La fede è femmina, essa si
determina nella sighé (σιγή), parola che dobbiamo mantenere al
femminile e tradurre con silenziosità (anche se poi, per
comodità, adotteremo la forma più comune ed eufonica “silenzio”). Questa è la
prima considerazione che madre Maria Ignazia Angelini nel suo difficile e
affascinante testo, Un silenzio pieno di sguardo, mi induce a
compiere. Ecco: a far giustizia delle tante vuote retoriche neofemministe sulla
Chiesa maschile ecc. ecc., un testo radicalmente femminile, in radicale
consonanza con la femminilità della fede cristiana. Direi che tutto qui è
donna, anche la forma, anche il logos, anche lo stile
dell’argomentare che cerca di costruire un tessuto di evocazioni e di
suggestioni, dentro il quale il lettore maschio fatica a entrare, se non
cercando in esso una perduta complementarietà, dopo aver passato troppo tempo a
contemplare l’ombelico dei propri sillogismi, onfaloscopia, come la chiamavano
i polemisti antichi, per certi versi inevitabile.
Per me, dunque, un esempio
straordinario, quello di madre Maria Ignazia, di pensiero al femminile che
nemmeno ho trovato nel tutto sommato facile procedere di una grande e seria
femminista come Adriana Cavarero che, criticando il freddo razionalismo
platonico, se ne fa nondimeno irretire, almeno quanto al procedere lineare e
consequenziale dell’argomento filosofico. Al contrario il testo della monaca
milanese è un tessuto, come detto, e fa
apparire trame e orditi di esperienza, di autenticità pratica – la pratica
della preghiera costante nell’abbazia di Viboldone –, di impegno riflessivo
dell’anima, laddove la sighé, dopo essere stata condizione
antropologica, giunge come sigillo e compimento teologico del vissuto di fede.
Ma a che proposito e perché parlo
di femminilità. Non è solo una questione di stile, ma anche e soprattutto di
contenuti. La sighé non è semplicemente il “silenzio tranquillo del
raccoglimento”, né ha il carattere di condizione del fedele nel suo
intinerarium mentis in Deum quando viene tratto dentro la vita pleromatica
e lì si annulla, come in un abisso infinito. Neppure si può descrivere come
un’ascesi che disciplina la lingua e la parola evitando la loro dispersione
nella chiacchiera mondana. No, è qualcosa di più e d’altro, avverte madre Maria
Ignazia. Esso mantiene un carattere dialogico e ha forse il suo modello
nel perfetto e silenzioso dialogo intratriinitario, manifestandosi solo successivamente
nel rapporto Creatore -creatura grazie all’immagine di sé che il primo lascia nella
seconda. In questo dialogo si determina la peculiarità intenzionale del
silenzio cioè di apertura della coscienza rivolta-a e quindi disponibile a
ricevere ciò a cui si rivolge. Questa ricezione è ascolto e al tempo stesso
interrogazione e implica il Mistero come suo oggetto intenzionale, cioè “la
realtà intuita come abitata da una trascendenza”. La Parola è detta una volta per tutte nella
creazione di un mondo meraviglioso che si dà alla nostra meravigliata
contemplazione. Lì c’è silenzio e stupore. Ma la Parola venuta al mondo prende
una carne che viene ferita e corrosa sulla croce fino al compimento finale.
Anche ciò avviene nel silenzio. È l’abisso di una sofferenza silenziosa che
cambia la matrice di peccato insediatasi nel mondo e la rovescia nello
splendore di una gloria eterna. Ma ciò, appunto, avviene nel silenzio, silenzio
che è massimamente sonoro come la sofferenza è massimamente gloriosa. La
dimensione contemplativa del silenzio è lo sforzo più intenso di accoglienza e
di conformazione al silenzio glorioso del Verbum consummatum, per aprire
la coscienza credente alla capacità di essere affetti da Cristo, colpiti in pieno
perché pienamente esposti all’onda d’urto della redenzione mediante la croce.
Il silenzio consente di volgere lo sguardo a colui che hanno, abbiamo, trafitto
e tramite questo sguardo agli altri, al mondo in una diversa luce di verità. Il
silenzio è quindi pieno di sguardo. Mi sembra di capire questo nell’espressione
così evocativa di madre Maria Ignazia: lo sguardo è lo sguardo ricevuto
dall’assoluto trafitto ed esaltato nell’agonia della croce, che emette lo
spirito nel silenzio della creazione e la cui misericordia trasformatrice
colpisce gli occhi e l’anima di chi guarda in silenzio attonito e stupefatto.
Questi dispone la sua persona, così affetta, ad una contemplazione che cambia
radicalmente il segno della sua vita dalla miseria alla gloria, ridestando una
nuova capacità di guardare che riempie il mondo: lo sguardo di chi porta una
buona notizia, lo sguardo dell’evangelo, lo sguardo annunziante di una nuova
parola nata da quei silenzi.
È evidente che qui il maschile e
il femminile sono categorie molto riduttive. Ma è altrettanto vero che la
capacità di contemplazione ricettiva, stupefatta e silenziosa è un tratto
fondamentale della femminilità. madre Maria Ignazia arriva a citare un commento
di Kierkegaard a un passo di san Paolo, 1Tm 2, 11-12 oggi ritenuto un po’
imbarazzante da molti esegeti e anche da qualcuno che troppo spesso sente di
doversi scusare per essere cristiano: “La donna impari in silenzio, con tutta
sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge
all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo”. Ecco che cosa dice
il filosofo danese: “E tu donna, a te è riservato di essere l’immagine
dell’uditore e del lettore della Parola che non dimentica. Tu osserva nel modo
giusto l’ammonizione dell’Apostolo: ‘La donna taccia nell’assemblea’, stia in
silenzio e il suo silenzio esprima quanto profondamente ella fa tesoro della Parola.
Non credi al silenzio? Io sì. Permettimi di descriverti la donna uditrice della
Parola che non dimentica la Parola; e non dimentica, dopo questa descrizione,
di diventare anche tu così. Ella tace, ma tu domandati: che significa questo
silenzio? Riflettiamo che proprio questo silenzio è ciò di cui c’è bisogno
perché la Parola possa avere presa sugli uomini. L’umanità attuale, infatti, è
malata. E se uno chiedesse: ‘ Che si deve fare’, risponderei: ‘Anzitutto
procura silenzio! Tutto, infatti, oggi è rumore’ […]. Promuovi il silenzio!’ E
questo oggi lo può la donna. Il silenzio è come un’atmosfera, l’atmosfera
fondamentale in cui ci si immerge: perciò si dice ‘fondamentale’, perché sta a
fondamento. Ebbene la donna, che si specchia nello specchio della Parola, ella
diventa veramente silenziosa”.
Il suo silenzio, nato all’ombra
della Parola, è veramente eloquente e in grado di insegnare più di quelle parole
nate da un professionismo retorico, abile nel gestire questo strumento
piccolissimo, la parola, con cui fare cose grandissime (Gorgia). Se oggi c’è un
“cultus” da condannare, un cultus né maschile né femminile, ma proprio
di quell’umanità indifferenziata che vive al livello delle dinamiche ripetitive
del desiderio e del consumo, è proprio la retorica. La retorica, ci insegna
Carlo Michelstaedter, è l’attitudine utilitarista a chiedere alle cose di poter
continuare a protrarre se stessi nel tempo, senza mai sfiorare la questione del
senso, perché esso risiede nella dilazione continua della fine, che nondimeno
verrà a troncare il processo di metastasi viziosa della loquacità pubblicitaria
(perché promuove sé illudendosi di guadagnare a sé il consenso del mondo) nel
silenzio malato della disperazione. Il silenzio sano della contemplazione ne è
il grande antidoto, perché insegna a distruggere l’essenza autocentrata e
autoreferenziale della retorica. Madre Maria Ignazia, che propone una silloge
commentata e ragionata della sapienza dei padri del deserto di ambito
ellenistico e siriaco sul silenzio, coglie nel segno quando riporta questo
apoftegma: “Un fratello che viveva con altri fratelli chiese a padre
Bessarione: ‘Che cosa debbo fare?’. Dice a lui l’anziano: ‘Taci e non misurare
te stesso’”. Quanto diventiamo stranieri al mondo della misura, non quella
metafisica, ma quella statistica ed economica, applicando questa continenza
della comunicazione retorica, che esalta sé come centro mentre misura con i
propri criteri l’altro per dominarlo e assoggettarlo? Il silenzio realizza
esattamente nella contemplazione affettiva del Mistero di un’alterità smisurata
questa estraneità al mondo della mathesis immanente, circolare, nutrita
di parole funzionali che non dicono ma se-ducono. La proposta del silenzio anti
retorico è anche una proposta di xeniteia, di estraneità, dell’essere
straniero mediante una forma discreta ma radicale di anachoresis, di
allontanamento dalla città e dalla responsabilità civile. La vita monastica,
dal mondo del cristianesimo primitivo dei padri del deserto, attraverso la
grande esplosione dell’epoca medievale, continua a parlarci, benché con la
discrezione umile che si addice non più alla gloria dei trionfi e dello
splendore dell’epoca delle cattedrali, ma all’umiltà di una fede crocifissa nel
mondo moderno. Continua a parlarci di come exire de saeculo, pure dentro
la vita nel mondo, di una disciplina ferrea che diventa intensamente mariana
quando invoca l’umiltà dei servi che silenziosamente operano nel loro
essere-risposta a un dono, nel loro essere dipendenti da una grazia. La forza
potente dell’ascolto produce in loro una differenza ontologica che è l’alterità
da questo mondo e dalle sue logiche. Il ritiro agonico dal mondo, nella lotta
incessante contro il profluvio di cose e di parole, è condizione per tornare a
fecondarlo mediante il silenzio eloquente dello spirito, che parla ogni lingua
ma procede dal silenzio del Padre e del Figlio, nel dialogo dell’abbandono di
Cristo sulla croce come ultimo atto della sua relazione terrena con il Padre: per
Isacco di Ninive, sottolinea madre Maria Ignazia, la funzione generativa del
silenzio è dominante, è come il grembo del senso, il principio di scioglimento
della durezza del vivere e del cuore, è il “mistero del secolo futuro”, mentre
“le parole sono l’organo di questo mondo”.
Lasciarsi coinvolgere in questa
dinamica di rifondazione del mondo a partire dalla croce, significa rispondere
sì a quel Dio “che non si compiace della veemenza del tuono, né dell’ardore del
fuoco”, ma si è manifestato “nella dolcezza di un sottile silenzio”. “Dio - dice
Efrem il Siro commentando l’episodio di Elia sull’Oreb (1Re 19,12) - prima
rivela la sua forza trascendente” e spaventa Elia perché il suo cuore “si
allargasse così da poter contenere lo Spirito, la forza e la profezia […] . E
dopo tutto questo “Elia intese il mormorio di un silenzio leggero” e Dio
“cominciò a rivelarsi amichevolmente, dolcemente a Elia”. La dolcezza di Dio
sull’Oreb trova il massimo compimento nella croce con la quale il Dio
misericordioso muore nel silenzio cui vengono condannati i servi, per offrire
l’eterna compagnia della sua dolcezza a chiunque ascolti e riceva la grazia che
sgorga dal suo sacrificio. Siamo molto al di là dello zelo per la giustizia che
aveva caratterizzato l’azione del profeta Elia nei confronti del re idolatra
Acab e della regina Gezabele (1Re 17-18): “Perché non imiti dunque la dolcezza
del tuo Signore, commenta Efrem, non addolcisci lo zelo che urge per punire i
figli del tuo popolo. Così da diventare un intercessore per loro, invece che il
loro accusatore?”. Veramente è figura della croce questa improvvisa inversione
della lotta nella dolcezza, che ribalta il senso comune e ambisce ad agire su
un altro piano, non il grido forte della battaglia, ma il silenzio sottile che
lascia esterrefatti, stupefatti, senza parole per come si esprime l’onnipotenza
amica, la violenza amante, la forza benevolente di Dio, che distrugge il nemico
salvandolo, e lo salva sacrificando se stesso. E quale insegnamento continua a
fornire a noi oggi questo modello del profeta e del Figlio, in un’epoca in cui
coloro che conducono guerre fanno fuoco sempre in nome della giustizia,
sentendosi come strumenti di Dio, prima di portare nei suoi confronti l’enorme
responsabilità della fede e dell’obbedienza.
Fino ad ora mi era parso che il
silenzio di Dio fosse da leggere nel modo di Sergio Quinzio: quasi un ritirarsi
di Dio, le cui promesse di redenzione appaiono continuamente contraddette da
una storia che nega nei fatti ciò che la fede afferma, cioè che Egli ne è il
signore. Dio rimane silente certo di fronte al dolore e al male, ma in
particolare a un male che lo riguarda da vicino: l’apostasia, il nichilismo, la
disfatta esteriore e interiore dei cristiani, che non perdono per la normale e
financo prevedibile incoerenza degli uomini, ma per l’abbandono orgoglioso
della fiducia e del timore nei riguardi dello stesso nome di Dio.
Invece madre Maria Ignazia mi
suggerisce qualcosa di diverso: dal silenzio dell’ Oreb a quello del Verbum
consummatum, fino al silenzio dell’eterno colloquio tra le persone della
santissima Trinità, tutto conduce ad altri silenzi e ad altre parole: “L’uomo è
troppo piccolo per comprendere tutti i linguaggi. Se potesse comprendere il
linguaggio dei Vigilanti (angeli, n.d.r.), allora potrebbe elevarsi fino alla
comprensione del linguaggio originario che tra loro parlano il Padre e il
Figlio. Ma il nostro linguaggio è straniero alla voce degli animali e il
linguaggio dei Vigilanti è straniero a ogni altro linguaggio. Il linguaggio con
il quale il Padre parla al Figlio è straniero anche ai Vigilanti. Ma quale
bontà, la sua. Come ha rivestito tutte le forme per consentirci di vedere, così
ha adottato tutte le voci per trasmetterci il suo insegnamento. La sua natura è
unica, ma così può essere vista. Il suo silenzio è unico, ma può così venir
inteso”.
E tale silenzio, che porta con sé
la radice teologica di ogni bellezza, cioè la purissima gratuità – che bella
definizione! più radicale di quelle semplicemente filosofiche che alludono
a integritas, proportio e claritas
– promuove il silenzio dell’ascolto e della meraviglia che, poi, effonde nel
canto e nel giubilo. Madre Maria Ignazia fa più volte riferimento ad Agostino.
Io mi permetto di aggiungere Jacopone da Todi, il cui Iubelo del core mi
sembra si attagli eccezionalmente bene a questo contesto, cantando quello che
potremmo dire il momento effusivo del silenzio accogliente della fede, proprio
di un cuore ferito da Dio, cioè affetto fino alla lacerazione da un amore senza
misura:
O iubelo de core,
che fai cantar d’amore!
Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare,
e la lengua barbaglia
e non sa que se parlare;
drento no ‘l pò celare,
(tant’è granne!) el dolzore.
Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.
Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’a ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de que sente calore.
O iubel, dolce gaudio
ch’è’ drento ne la mente!
Lo cor deventa savio
celar so convenente;
non pò esser soffrente
che non faccia clamore.
Chi non à costumanza
te reputa empazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito.
Dentr’a lo cor firito,