La
politica è un compito per intellettuali? A questa domanda, fatta in pubblico,
si candiderebbero a rispondere due gruppi di persone.
Il primo gruppo è quelli di coloro che si considerano
chiamati in causa direttamente; vale a dire quelli che qualificano se stessi
come intellettuali. Di molti di essi sappiamo che parlano di qualsiasi tema con
voce pomposa, le sopracciglia aggrottate e l’irresistibile inclinazione a condurre
tutte le conversazioni negli angusti limiti di termini tecnici, più o meno
adatti alle stesse nozioni tecniche della materia di cui si discute. Degli
altri sappiamo che sono molto raffinati: tanto raffinati, tanto raffinati che
non si può uscire di casa senza timore che un alito di vento li uccida. Questi
si radunano in chiesette semi esoteriche, da cui in punta di piedi offrono ai
giochi di parola alcune gocce di bellezza accessibili ai soli iniziati. Se
qualcuno domanda del contributo di quelli con la voce pomposa e di questi super
raffinati, all'impresa del pensiero umano, arriverà a sapere con stupore che
ciò che gli uni e gli altri hanno partorito è solo qualche riga; che molti di
essi hanno prodotto cento pagine di scarsa originalità a proposito delle quali
nessuno capisce come gli interessati possono essersi formati la convinzione
confortante della loro superiorità sopra il resto dei mortali; e che alcuni
hanno scritto diversi inintelligibili
volumi con i quali al momento angosciano il volgo dei lettori, umilmente convinto
della sua incapacità di penetrare il meraviglioso segreto della sfinge
collocata di fronte a loro; fino a che qualche persona dotata di normale salute
e libera dal rispetto umano, rivelerà al volgo dei lettori come quel povero
simulacro di sfinge non contenga alcun segreto.
Il secondo gruppo è quello che chiamerei degli
"aristofobi" (quale posto migliore dove collocare questa parola che
qualche riga dedicata a don José): coloro ai quali "dà fastidio" la
gente che si impegna a cercare spiegazioni difficili alle cose: "Smettila
con gli intellettuali; gli intellettuali non ne imbroccano una; ciò di cui c'è
bisogno è gente con onore e buon senso. Con una dozzina di politici decenti, la
Spagna sarebbe ricostruita in un paio d'anni...". Così queste persone sono
solite formulare in un minuto diagnosi e terapia per i mali della Spagna.
Poiché
tra di noi le posizioni estreme si elaborano solo nella dimensione dialettica
(perché dopo, negli affari direttamente sociali, tutti finiscono per capirsi e
brindare a tarallucci e vino) quelli che non militano nel primo dei gruppi
immaginati si arruolano animosamente nel secondo. O sedicenti
"intellettuali" o gente che sa a memoria chi sono gli intellettuali e
a che cosa servono. È chiaro che né sugli uni né sugli altri bisogna fare
affidamento se si vuole dedicare qualche minuto a meditare la seguente
questione: la politica è un compito per intellettuali?
Nello
specifico la politica non è un compito per intellettuali. Però nient’affatto
per le ragioni che adducono gli "aristofobi". Se una politica non è
esigente nei suoi fondamenti, cioè rigorosa sotto il profilo intellettuale,
probabilmente si riduce ad un batter d'ali sopra la superficie di tutto ciò che
è mediocre. Si deve allora ricercare una spiegazione più profonda al reiterato
fallimento degli intellettuali in politica. Forse vale la seguente.
I
valori nella cui
ricerca si impegnano gli intellettuali sono di natura sovratemporale: la verità
e la bellezza, in assoluto, non dipendono dalle circostanze. La scoperta di una
verità è sempre tempestiva; l'indagine di una verità non ammette vincoli dovuti
a considerazioni esterne. Uno dei ritratti più belli della vocazione
scientifica risiede in questa abnegazione con la quale gli operai
dell'intelligenza si danno da fare a volte per seguire tracce alla cui meta i
limiti della vita impediranno di giungere. Legioni di saggi oscuri camminano
attraverso deserti verso terre promesse che i loro occhi mai vedranno. Al contrario,
la politica è anzitutto temporale. La politica è una partita con il tempo nella
quale nessuna mossa si può rimandare. In politica vi sono compiti da portare a
termine e bisogna farlo nei tempi giusti. Il binomio di Newton rappresenterebbe
per la matematica lo stesso se si fosse elaborato dieci secoli prima o dieci
secoli dopo. Al contrario, le acque del Rubicone dovettero bagnare gli zoccoli
del cavallo di Cesare in un momento preciso della storia.
Un
uomo educato nella ricerca dei valori eterni, vale a dire un intellettuale, può
in qualsiasi momento sentirsi chiamato alla politica. Talvolta non è nemmeno
morale resistere alla chiamata. Vi sono frangenti di grave turbamento del mondo
e della patria, nei quali può risultare mostruoso rimanere sotto la lampada
della propria cella. Però se si risponde alla chiamata della politica non lo si
può fare a metà. Se non si può flirtare con la scienza - don José lo ha
detto - con la politica tanto meno. E non basta prendere una decisione più radicale
di quella di un semplice flirt, bisogna rendersi conto che il passo
dalla scienza alla politica implica una tragedia, ossia l'assunzione di un
nuovo destino e la rottura con quello precedente. Quando si fa carico di una
missione politica, l'intellettuale rinuncia alla più cara delle sue libertà:
quella di rivedere continuamente le sue proprie conclusioni; quella di
conferire alle sue conclusioni un carattere provvisorio. Il metodo filosofico
parte dal dubbio: mentre si opera nel campo della speculazione si ha non solo
il diritto ma anche il dovere il dubitare e di insegnare agli altri a farlo
metodicamente. In politica no: tutta la grande politica trova il suo fondamento
al lume di una grande fede. Faccia a faccia con il mondo esterno – rivolta verso
il popolo e verso la storia - la funzione del politico è religiosa e poetica. I
fili della comunicazione del capo con il suo popolo non sono semplicemente
mentali, ma poetici e religiosi. Precisamente affinché popolo non perda se
stesso nel magma dell’amorfo e dell’indifferenziato - affinché non perda la sua
colonna vertebrale - la massa deve seguire i suoi capi come se fossero profeti.
Questa relazione di reciproca compenetrazione della massa e dei suoi capi si
consegue con un processo simile a quello dell'amore.
Da qui l'impressionante gravità dell'istante
nel quale si accetta una missione di governo. Solo con l'atto di assumerla si
contrae l'importante e ineludibile impegno di rivelare a un popolo - incapace
di trovarlo da sé in quanto massa - il suo autentico destino. Colui che azzecca
la prima nota nella musica misteriosa di ogni tempo non può esimersi dal
terminare la melodia. E porta sulle sue spalle l'illusione di un popolo e tiene
aperto il conto tremendo di come la amministra. Che cosa non deve essere la
responsabilità se, come il poema di Browning, trascina una turba infantile
dietro una bugia per seppellirla sotto la montagna dalla quale non si torna.
Don
José Ortega y Gasset - di cui si festeggia in questi giorni il venticinquesimo
anno di docenza - ha udito la chiamata della politica. In quest'ora decisiva chi
con ragione potrà negargli la chiaroveggenza critica e chi la limpidezza morale dei suoi comportamenti?.
Egli non dovette esprimere a voce alta il dolore della Spagna - "sono
abituato a gridare raramente", ha detto - ma noi, gli uomini della
generazione del ‘98, capiamo molto bene il bruciore profondo che la sobrietà
castigliana dei suoi gesti nasconde. Forse perché abbiamo imparato a ritrovarla
nei suoi libri. Poiché ci sale alla gola la mediocrità di una Spagna senza
un'anima comune, che, togliendosi il coturno dell'impero, non trovò modo di
camminare se non in pantofole! No, don José non volle fare avere con la
politica un flirt, ma si diede per vinto. Quando scoprì che
"quello", ciò che era, non era "quello", ciò che egli voleva
che fosse, girò le spalle con disincanto. E i capi non hanno diritto al
disincanto. Non possono consegnare alla capitolazione l’illusione malconcia dei
tanti che li seguirono. Don José fu severo con se stesso e si impose una lunga
pena di silenzio; però non era il suo silenzio, bensì la sua voce quella di cui
necessitava la generazione che egli lasciò alle intemperie. La sua voce
profetica e la sua voce di comando.
Qualcun
altro forse dichiarerà nulli questi anni di impegno politico. Reintegrarsi nei
vecchi ruoli con un "qui non è successo nulla". Don José sa che nulla
di ciò che è successo veramente si può dichiarare nullo. I comportamenti
tragici - come la militanza politica - sono senza ritorno: o giungono all'altra
riva o si stabilizzano nella quotidiana tragedia, meravigliosamente
depuratrice, di constatare la frustrazione della più ardente speranza della
propria vita.
Però
nulla di autentico si perde. Quando un "spirito superiore" si
consegna interamente, sino ad esaurirsi in una frustrazione generosa, mai il
sacrificio si dilapida. Quelli che vengono dopo hanno già acquisito anche
l'apprendistato dagli errori. La critica precorritrice ha sfrondato molto.
Altre braccia, con gesti semplici e colpi più forti, porteranno a termine il
compito. Infine - forse in un finale non previsto nei momenti della critica
precorritrice - quelli che arriveranno avranno un ricordo di gratitudine per
quelli che, se non videro del tutto la verità o non ebbero la forza per
difenderla, disfecero a coltellate molti spaventapasseri armati di menzogne.
Una
generazione che quasi si svegliò all'inquietudine spagnola sotto il segno di
Ortega y Gasset ha imposto a se stessa, anche tragicamente, la missione di
restituire la colonna vertebrale alla Spagna. Molti di quelli che si
arruolarono avrebbero preferito seguire, senza fretta né impeto, la vocazione
intellettuale...
Il nostro tempo non dà tregua. A noi è stato dato un destino di guerra nel quale senza mercanteggiamenti bisogna rimetterci la pelle e le budella. Per fedeltà al nostro destino andiamo di luogo in luogo sopportando il rossore delle manifestazioni pubbliche; dovendo urlare quello che abbiamo perseguito nella più silenziosa austerità; soffrendo le deformazioni di coloro che non ci capiscono e di quelli che non ci vogliono capire; detestando noi stessi in questo assurdo simulacro consuetudinario di conquistare "l'opinione pubblica", come se il popolo, che è capace di amore e di collera, potesse essere collettivamente soggetto di opinione ... Tutto questo è amaro e difficile, ma non sarà inutile. In queste nozze d'argento di don José Ortega y Gasset gli si può offrire il regalo di un vaticinio: prima che giunga a termine la sua vita, che tutti desideriamo lunga e che, per essere sua e lunga, deve essere anche feconda, arriverà un giorno in cui al passo trionfale di questa generazione, della quale fu lontano maestro, egli debba esclamare compiaciuto: "Sì, è questo"(1)
José Antonio Primo de Rivera
[Haz 12 (1935), in: José Antonio, Textos revolucionarios, Ediciones 29, Barcelona, 1984, pp. 163-168]
(tr. it di Massimo Maraviglia)
(1) Il 9 settembre del 1931, in pieno dibattito costituzionale, Ortega Y Gasset pubblicò nel giornale "Crisol" un importante articolo intitolato "El aldabonazo" (Il colpo), in cui manifestava tutti i suoi dubbi sulle derive politiche e culturali della neonata seconda repubblica spagnola, subito avvelenata dai radicalismi delle sinistre socialcomuniste e anarchiche: "Una quantità immensa di spagnoli che collaborarono con l'avvenimento della Repubblica mediante la loro azione, il loro voto o con quanto è di tutto ciò più efficace, la loro speranza, si dicono ora tra l'ansia e lo scontento: 'Non è questo, non è questo! La Repubblica è una cosa. Il radicalismo un'altra!'"
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.
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