aver ricevuto da Dio è il credere in una situazione
di peccato. Agostino è realista, conosce l’uomo e la sua malizia che egli
costantemente confessa. Perciò la fede è luce e oscurità, soluzione e
problema, visione chiaroscurale che orienta problematicamente l’uomo nella
condizione del viandante: prova delle cose che (tuttavia) non si vedono,
fondamento delle cose che (tuttavia solo) si sperano (Eb 11,1).
2) Il fondamento: Deus Trinitas
La fede è fondamento, cioè mette in relazione con il
fondamento che è Dio. Quello di Dio è in Agostino un argomento che,
filosoficamente parlando, evoca il tema classico dell'uno dei molti il quale a
sua volta nella dottrina trinitaria ha un immediato riflesso teologico. Qui
filosofia e teologia si danno la mano: anche in questo ultimo campo, infatti, indispensabile
è comprendere la differenza nell’unità. Anche qui la fede pone il problema, dà
avvio alla riflessione, collocando di fronte alla ragione l’argomento più
rilevante, il tema di temi, cioè Dio e il suo essere. La fede: cioè, anzitutto,
il dogma di Nicea (la fede si esprime nel dogma, cioè la definizione di ciò che
è da credere, la porta aperta verso l’infinito, come ha detto papa Benedetto
XVI). La professione di Nicea dice: «Crediamo in un solo Dio, Padre
onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo
Signore, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, cioè
dall'essenza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, vero Dio da vero Dio,
generato, non creato, consustanziale con il Padre […] ma se qualcuno dice che vi fu un tempo in cui Cristo non esisteva e
prima che nascesse non era e che non nacque da ciò che esisteva o da altra
ipotesi o sostanza che non sia il Padre o afferma che il Figlio di Dio possa
cambiare mutare, questi la Chiesa cattolica e apostolica condanna»[7]
Dio, quindi, è una sostanza e tre persone: il
Padre, il Figlio consustanziale e lo Spirito santo, che, dirà il successivo
concilio di Costantinopoli: «è il Signore e colui che dà la vita» (tò Kýrion
kai Zoopoión). Così i cristiani possono dire, con il simbolo cosiddetto atanasiano
nel V secolo: «Veneriamo un unico Dio nella Trinità e la
Trinità nell'unità. Senza confondere le persone e senza separare la sostanza.
Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella
dello Spirito Santo. Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità,
uguale gloria, coeterna maestà».
Ora, il problema posto dalla fede, nella sua chiara
definizione dogmatica, emerge chiaramente. Un essere, tre persone, tre persone
che sono un essere, come è possibile? come si può pensare? Ecco il tema che va
approfondito attraverso la ragione: questo è il compito della teologia,
l’illuminazione razionale dell’oggetto di fede, un’illuminazione che si deve
avvalere di strumenti filosofici il più possibile raffinati. Agostino
interviene sull’argomento nel De Trinitate, un testo la cui stesura lo
impegna per lungo tempo, dal 399 fino, probabilmente, al 420-21. I motivi della
sua redazione non sono precipuamente polemici, ma attengono alla volontà di
penetrare profondamente il mistero principale della sua fede, che è anche il
centro attorno a cui egli ha deciso di far ruotare l’intera sua vita. Nondimeno
non si poteva evitare di rintuzzare gli attacchi che, ancora al suo tempo, il
dogma riceveva dalla predicazione ariana, quella cioè diffusa soprattutto, ma
non solo, nella cristianità germanica dal prete Ario di Alessandria (256-336). Costui
sosteneva una tesi subordinazionista secondo la quale il Figlio era una sorta
di Dio minore, creato dall’unico Dio-Padre, monarca del cielo e della Terra. Dalla
confutazione di tale tesi, già condannata a Nicea, sarebbe scaturito per il
vescovo di Ippona lo spunto per ulteriori e più libere indagini.
Ebbene, gli ariani contro i cattolici avevano
sviluppato questo peculiare argomento, appoggiandosi ai concetti aristotelici
di sostanza e accidente. Sostanza e accidente sono modi in cui si può
descrivere l’essere di un qualsiasi ente esistente. La sostanza designa
l’essere più profondo, l’essenza di qualcosa, ciò che rende qualcosa quello che
è, ciò che fa di un ente quell’ente lì e non altro. L’accidente designa invece
una caratteristica non essenziale, che può mutare senza che l’essere
sostanziale ne rimanga influenzato: per esempio la sostanza di Francesca è
quella di appartenere alla specie umana, che Francesca sia bionda o mora o che,
appunto, dopo essere stata dal parrucchiere abbia cambiato il colore dei
capelli, questo non muta niente del suo essere profondo, che rimane lo stesso
al mutare dell’accidente-colore dei capelli. Orbene, gli ariani, a proposito di
Dio, sostenevano che in Lui c'è solo la
sostanza e nulla di accidentale, perché non sarebbe degno della sua assoluta
perfezione ontologica attribuirgli l’imperfezione di qualcosa che muta. Quindi
ciò che si pensa di Dio, lo si pensa della sostanza. Pertanto, siccome
A) il Padre è ingenerato,
B) il Figlio è generato,
allora
C) ciò significa che generato e ingenerato
sono secondo la sostanza. Cioè sono attributi assoluti, immutabili, permanenti
e ontologicamente definitivi.
D) Ma poiché generato e ingenerato, per
il principio di non contraddizione, sono incompatibili se rivolti a uno stesso
soggetto di predicazione, cioè a una medesima sostanza,
E) allora qui i due termini devono per forza essere
predicati di due sostanze diverse[8].
Agostino, dal canto suo, risponde anzitutto che «se
tutto ciò che si predica di Dio, si predica secondo la sostanza, allora
l’affermazione Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30) riguarda la
sostanza. Perciò unica è la sostanza del Padre e del Figlio. Ma - continua in vescovo
- se questa affermazione non riguarda la sostanza allora c’è qualcosa che non
si attribuisce a Dio secondo la sostanza e non siamo più obbligati a intendere
in senso sostanziale ingenerato e generato»[9].
Questa ulteriore predicazione non secondo la sostanza
significa una ricaduta nell’inaccettabile predicazione secondo il mutevole
accidente? No, dice Agostino. Sebbene sia vero che non c'è accidente in Dio, ciò
non vuol dire che tutto si predichi secondo la sostanza. È bensì possibile che alcune
cose si predichino secondo la relazione. Però, attenzione!, le relazioni
di cui si parla non devono essere accidentali, bensì ferme, stabili, immutabili
e assolutamente necessarie: «Non secundum substantiam, sed secundum relativum,
quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile» (non secondo
la sostanza ma secondo la relazione, che, benché relazione, non è accidente,
perché non è mutevole).
Quindi «il Padre si dice in relazione al Figlio e il
Figlio al Padre. E questa relazione non è accidente perché l’uno è sempre Padre
e l’altro è sempre Figlio […] nel senso che il Figlio è nato da sempre e non ha
mai smesso di essere Figlio. Perché, se avesse cominciato in un certo tempo ad
essere Figlio e un giorno cessasse di esserlo, questa sarebbe una denominazione
accidentale. Se invece il Padre fosse chiamato Padre in rapporto a se stesso e
non in relazione al Figlio, e se il Figlio fosse chiamato Figlio in rapporto a
se stesso e non in relazione al Padre, l’uno sarebbe chiamato Padre, l’altro
Figlio in senso sostanziale. Ma poiché il Padre non è chiamato Padre se non
perché ha un Figlio e il Figlio non è chiamato Figlio se non perché ha un
Padre, queste non sono denominazioni che riguardano la sostanza. Né l’uno né
l’altro si riferisce a se stesso, ma l’uno all’altro e queste sono
denominazioni che riguardano la relazione e non sono di ordine accidentale
perché ciò che si chiama Padre e ciò che si chiama Figlio è eterno e immutabile.
Ecco perché, sebbene non sia la stessa cosa essere Padre e Figlio, tuttavia la
sostanza non è diversa». Così nell’unica sostanza divina, esistono le diverse
relazioni tra le persone divine, tali per cui «Dio è tutto ciò che ha tranne le
relazioni per cui ciascuna persona si riferisce all’altra »[10]. In definitiva i
caratteri sostanziali di Dio sono propri di tutte le persone che sono in tutto
uguali, tranne che per le reciproche relazioni. A questo punto possiamo
domandare
A) che cosa è la sostanza?
B) e che cosa è la persona?
C) e che cosa è relazione?
A) La sostanza è l'essenza: l’essere di Dio,
assolutamente semplice e uno.
B) «Se l'essere è un termine assoluto, persona è un
termine relativo; chiameremo Padre, Figlio e Spirito Santo tre persone allo
stesso modo che chiamiamo certi uomini tre amici, o tre parenti, o tre vicini
per le loro mutue relazioni, non per quello che ognuno è in senso assoluto»[11]. Ma tali relazioni non
implicano che l’essere del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sia
relativo, giacché ognuna è pienamente e totalmente Dio e lo è assolutamente
così che Padre, Figlio e Spirito Santo insieme non costituiscono un essenza più
grande che il Padre solo o il Figlio solo, ma insieme queste tre persone sono
uguali a ciascuna di esse: «Quaggiù nelle cose corporee una cosa sola non è
uguale a tre cose insieme e due cose son più di una sola, mentre nella suprema
Trinità una cosa sola è tanto grande quanto tre cose insieme, e due non sono
maggiori di una»[12].
Questo è conseguenza della differenziazione tra predicazione secondo la
sostanza e secondo la relazione nell’unico Dio, una sostanza o natura, tre
persone, che coincidono con le relazioni interne a tale sostanza. Che cosa si
può dire allora, in definitiva, dei concetti di natura e persona,
in assenza di una definizione specifica di questi termini in Agostino? In
realtà, dire che in lui manca una definizione di tali termini allude solo
all’assenza di una loro trattazione separata: Agostino non tratta
separatamente natura e persona, però, lungi dal tralasciare la questione, le
confronta e da questo confronto ne scaturisce una qualche caratterizzazione. Padre
A. Trapé ne trae la seguente conclusione: la natura o sostanza è l'essere di
qualcosa, cioè, in Dio «l’essenza divina, la deità», mentre la persona è «il
soggetto sussistente che la possiede»[13]. Con le parole del santo
africano, si può così concludere: «Il Verbo di Dio è, sì, un altro distinto dal
Padre, ma non altro, ossia è un'altra persona ma non una natura diversa»[14]. In fondo la differenza
tra natura e persona è la differenza tra “Altro” e “un Altro”, tra l’Essere e
il Qualcuno che è l’essere. L’essere di Dio è una relazione di identità
personali, cosa che, per l’appunto, ne fa un Qualcuno.
C) La relazione, infine, è il rapporto tra le persone
che Agostino determina come la processione di ciascuna dall'altra, eccetto
che per il Padre, che non procede, è ingenitus cioè ingenerato, ma è
fonte delle processioni. Il concetto di processione ha una chiara origine
neoplatonica. Esso caratterizza, per esempio, i rapporti tra le tre ipostasi di
Plotino, l’Uno, il Nous e l’Anima, ma se ne distingue per il fatto che nella
teologia trinitaria l’ipostasi che procede non è mai inferiore a quella che è
origine della processione, e l’essere attivi o passivi nel rapporto di
processione, pur descrivendo una caratteristica personale, non implica alcuna
differenza sostanziale. Le relazioni tra le persone si specificano
ulteriormente nel seguente modo: dal Padre al Figlio per generazione; dal
Padre e dal Figlio allo Spirito Santo per processione (in senso proprio):
ex Patre Filioque procedit, secondo le parole del Credo, o più
tecnicamente per spirazione. Appunto così, procedendo da entrambi, lo
Spirito Santo può essere chiamato l'Amore che unisce Padre e Figlio: «Di
conseguenza non sono più di tre: uno che ama colui che ha origine da lui, uno
che ama colui dal quale ha origine e l'amore stesso»[15].
Da quanto detto il dogma - nella sua esposizione
agostiniana qui riassunta brevissimamente e con importanti omissioni - ci
chiama in definitiva a pensare il relativo nell’assoluto e l’assolutezza del
relativo. Il relativo nell’assoluto perché la persona è relativa dentro la
assolutezza della sostanza; l’ assolutezza del relativo perché la persona è
assoluta in quanto esaurisce la sostanza. Così la relazione si manifesta come
qualcosa di innestato nell’essere, talmente in profondità da non mutarne in
niente l’assolutezza, ma anzi da riceverla e accoglierla pienamente.
Se vogliamo trovare un’immagine possibile di queste
dinamiche, la possiamo individuare, seguendo l’ispirazione agostiniana,
nell'uomo come essere relativo chiamato all’assoluto, cioè come colui che per
imitare la perfezione deve fare della relazione un assoluto. In che cosa l'uomo
può trasformare il relativo in assoluto? Può farlo sempre con lo sguardo
rivolto al Dio-amore, e all’Amore che costituisce Dio nelle sue Persone le
quali, a loro volta, nel loro amore, determinano l’essere-amore di Dio nella
sua sostanza. Ecco perché l’accenno di prima allo Spirito Santo come all'Amore
dell’Amante-Padre e dell’Amato-Figlio e alla sua infinita stabilità, dovuta al
fatto che ogni persona, Amante, Amato, Amore è la sostanza eterna del
Dio-amore. L'essenza dell’amore, che dimora nell’essenza di Dio, consegue per
sua natura il suo essere stabile perché rappresenta una relazione immutabile e
divina. L’amore umano trova lì il suo modello e la sua naturale tensione verso
la stabilità: amare in toto, essere amati in toto, appunto questo
è l'amore senza residui, cui l’uomo si sente chiamato. Nulla che è rimane fuori
dalla relazione, di conseguenza la relazione non ha più nulla fuori di sé,
pertanto non trova nulla con cui ulteriormente relazionarsi, quindi è un
assoluto: se è così, è amore nella sua verità, se è così, l’amore umano è
fenomenologicamente immagine della Trinità divina e, nella sua fenomenologia,
ci aiuta a comprenderla.
3) Trinità interiore e soggetto umano
Questo tema dell'amore che aspira di per sé alla
stabilità introduce all'argomento con cui Agostino nel De Trinitate
arricchisce la tematica trinitaria: la Trinità nell’uomo o, come potremmo dire
noi, la società trascendentale di mens, notitia sui, amor.
Questa triade costituisce una delle tante che Agostino individuo come immagini
della Trinità: memoria sui, intelligentia, voluntas e memoria
Dei, intelligentia e amor nel De Trinitate; essere (sum),
sapere (scio) e volere (volo) nelle Confessioni; memoria,
intelligenza, volontà nelle Confessioni e lettera 169. Anzitutto
Agostino nota nella creazione la presenza della Trinità, ma solo attraverso vestigia,
cioè tracce, orme, impronte o rivestimenti delle cose che non esprimono in
maniera profonda la Trinità divina bensì in maniera abbastanza lontanamente
riflessa. Viceversa vi sono immagini interiori della Trinità, che l'uomo
può appunto rinvenire nella sua anima che Dio stesso afferma essere a
immagine e somiglianza divina. Questa immagine e somiglianza e
un'espressione più vicina, forse la più vicina possibile nell'ambito delle
creature, della suprema entità trinitaria. Come si è detto, mente, notizia di
sé e amore sono una delle forme che Agostino indaga accanto a quella, per
esempio, di memoria, intelletto e volontà. Ma ogni definizione contiene e
rimanda alle altre, evidenziando come Agostino, nelle piccole variazioni
lessicali tenti di avvicinarsi progressivamente al mistero e descriverne gli
aspetti che via via, nelle diverse fasi della ricerca, emergono. Possiamo allora
dire che la mente è la parte più alta dell'anima, è lo spirito con il suo
contenuto di verità o, appunto, memoria; l’intelletto è invece la luce della
mente, cioè la facoltà per cui la mente ha notizia di sé, si autoconosce; la
volontà infine riguarda la volizione di sé da parte della mente che si auto
conosce e, volendosi, si ama. Queste tre facoltà sono perfettamente integrate
nell’unica anima umana che è tutta nel suo contenuto di verità, tutta nella sua
forza conoscitiva, tutta nel suo amore-volizione di sé e, al tempo stesso, è
una sola e medesima anima. Nell'unità dell'anima la presenza delle sue
articolazioni - mente, notizia di sé, amore e memoria, intelletto, volontà - spiega
come, secondo Agostino, il Sé si articola diventando soggetto al tempo stesso
oggetto, cioè un essere che genera in sé e a sé una relazione tale per cui i
relativi non distruggono l'unità-integrazione del medesimo Sè, ma anzi la
rafforzano. Dunque, se dentro l'essere di Dio nasce il soggetto (il relativo
assoluto), cioè la Persona divina che genera la sua immagine nella persona-soggetto
umana, è nel soggetto umano che si determina l’anelito a Dio (l’assolutamente,
totalmente relativo), sostanza divina in cui la sostanza umana trova riposo.
La riflessione
sul soggetto e sulla persona umana: ecco la filosofia di Agostino che, sulla
scorta dei suoi fondamenti teologici, può diventare una filosofia «in prima
persona». Ciò avviene anzitutto perché il soggetto diviene il problema stesso
della filosofia: «Ero diventato per me stesso un grande problema»[16]. Con la Trinità Agostino
scopre il soggetto accanto all’essere (la persona, la sua identità accanto alla
sua essenza, dove il soggetto possiede l'essenza risiedendo nell’essenza stessa
come sua relazione interna).
Con la scoperta della Trinità interiore, il filosofo
scopre la soggettività umana nella sua differenza da quella divina, di cui pure
è immagine e somiglianza.
Con la scoperta della soggettività, la soggettività
stessa diviene un problema. Ciò viene raccontato nelle Confessioni, il
cui scopo è «eccitare l'intelletto e l’affetto umano a elevarsi a Dio»[17], ma che producevano tale effetto
mentre il testo “veniva scritto» e quando dopo molti anni «viene riletto». Qui
abbiamo la lettura e la scrittura che diventano per Agostino un esercizio
spirituale, che eccita e provoca una spinta verso l'alto, e che per filosofo
hanno una valenza terapeutica[18]. Non a caso le Confessioni
si chiudono con un'altra immagine della Trinità interiore evocando ancora il
percorso che da Dio va al soggetto umano e dal soggetto umano torna a Dio: in
termini plotiniani pròodos ed epistrophé, dal Principio alla
creatura e dalla creatura al Principio.
4) La felicità
L’epistrophé è il ritorno a Dio, intinerarium
mentis in Deum, lo avrebbe chiamato San Bonaventura, che si conclude con
raggiungimento della beatitudine: come arrivare a questa meta? La tematica è
trattata da Agostino sin dagli inizi della sua vita di fede e della sua opera
filosofica. Nel De Vita beata del 386 così si esprime: «Quindi non
abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di essere felice, si deve
assicurare il possesso di ciò che rimane per sempre e non può essere sottratto
dalla fortuna spietata»[19]. Tale bene, indipendente
dalla sorte è Dio, il Dio eterno che non cessa mai di essere, il Dio che
Agostino vede e interpreta, alla luce delle filosofie classiche, come saggezza suprema
e pienezza che ancora, dentro questa tradizione, vanno a coincidere con
l’ideale della misura e del limite. Qui sono visibilissime le radici stoiche e
neoplatoniche della filosofia agostiniana che ripropone in chiave cristiana
l'ideale greco del «nulla di troppo». La filosofia cristiana rispetto a questo
ideale aggiunge solamente la sua capacità di essere e di farsi popolare, ossia
disponibile a tutti e in grado di coinvolgere tutti nel processo di elevazione
della propria anima e di salvezza. Se le filosofie antiche e pagane erano
elitarie, la filosofia cristiana è universale e può riguardare veramente la
vita di ogni uomo.
Tuttavia, rispetto a questa prospettiva giovanile, successivamente,
nel De Trinitate, la sua opinione va mutando. La filosofia stoica e i
filosofi, anche ammirevoli, dell'antichità seguono sostanzialmente quello che
un consiglio di Terenzio ha benissimo sintetizzato: «Perché non puoi realizzare
ciò che vuoi, desidera ciò che puoi»[20]. La filosofia classica è
insomma una terapia del desiderio. Gli stoici e in generale i filosofi
ellenistici hanno insistito su questa funzione dell'autodominio. Contro la
velleità di cambiare la realtà attorno all'uomo, essi insistono sul mutamento
dell’approccio dell’uomo alla realtà, quindi sul dominio delle passioni e in particolare
del desiderio, che appunto va orientato verso ciò che si può realizzare e non
verso cose impossibili a ottenersi o facili a perdersi. Dunque l’antichità
punta sul dominio interiore, «il poter disporre in modo assoluto di se stessi,
la sovrana controllabilità delle ‘idee’ attraverso l’intenzione morale, l’attenzione
e l’autoeducazione»[21]. Tali elementi vanno
valorizzati per non scontrarsi con l’impossibilità di ottenere ciò che la
volontà desidererebbe quanto alla realtà esterna… e per non cadere, sconfitti,
nella disperazione. Ma quello di Terenzio, dice Agostino, è in ogni caso il
«consiglio dato a un infelice». Il progetto dell’etica greca non manca di
nobiltà, coraggio, ed è sicuramente ammirevole … ma, rimane che, il consiglio è
dato senza dubbio a un infelice[22]. Al contrario la vera
felicità è vivere integralmente come si vuole, dove tutto ciò che si vuole può
compiutamente realizzarsi a prescindere dalle condizioni esterne, anzi a
prescindere da quella condizione che interrompe tutti i progetti di felicità,
la morte. Essere felici presuppone vivere. Essere compiutamente felici,
integralmente felici, presuppone di conseguenza l'immortalità: non c'è felicità
senza vita; il soggetto esistente e vivente, e solo lui, può essere felice. Ma,
aggiunge Agostino, non c'è immortalità senza fede. Perché l'immortalità è un
dono che presuppone l’affidarsi ad un essere che garantisce la realizzazione
del desiderio portato alla sua manifestazione estrema. Anzi proprio la fede è
ampliamento del desiderio fino all'infinito, cioè fino a Dio. Dio è la sola
realizzazione del desiderio, un desiderio di bene, evidentemente, perché
desiderare il male è una negazione dell'essere, e dunque esclude vita e
felicità. Quindi il precetto di Agostino diventa il seguente: desiderare ciò
che, essendo bene, pare impossibile e, proprio per questo, richiede Dio, Dio
che in quest’ottica diventa propriamente la dismisura del bene. Non
potrebbe esservi opposizione più netta: la nobile semplicità e quieta grandezza
della misura stoica contro il sublime cristiano, col suo ostinato tentativo di accesso
all’infinitamente grande e potente, per essere infinitamente felici. Desiderio
portato finalmente fino alle stelle, da cui il de-siderio stesso proviene: ecco
la scommessa cristiana di Agostino. Certo si tratta di una scommessa che non ha
la rigida e rassicurante consequenzialità del sillogismo logico-filosofico, ma
l’incertezza costitutiva della fede, e che, tuttavia, recupera in grandezza
quanto ha perso in sicurezza.
5) Grazia e libertà
Da Dio la felicità arriva per grazia. L’ottimismo del
primo Agostino che nel De libero arbitrio (388) vedeva nell’uomo la
possibilità di autodeterminare la volontà, in modo da volere il bene con le
proprie forze (la volontà buona “basta volerla per averla”[23]), è più tardi sostituito
da una visione più realista. In tale seconda fase (coincidente con la
redazione delle Diverse questioni a Simpliciano del 395-396) la
riflessione sulle tematiche paoline del rapporto fede, opere, legge, grazia è
fondamentale. San Paolo afferma chiaramente che la salvezza non è opera della
volontà umana ma della grazia divina, altrimenti noi «continueremo a non capire
nemmeno ciò che facciamo: infatti non faremo ciò che vogliamo, ma ciò che
detestiamo, avvinti dal peccato che abita in noi» (cfr. Rm 7,15-17). Al
contrario la grazia di Cristo, cioè la forza che egli donerà all’uomo credente
e rinato in lui, ripristinerà l’integrità del volere e la coerenza tra il
volere e il fare, tanto che, dice Paolo rivolto ai Romani, «il peccato non
dominerà più su di voi perché non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia»
(Rm 6,14).
Pertanto, in accordo con Paolo, Agostino si convince
che dall' errore che è entrato nella nostra natura per mezzo del peccato,
rendendo incapace l’uomo di volere il bene e di realizzarlo, solo Dio libera. Quali
realtà si sono generate dal peccato? Due sono gli elementi ad esso associati su
cui Agostino si concentra nel De natura et gratia: l’ignorantia,
ovvero la cecità intellettuale, l’incapacità di scorgere il bene e di valutare
rettamente le cose rilevanti per la vita; l’infirmitas o debolezza della
volontà, cioè l’incapacità della volontà di prendere una decisione corretta e
di perseverare in quella nonostante le difficoltà[24]. Queste due malattie
possono essere curate da un solo medico, Gesù Cristo. Solo la croce colma la
distanza che il peccato ha messo tra Dio e l'uomo e, una volta colmata la
distanza, apre il canale della grazia. Appunto questa salva, liberando la
volontà dalle sue catene e permettendole di volere il bene e infine anche di
realizzarlo. In questa liberazione sì individuano diverse tappe. Prima del
peccato, il peccato originale, l'uomo aveva libertà di peccare o non peccare;
entrato nel peccato, l'uomo non può evitare di peccare; dopo la grazia, l'uomo
torna libero di non peccare, ma può anche ricadere nel peccato, se Dio lo
permette (se invece Dio dà la perseveranza egli ne è preservato); infine al
cospetto di Dio, nel suo regno, l'uomo è libero di non poter più peccare[25]. Questa grazia che
conduce a non poter più peccare, lo dice il nome stesso, è gratis, cioè
data in cambio di niente: «Questa grazia di Cristo, quindi, senza la quale né gli
infanti né i grandi per età possono diventare salvi, non è data in cambio di un
merito, ma è data gratis, ed è per questo che si chiama grazia»[26]. In particolare non è
data in cambio di nessun atto umano, di nessuna volontà umana, di nessuna pre-condizione
umana. Essa è irresistibile, cioè tale da essere sempre efficace e da
raggiungere sempre il risultato che Dio si prefigge.
Ma una grazia indipendente dall’uomo e irresistibile,
non perciò elimina la libertà, bensì, più profondamente, la libera. Infatti chi
si salva, si salva sempre in virtù del fatto che lo vuole liberamente. «Alla
legge non si adempie se non con il libero arbitrio. Ma attraverso la legge si
ha la cognizione del peccato; attraverso la fede, l’impetrazione della grazia
contro il peccato; attraverso la grazia, il risanamento dell’anima dal vizio
del peccato; attraverso la sanità dell'anima, la libertà dell'arbitrio; attraverso
il libero arbitrio, l'amore della giustizia; attraverso l'amore della
giustizia, la messa in pratica della legge. E per questo, come la legge non è
svuotata, ma consolidata attraverso la fede, perché la fede impetra la grazia
con cui adempiere alla legge, così il libero arbitrio non è svuotato attraverso
la grazia, ma consolidato, perché la grazia risana la volontà con cui amare
liberamente la giustizia»[27]. Insomma, l’enfasi sull’aiuto
divino, mediante il quale realizzare la propria umanità non esclude la libera
determinazione del soggetto, quand’anche di per sé impotente di fronte alla
tendenza all’errore penetrata nella natura umana dopo il peccato. Per tale
motivo Agostino ammonisce: «se Dio ha fatto te quale uomo e tu fai di te un
giusto, fai qualcosa di meglio di quello che ha fatto Dio. Ma Dio ti ha fatto
senza di te. In realtà non sei intervenuto con un qualche assenso perché Dio ti
facesse. Come consentivi tu che non esistevi? Perciò chi ti ha formato senza di
te, non ti renderà giusto senza di te. Perciò ha creato chi non c'era a
saperlo, fa giusto chi c'è a volerlo. Nondimeno da lui è la giustizia perché
non sia la tua, perché tu non ti riduca a ciò che è danno, perdita, spazzatura»[28]. La libertà, in questa
logica, non diventa la semplice possibilità di scelta tra il bene e il male, ma
si determina come la capacità di aderire al bene, una capacità che, lungi dal
potersi semplicemente realizzare o no, può essere realmente considerata libertà
solo se si realizza. Infatti solo il bene libera e una libertà che si rivolge
al male in realtà non è libera. La grazia, di conseguenza, porta all'atto
quella potenza di essere realmente liberi che Dio ha donato all'uomo, una
potenza il cui sviluppo verso l'atto è stato bloccato dal peccato. In questo
senso quando Dio sceglie di dare la grazia, cioè la forza di volere e agire
bene, predestina in qualche modo, ma non costringe, perché la volontà,
liberata, liberamente vuole la realizzazione della sua piena libertà cioè l’adesione
al bene sommo che è rappresentato da Dio. Così la dinamica antropologica che
Agostino viene a configurare è la seguente:
1) l’uomo ha una legge: c’è una cognizione del bene,
che tuttavia nella quotidianità di ciascuno è, prima facie, esterna, imposta,
comandata e non va mai disgiunta da una sorta di costrizione autoritaria e
super-egoica che genera profonde lacerazioni interiori;
2) alla legge si reagisce con la trasgressione. Si sa
che la legge è buona, ma molto più allettanti appaiono le seduzioni che
conducono a comportarsi altrimenti: questo è il peccato;
3) la volontà che conosce il bene, vuole e pratica il
male (quanto siamo oltre il tranquillo intellettualismo etico greco!): si
tratta di una coazione irresistibile che, ancora, lacera e dilania l’umanità di
ciascuno;
4) La volontà scopre che può essere aiutata. Cioè
scopre che quando fa il bene, il bene non è suo. Essa lo vuole, ma, se riesce a
volerlo, non è lei che lo vuole. Essa più che altro acconsente a una forza
salvifica. Questa forza chiamiamo grazia;
5) Mentre nel peccato la volontà vuole in prima
persona, ma si accorge che si aliena e si perde nel peccato stesso; nella
realizzazione del bene, la volontà si accorge di non possedere il suo
principio, bensì di accogliere un’iniziativa altrui, ma in ciò essa si ritrova
e si compie;
Allora accade per Agostino questo fecondo paradosso: la
volontà, quando è libera di volere autonomamente, si accorge di essere
alienata, e quando è a misura di un Altro si ritrova e si accorge di essere se
stessa. Mentre nella libertà essa era dunque schiava, nell’essere condotta da
altri essa si ritrova libera. Solo tale volontà, liberata dalla grazia, fa il
bene e realizza l’uomo.
Concludendo, possiamo riportare queste equilibrate
considerazioni di M. Bettentini: «La grazia è quindi necessaria al bene, ma
altrettanto lo è il consenso della libera volontà: il Creatore ha deciso che la
salvezza debba essere voluta liberamente, per quanto aiutata gratuitamente, mai
imposta. Il misterioso rapporto tra grazia e libertà, tra predestinazione e
provvidenza, sorto dal drammatico confronto con i pelagiani[29], è stato variamente
interpretato nella storia; qui basti ricordare che alcuni, anche oggi, vi
rintracciano una coerenza di fondo (Trapé, Madec), altri al contrario vi leggono
una forte visione predestinazionistica[30] (Flash, Lettieri), già
evidente nelle Diverse questioni a Simpliciano, dove si legge che la
grazia ha primato anche nell’initium fidei[31], e che il peccato
originale ha trasformato l'umanità in una massa damnationis[32], perduta senza l’assolutamente
gratuito intervento divino. Lo stesso Agostino nelle Ritrattazioni
conferma di essersi battuto a favore della libertà, ma di aver visto vincere la
grazia. E tuttavia in altre opere il rapporto risulta più dinamico e composto,
senza una sopraffazione, tanto che nella Lettera 214 si arriva a leggere:
“Se dunque non c'è la grazia di Dio, in qual modo Dio salverà il mondo? E se
non c'è il libero arbitrio, in qual modo Dio giudicherà il mondo?” (epistola
214,2)»[33].
6) Il rigore e il perdono: contro i
donatisti
Ecco nuovamente un problema fondamentale sotto il
profilo antropologico. Non è tanto, infatti, un generico appello al perdono
quello che Agostino compie a difesa di tutti coloro che sono “caduti” (lapsi,
in latino) durante le persecuzioni e hanno sacrificato all’imperatore,
consegnando all’autorità romana le Scritture sacre (consegnare in latino si
dice tradere, da cui traditores, «coloro che hanno consegnato» le
Scritture), quanto un vero e proprio richiamo a una corretta concezione
dell’uomo. I lapsi sono divenuti oggetto degli attacchi del rigorismo
dei seguaci del vescovo africano Donato di Case Nere (270-355 circa) e dei loro
eredi. Come sempre accade, il rigorismo è una strada in discesa, che esige
sempre maggiore radicalità, sempre minore indulgenza, sempre maggiore ardore e
sempre minore carità. Tutto ciò, per l’appunto, smentisce una più vasta
concezione dell’uomo che, sulla base di una comune condizione di peccato (così
presente al vescovo di Ippona!), chiede che una reciproca comprensione aiuti a
sollevarsi a vicenda, invece che a condannarsi senza appello.
L’uomo è una
mistura indissolubile di bene e male. Lo è il cuore di ciascuno, chiamato sempre
al discernimento e alla lotta contro l’eterna tentazione dell’abbandono e della
resa. Lo è a maggior ragione la comunità esteriore degli uomini, qualsiasi,
anche la più santa e anche quella nata con le migliori intenzioni. Chi non ne
tiene conto rinuncia all’universalità e preferisce la setta dei puri e dei
santi, che sono tali per autoelezione e non nella verità, perché la verità è la
mescolanza. «Abbiamo innumerevoli
testi - dice Agostino nella Lettera ai cattolici
sulla setta dei donatisti del 405 - sulla mescolanza dei cattivi con i
buoni nella stessa comunione del sacramento, come Giuda che, pur essendo
malvagio, fin dall'inizio frequentò gli undici buoni; e sul numero di buoni,
piccolo in rapporto all'alto numero di cattivi; e sulla moltitudine di buoni
considerata in se stessa. Di questi testi, per non dilungarmi, cito solo
alcuni. C'è un testo, nel Cantico dei Cantici, che ogni cristiano
sa che è stato detto della santa Chiesa: Come un giglio tra le spine,
così è la mia amata tra le figlie. Perché le chiama spine, se non per i loro
cattivi costumi? E perché quelle stesse le chiama figlie, se non per la
comunione del sacramento? Ezechiele vede alcuni che avevano un segno per non
essere uccisi coi cattivi. Di essi gli fu detto: Questi sono coloro che
lamentano e piangono i peccati e le iniquità del mio popolo, che si commettono
in mezzo a loro. Ora Dio non avrebbe considerato suo un popolo, che per
altro ordina di sterminare, risparmiando solo i segnati, se questo popolo non
avesse avuto i suoi sacramenti. Anche il Signore dice della zizzania seminata
sopra il grano: Lasciate che l'uno e l'altra crescano fino alla
mietitura , il grano, cioè, e la zizzania; e spiega che la mietitura è
la fine dei tempi, mentre il campo, sul quale l'uno e l'altra sono stati
seminati, è il mondo. È quindi necessario che l'uno e l'altra crescano nel
mondo, fino alla fine dei tempi. Non è lecito, perciò, ai Donatisti, supporre o
sostenere questa tesi: "I buoni sono tutti scomparsi dal mondo e
sopravvivono solo nel partito di Donato". Cozzano, infatti, con le
chiarissime parole del Signore: Il campo è il mondo, e: Lasciate
che l'uno e l'altra crescano fino alla mietitura, e: La mietitura è
la fine dei tempi. C'è anche un'altra parabola, molto chiara, sulla
mescolanza dei buoni e dei cattivi entro la stessa comunione e connessione dei
sacramenti: la narra e la spiega il Signore, personalmente: Il regno
dei cieli - egli dice - è simile ad una rete gettata in mare,
che raccoglie ogni genere di pesci; una volta piena, i pescatori la tirarono a
riva e, sedutisi, scelsero i buoni nei loro cesti, i cattivi invece li
gettarono via. Così sarà alla fine dei tempi: verranno gli angeli e separeranno
i cattivi di mezzo ai giusti, e li getteranno in una fornace di fuoco; ivi sarà
pianto e stridore di denti. Di conseguenza, nessuna mescolanza coi cattivi
può atterrire i buoni, per farli decidere a rompere le reti e a uscire dalla
società dell'unità, per evitare di tollerare, nella comunione dei sacramenti,
persone che non fanno parte del regno dei cieli, dal momento che, arrivati al
lido, cioè alla fine dei tempi, si farà la doverosa separazione, non secondo la
superficialità degli uomini, ma secondo il giudizio di Dio»[34].
Le Scritture per Agostino
sono chiare: non spetta agli uomini rompere la comunione che li lega ai
peggiori tra loro. Soprattutto non spetta alla loro superficialità. La
superficialità chiama l’orgoglio settario e l’orgoglio settario allontana da
Dio e dalla sua volontà, oltre che aprire la strada al crimine di chi scaglia
la prima pietra. Il rigorismo ha la sua radice in un’antropologia semi-gnostica
che afferma che ci sono i buoni, gli spirituali, i catari cui è riservato un
destino particolare e separato dagli altri. Diremmo: le avanguardie del Regno
che, per essere a priori nel campo della moralità, finiscono per considerarsi
superiori a ogni moralità, che essi applicano agli altri ma rifiutano di veder
applicata a sé. Ciò non è evidentemente compatibile con il realismo agostiniano
che conosce il radicamento del peccato e che intuisce al tempo stesso
l’incompatibilità della posizione donatista e rigorista con la trascendenza di
Dio. Perché delle due l’una, o il principio e il sommo bene è altrove, e allora
il giudizio deve provenire da un altro soggetto, essendone l’uomo esautorato
come parte in causa, oppure è qui e l’uomo non deve aspettare, perché chi
possiede la verità ha l’obbligo di realizzarla nella prassi e nel mondo,
redimendo ciò che è possibile redimere. Cattolici e rigoristi si combattono
come gli opposti principi della trascendenza e dell’immanenza, già al tempo di
Agostino in strisciante opposizione nel campo dei cristiani e degli gnostici.
Ma il campo non è oggi
diverso, se non fosse per gli enormi passi avanti che ha compiuto uno
gnosticismo redivivo e vieppiù aggressivo e tracotante. Uno gnosticismo che
sempre si avvale in Occidente dell’affievolirsi del senso della trascendenza e
dell’affermarsi del primato moderno di etiche programmaticamente senza
fondamento ed entusiasticamente puritane. Così che la differenza tra ilici (uomini
dall’anima materiale) e pneumatici (uomini dall’anima spirituale), negata
essotericamente, si fa spazio esotericamente, nelle conventicole dei
privilegiati che al potere economico associano la peculiare consapevolezza di
una sorta di elezione operata per grazia immanente dell’umanità, della società
o del progresso, o dei loro entusiasti maggiordomi, eletti a suffragio
quasi-universale nei riti di questa stanca e consunta democrazia liberale.
A fronte di ciò, anche la forza del perdono
assume la valenza di un’immagine complessiva dell’uomo: status viatoris,
l’uomo in cammino, l’uomo non ancora giunto alla meta sa che sulla strada si
inciampa e ci deve rialzare. Un individuo pieno di macchie, una società
inconclusa e una Chiesa sempre da riformare hanno costitutivamente bisogno non
di perdonarsi ma di essere perdonati. E quindi nel loro vagare cercano sempre
qualcuno che lo possa fare. Vivere per loro significa essere necessariamente
nel perdono di qualcuno, se no è morte, la morte dei superbi o quella dei
disperati, che alla fine coincidono.
7) Consulenza
filosofica
Agostino è una certa
prospettiva sulla vita, sull’uomo e sul mondo. La chiarezza e radicalità di
questa prospettiva è uno strumento di eccezionale valore, sia perché venga
messa a confronto con le idee e convinzioni che ciascuno porta nel cuore e
nella mente, sia per entrare in relazione con gli altri, una relazione saporita,
una relazione filosofica. C’è un assoluto che chiama, c’è un relativo che
risponde, c’è un legame tra i due: il Creatore e l’Immagine. Su questa base la
filosofia risulta essere una continua provocazione. Di ciò il consulente
filosofico non può fare a meno. Perché o insegue il coccoloso dialogo di certa
psicologia e il suo costante rischio di acconsentire ai narcisismi del nostro
tempo, oppure richiama orgogliosamente la sua identità razionale e la sua
vocazione metafisica e totale, anzi direi fieramente totalitaria. Quanto
bisogno c’è di totalità per un singolo solo, chiuso, cieco, fragile e superbo?
Quanto bisogno c’è dell’aria limpida delle altezze? Quanto bisogno c’è di
giudicarsi senza pietà e pietismi? E quanta azione c’è da realizzare senza compromessi
e annacquamenti? Totalitario non è chi affligge gli altri, ma chi libera se
stesso dalle liquidezze che lo soffocano, e corre verso l’Intero,
l’unica verità degna dell’uomo. O la consulenza filosofica assume questo
compito o si dissolve nello Zeitgeist. E allora anche la cura che essa
invoca sarà niente più della reciproca rassicurazione degli illusi e degli
impotenti. Agostino, dunque, non prescindendo dalle scelte di fede di ciascuno,
ma provocandole e dare conto di loro stesse (compreso l’ateismo o
l’agnosticismo), pone il problema filosofico per eccellenza (antropologico e
metafisico al tempo stesso): «Che cosa veramente conta nella tua vita?» E quale
se non questo può essere il tema di ogni consulenza filosofica?
[1]
Agostino, De libero arbitrio, I, 2, 4.
[2] Ibidem.
[3] R.
Guardini, Antropologia cristiana, tr. it. di C. Brentari, Morcelliana,
Brescia 2013, p. 27.
[4] M.
Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 19909,
p. 189.
[5] H. G.
Gadamer, Verità e metodo trad. it. di G. Vattimo, Milano, Bompiani,
1995, p. 314.
[6] M.
Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 264,
[7] https://earlychurchtexts.com/public/creed_of_nicaea_325.htm
[8] Cfr. Agostino, De Trinitate, V, 3, 4
[9] Ibidem.
[10]
Questa citazione è tratta dal De civitate Dei, 11,10,11, secondo quanto
suggerisce A. Trapé nella sua introduzione al De Trinitate, tr. it. di
G. Beschin, Città Nuova, Roma, 1998, pp. V-XCI, qui p. XXXIII, cui si sono ispirate
le presenti considerazioni.
[11] De
Trinitate VII, 6, 11
[12] De
Trinitate, VI, 10,12
[13] A.
Trapé, cit., p. XLVIII.
[14]
Agostino, De anima et eius origine, II, 5,9.
[15]
De Trinitate, VI, 5, 6.
[16] Agostino, Confessiones, IV,4,9.
[17] Agostino, Retractationes, XI, 6,1
[18] G.
Catapano, Agostino, Carocci, Milano 2017, p.122.
[19]
Agostino, De vita beata, 2, 11.
[20]
Agostino De Trinitate, XIII, 7, 10.
[21] H.
Jonas, Agostino e il problema paolino della libertà, tr. it. di C.
Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2007, p. 38.
[22]
Agostino, De Trinitate, XIII, 7, 10.
[23]
Agostino, De libero arbitrio, I, 12,26.
[24] Cfr.
Agostino, De natura et gratia 35,41.
[25]
Cfr.Agostino, De correptione et gratia, 12,33
[26]
Agostino, De natura cit., 4,4.
[27]
Agostino, De spiritu et littera, 30,52
[28]
Agostino, Sermo CLXIX, 13
[29]
I seguaci del monaco britannico Pelagio (360-420) che sostenevano che l’uomo
può salvarsi solo mediante la sua volontà, che è tale da acquisire, se ben
orientata, i meriti che conducono alla ricompensa eterna.
[30]
Visione per cui l’uomo, senza poterci fare niente, è predestinato da Dio alla
salvezza o alla dannazione. Un orientamento che fu accolto e rilanciato dai
lettori protestanti di Agostino: Lutero (autore non a caso di un De servo
arbitrio) e Calvino.
[31] Anche
la fede, mediante la quale si crede in Gesù e si ottiene da lui la salvezza
(Paolo) è un dono della grazia che viene dall’imperscrutabile e giustissima
volontà divina.
[32] A causa
del peccato originale, tutti gli uomini sarebbero dannati senza l’intervento
gratuito di Gesù.
[33] M.
Bettetini, Agostino, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 131-132.
[34]
Agostino, Lettera ai cattolici sulla setta dei donatisti, 14,35