Carl Schmitt e l’ordine politico
Carl Schmitt è
essenzialmente un giurista, cioè uno studioso di diritto, con una particolare
vocazione a un pensiero radicale, cioè a risalire ai fondamenti e ai pilastri
della scienza giuridica, cosa che lo conduce fuori dai confini tecnici della
sua disciplina, verso altri ambiti di pensiero come la storia, la politica, la
sociologia, la filosofia. Il suo pensiero copre un arco di tempo molto vasto,
dagli anni Dieci del Novecento fino agli anni Ottanta. In questa vastissima
produzione cercheremo il filo conduttore nel concetto di ordine politico, che
sembra essere propriamente il nocciolo della sua vocazione scientifica. Come si
costruisce un ordine politico, con quale obiettivi e quali fondamenta
razionali? Che cosa accade invece quando l’ordine si dissolve e prevale in
conflitto indiscriminato e la guerra civile? Perché un ordine tiene e quali
sono i suoi fattori di disgregazione?
Perché un
giurista si interroga sull’ordine politico?
Perché contrariamente al senso comune non sono le norme che consentono la vita
civile in una certa società. Le leggi non sono la condizione di una società
ordinata e funzionante, bensì la presuppongono: solo in una società “normale”
valgono e vigono le norme. Le leggi provengono da una certa vita, da una certa
esistenza, e non la producono. La riprova è che le leggi non si applicano da
sole. Sempre tra una legge e una fattispecie (un caso, un fatto, un accadimento
che chiama in causa l’applicazione della legge) vi è un’auctoritatis interpositio, l’interposizione di un’autorità.
Quest’ultima è una certa volontà di un uomo o di un gruppo di uomini reali,
viventi, esistenti in una situazione concreta che “si mette in mezzo”, cioè si
interpone, determina l’applicazione di una legge generale e astratta a un caso
particolare e concreto. Senza tale attività la legge rimarrebbe lettera
morta. La volontà che applica la legge
deve avere una certa forza per imporsi, cioè deve essere autorevole e deve aver
prodotto una situazione in cui essa può far rispettare un certo dettato
normativo. Quando un gruppo di uomini ha generato un’organizzazione tale per
cui la loro volontà produce leggi e le fa applicare, determinando una
situazione sociale prevedibile e ordinata, tale gruppo va sotto il nome di
Stato quale “entità giuridica il cui senso risiede esclusivamente nel
realizzare il diritto” (C. Schmitt, Il
valore dello Stato e il significato dell’individuo, tr. it., Il Mulino,
Bologna 2013, p. 58). Gli organi dello Stato hanno esattamente il compito di
esprimere quell’autorità che realizza il diritto, rendendo efficaci le leggi in
una situazione dove i conflitti, il disordine, la violenza, il caos sono
minimizzati.
Nel saggio Cattolicesimo romano e forma politica
del 1923, Schmitt insiste su un fattore fondamentale dell’ordine politico.
Usualmente con il termine “rappresentanza” si indica la dinamica propria delle
elezioni per cui l’eletto rappresenta i suoi elettori. In ogni regime elettivo,
sia esso liberale e censitario o democratico e universalistico, il soggetto che
viene eletto per partecipare a un’assemblea, o per occupare un organo dello
Stato, rap-presenta i suoi elettori, li rende presenti, come se essi fossero lì
ad occupare il posto del loro rappresentante e a fare quello che egli fa. La
rappresentanza riguarda non solo quelli che lo hanno votato, ma, come
un’adeguata finzione giuridica, tutto il corpo elettorale. Ciò per sottolineare
la funzione di ricerca del bene comune che deve avere l’eletto, senza limitarsi
agli interessi di una parte dell’elettorato. Che cosa accade in questa
situazione per cui il deputato al parlamento, o il presidente eletto,
rappresenta la volontà degli elettori?
Vi è una dottrina squisitamente democratica, per la quale il
rappresentante sarebbe un semplice esecutore della volontà degli elettori, ogni
volta a loro giudizio liberamente revocabile. Si pensi alla Comune di Parigi che prevedeva
l’elettività di tutte le funzioni di governo e una brevissima permanenza in
carica, con elezioni molto ravvicinate, in modo tale da esprimere il più
completo controllo dell’azione politica “dal basso”. Questa è la modalità in cui i cittadini danno
un mandato (un compito) imperativo ai
loro rappresentanti che sono declassati a semplici strumenti della volontà dei
loro elettori. Viceversa, esiste una dottrina, che appartiene alla tradizione
liberale, per la quale il mandato è libero,
cioè il rappresentante ottiene la fiducia dei rappresentati, interpretando
liberamente la loro volontà e adattando l’interpretazione alle mutevoli
circostanze politiche, dove si considera il consenso come presupposto. La
presenza del corpo elettorale nelle decisioni politiche è così molto meno
attiva, in compenso ne guadagna la dignità dell’azione del rappresentante: se
nella dottrina del mandato imperativo potrebbe paradossalmente essere anche una
macchina, che riceve input e agisce
di conseguenza, nel mandato libero sono implicate cultura, virtù, capacità e
qualità umane che fanno del rappresentante il membro di un’élite, di un corpo di “migliori” che per tale motivo è legittimato
a decidere in nome del “popolo”. In questo secondo caso il rappresentante non
“sta” semplicemente “al posto di”, non è un semplice sostituto di una
moltitudine che non può essere presente contemporaneamente per deliberare, al
contrario egli rappresenta un’“idea”. Le qualità personali del rappresentante
sono rilevanti e corrispondono a un certo tipo di umanità, a certi valori
etici, a una certa visione del mondo e delle cose che è componente essenziale
della fiducia che in lui ripone il corpo elettorale. La rappresentanza è dunque
non solo dal basso, mediante il meccanismo elettorale, ma anche dall’alto:
l’uomo che viene votato al tempo stesso incarna un certo progetto di società e
una certa concezione del bene comune. Ciò è importantissimo perché la “forma
politica”, cioè l’ordine che si produce in una società non proviene solo da un
qualsiasi meccanismo tecnico di selezione delle élites, ma anche da un’immagine forte di come la vita, l’uomo, le
relazioni dovrebbero essere per essere buone.
Questo tipo di rappresentanza dall’alto, indispensabile perché l’ordine
politico non sia una pura imposizione e un puro apparato amministrativo, senza
senso e senza responsabilità, trova il suo modello, nella storia europea
all’interno della Chiesa cattolica. Essa infatti rappresenta, fa presente, la trascendenza divina di Cristo nella
storia. La Chiesa prosegue l’Incarnazione di Cristo: è il modo in cui Cristo
crocifisso, morto, risorto e asceso al cielo è ancora presente nella storia
degli uomini. Tale presenza fa sì che l’intero popolo di Dio, cioè l’intera
comunità dei cristiani, viva concretamente al cospetto del proprio Capo, Gesù
Cristo, reso presente continuamente nel culto eucaristico, ma anche in ogni
atto di magistero religioso e morale della comunità guidata dal papa, vicario
di Cristo stesso. Per un cattolico, dunque, grazie alla Chiesa e al papa,
Cristo viene rappresentato, cioè fatto presente nella storia umana e nella vita
dei fedeli. La persona del sacerdote e in modo particolare quella del vescovo
di Roma, rende presente Cristo qui ed ora. Questa dinamica, tipicamente
personale, per la quale un uomo incarna una realtà trascendente e se ne fa
veicolo vivente, è importantissima sotto il profilo religioso, ma anche per la
politica. Quest’ultima infatti, nel proprio campo, cioè la vita civile e laica,
riproduce la medesima dinamica. Il rappresentante politico non rappresenta solo
i suoi elettori e i loro interessi, ma il popolo intero, la sua idea, i suoi
valori, la sua cultura e la sua storia. Solo con questa rappresentanza ideale,
il cui modello è la rappresentanza ecclesiale del Cristo, si può determinare
una forma politica, cioè un ordine stabile, legittimo, autentico e non solo un
apparato amministrativo e organizzativo di puro potere. Infatti, il rapporto
tra la comunità e le sue istituzioni in questo caso è umano, etico, ideale,
valoriale e non solo tecnico. L’ordine che ne deriverà avrà dunque il carattere
di un bene, considerato e creduto tale, e pertanto guadagnerà in affidabilità,
solidità e durata a tutto beneficio del popolo che lo avrà acquisito.
Nel saggio
intitolato Teologia politica del 1922
Schmitt nota che c’è un’analogia strutturale tra mondo della politica e i
concetti teologico/metafisici: “Il quadro metafisico che una determinata epoca
si costruisce del mondo ha la stessa struttura che si presenta a prima vista
come la forma della sua organizzazione politica” (C. Schmitt, Teologia politica, in Idem, Le categorie del politico, tr. it., Il
Mulino, Bologna 1972, p. 69). La monarchia è un sistema che manifesta un ruolo
analogo a quello di Dio onnipotente nell’universo e dell’onnipotente
legislatore nello Stato. Nello Stato di diritto liberale che separa i poteri,
dà primato al legislativo e alle procedure costituzionali, cioè in cui tutto
funziona come un grande meccanismo, diremmo noi di cheks and balances, in modo che sia escluso il comando diretto di
una persona, perché con esso di ricadrebbe in forme di potere assoluto, questa
modalità di organizzazione politica ricorda il deismo, cioè quella teologia illuminista che considera Dio
semplicemente come la ragione delle cose, ossia una sorta di principio
impersonale che organizza il mondo mediante leggi razionali, ma che non ha né
personalità, né volontà, né amore e che dunque di fatto non esercita un potere
se non mediante il meccanismo delle leggi di cui il Dio è semplicemente un
altro nome. Il “naturalismo assoluto” dell’anarchico Michail Bakunin, che,
sulla base del suo ottimismo antropologico (l’uomo per natura buono), nega ogni
forma di potere e autorità, ha come contraltare teologico l’ateismo, che nega
Dio e attribuisce al mondo una naturale autosufficienza. L’analogia più
importante, però, tra la sfera teologica e quella politico-giuridica, viene
individuata da Schmitt quasi di passaggio tra il miracolo e lo stato di
eccezione. Che cosa è lo Stato d’eccezione? Nel precedente saggio sulla Dittatura del 1921, Schmitt rileva che
Arnold Clapmar, un rilevante giurista del sec. XVII, l’epoca d’oro della Stato
moderno, intende per “iura dominationis
(diritti di dominio, n.d.r.) il diritto pubblico di creare l’eccezione, in
forza della quale chi ne è titolare può derogare dal jus commune (la legislazione ordinaria e vigente nella comunità,
n.d.r.) in casi di emergenza nell’interesse dello Stato e del mantenimento
della quiete e della sicurezza pubblica (tranquillitas,
pax et quies). Guerra e disordini interni sono i due casi più importanti di
questo diritto […] Esso significa la potestà giuridicamente e per principio
illimitata, che può anche usurpare uffici legittimi e diritti acquisiti” (C.
Schmitt, La Dittatura, tr. it.,
Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 37-38). Quindi nello stato d’eccezione, a causa
di un’emergenza che mette in pericolo la pace,
la tranquillità e la quiete, cioè la vita stessa di un popolo e la sua
possibilità di prosperare, si determina l’esercizio più tipico di un potere che
non incontra limiti – e in ciò richiama e aiuta storicamente a comprendere il
concetto di “dittatura” - nel suo compito di preservare i beni più importanti
per un popolo e financo la sua stessa esistenza. Per questo lo stato di
eccezione è una situazione in cui l’attività del governante assomiglia a quella
di un dio che, per un motivo superiore che è lui stesso a decidere, rompe e
infrange le leggi che lui stesso ha determinato a beneficio delle creature che
egli governa. L’importanza dell’analogia miracolo/stato di eccezione sta nella
sottolineatura del concetto di sovranità. Come il miracolo fa emergere in modo
peculiare la presenza e l’onnipotenza sovrana di Dio, così lo stato di
eccezione in politica fa emergere la sovranità di chi veramente comanda in un
certo gruppo umano. Tant’è vero che la Teologia
politica esordisce proprio con la famosa e icastica frase: “Sovrano è chi
decide sullo stato di eccezione”. Ciò significa che quando qualcuno può
determinare se è il caso di sospendere le leggi ordinarie per promuovere una
condizione di pace e normalità necessaria alla stessa continuazione
dell’esistenza di un popolo, quello è colui che veramente comanda in una
comunità. Ciò dice una cosa fondamentale riguardo al potere in qualsiasi
società. La cosa fondamentale non è la normalità. La situazione normale in cui
vigono leggi, prescrizioni e diritti viene dopo e deve essere determinata da un
potere che per sua natura è antecedente alle leggi e ne consente l’attuazione e
la vigenza. Tale potere è del tutto analogo a una forma di dittatura, dove per
essa si intende la capacità di “dettare”, cioè di indicare cose da fare
coattivamente e senza possibilità di rimostranza. Il dettato del potere avviene
di necessità perché, come detto, le leggi hanno bisogno della normalità per
essere efficaci: “Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima
deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento
giuridico. Bisogna creare una situazione normale e sovrano è colui che decide
in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero” (C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 39). Quanto
di tutto ciò è arbitrio e quanto no? Qui è la realtà a discriminare. Alcuni
autori come G. Agamben, hanno ritenuto che la decisione sullo stato
d’eccezione, cioè la decisione se esiste una condizione che rende necessario un
potere di principio illimitato per ripristinare l’ordine, è totalmente
soggettiva: “La necessità, lungi dal presentarsi come dato obiettivo, implica
con ogni evidenza, un giudizio soggettivo e […] necessarie ed eccezionali sono
ovviamente soltanto quelle circostanze che sono dichiarate tali” (G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri,
Torino 2003, p. 41), altri come il giurista Santi Romano no. Qui ci limitiamo a
osservare che qualcuno che decretasse un’emergenza, cioè uno stato di
eccezione, che non fosse percepita minimamente come tale da una cospicua parte
della società, verrebbe rapidamente smascherato come un mentitore con puri interessi
di potere. D’altro canto, una guerra o una sedizione interna, cioè i casi
citati da Schmitt, hanno una certa evidenza oggettiva e difficilmente possono
essere considerati pretesti. I casi più complicati sono quelli la cui
sussistenza non è manifesta ma neppure del tutto pretestuosa. Un esempio
potrebbe essere la pandemia da Covid 19; all’inizio si è trattato di affrontare
un’emergenza con la sospensione di molti diritti garantiti costituzionalmente;
l’eccezione sembra tuttavia essere stata procrastinata ben al di là dello
stretto necessario, configurando più da vicino quella che Agamben ha indicato
come una forma di democrazia
governamentale in cui la lettera e lo spirito delle libertà costituzionali
viene scavalcato senza che vi sia una reale necessità.
Prima di
concludere su questi temi soffermiamoci su un altro elemento della definizione
di sovranità. Sovrano è chi “decide”. La decisione è un elemento
importantissimo della prassi politica.
Il politico non è un intellettuale che pensa, né un tecnico che fa, né
un religioso che prega, né un attore che recita, né un artista che crea:
l’azione precipua del politico è decidere.
Il comando in cui si sostanzia la sovranità politica è una decisione che sempre
sceglie tra alternative concrete in una determinata circostanza. La decisione
avviene anzitutto perché è necessaria. È la concreta esistenza di un popolo e
le minacce cui è sottoposta a renderla necessaria. Se è procrastinata,
rimandata, dissimulata, delegata, la decisione è sicuramente sbagliata. Se è presa
con senso di responsabilità, fedeltà al proprio popolo, onore, intransigenza,
coraggio e forza, se insomma coincide con quella che Schmitt ha chiamato
“l’orgogliosa decisione morale”, allora può essere corretta e produrre le sue
più benigne conseguenze, cioè l’ordine politico, la configurazione di una
realtà caotica, di guerra civile, di conflitto, caos, angoscia, sopraffazione e
bellum omnium contra omnes (guerra di
tutti contro tutti), in una situazione di pace, sicurezza e ordine. Potremmo
con un’immagine dire, senza timore di tradire Schmitt, che l’“orgogliosa
decisione morale” fa passare dalla situazione del “cattivo” a quella del “buon
governo” dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti al palazzo comunale di Siena.
Potremmo anche dire che la decisione fa passare l’ordine politico dalla potenza
all’atto, dal “non ancora” al “già”, dalla virtualità alla realtà. Qui Schmitt
è molto hobbesiano. Il sovrano, per mettere ordine in un mondo di individui
“pericolosi” e tutt’altro che pacifici, deve essere soggetto di una potestas directa, ossia di un potere
effettivo e diretto, che monopolizza la decisione, proprio perché il conflitto
tra gli uomini è dato dal fatto che ciascuno decide per sé, in modo egoistico e
conflittuale. La guerra, infatti, è sempre lo scontro tra decisioni opposte e
incompatibili che devono essere risolte con la sottomissione forzata di uno dei
contendenti. Ora, se in una comunità deve essere costruito un ordine pacifico,
è naturale che l’ultima istanza decisionale deve competere a un solo soggetto
(non importa se collettivo o individuale, ma, dice Hobbes, meglio individuale),
perché altrimenti, se più di uno pretendesse legittimamente di esercitare la
facoltà di decidere, lo scontro si riproporrebbe e la pace si rivelerebbe
impossibile. Anche in questo caso, però, con realismo, Schmitt nota che la
decisione del sovrano non è totalmente senza presupposti. Non c’è, come in
Hobbes la finzione dello stato di natura e di un patto che origina la società.
Molto più realisticamente Schmitt osserva nel suo testo I tre tipi di pensiero giuridico del 1934 che ogni popolo possiede
una certa creatività e vitalità istituzionale: vi sono degli ordinamenti
concreti che nascono spontaneamente dalla società, in cui gli uomini sviluppano
legami, solidarietà, gruppi di carattere familiare, economico, culturale,
ludico, amicale, tali da sfociare in articolazioni stabili del vivere
collettivo, come una famiglia, un clan, un ceto, un campo di lavoro, un
esercito, una Chiesa (cfr. C. Schmitt, I
tre tipi di scienza giuridica, tr. it., Giappichelli, Torino 2002, pp.
16-17) e da sollevarli dalla condizione di individui isolati (come erroneamente
le pensa il contrattualismo individualista di Hobbes, Locke e Rousseau). La
decisione arriva a coronare questo processo spontaneo, evitando che all’interno
di una società etnicamente, linguisticamente, culturalmente storicamente
omogenea l’intensità di associazioni e dissociazioni spontanee determini
conflitti distruttivi (pensiamo alla conflittualità interna ai comuni del
medioevo italiano). Il sovrano pertanto verrà a detenere il monopolio dell’ultima istanza, cioè della decisione
definitiva, lasciando alla società solo decisioni parziali e sempre
suscettibili di revisione sovrana.
Ora siamo
pronti per comprendere uno dei guadagni fondamentali della riflessione
schmittiana sulla politica, il criterio amico-nemico. Scrive il giurista ne Il concetto di politico del 1927: “Si
può raggiungere una definizione concettuale del politico solo mediante la
scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche. Il politico
ha infatti i suoi propri criteri che agiscono, in modo peculiare, nei confronti
dei diversi settori concreti, relativamente indipendenti, del pensiero e
dell’azione umana, in particolare del settore morale, estetico, economico. Il
‘politico’ deve perciò consistere in qualche distinzione di fondo alla quale
può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso specifico. Assumiamo che
sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello
estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure
redditizio e non redditizio. Il problema è allora se esista e dove risieda,
come semplice criterio del ‘politico’, una distinzione specifica, autonoma e
valida in sé, anche se non dello stesso tipo delle precedenti bensì anzi
indipendente da esse. La specifica distinzione politica alla quale è possibile
ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione tra amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio,
non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in
cui non è derivabile da altri criteri, non corrisponde per la politica ai
criteri autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale,
bello e brutto per l’estetica e così via […]. Il significato della distinzione
amico-nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una
separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere
teoricamente e praticamente senza che nello stesso tempo debbano venir
impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro
tipo. Non vi è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o
esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come
concorrente economico e forse può apparire vantaggioso concludere affari con
lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente,
in senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo
che nel caso estremo siano possibili conflitti che non possono venir decisi né
attraverso un sistema di norme prestabilite, né mediante l’intervento di un
terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’”. (C. Schmitt, Il concetto di politico, in Idem, Le categorie, cit., pp. 87-208, qui p.109-109). Questa lunga
citazione
1) offre un
criterio e non un’essenza: non ci dice come agiscono i politici, o quali sono i
loro scopi e come raggiungerli, non ci parla della polis e dello stato, delle forme di governo, dei partiti e delle
ideologie, ci offre al contrario un concetto che aiuta a distinguere la
presenza della politica e il carattere politico di un comportamento da tutti
gli altri. Dove c’è amicizia e inimicizia, là c’è politica.
2)Il criterio
riguarda l’intensità di un’associazione e di una dissociazione. Il fatto che
gli uomini si associano e si dissociano è dunque presupposto: è il presupposto
fenomenologico della distinzione ed è la sua forza descrittiva. Chi può negare
questa dinamica di associazione e dissociazione come un fattore intrinseco e
costante delle relazioni umane? Non esiste politica se non in presenza di
gruppi umani, coesi al proprio interno (associazione) e contrapposti
all’esterno (dissociazione), benché tale contrapposizione abbia diversi gradi,
non sempre raggiunga il caso estremo della guerra, e ciononostante lo contempli
sempre come una possibilità.
3) La
distinzione è autonoma e non coinvolge altre sfere dell’esistenza.
Rilevantissima è l’osservazione per cui il nemico non è per forza il “cattivo”.
Morale e politica non vanno sovrapposte. Il fatto che qualcuno sia l’ “altro”,
e sia potenzialmente anche una minaccia, non lo qualifica come cattivo.
Soprattutto nelle relazioni internazionali è facilissimo constatare che l’amico
non è sempre buono e il nemico non è sempre cattivo, malgrado le propagande di
tutti i colori tentino sempre di qualificare moralmente il nemico e di
santificare l’amico. Questo abbaglio propagandistico può far presa per un altro
peculiare fenomeno. Sebbene l’amicizia e l’inimicizia siano sfere esistenziali
autonome dalle altre occupazioni della vita, esse possiedono una specifica
“forza di gravità” tale per cui, superando una sorta di “massa critica”, cioè
un dato livello di intensità, attraggono a sé e sottomettono ai loro scopi
tutte le altre. Il nemico, quindi, non diviene più semplicemente l’altro, ma è
il cattivo, spietato, traditore che viene dipinto con caratteri mostruosi,
deformi, repellenti; è ladro, è furbo, si insinua; è barbaro, incivile,
crudele; contro di lui è necessario mobilitare tutte le forze a disposizione
per colpirlo in ogni aspetto della sua vita, che è tale da costituire di per sé
una grave minaccia, anche nelle attività più innocenti. La descrizione che
Oliver Cromwell fa degli spagnoli è eloquente e per questo Schmitt la cita nel
suo scritto: “Consideriamo dunque i nostri nemici i nemici dell'esistenza stessa
di questa nazione. Perché infatti, il vostro grande nemico è lo Spagnolo. Egli
è un nemico naturale. Ed è naturalmente così, a causa di ciò che è in lui
contro tutto ciò che è di Dio, tutto ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere
in voi […].lo Spagnolo è il vostro nemico e la sua inimicizia è posta in lui da
Dio, egli è il nemico naturale, il nemico provvidenziale, chi lo ritiene un
‘nemico accidentale’ non conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha
detto: «Io porrò inimicizia fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi III, 15)”
(in C. Schmitt, Il concetto, cit.,
p.154). D’altro canto, il nostro giurista lo aveva potuto notare nella Prima
guerra mondiale: la forza del conflitto era divenuta tale che tutta la vita dei
popoli veniva coinvolta nella grande macchina bellica. Questa si nutriva di
un’inimicizia estrema che, come in un grande buco nero, era in grado di non
lasciar cadere nulla fuori dal parossismo della lotta tra le nazioni. Schmitt,
nel corso della sua attività successiva, cercherà di pensare, sulla scorta
della grande tradizione giuridica europea, possibili vie d’uscita da questo
vortice della guerra totale. Probabilmente non conosceva l’episodio raccontato
dal grande romanziere e intellettuale francese Pierre Drieu la Rochelle, quando
egli partì per il fronte occidentale nella Grande Guerra portando con sé nello
zaino un testo di Friedrich Nietzsche, un filosofo tedesco, il maître à penser del nemico. Si può fare
la guerra, per una serie di circostanze che fatalmente pongono gli uomini e i
popoli gli uni contro gli altri. Al tempo stesso si può riconoscere grandezza e
la verità ovunque si trovino, anche nel campo avverso. Il nostro Autore non
conosceva l’episodio biografico dello scrittore parigino, ma i temi della sua
ricerca sulla limitazione della guerra, sviluppata negli anni
Quaranta/Cinquanta, ne assumono in qualche modo lo stile.
Ancora tre
precisazioni sul concetto di politico. La prima, cui già si è fatto accenno,
riguarda la dimensione esistenziale dell’amicizia e dell’inimicizia. Ciò
significa che non vi sono particolari ragioni, non v’è un artificio, o una
volontà che raduni gli uomini in amici e nemici, semplicemente accade così. E
accade che l’umanità si divida in schieramenti contrapposti, le cui relazioni
variano a seconda della loro amicizia e inimicizia. E pure accade che in
determinate circostanze qualcuno avverta l’altro come un’alternativa alla
propria esistenza. Esistenzialmente si avvertono i nemici della propria
sussistenza, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, così come accade
per gli amici. Questo è un fatto … che tuttavia appare un corollario ineludibile
dell’autonomia del politico. Se il politico riguarda una modalità del vivere
con proprie dinamiche e caratteri, non c’è bisogno che ci si prendano a
prestito categorie da altre sfere dell’esistenza per giustificare i fenomeni ad
esso connaturati. Agli uomini basta essere, per essere politici, e ogni gruppo
umano per sua natura finirà col trovarsi prima o poi di fronte alla decisione
su chi è amico e chi no. Ciò è un fattore fondamentale della sua vita oltre che
della sua libertà e sovranità.
La seconda
precisazione riguarda il tipo di amicizia e inimicizia di cui si tratta. Sia il
greco sia il latino hanno due modi di indicare il nemico, a seconda che sia
pubblico o privato: echthròs e inimicus per quanto riguarda i nemici
privati; polémios e hostis per ciò che concerne i nemici
pubblici. Inutile precisare che il nemico politico è quello pubblico, che si
riferisce a raggruppamenti umani e a interi popoli. Schmitt aggiunge assai
significativamente che Gesù non esorta ad amare i nemici politici, ma quelli
personali (diligite inimicos vestros,
Mt 5,44; Lc 6,27) e conclude: “Nella lotta millenaria tra cristianità e Islam,
mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che
difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessario odiare
personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso
amare il proprio ‘nemico’, cioè il proprio avversario” (C. Schmitt, Il concetto, cit., p. 112).
Infine bisogna
sottolineare il ruolo che ha lo Stato nella gestione del politico. Lo Stato
nella tradizione europea è un’istituzione imprescindibile per mettere ordine
nella dinamica amico-nemico. Esso deriva dal fatto che un certo popolo si
unisce e si dà una forma, un certo assetto istituzionale che corrisponde alle
consuetudini prevalenti fra i propri cittadini, che vivono in un territorio,
parlano una lingua, adorano un Dio etc. Ovunque un popolo si unisca stabilmente
e si dia una forma riconoscibile, lì c’è uno Stato. Quando ciò accade, le
rivalità interne a una data comunità, come quelle che per esempio possono
sorgere tra famiglie, clan, tribù, corporazioni, città, regioni, chiese, etc.
sono relativizzate nello e dallo Stato che impone la pace tra i gruppi e rende
vigenti le leggi che ne regolano le relazioni. Ecco allora che si è in presenza
dell’“unità politica di un popolo” che espelle l’inimicizia, per dirigerne
l’energia all’esterno, verso coloro che esistenzialmente vengono percepiti come
nemici. L’efficacia di questa pacificazione interna deriva dal fatto che lo
Stato monopolizza il politico e impedisce il sorgere di conflitti che
porterebbero divisione, lotte e la malattia mortale della stàsis (la guerra civile, la peggiore e più devastante tra tutte le
forme di guerra). Per adempiere a questo compito lo Stato deve presentarsi come
terzo rispetto alle parti, giudice imparziale delle controversie, affidabile e
prevedibile mediante il suo diritto che garantisce ai cittadini una vita
pacifica nella migliore approssimazione possibile alla giustizia. Infine, deve
naturalmente essere ultima istanza decisiva: solo la detenzione esclusiva di un
potere sovrano è condizione sufficiente per imporre la pace e svolgere tutte le
altre funzioni.
Se ciò avviene
al suo interno, all’esterno dello Stato le cose stanno in maniera differente.
Come aveva già precisato Thomas Hobbes, tra
gli Stati vige lo stato di natura, un
dis-ordine in cui ciascuno è legge a se stesso e giudice nella propria causa, e
non potrebbe essere altrimenti visto che a ciascuno compete un potere sovrano.
Le relazioni internazionali e il loro tentativo di regolamentazione si
scontrano con questa ineliminabile condizione, per la quale ogni Stato, pur
ammettendo che bisogna perseguire la pace, i buoni rapporti, il reciproco
rispetto, il progresso, la cooperazione etc., ogni volta decide che cosa si
debba intendere con questi concetti e lo fa in totale autonomia. Quando
evidentemente confliggono gli interessi degli Stati, le decisioni pure
risulteranno divergenti, e ognuno offrirà la propria interpretazione, non
rinunciando alla soluzione estrema della guerra, quando ogni mediazione
risulterà inefficace. La possibilità della guerra è dunque una conseguenza
necessaria della libera sovranità degli Stati, cioè della decisione ultimativa
sull’amico e il nemico che essi avocano a sé. Nondimeno i processi giuridici di
contenimento dei conflitti messi in atto nella storia dell’Europa moderna,
hanno consentito allo Stato di affermarsi come l’istituzione maggiormente in
grado di garantire una relativa prosperità alle proprie comunità che, malgrado
le guerre che sempre hanno interessato le potenze del Vecchio continente, hanno
promosso un’apprezzabile tranquillitas
rei publicae, una discreta pace sociale e i benefici che queste condizioni
apportano alla vita civile e culturale dei popoli. La preoccupazione di Schmitt
è che i processi di democratizzazione degli Stati tipici dei secc. XIX e XX,
con il coinvolgimento delle masse nella vita politica mediante la dialettica di
partiti e movimenti più o meno radicali, distrugga quest’opera di pacificazione
riportando l’intensità dei conflitti interni a livelli pericolosi per la
sopravvivenza dell’unità politica. Lo Stato, quando si fa totale, cioè quando estende
a tutta la società le divisioni della politica, prepara la propria tomba nella
guerra civile, una guerra esacerbata dalle motivazioni morali e ideologiche,
dai fanatismi dei partiti rivoluzionari o borghesi, e che invece nella
tradizionale politica delle potenze europee trovavano la porta sbarrata dalla
depoliticizzazione della società (fanno politica i funzionari dello Stato, gli
altri godono della pace che essa garantisce per tutte le altre attività umane e
sociali) e dalla considerazione razionale degli interessi.
Con la Dottrina della costituzione del 1928 Schmitt
elabora un manuale di diritto costituzionale che si propone di illustrare la
struttura dello Stato borghese di diritto, ossia di quello Stato, monarchico o
repubblicano, che, assumendo una prospettiva liberale, si dà una costituzione finalizzata a limitare
l’elemento politico, cioè la sovranità che decide e l’ordine che ne discende.
Ciò però gli offre anche il pretesto per determinare un concetto di
costituzione diverso dalla tradizione liberale. Quest’ultima insisteva sulla
nozione di legge fondamentale e sull’idea di Stato come “servitore, rigidamente
controllato, della società; […] soggetto a un sistema chiuso di norme
giuridiche, ovvero […] semplicemente identificato con questo sistema di norme”
(C. Schmitt, Dottrina della Costituzione,
tr. it., Giuffré, Milano 1984, p. 173). In questo modo si conferma l’idea per
cui “l’organizzazione dello Stato è posta sotto un punto di vista negativo e
critico nei confronti del potere statale – protezione dei cittadini di fronte
all’abuso del potere statale -. Lo Stato stesso è meno organizzato che i mezzi
e i metodi del suo controllo; sono create garanzie contro gli interventi
statali e si cerca di introdurre ostacoli all’esercizio del potere statale” (C.
Schmitt, Dottrina, cit., p. 64). Per
Schmitt nell’ipotesi che “una costituzione non contenesse altro che queste
garanzie dello stato borghese di diritto”, non vi sarebbe alcuna unità
politica, giacché le norme contro lo Stato non possono fondare lo Stato stesso
come unità politica sovrana, capace di ordinare la vita di un popolo. Ecco
allora che “lo Stato borghese di diritto può rappresentare solo una parte della
costituzione complessiva di uno Stato, mentre un’altra parte contiene la
decisione positiva sulla forma dell’esistenza politica” (ibidem). Insomma, come aveva già affermato in diverse occasioni,
per Schmitt il liberalismo è un capitolo della lotta contro la sovranità: non
una decisione su come darsi un destino politico da parte di una comunità, ma
una contro-decisione su come limitare ogni destino e concreto orientamento in
nome dell’individuo borghese e delle sue pretese di libertà, le quali
storicamente rimandano alla contestazione borghese della monarchia e alla
ricerca dell’emancipazione della sfera economica dagli obblighi inerenti la
vita comune e politica. Ma questa modalità di concepire la costituzione
funziona, quasi per necessità logica, solo dove un’unita politica già esiste ed
è operante, cioè dove la decisione sull’unità ed esistenza politica di un
popolo è già stata presa. Ecco allora il secondo e più pregnante significato di
costituzione: la costituzione in senso assoluto come la concreta condizione
generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale di un dato Stato. In
questo senso lo Stato è la
costituzione, cioè uno status di unità e di ordine. La costituzione è la
sua anima e la sua esistenza individuale. La Francia e l’Inghilterra non hanno
una costituzione, sono la loro costituzione. Quindi tutto ciò che in
Francia e in Inghilterra ha fatto sì che tali Stati esistano e continuino a
esistere - le loro istituzioni, i loro uomini, il loro popolo unito - esprimendo
una certa politica nei confronti dei propri cittadini e degli altri Stati,
tutto ciò è la loro costituzione.
Siffatta costituzione si regge su due principi: l’identità
e la rappresentanza. Il primo, fondato sulla consapevolezza che lo Stato è res populi, implica la presenza del
popolo come soggetto fondamentale della vita politica di uno Stato. Si potrebbe
trattare di un principio radicalmente democratico, per il quale tutto il potere
appartiene al popolo. Tutto il potere - ossia quell’illimitato potere costituente con il quale un
popolo inizia a vivere esprimendo se stesso nella storia, quel potere di darsi
forma, di darsi una configurazione concreta, il potere che rende un gruppo
umano, diremmo con parole non schmittiane, una soggettività politica cosciente
– è del popolo. Ma il popolo, che nello Stato è tutto e quindi può tutto, dice
Schmitt, solo in rarissimi casi è capace di esprimere la sua volontà e solo in
forme assai semplici, come l’acclamazione che dice di sì o di no. Emerge
dunque la necessita di una rappresentanza. Cioè: non la presenza effettuale del
popolo agisce, ma la sua rappresentazione per mezzo di una persona o un gruppo
di persone che del popolo interpretano la volontà. Il potere costituente del
popolo è infatti essenzialmente muto, benché illimitato. Esso ha bisogno di
costituirsi in una serie di istituzioni in cui alcune persone lo rappresentano
dando voce alla sua volontà. Ma tale rappresentazione è fatalmente dall’alto.
Il mandato ha da essere libero, perché altrimenti il rappresentante, come puro
megafono dei suoi elettori, perderebbe ogni valore e dignità, e per garantirne
la fedeltà al dettato popolare si dovrebbe procedere a una votazione continua
su ogni provvedimento, tale da rendere nulla la rappresentanza stessa. Quindi
nella dimensione della rappresentanza è d’obbligo liberare il mandato e farvi
entrare la rappresentazione di un’idea che, come già precisato in Cattolicesimo
romano e forma politica è il fondamento della fiducia che il popolo ripone
nel rappresentante che sia in grado di dare una forma alta e densa di
significato etico-spirituale alla sua prassi politica. Il rappresentante per
questo motivo dà forma allo Stato: “In ogni Stato devono esistere uomini che
possano dire: ‘L’État, c’est nous’” (Dottrina della costituzione,
cit, p. 273), cioè tali da determinare con la loro azione quella più alta
specie d’essere in grado di trasformare l’esistenza naturale di un qualsiasi
gruppo di uomini che vivono assieme in un’esistenza “come unità politica”. Ad
essa si attagliano parole come “grandezza, altezza, maestà , gloria, dignità e
onore”(ivi, p. 277).
In questo senso si determina il forte realismo schmittiano,
che è sempre attento alla volontà che pone il diritto, ma non come puro
arbitrio, bensì come volontà legittimata da una qualità ideale, superiore, rappresentativa,
in modo che la fondazione di una comunità ordinata non è mai opera di pura
violenza che si impone, bensì di una forza che viene riconosciuta e che è
sempre aperta a ciò che la trascende. Tale attenzione alla reale configurazione
dell’ordine non può accogliere il formalismo di colui che rappresenta la
controparte teorica del nostro giurista, l’altrettanto famoso e importante
studioso Hans Kelsen. Costui insisteva sullo Stato come sistema di norme e
sulla possibilità di normare e rendere prevedibile l’intera vita politica e
giuridica. Il problema fondamentale di “chi decide” doveva essere ricondotto a
una norma che stabiliva alcune competenze e che indicava di volta in volta chi
e come si doveva decidere per affrontare un dato evento giuridicamente e
politicamente rilevante. Le leggi positive dovevano per lui essere a loro volta
ricondotte a leggi più generali contenute in una carta costituzionale e non poste da qualcuno, ma logicamente presupposte dalle norme vigenti, e
approvate da un’assemblea apposita. Semplificando molto, il ragionamento di
Kelsen era insomma il seguente: siccome esistono e sono valide leggi, deve
esistere una legge fondamentale che produce queste leggi come sua conseguenza.
Questa legge fondamentale o norma delle
norme o costituzione vige perché
è necessaria logicamente alla vigenza delle norme di rango secondario, a
prescindere da ogni considerazione riguardo alla giustizia, all’ordine, alla
volontà concreta di esistere di un popolo. Così “per Kelsen hanno vigenza
soltanto le norme positive, cioè quelle norme che hanno effettiva vigenza; esse
vigono non perché debbono vigere per la loro maggiore giustezza, ma senza
riguardo a qualità come razionalità, giustizia etc., solo perché sono positive.
Qui cessa improvvisamente il dovere e cade la normatività; al suo posto appare la
tautologia di una cruda effettività: qualcosa vige, se vige e perché vige” (ivi,
p. 22). Il formalismo conduce a questo sistema di norme – cioè il diritto
effettivamente vigente e riconosciuto - di cui la costituzione è semplicemente
il fondamento logico, anonimo, tecnico, che è lì solo perché è necessario che
ci sia. Questa cruda effettività, da
un lato si limita a descrivere l’esistenza di qualcosa come delle leggi, senza
alcuna valutazione critica e di contenuto, dall’altro le riconduce a un
fondamento totalmente astratto che allontana il diritto dalla concreta vita dei
popoli.
Il nomos della terra
e la politica internazionale
Di fronte alle astrazioni del normativismo liberale e del
positivismo kelseniano, per molti versi coincidenti nel comune intento di
sottomettere all’imperio di una legge ogni aspetto della vita politica di un
popolo, Schmitt insiste nel fondare il diritto e le leggi in una radicale
concretezza esistenziale: dalla vita procede la legge e la legge non deve mai
dimenticare la vita. Il nomos della terra (1950) rappresenta questo
ulteriore passo di fissazione esistenziale del diritto. Dalla Dottrina della
costituzione molta acqua è passata sotto i ponti. Ci sono stati gli anni
Trenta con l’avvento del nazionalsocialismo e il tentativo fallito di
influenzare ideologicamente gli orientamenti giuridici del Terzo Reich;
c’è stata la guerra mondiale con il suo corollario di tragedie e distruzioni
(Schmitt, accusato di aver collaborato con il regime hitleriano, subisce un
breve periodo di detenzione e viene sottoposto a indagine e a interrogatori da
parte degli alleati: da questa esperienza verrà fuori il testo autobiografico Ex
captivitate salus – 1950); sta consolidandosi ora la divisione del mondo in
due blocchi ed esordisce il lungo periodo della guerra fredda tra oriente
comunista e occidente liberal-capitalista. Schmitt ha continuato nel suo
percorso di ricerca sulla questione dell’ordine politico, estendendo i suoi
interessi al di là dello Stato, verso le sempre più pressanti questioni di
diritto internazionale. Come sappiamo tra gli Stati non c’è un terzo superiore
che possa imporre coattivamente una legge. Se ciò è vero, è altrettanto vero
che in Europa si è determinato il tentativo di dare una regolazione dei
rapporti internazionali, per evitare una loro indiscriminata degenerazione,
quale si era vista nella crudele e devastante guerra dei Trent’anni (1618-1648),
a conclusione di un periodo travagliato di conflitti religiosi originati dal
trauma della Riforma del 1517. Dalla pace di Westfalia si consolida uno jus publicum europaeum, un diritto
pubblico europeo, nel quale gli Stati del Vecchio continente, riconoscendosi
reciprocamente come soggetti sovrani, istituiscono tuttavia delle procedure che
cristallizzano e quasi ritualizzano una lunga consuetudine diplomatica in cui
la pace e la guerra non appaiono più rispettivamente la normalità e
l’eccezione, ma vengono imbrigliati in una rete ideale di convenzioni
giuridiche che limita fortemente le distruttività dei conflitti e consentono
la reciproca convivenza. Pensiamo per esempio alle statuizioni per le quali la
guerra si inizia con una dichiarazione e si conclude con un trattato, pensiamo
al jus belli che descrive le
condizioni che rendono un belligerante un soggetto riconosciuto dallo stesso
nemico e dagli Stati neutrali, pensiamo alla determinazione giuridica dello
stesso concetto di neutralità, pensiamo alle procedure militari, alla
distinzione civile-militare, alla questione della divisa e al concetto di
prigioniero di guerra. Pensiamo infine a quella forma concreta di politica
europea, chiamata politica della bilancia, in cui ogni potenza agisce
all’interno di un equilibrio complessivo che tutte le altre sorvegliano,
intervenendo nei confronti di quella potenza che, con ambizioni
espansionistiche che travalicano la misura accettabile da tutti gli altri,
minaccia l’equilibrio stesso. Ciò implica che lo Stato sovrano, mantenendo la
sua libertà di azione, si viene pur collocando in una comunità di pari al cui
cospetto le sue azioni vengono valutate e considerate. Non c’è qui alcun
superiore, ma un concerto di autonomie, fondato anzitutto su una comunanza di
civiltà e di storia istituzionale. Ogni Stato europeo è libero e sovrano, ma
condivide con tutti gli altri un nomos
della terra. Ciò lo pone strutturalmente e inevitabilmente
insieme-agli-altri. Ma che cosa è questo nomos, questa legge che si
fonda sulla terra? La terra è justissima
tellus, il luogo in cui si radica la vita concreta dei popoli. La terra
retribuisce il lavoro umano con i suoi frutti, evidenzia nel terreno dissodato
e coltivato nette linee di suddivisione e reca in sé recinzioni, case,
delimitazioni e pietre di confine che rendono palese un ordine visibile e
pubblico. Nella terra si radica l’ordine. Il confine segna la linea entro la
quale c’è una legge. Nella terra si ripartisce lo spazio secondo giustizia.
Essa accoglie appunto un nomos, una legge. Infatti, secondo Schmitt non
c’è ordinamento (Ordnung) senza localizzazione (Ortung): “Alle
occupazioni di terra e alle fondazioni di città è […] sempre legata una prima
misurazione e ripartizione del suolo utilizzabile. Nasce così un primo criterio
di misura che contiene in sé tutti i criteri successivi. Esso resterà
riconoscibile fintanto che la costituzione rimarrà riconoscibilmente la stessa.
Ogni successiva relazione giuridica con il suolo del territorio ripartito dalla
tribù o dal popolo occupante, ogni istituzione di una città protetta da mura o
di una nuova colonia sono determinati da questo criterio originario di misura e
ogni giudizio ontonomo, ontologicamente giusto procede dal suolo” (Carl
Schmitt, Il nomos della terra, tr.
i.t, Adeplhi, Milano 1991, p. 23). La giustizia proviene dal suolo e dalla sua
delimitazione/ripartizione che è mezzo di un’equità visibile, pubblica, oggettiva,
quanto pubblica, visibile e oggettiva è la linea tracciata nella terra. Questo
è un minimo comun denominatore storico-giuridico della civiltà europea nel suo
complesso, che emerge in particolar modo in contrapposizione con il mare, la
liquidità di un spazio s-confinato dove non esiste linea di demarcazione, dove
tutto è libero, sregolato, piratesco: le scoperte di nuovi continenti e la
navigazione oceanica rendono dal XIV secolo evidente tale contrapposizione (il
libretto Terra e mare del 1942
descrive con grande suggestione la rivoluzione spaziale che ha comportato
l’affacciarsi della civiltà europea agli spazi marittimi dell’oceano e la
nascita di specifiche potenze marittime, come l’Inghilterra, l’Olanda o il
Portogallo).
La guerra giusta, l’unità del mondo e il grande spazio
Gli Stati europei nascono con le seguenti caratteristiche:
un legame con la terra, cioè un ordinamento concreto spaziale; la capacità di
neutralizzare i conflitti interni; la relativizzazione, mediante il mutuo
riconoscimento tra Stati sovrani del conflitto esterno. Tale ultimo obiettivo è
ottenuto mediante il passaggio fondamentale dal criterio della justa causa belli a quello del justus hostis. Nel momento in cui,
infatti, gli Stati europei si riconoscono, confermano reciprocamente anche il
diritto sovrano di fare guerra, secondo le consuetudini invalse. Ciò fa di loro
dei potenziali nemici, ma tali da avere nell’altro un nemico non assoluto,
bensì partner in una comunità. Il nemico diventa “giusto” perché con lui
si può combattere come tra duellanti che hanno preventivamente accettato regole
del confronto. E, come nel duello d’onore, così anche tra gli Stati
l’avversario è un pari e come tale, quand’anche sconfitto, deve essere
ritenuto. Ciò configura la peculiare considerazione statuale della guerra: lo Stato,
solo per il fatto di essere tale ha il diritto di fare la guerra, senza bisogno
di ragioni. Non c’è alcuna necessità di una “giusta causa”, che peraltro ogni
Stato normalmente avoca a sé con ragioni che nessun altro può smentire, se non
limitando di fatto la sua sovranità. Anzi, la giusta causa finisce per avere un
effetto boomerang: nata come dottrina ecclesiale per limitare i
conflitti, quando nel medioevo la Chiesa pur poteva virtualmente presentarsi
come organo super partes, essa
finisce per incrementarli, perché nella distribuzione delle responsabilità,
quando ciascun contendente aggiunge al suo diritto di far guerra un motivo
essenzialmente morale, tende irresistibilmente a presentare il nemico come un
partigiano del maligno, hors-la-loy, hors-l’humanité (fuori dalla legge, fuori dall’umanità). La guerra,
relativizzata come duello interstatale, diventa nuovamente una guerra morale e
infine una guerra di religione che punta all’annientamento del nemico come
obiettivo essenziale per far trionfare il bene nel mondo. È con la Rivoluzione
francese che la morale e la religione tornano a interagire con la dimensione
bellica, diventando strumento del politico e finendo per essere poste al
servizio. Esse tornano sotto le vesti secolarizzate dell’ideologia, cioè di una
filosofia politica, quella dell’illuminismo, assunta in modo dogmatico e
trasformata in surrogato laico e mondanizzato delle aspettative di redenzione
metafisica dell’umanità. Come i cristiani preparavano un regno ultraterreno, i
rivoluzionari intendono costruire un regno terreno. Come i cristiani
confidavano nella salvezza dell’umanità per mezzo di Dio, così i rivoluzionari
confidano in una salvezza tutta terrena e prodotta dall’uomo. Il regno dell’égalité,
della liberté e della fraternité dovrà essere fondato mediante la
prassi rivoluzionaria. Questa differenza, non da poco, rispetto alla tradizione
religiosa lascia libero campo alla radicalizzazione fanatica del dogma, perché
mentre l’opera di redenzione è nella religione sottratta all’uomo e parimenti
lo è la vittoria contro il male, qui è proprio una parte dell’umanità che, in
nome di un futuro di totale emancipazione, si arroga il diritto di indicare il
cammino e i nemici da combattere e vincere durante il cammino. Così il politico
con le sue dinamiche amico-nemico, lungi dal venire contenuto e gestito mediante
reciproci riconoscimenti, intensifica le proprie dinamiche di associazione e
dissociazione fino al grado massimo di violenza: la violenza dei buoni per
estirpare il male dal mondo, l’ultima e definitiva violenza, che è pure la più
crudele e devastante. Ecco allora che inizia, con la Vandea, la triste storia
degli sterminii ideologici aventi lo scopo di purificare il mondo dalle
contaminazioni del Male. Uguale impostazione di ideologia di redenzione
collettiva e terrena avrà il comunismo, che assumerà la guerra civile (di
classe) e la violenza purificatrice come strumento necessario di emancipazione
degli oppressi e di instaurazione definitiva di una società giusta. Allo stesso
modo il razzismo novecentesco assumerà la discriminazione razziale come analoga
modalità di liberazione dell’umanità. Il liberalismo promette dal canto suo la
redenzione mediante l’indefinita crescita economica in un paradiso terrestre di
abbondanza nella compiuta società del godimento e parimenti si comporta con i
suoi nemici con la massima spietatezza come dimostra l’atomica di Hiroshima e
Nagasaki, Dresda e financo il processo di Norimberga. Ciascuna ideologia ha la
sua guerra giusta da combattere per portare una pace definitiva all’umanità.
Ciascuna a suo modo rifiuta l’idea di un’ineliminabile dimensione conflittuale
che attraversa i gruppi umani e, volendo superarla, finisce per radicalizzarla.
Perché il politico ha questa straordinaria forza d’attrazione e sottomette alla
sua logica tutti gli ideali e le morali che non vogliano fare i conti con la
sua pervasività. Tutte le ideologie hanno a loro modo combattuto lo Stato
tradizionale westfaliano: qualcuno apertamente, parlando di un’estinzione dello
Stato nella società senza classi, qualcun altro cercando di svuotarlo
dall’interno mediante strumenti costituzionali. Qualcuno infine propone
l’utopia di uno Stato mondiale, dove il politico venga sublimato nel tecnico e
nell’economico, dove l’umanità acceda a una sola grande ecumene culturale e
dove le differenze sopravvivano solo come folklore e non come idee di un
destino storico autonomo e libero. Questo Stato senza nemici considererebbe
tutti i conflitti come fattispecie di reato contro l’unica e uniforme legge
mondiale, e li tratterebbe mediante operazioni di polizia. Esso renderebbe
universale il grande sogno materialista del comfort generalizzato, di
una pace universale, di un'unica fratellanza globale, pagata evidentemente con
la fine delle differenze, delle identità popolari, del pluralismo delle visioni
del mondo e della vita, della pluralità politica, culturale, religiosa.
Paradossalmente quando Schmitt constata, nel saggio L’unità del mondo
del 1951 la fine del primato europeo e della civiltà giuridico-politica
continentale, che ha lasciato il campo a due blocchi contrapposti e ugualmente
lontani dalla tradizione moderna, non può non notare che sotto il profilo delle
idealità ultime, entrambi i blocchi tendono a una forma molto simile di Stato
tecnico, centralizzato, globale ed estremamente oppressivo nella volontà di
promuovere l’amministrazione generalizzata della vita umana mediante burocrazie
e apparati freddi, anonimi, impersonali e onnipervasivi (siano essi i
meccanismi della finanza capitalistica internazionale, o quelli delle
burocrazie sovietiche).
La guerra fredda sovietico-americana, dunque, appare a
Schmitt una delle ultime propaggini della nuova organizzazione mondiale,
bipolare nei fatti, unipolare negli scopi, in cui, senza che le ideologie
abbiano ottenuto ancora una vittoria definitiva, lo Stato è stato consegnato al
novero delle esperienze superate dalla storia.
Di fronte a tale deriva che ne è dell’ordine politico? Dove
finisce la grande tradizione dello jus publicum europaeum? Dove la
grande opera di civilizzazione e gestione dell’endemica conflittualità umana? Lo
Stato muore e con esso tramonta l’occidente, come direbbe Oswald Spengler, ma
per Schmitt non esiste un determinismo storico insuperabile. Come Toynbee egli
ritiene che la storia sia caratterizzata dalla dialettica sfida-risposta - i tempi sfidano, gli uomini rispondono
pensando e agendo - e quindi mantenga una fondamentale apertura. La fine della
statualità europea è una sfida al pensiero e alla creatività umana. Essa
presenta, al di là della cupa religione dell’unità
tecnico-economico-amministrativa del mondo, la possibilità di una nuova
risposta a partire dalla concreta situazione storico-mondiale. “Ciò implica la
possibilità di un equilibrio di forze, un equilibrio di vari grandi spazi, che
creino tra loro un nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello e con
dimensioni nuove, però, nello stesso tempo dotato di certe analogie con il
diritto delle genti europeo dei secoli XVIII e XIX, che pure si basava su un
equilibrio di potenze grazie al quale conservava la sua struttura. Anche lo jus
publicum europaeum implicava un’unità del mondo. Era un’unità eurocentrica;
non era il potere politico di un unico padrone di questo mondo, ma di una
formazione pluralista e di equilibrio di varie forze […]. È molto probabile che
l’attuale dualità sua molto più vicina alla pluralità che all’unità definitiva,
e che siano troppo affrettati i pronostici e le combinazioni del One World”
(Carl Schmitt, L’unità del mondo, in Idem, L’unità del mondo e altri
saggi, tr. it., Antonio Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303-319, qui p.
309). Ma che cos’è questa positiva alternativa allo Stato? Il concetto di
grande spazio (Grossraum) si riferisce a una specie di “espansione”
dell’unità politica statale su una scala più grande, la cui condizione di
possibilità è data dal territorio effettivamente influenzabile e controllabile
da un soggetto politico attivo. Questi, all’interno di uno spazio maggiore di
quello assegnato allo Stato tradizionale, articolerebbe sovranamente una
pluralità di comunità (senza cancellarle) e costruirebbe una nuova sintesi
politico-territoriale capace di entrare in rapporto con altri soggetti simili.
Rimanendo legata ad una precisa collocazione spaziale, eviterebbe al contempo
di ricadere nell’utopia liberal-comunista di uno Stato mondiale fondato su
ideologie astratte. Al tempo stesso preserverebbe il pluralismo delle unità
politiche, dei paesaggi del mondo, delle vocazioni geopolitiche, delle culture.
Pensiamo, con un esempio nostro, a una serie di macro-soggetti continentali,
come Europa, Nordamerica, Sudamerica, Russia, Cina, India, Australia, Umma
musulmana, Africa centro-meridionale: essi andrebbero a costituire una nuova
forma di organizzazione politica mondiale pluralistica, in grado di garantire i
destini dei popoli in un contesto multipolare e al tempo stesso di articolare
forme giuridiche di convivenza e di reciproco riconoscimento, capaci di
limitare e depotenziare i conflitti. La riflessione di Schmitt pensa i grandi
spazi ancora come estensione “imperialistica” di uno Stato nazionale, ed è
questo forse il suo punto debole. L’intuizione feconda sta nell’opporre
all’egemonia dei blocchi mondiali della guerra fredda la forza maggiore di
unità politiche più estese e capaci di porsi da pari e pari nei confronti delle
pretese egemoniche russo-americane e della loro tendenza a mondializzarsi.
Naturalmente la prospettiva dei Grandi Spazi, rivista e corretta tenendo conto
degli sviluppi storici del nuovo secolo, diventa ora ancor più necessaria di
fronte all’ostinazione dell’Occidente americano, vittorioso nella guerra
fredda, nel pensarsi come unico modello di vita politica e sociale e fine della
storia.
Il katéchon
“Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima, infatti, verrà
l'apostasia e si rivelerà l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione,
l'avversario, colui che s'innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come
Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non
ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi
sapete che cosa lo trattiene (katéchon) perché non si manifesti se non
nel suo tempo. Il mistero dell'iniquità (mystérion tès anomìas) è già in
atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene (katéchon).
Allora l'empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio
della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2 Ts 2,
3-9).
Che cosa ha a che fare questo passo di san Paolo -
riguardante la fine dei tempi e l’antecedente lotta tra l’Avversario , o
Anticristo, e “ciò, colui che lo trattiene (katéchon)” - con la
riflessione politico-giuridica schmittiana?
Il gesto del nostro giurista, quando ha parlato dei grandi
spazi e delle innovazioni epocali avvenute con la guerra mondale e dopo la sua
fine, è stato quello di allargare gli orizzonti, dall’ordine politico interno a
quello internazionale, in un quadro storico che, pur non avendo mai travalicato
gli ultimi secoli dell’Europa moderna, avverte vieppiù il carattere epocale
degli eventi da lui vissuti negli ultimi anni. In linea con tale percezione,
Schmitt cerca un ulteriore ampliamento di prospettive che riguarda il senso del
destino di crisi e dissoluzione dell’ordine politico. Le Scritture paoline, in
particolare la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, con la lunga tradizione
interpretativa dei Padri e dei grandi dottori della Chiesa, offrono un
eccezionale strumento interpretativo. Infatti, la “forza” che trattiene il
dilagare del mistero dell’iniquità o dell’anomia (mancanza di legge), è stata
associata all’Impero Romano e poi alla sua versione cristiana. Quindi ha
ricevuto una declinazione “politica”, del resto plausibile a partire dall’uso
paolino del termine nomos (che in lui mantiene ambedue i significati,
religioso e politico). Per contro l’anomia, in quanto mancanza di legge, è
facilmente associabile a tutto quanto concerne il venire meno e la dissoluzione
dello stesso ordine politico che “trattiene” e al prevalere delle forze
dell’Avversario. Con questo schema apocalittico il nostro giurista legge
“teologicamente” il significato storico della
ricerca dell’ordine politico: a fronte dell’anomia che attraversa un’umanità
sempre alle prese con la propria tendenza all’errore e al conflitto, l’ordine
politico, proveniente da una forza storica, pur destinata alla provvisorietà,
riceve il compito provvidenziale nel cammino della salvezza di testimoniare la
signoria di Cristo sulle vicende umane anche nel mezzo degli eventi del secolo,
anche nella realtà pienamente terrestre delle relazioni politiche e sociali.
Ecco, in poche parole, il compito del katéchon, ossia di colui o ciò che
trattiene (trattiene il divenire delle società verso il disordine, il caos,
la guerra indiscriminata quali sintomi di un male operante nella storia)
Schmitt, nondimeno, è molto lontano dal proporre una
filosofia o una teologia della storia. Egli non è incline a cedere alle forme
di determinismo che i grandi affreschi filosofici impongono al divenire
storico. Niente è determinato in un mondo in cui un piccolo resto di libertà ci
è sempre riservato, quand’anche all’ultimo momento. Nondimeno egli pure conosce
qualcuno dei grandi pittori come Spengler e Toynbee, ma soprattutto è
consapevole che la forza del marxismo, suo grande avversario spirituale prima che
teoretico, proviene dall’avere una teoria dello sviluppo storico. Perciò,
influenzato dalle dottrine dei filosofi cattolici della controrivoluzione
(Donoso Cortés, De Bonald e De Maistre), non costruisce uno schema compiuto
della successione delle epoche, ma, non rinuncia nemmeno, per così dire, a
esprimere una sensibilità e un orientamento generale sulla questione.
Anzitutto nel mondo
agisce il peccato. Diremmo che esso è la forza entropica della storia e della
creazione. Dal peccato viene la consapevolezza del fatto che l’uomo è
“pericoloso”, uno degli assiomi antropologici di Schmitt, e che tutto ciò che è
costruito dagli sforzi della civiltà non si consuma solo per ragioni naturali,
ma è sottoposto alla violenza di una forza dissolvitrice tipicamente
amartiologica (dal greco hamartànein, verbo che significa sbagliare, peccare). Tale pericolosità della specie umana si manifesta in senso
sincronico nel conflitto e nell’inimicizia e in senso diacronico nella
progressiva perdita del centro da parte della civiltà europea e cristiana:
l’affermarsi dei sistemi ideologici del Novecento in un clima di radicale
secolarizzazione e di crisi dell’ordine politico lo dimostra. Tuttavia, lo
studio dell’epoca della secolarizzazione e delle sue manifestazioni non diventa
mai uno schema pessimista da contrapporre all’ingenuo ottimismo illuministico
del progresso, bensì si configura come una vigilanza realistica e disincantata
sul fatto storico.
Il fatto storico è una sfida che chiede risposte, ma
l’interrogazione dialettica che viene dalla storia è sempre anche una
provocazione e una minaccia. La storia quando sfida ad agire lo fa spesso in
modo mortale e mettendo in questione radicalmente l’esistenza di un singolo e
di un gruppo. L’atteggiamento può essere quello del ritrarsi nella molle
condiscendenza ai processi in atto, che gode dello spettacolo dell’erosione
dell’eticità – cioè di quella sostanza etico/metafisica del vivere civile, ossia
di un ordine aperto alla trascendenza – aspettando l’avvento di ingannevoli
“età dello Spirito Santo”, di millenni di pace e godimento, assicurati dai
fanatici dell’apocalisse mondana, dai rivoluzionari di professione e dai
puritani del mondo nuovo, assetati del sangue del nemico di turno, oppure può condurre
a prassi diverse.
Da qui il riferimento di Schmitt alla figura del katéchon
come perno di un’interpretazione autenticamente cristiana della storia che è
consapevole della tragedia della vita dei popoli, ma sa guardare sempre
all’assoluto e alla trascendenza, traendone la forza per opporsi alle derive
del mondo, al suo male, alle sue degenerazioni, alle sue piccolezze politiche e
sociali.
Così si determina la chiusura teologico-politica della
riflessione schmittiana, che scrive alla fine della sua lunga carriera la Teologia
politica II (1970), un testo che ribadisce la legittimità di istituire
un’analogia tra la sfera della politica e quella della religione, in
particolare cristiana, in risposta alle critiche di alcuni teologi come Erik
Peterson. Dentro tale relazione analogica, diventa possibile pensare una
legittimità superiore dell’azione politica, senza tradurla nella ricerca di
forme teocratiche, ossia mantenendo l’essenziale distinzione tra le due sfere
del potere e dell’autorità spirituale. Al tempo stesso ci si preserva dalle
indebite forme di fanatizzazione morale e ideologica della politica che propongono
l’assoluta autosufficienza tecnica ed economica di nuovi modelli di società,
che prospettano l’avvento di ere di pace, uguaglianza e abbondanza e che finiscono
più spesso con produrre inferni totalitari e liberticidi.
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