Pubblicata originariamente in “PINC” 1(2007), pp.
65-73, presento nuovamente questa intervista, un piccolo gioiello in cui mons. Sequeri affronta temi ancora attuali con grande acume e profondità teoretica
A cura di Massimo
Maraviglia
Sbrigativamente si è decretato il venir
meno della capacità ecclesiale di fornire orizzonti di senso alla vita dei
singoli e della società. Qual è secondo lei la situazione reale? Non è forse,
al di là della retorica del ritorno del religioso, qualche altra ‘agenzia di
senso’ (Stato, intellettuali, scuola) in crisi ben maggiore?
In prima
battuta, a caldo, forzerei ancora di più la dialettica che lei pone, dicendo
che l’agenzia di senso più in crisi è certamente la famiglia. La crisi ha due
facce. La prima è quella per cui il lavoro famigliare di umanizzazione è
rimosso e poi svilito dalla società. La società liberale e mercantile, che
ispira il modello ideale dell’individuo autoreferenziale, attore sociale che
definisce in modo autonomo e razionale la sua identità, non sarebbe in grado
produrre accesso alla qualità umana – e alle qualità umane – per nessun
individuo. Le istituzioni civili e la cultura intellettuale, che approfittano
di questo lavoro, scaricando sulla famiglia gli oneri più alti della provvista
di senso, fanno poi valere parametri di identificazione largamente estranei a
quel lavoro.
La seconda
faccia della crisi riguarda appunto l’indotto di rassegnazione, impotenza,
disinteresse, a riguardo del lavoro famigliare di ominizzazione. Incerta a
riguardo del suo valore, trafitta dal sospetto assillante di condizionamento,
prevaricazione, dirottamento delle potenzialità esistenziali e culturali del
singolo, la famiglia è profondamente in tensione. La scuola, la cultura
intellettuale, le istituzioni civili, risentono, infatti, largamente degli
effetti di una sconsiderata semplificazione, secondo la quale la maturità della
cittadinanza dipende dall’emancipazione di ogni cultura della generazione e
della fraternità.
L’orizzonte
ecclesiale della fede, che tiene fermo il vincolo della verità di Dio con la
destinazione della generazione del Figlio per la fraternità degli umani, lavora
oggettivamente – già solo esistendo – in controtendenza con le due spinte
opposte dello scotimento epocale. Da un lato gli effetti destrutturanti di
un’istituzione dell’umano che rimuove il riconoscimento del senso spirituale
attivato dai legami primari. Con tutti gli effetti di smarrimento generati
dalla considerazione funzionale e libidica di tutti i rapporti. Dall’altro il
ritorno vendicativo del rimosso, che prende la forma di un arcaico ritorno alle
forme tribali dei legami di sangue, di razza, di clan. Con tutta la carica di
violenza interna che se ne sprigiona, a dispetto di ogni civilizzazione e di
ogni religione. L’assimilazione soggettiva di questa sua funzione epocale –
voglio dire, socialmente creativa e intellettualmente smaliziata – è nel
cristianesimo ancora debole. Ma la polarizzazione oggettiva di un mondo umano
irrinunciabile, irriducibile all’economia libidica dell’autorealizzazione,
lascia emergere la sua funzione strategica per la costituzione di un umanesimo
prossimo venturo. Non solo la questione religiosa, ma anche la questione morale
e quella educativa, hanno oggi rilievo di questioni fondamentali del senso,
dell’uomo e della donna, della vita e della morte, della generazione e della
destinazione dell’umano, proprio perché possono essere articolate in rapporto
all’effettività della forma ecclesiale del pensare e del comunicare l’umano.
Non esisterebbero semplicemente – e difatti non esistono – né avrebbero peso
determinante nel discorso pubblico, in altro modo, nell’odierno contesto.
L’indice di crescita economica, la tecnologia della manipolazione chimica e
biologica, il riflesso culturale degli eventi dello spettacolo, sarebbero
probabilmente le occasioni più elevate della conversazione pubblica quotidiana
intorno alle questioni di senso.
La fede può avere due tipi di ricaduta
psicologica: da un lato la consolazione fornita dalla speranza ultraterrena,
dall’altro la critica che utilizza il criterio della giustizia del Regno per
promuovere un atteggiamento attivo nei confronti del reale. Quale dei due
ritiene maggiormente operante oggi?
Certamente il
primo, anche se considerato culturalmente più convenzionale e socialmente meno
visibile. Il secondo è più nominato, ma è meno operante di quanto non appaia
teorizzato, anche dai teologi. Sul primo motivo la teologia è stata
indubbiamente meno generosa di riflessioni forti, ponendo più slancio di
rinnovamento sul secondo. Non si deve infierire. Non è neppure questione di
alternativa secca, dopotutto. Inoltre, si deve tener conto del fatto che, nel
contesto della ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo, dopo il
Concilio, era fortissima la pregiudiziale negativa che rinchiudeva l’immagine
della religione in quella di un’ideologia politicamente conservatrice e
individualmente consolatoria. Rimane il fatto che, nel frattempo, l’aggiornamento
culturale del capitalismo neo-liberistico è stato abile ad incunearsi nel solco
della critica all’ideologia del sistema di costrizione della libertà,
indirizzandone l’offensiva anche nei confronti del legame sociale, del diritto,
dell’etica condivisa. La funzione consolatoria nei confronti delle aspirazioni,
del desiderio di realizzazione e di elevazione del singolo è stata trasferita
nell’orizzonte libidico dei beni di consumo, che include anche i “prodotti”
culturali e le “tecniche” del benessere spirituale. L’efficienza del principio
di realtà è trasferita al dominio dell’economia e della tecnica, che
“rispettano” la religione e l’etica, ma regolano i limiti della loro rilevanza
pubblica rinviando alle loro “molteplici” elaborazioni “private”.
Il singolo, per fronteggiare la crisi della
complessità, ha soltanto la fede nella destinazione dell’esistenza ad un
riscatto che sta oltre la morte, e la persuasione che le pratiche ispirate
all’incondizionato della giustizia ne decidono il compimento. E il
presentimento indistruttibile, infine, che la dignità di ciò che è degno,
nell’esperienza della qualità umana, deve essere decisa dallo stretto legame
che sussiste – fin dalla creazione del mondo, e prima – tra la fiducia in quel
riscatto e la pratica della giustizia. Questo tema è diventato privato, ossia
irrilevante per la sfera pubblica dell’essere sociale. Questo tema, invece, è
la forma condivisa dell’umano, che vi iscrive tutte le qualità della sua
naturale differenza dalla natura. Su questo tema, secondo il quale la qualità
morale delle affezioni e la qualità religiosa del divino hanno indissolubile
fondamento nell’intenzione che genera il
Logos di Dio e ne definisce lo Spirito, il cristianesimo incalza anche
la religione e l’etica. In nome di Gesù Cristo, che sottrae l’ospitalità di Dio
agli arcaici vincoli dell’etnìa come ai moderni vincoli dell’economia,
rendendola radicalmente universale, per tutti i singoli, i vivi e i morti.
Gnòthi
sautòn, come i cristiani possono interpretare questo slogan manifesto della
grecità da Socrate all’ellenismo?
L’antica
tradizione cristiana, com’è noto, ha nutrito una speciale predilezione per
l’antico motto apollineo della “conoscenza di sé”. Lo ha sottratto però – più o
meno consapevolmente – alla declinazione socratica, che accentuava la cura di
sé come psicho-logia, in alternativa alla faticosa e incerta impresa di
“decifrazione dei miti”, ossia della teo-logia. Ne ha enfatizzato i due lati
della tradizione originaria, che Platone stesso restituisce al suo più corretto
intendimento (come Reale ha ben dimostrato). Sia traendone l’invito allo
svuotamento della ybris che insedia
al posto della conoscenza di sé, nutrendo quello che noi chiameremmo un falso
sé, illusorio e distruttivo. Sia sviluppando la ricerca delle più intime
potenzialità di trascendimento del sé autoreferenziale, che riconosce le
proprie qualità più alte precisamente mediante l’esercizio dell’uscita da sé,
nei modi dell’amare e dell’essere amato. E’ qui la dimensione del
riconoscimento della propria tangenza – anzi della propria sovrapposizione –
con il modo originario dell’essere divino. Il significato preciso della scritta
“conosci te stesso” del resto, secondo l’unanime consenso degli studiosi, era
un invito di Apollo – dio della felice riuscita di armonia – a riconoscere la propria limitatezza e finitezza,
cercando senza arroganza e con animo grato l’accordo
con il dio. “Dunque – chiosa Giovanni Reale – a chi entrava nel tempio di Delfi
veniva detto quanto segue: ‘uomo, ricordati che sei un mortale e che, come
tale, tu ti avvicini al dio immortale”. L’esperienza dell’affinità della
ricerca di sé con il movimento dell’incarnazione del Figlio, precisamente
attraverso il corpo agito come medio ospitale e relazionale di agape, è il
sigillo specificamente cristiano di questa rilettura. Non è forse un caso che i
luoghi più intensi dell’applicazione cristiana dell’invito al dialettico
riconoscimento di sé come “creatura mortale” e “imago Dei”, compaiano nella
tradizione esegetica – del resto particolarmente rigogliosa lungo tutta la
tradizione medievale e fino all’età della mistica, che inaugura la modernità –
del commento al Cantico dei Cantici. Da Origene ad Ambrogio. Da Gregorio di
Nissa a Basilio e Agostino. Per non parlare dei Vittorini e di Bernardo. Disincagliare
il progetto della conoscenza di sé dalla sua post-moderna piega
autoreferenziale, fatalmente nichilistica, è la forma dell’attuale provocazione
umanistica del cristianesimo. L’unico grande racconto in grado di scuotere la
formula dell’autocoscienza dall’incantamento narcisistico – libidico e
anaffettivo, asociale e autoditruttivo – della ricerca di sé.
Quali sono le conseguenze antropologiche
della teologia trinitaria e dell’introduzione mediante essa del concetto di
persona?
A dire la
verità il rapporto non è così immediato. Il vantaggio dell’antica opzione, con
funzione esplicativa della verità trinitaria di Dio conseguente alla compiuta
acquisizione della rivelazione cristologica, fu visto nel fatto che essa
fissava il concetto di identità senza requisirlo dentro l’idea di sostanzialità
individuale. Dio rimane uno e unico, in tre persone uguali e distinte.
L’incomparabilità del mistero divino confessato dalla fede cristiana ha
suggerito per lo più una linea di cautela nello svolgimento delle analogie.
Nella teologia recente, proprio a partire dal fatto che quella cautela ha pure
“allontanato” la specificità trinitaria della comprensione cristiana di Dio
dall’approfondimento della sua ricaduta sulla comprensione della creaturalità
umana “a immagine e somiglianza”, ha preso l’avvio un percorso di rivisitazione
della radicale possibilità di pensare l’umano – come qualità personale e al
tempo stesso come legame condiviso. Gli spunti attualmente più interessanti, a
mio avviso, sono due. Il primo è la possibilità di pensare che la qualità
personale e la relazione intersoggettiva possono – e forse devono – essere
pensate allo stesso livello di originarietà, ossia come reciprocamente
costitutive. Esplorare in chiave fenomenologica, ontologica e culturale, il
carattere originario di questa correlazione, senza pregiudizio per
l’irriducibile singolarità della persona, la sottrarrebbe alla presunta
migliore coerenza con la comprensione e la pratica autoreferenziale del sé. Il
secondo elemento consiste nella vigorosa riacquisizione – anche qui, in sede
fenomenologica e ontologica simultaneamente – della forma di agape (inclusiva delle virtualità
affettive di eros e di philia) alla costituzione trascendentale
dell’umano: proprio così, e proprio per questo, compiutamente definito nella
irriducibile qualità personale della sua intimità, che fa la differenza
dell’umano tout-court.
Si può concepire la persona fuori dal
riferimento al Dio cristiano, al di là dei tentativi operati in tal senso
dall’illuminismo filantropico / umanitario?
La punta
incandescente della nozione di persona, secondo il mio parere (ma in fondo,
anche dal punto di vista della storia della nostra teologia e filosofia) è la
costituzione di una qualità individuale che si definisce da ultimo per rapporto
alla facoltà di “fronteggiare” Dio stesso, in tutta coscienza e libertà. Di
più, in termini di dignità e di autonomia, non è possibile pensare. Un celebre
teologo protestante, Wolfhart Pannenberg, si è cimentato in modo interessante
con la valorizzazione storico-culturale di questa relazione, rileggendo i dati
dell’antropologia culturale in chiave di illustrazione del valore fondante che
la relazione religiosa con Dio ha per l’istituzione dell’autocoscienza in
chiave di dignità personale. Il riconoscimento “ideale” delle qualità tipiche
dell’essere personale, come noi ora esplicitamente lo concepiamo, si sarebbe
formato nella pratica di una relazione con il “divino” che ha suscitato la
percezione del carattere determinante dell’interiorità responsabile del
singolo, in termini eccedenti la semplice omologazione dell’affinità biologica
e la conformità con il gruppo sociale di appartenenza.
In ogni modo,
da Paolo al Concilio di Trento, la qualità personale dell’atto di fede è una
singolarità cristiana teologicamente fuori discussione. Semplicemente, ora,
possediamo anche le categorie mentali per articolarne il valore antropologico.
Il cristianesimo insiste in questo punto esatto, nel quale il vangelo
“riabilita” la stessa forma religiosa della fede, ricomprendendola come atto
d’amore, ossia come adesione responsabile e libera alla manifestazione e
all’intenzione nella quale Dio si raccomanda come alleato e custode della
felice destinazione individuale. Il primato della forma personale della fede
sigilla la singolarità religiosa della rivelazione evangelica. L’eccellenza
della denotazione del singolo individuo umano come persona, così come l’inviolabilità
che ne consegue, è per così dire blindata in quella figura. In quanto principio
fontale e risolutivo dell’irreversibilità di tale costituzione, l’atto creatore
di Dio precede e fonda ogni altra modalità di riconoscimento che concorre –
persino creativamente – ad istituirne la consapevolezza e l’effettività.
In questa
prospettiva, è custodita la convinzione che la qualità personale non è
“prodotta” dall’affinità biologica della specie o da un qualche principio di
“cooptazione” dell’umano nei confronti del proprio simile. Una simile
convinzione sottrae la qualità personale tanto alla forma della contrattazione
come a quella della donazione intersoggettiva. E precisamente in questo modo ne
conferma anche soggettivamente l’irriducibilità, oltre che custodirne la
proprietà inviolabile. Sino ad ora non è stato possibile trovare, in
alternativa a quello religioso, un fondamento adeguato per questo principio di
uguaglianza nell’indipendenza che costituisce il presupposto in cui la vita
umana del singolo è già originariamente ricevuta come degna di essere condotta
all’appropriazione effettiva di sé. Sembra dunque che la funzione radicale
della testimonianza cristiana – nell’ambito dell’umanesimo come della religione
– abbia titolo per essere considerata un bene rigorosamente comune. In cui è
appunto tutelata la dignità di credenti e non credenti, oltre ogni
appartenenza.
Il rapporto fede / ragione è da sempre
oggetto di analisi e approfondimenti e soprattutto oggi si situa (anche per
merito di Benedetto XVI) al centro del dibattito filosofico-antropologico. E
gli affetti?
Da quando la
modernità ha isolato e privilegiato la funzione di verità – o almeno di
certezza – della ragione che combacia con il puro spettacolo di un’evidenza
anaffettiva e amorale, anche in riferimento alla coscienza affettiva e morale
dell’uomo, il rapporto tra fede e ragione ha subito una trasformazione inedita
e profonda. Gli affetti si sono trovati spinti dalla parte della fede, in
quanto dimensione ulteriore rispetto a quella del logos: sia nel senso di momento extra-razionale della coscienza,
sia nel senso di orizzonte dell’irrazionale. La fede cristiana – e
specificamente quella cattolica – non ha apprezzato, a quel punto, una simile
consegna. La ragione è ovvia. Il logos
del razionalismo moderno nutriva l’ambizione di polarizzare non soltanto la
sfera del sapere incondizionatamente degno di affidamento, ma anche quella del
discorso degno di universale apprezzamento, politicamente legittimato alla
definizione del dominio cognitivo che regola la soglia dell’argomentazione
ammessa alla costruzione sociale del senso. Con questo logos il cristianesimo
aveva lunga dimestichezza, e, quanto alla sua elaborazione culturale, poteva
vantare qualche credito non piccolo. Lo aveva eletto come interlocutore –
proprio il logos filosofico greco,
quello temprato nella critica del mito religioso, in nome dei diritti della
ragione e dell’autodeterminazione etica – della cultura cristiana nascente, a
preferenza della logica spiritualistica, ermeneutica, giuridica, delle grandi
tradizioni religiose. Il logos universale dell’umana ragione era stato
individuato come l’ambientazione più compatibile per una religione non
esoterica, la quale, in controtendenza con l’estetica del mito e lo
spiritualismo della gnosi, puntava sulla qualità umanistica e sulla dignità
creaturale della conoscenza di Dio. La fede cristiana non intendeva svilupparsi
– né religiosamente, né culturalmente – mediante l’opposizione al logos. E a
nessuna delle sue filiazioni, ragione compresa.
Si comprende
dunque che il cristianesimo non volesse diventare il rifugio religioso
dell’irrazionale, né regredire alla forma di una opzione sentimentale, per
quanto apprezzabile, estranea alla vita razionale della coscienza. Non lo ha
voluto nemmeno nei momenti di maggiore tensione, quando cioè la ragione moderna
– sotto forma di scienza e di politica – è andata definendosi non più soltanto
come interpretazione filosofica della coscienza religiosa, bensì come
costruzione razionale e vincolante del senso, definita formalmente
dall’espulsione dei temi e della testimonianza della religione. Nel corso della
vicenda moderna di questa tensione, il cattolicesimo ha perciò trattato con un
certo distacco anche gli sviluppi intenzionalmente religiosi della dimensione
affettiva della coscienza, che rappresentavono l’emergere dell’istanza di
reintegrazione della qualità umana del logos (nell’arte, nella letteratura,
nella spiritualità, nella liturgia). Il tema della costituzione affettiva della
coscienza, cioè, luogo di una vera e propria logica dei sensi spirituali che
restituisce l’integrità del logos umano, è rimasto congelato dall’impegno
spasmodico di non perdere il contatto con l’egemonia razionalistica della
politica, della filosofia, delle scienze.
L’extra-razionale
e il sovra-razionale della fede teologale sono stati definiti, pur nell’ovvia
necessità di custodirne la trascendenza rispetto ai limiti del semplice
costrutto umano della verità e del senso, in termini non antitetici né
sostitutivi alla ragione umana. E’ rimasto impensato, tuttavia, il loro
rapporto con le dimensioni affettive della coscienza: che istruiscono
praticamente e discorsivamente – già nella sfera del logos umano – l’irriducibilità della coscienza razionale al
rispecchiamento del mondo e all’ottimizzazione del calcolo. Questa lunga
parentesi di ritardo del pensiero rigoroso degli affetti, in cui l’intelletto
impara a ragionare in termini di giustizia dei legami, di qualità etica degli
affidamenti, e di trascendenza della destinazione, va ora ricuperata. La
ricerca della conciliazione diretta della ragione e della fede, in assenza di
un pensiero rigoroso dell’esperienza affettiva del senso e della destinazione
trascendente dei legami, è destinata a generare surriscaldamento delle tensioni
accumulate dalla storia di una separazione ostile. La sollecitazione del papa
Benedetto XVI, che ha introdotto nella problematica la necessità di
riconsiderare l’originaria correlazione teologale di eros e agape, come
ambientazione originaria del Logos divino, cristianamente immanente al progetto
della creazione, di cui l’incarnazione, la risurrezione e l’ascensione
orientano e istituiscono il compimento, inaugura la svolta che si attendeva. La
teologia stessa, per prima, non potrà più svolgere l’orizzonte di questa
connessione della ragione e della fede, senza l’elaborazione della
principialità e della trascendentalità di agape. La logica degli affetti viene
allo scoperto, e occupa a buon diritto la prima linea della riflessione sulla
ragione e sulla fede. Riconquista lo spazio ontologico del fondamento, ritrova
la dignità di argomento cardine per la filosofia prima e la teologia
fondamentale. Un gesto di “rottura” e di “liberazione” che inaugura una nuova
stagione del cristianesimo e assumerà rilievo epocale. Non c’è dubbio.
Quale è la differenza tra una rivalutazione
teologica degli affetti e lo sterile sentimentalismo che attraversa molte
espressioni della religiosità contemporanea?
Il rimosso
ritorna, fa saltare il tappo, si vendica di un troppo lungo misconoscimento e
avvilimento. Ora, infatti, la critica del razionalismo anaffettivo e dispotico,
che sacrifica le parti affettive della coscienza al culto di una combinatoria
materiale dell’esistenza insensibile alle ragioni del sentire umano, è un
impulso generale. Tuttavia, non disponendo di un pensiero alto, maturo,
adeguato alla complessità del rapporto fra pathos e logos, improvvisa i suoi
argomenti pescando alla rinfusa nei luoghi trascurati della sua elaborazione
moderna: l’arte dell’età umanistica, la mistica dell’età cartesiana, l’erotica
della reazione romantica. Quanto alla religione, poi, gli elementi di
integrazione sono cercati proprio nello spiritualismo e nell’esoterismo della
gnosi orientale, quella precisamente che è stato oggetto della presa di
distanza dalla quale ha potuto svilupparsi l’umanesimo religioso della nostra
civiltà. La rivalutazione teologica e religiosa degli affetti, che si cerca in
termini di compensazione o di sostituzione del razionalismo, di fatto rischia
semplicemente la perdita del logos. Non rappresenta dunque un superamento,
bensì una sostanziale regressione. Perde la singolarità cristiana, compromette
la riabilitazione del sentire come struttura convergente con la qualità umana
del logos: principio indispensabile alla coscienza riflessiva della libertà e
alla qualità umana dell’esperienza di relazione. Il contraccolpo di questa
evaporazione emozionale e sentimentale dell’ordine degli affetti insidia il
superamento del razionalismo assai più della resistenza aggressiva delle
scienze dure. Personalmente, mi muovo con molta più cautela nella perorazione
di una logica metafisica dei sensi spirituali e del valore strutturante
dell’esperienza estetica, proprio a motivo di questo risucchio. Parlo
preferibilmente di intenzionalità, affidamento, attaccamenti e legami, scambio
e donazione, trascendentalità dell’etico: queste sono le figure strutturanti
dell’ordine degli affetti. Non è questione di emozione e di feeling, o di
cuccia calda. L’ordine degli affetti è luogo di confronto fra le potenze che
muovono il mondo. E’ il campo ontologico delle tendenze e delle forze. Si
definisce per rapporto alla grazia e al peccato, alla giustizia e alla libertà:
gioco delle forze, dalle forme sfuggenti e inafferrabili, in cui si decide la
destinazione del singolo, della storia, e di ogni cosa. Un campo del quale la
filosofia sa pochissimo, ora; e la teologia non sa di sapere. E’ questo, in
ogni caso, il suo livello di esercizio, irriducibile alla chiarificazione degli
aspetti “psicologici” dell’emozione e dell’innamoramento.
E’ stato autorevolmente affermato che la
forma dell’esercizio spirituale ha un’origine filosofica (stoico-epicurea, cfr.
P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia
antica, Einaudi, Torino 2006, soprattutto pp. 29-86). Lei crede nella
praticabilità qui in occidente di un esercizio spirituale senza fede cristiana?
Percorrendo una strada simile non si corre il rischio di spiritualizzare la
filosofia introducendovi surrettiziamente elementi mistici e perdendo la
differenza tra i due ambiti (che invece il cristianesimo, prima di superare,
istituisce e salvaguarda)?
Capisco il
senso dell’affermazione di P. Hadot, del quale ho grandissima stima. In realtà
l’esercizio spirituale è antico quanto la religione. In verità, anzi, la forma
di esercizio spirituale che include e definisce sinteticamente la differenza
specifica dell’ominizzazione è l’esercizio spirituale dell’iniziazione. Il
punto nel quale viene simultaneamente definito il passaggio all’integrazione a
pieno titolo con il gruppo, e simultaneamente
l’assunzione di identità singolare della responsabilità, è appunto segnato
dall’esercizio riflessivo dell’integrazione personale della cultura e nella
cultura umana di riferimento. L’interiorità di questo processo, marca la
differenza spirituale – cosciente, voluta, creduta – rispetto ai semplici
processi mimetici di adattamento e addestramento (alla caccia, alla
coltivazione, alla guerra, alla procreazione e alla cura). Il contatto con
questo grembo spirituale dell’iniziazione – impossibile senza l’individuazione
di un regime di fine, e non di semplice mezzo comunicativo, della parola e
dell’affetto – va mantenuto in ogni ambito di articolazione del discorso e
della relazione umana: filosofia, politica, arte, scienza, lavoro e cura. La
filosofia, nondimeno, consiste nella scoperta della possibilità / necessità di
instaurare una distanza critica nei confronti dei propri pensieri e dei propri
attaccamenti, per ricuperarne la qualità veritativa e la giustificazione
intersoggettiva, che vanno altrimenti perdute nella deriva di
autoreferenzialità che insidia il puro abbandono a loro consumo interiore. (Del
resto, anche nell’ordine pratico degli affetti, la sollecitazione ad
abbandonare la casa paterna e materna, per allacciare nuovi legami, impone la
mediazione di analogo processo di presa di distanza, che corrisponde a
specifici dispositivi di iniziazione). La custodia di questa differenza è stata
apprezzata dal cristianesimo come un elemento necessario per la lealtà
intellettuale della testimonianza pretesa veritativa del Logos e per la dignità
della pretesa universalistica iscritta nella sua incarnazione (irriducibile
all’autoreferenzialità storica e culturale, religiosa ed etnica del suo
insediamento).
Un esercizio
spirituale che, nella cultura occidentale, prescinda dall’istruzione cristiana
sulla qualità discorsiva e affettiva del logos umano (quindi dalla
conciliazione intersoggettiva e dalla destinazione creaturale dello Spirito), dovrebbe
inevitabilmente essere pensato in termini di estraniazione nei confronti
dell’irrevocabile sigillo personale dell’ethos umanistico di cui vive l’intera
modernità. E in termini di rimozione della conquistata dignità di un tratto
interlocutorio e dialettico con il divino medesimo, che con quel sigillo della
qualità dell’essere personale fa tutt’uno. L’esercizio spirituale, da noi, non
può più essere sottratto al tema della dignità del medio corporeo degli affetti
più sacri e più cari, né coltivato al di fuori della dignità interlocutoria in
cui si decide la destinazione – e non la sola iniziazione – dell’esercizio
spirituale della libertà.