venerdì 30 settembre 2022

Abbattere i bastioni. Il Miur merita un nuovo corso

 

I simboli valgono. L'universo si comprende mediante i simboli e l'uomo, nel suo sforzo di capire le leggi di sé e del mondo, è essenzialmente un animale simbolico. L'apprendimento, da questo punto di vista, è un cammino meraviglioso in una foresta di simboli, della quale pian piano si imparano a conoscere i sentieri e le radure.

L’egemonia gramsciana di un certo pensiero e di un certo costrutto ideologico si è espressa nella nostra storia nazionale mediante l’accaparramento sistematico dei simboli. È stata costruita una fortezza attorno ad alcuni santuari in cui si è coltivata la proprietà privata ideologica del simbolo, realizzando una sorta di recinzione o di enclosure di un bene comune. La scuola, le università che sono alla radice della produzione scientifica, artistica, letteraria delle immagini del mondo, sono state considerate appannaggio di una parte politica. Poi sono state manipolate introducendo virus ad apparente bassa tossicità ma alla lunga in grado di modificare il genoma della nostra visione della vita e delle cose. Il livellamento verso il basso di una cultura che elabora neolingue politicamente corrette e somministra minestroni morali confezionati dalle grandi multinazionali pedagogiche (quella costruttivista, egualitaria, cognitivista, “democratica”) la cui radiazione elettromagnetica si sposta invariabilmente verso il rosso, è il lavoro che dentro la cittadella proibita è stato portato avanti.

Un’istituzione della Repubblica, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è stato trasformato in una fucina di direttive “riformatrici” che hanno ucciso il merito e la cultura, violentando la sua prerogativa di aprire orizzonti. Ciò è avvenuto con il pretesto di una considerazione puramente quantitativa della sua missione amministrativa: sfornare più diplomati e più laureati, non importa come diplomati e come laureati. La prassi provinciale di un forzato adeguamento alle mode della più scialba socialdemocrazia anglosassone o nordeuropea ha ulteriormente pesato. Così si è proceduto allo smantellamento di un edificio antico e splendido dove soggiornava uno stile italiano dell’educazione e della formazione. Storia, tradizione, inventiva, fantasia, critica, serietà, acribia e studio sono state messe alla gogna egualitaria delle competenze e delle abilità. Perché “eccellere non è democratico”, come disse un grigio funzionario americano degli anni Cinquanta, e la scuola deve produrre non tanto cervelli inquieti, quanto buoni cittadini, giudiziosi, obbedienti, che pensano e vogliono quello che pensano e vogliono tutti, soprattutto il potere. Ora un piccolo-grande evento elettorale ha lasciato la cittadella dell’educazione momentaneamente sguarnita e le sue robuste mura senza i suoi feroci “Vopos”. È il momento di abbattere i bastioni, entrare e rinnovare. È un’occasione da non perdere perché già qualcuno si sta muovendo ripristinare lo status quo ante. È un Kairòs, un tempo opportuno che, sin dall'antichità greca, si rappresentava come una figura alata e calva, con un simpatico codino sulla fronte. Afferrare il codino è essenziale per i nostri destini. 

Non c’è questo o quel ministero importante. In ogni settore della vita politica si prendono decisioni a seconda delle circostanze e dei vincoli e nella misura in cui è necessario. Altrove, per esempio agli esteri, decidere è necessario… ma non si può e se la nave affonda, possiamo al limite apparecchiare la tavola per il tè. Nelle politiche educative decidere è altrettanto necessario e si può, a patto che lo si voglia e lo si pensi. Se vogliamo fare un'altra rivoluzione d’ottobre, ma bella ed entusiasmante e che duri forse più di settant’anni, bisogna partire da lì. Risollevare l’Italia si può facendo quello che va fatto dal punto in cui va fatto. Vorremmo che un patriottismo intelligente e consapevole indirizzasse tutti i suoi sforzi a quella meta, a quella fortezza da assaltare per cominciare a redistribuire i suoi tesori a tutti gli italiani, soprattutto ai giovani che ora più che mai hanno bisogno di sperare e di puntare in alto.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

mercoledì 21 settembre 2022

Il voto critico

 


Può essere il voto al partito di Giorgia Meloni un voto critico? Che cosa è un voto critico?

Tra i diversi approcci a questa un po’ consunta liturgia repubblicana si possono individuare i seguenti:

1) il voto come esaurimento dei doveri civici, segreto, borghese, timido, inconfessabile, che prelude ad un immediato ritorno o riflusso nel privato, considerato come la dimensione della vita autentica e originaria;

2) il voto come corsa alla partecipazione democratica, suo “punto più alto”, sua espressione massimamente egualitaria, esercizio di un diritto fondamentale che consente al sistema sociale di reggere nel complesso delle sue ideologie e delle sue illusioni;

3) il voto come attesa di legittimazione popolare da parte di una classe di professionisti della politica, alcuni dei quali forniti di sufficiente cinismo per supplire alla carenza di visione generale (e sono i migliori), altri patenti rappresentanti delle classi inferiori della cultura, ma discreti giocatori al tavolo della clientela e della crassa furbizia arrivistica. Naturalmente quest’ultimo gruppo spera nelle opzioni 1 o 2 da parte del corpo elettorale;

4) il voto che canalizza opinioni negative, sentimenti di rifiuto, frustrazioni più o meno legittime da parte dei cittadini, e che gli psicologi classificherebbero come evacuazione di elementi beta (W. Bion): pezzi di esperienza non digeriti dalla ragione o dal complesso della personalità, che vengono restituiti sottoforma di gesto impulsivo, non ragionato, confuso benché emotivamente energizzato. Potremmo chiamarlo voto borghese di protesta? Espressione di una rabbia che la paura e l’incompetenza confinano nella solitudine della cabina elettorale.

5) il voto di sistema: potremmo dire il voto di coloro che esibiscono orgogliosamente un’appartenenza che è fonte di integrazione e prestigio sociale, apprezzato dai media, caldeggiato dai settori più reazionari della politica, tutto volto a consacrare l’esistente, pur ammantandosi di una certa aura di originalità e issando la bandiera di un’apparente moralità alternativa. È tipicamente il voto a sinistra.

Questa classificazione non vuole essere esaustiva ma semplicemente esibire delle possibilità, che si intrecciano, si confondono, si scambiano, si oppongono. Come raggi che puntano al centro, tuttavia, ognuna delle forme accennate concorre a manifestare la crisi della democrazia e della convivenza civile, cioè di quella articolazione della convivenza che si è data storicamente nella disciplina della democrazia.

La sua involuzione oligarchico-plutocratica sembra un processo irreversibile: al suo interno le élites del denaro, dell’ideologia e della corruzione politica prosperano.

Oggettivamente i programmi dei partiti ne rimangono contaminati producendo ricette al tempo stesso poco ambiziose e assai demagogiche: poco ambiziose perché costitutivamente incapaci di osare il nuovo, demagogiche perché solleticano costantemente i bassi istinti di quel bestione acefalo che sarebbe il popolo quando fatto oggetto della prassi opportunistica dei sofisti di questo tempo, prezzolati prestigiatori e illusionisti del teatro sociale. Costoro finiscono per chiamare l’intera società a un gioco, ad un rituale vuoto, ad una commedia senza autori e senza trama in cui, nel rimando all’infinito dei poteri e delle responsabilità e nella negoziazione segreta degli utili e delle plusvalenze, tutti perdono.

Soggettivamente la questione rimane aperta, deve rimanere aperta, perché la libera consapevolezza razionale deve sempre essere in grado di emanciparsi dai meccanismi consolidati della routine sociale. Noi infatti rimaniamo capaci di pensare, di immaginare, di costruire modelli, di cercare verità e di mettere in moto nuove, imprevedibili, divergenti e sediziose catene causali.

Soggettivamente la democrazia può sostanziare le prassi elettiva -  che, osservava Platone, non è tipicamente democratica - con il sale della virtù. Democrazia e virtù vanno di pari passo, ma non nel senso datole da Robespierre: il fanatismo di un’intransigenza occhiuta e criminale che è disposta ai sacrifici umani per onorare il Dio assetato di sangue del Migliore dei Mondi Possibili (la virtù che ama lubricamente e si accoppia in indecenti congressi carnali con il Terrore). No, la virtù democratica andrebbe intesa nel senso di una capacità di porsi seriamente il problema del destino comune, di una prassi ragionevole, di un “vicendevole agire secondo concetti” il cui compito costante è l’elevazione reciproca ad una qualità di vita più alta e più perfetta, cioè, direbbe Gentile sulla scorta dell’utopia idealistica fichtiana, alla vita dello spirito e della cultura. Tale virtù renderebbe ciascun componente della comunità capace di autogoverno e di governo. Il difetto di tale virtù è di essere tale. Ossia seria, impegnativa, difficile, bella e per certi versi inarrivabile. Cioè per sua natura cosa di pochi. La democrazia è un asintoto che all’infinito tocca la perfetta aristocrazia, ma l’asintoto è la precisa e perfetta utopia. Il cuoco di Lenin non sarà mai capace di governare.

L’inarrivabilità oggettiva però non implica l’indifferenza soggettiva. La virtù rimane un compito e un obbligo di ciascuno: essere pronti come se in ogni momento si potesse essere chiamati e determinare quel destino comune di una vita razionale che è la meta di ogni prassi sociale. Essere pronti non è uno slogan, è il precetto evangelico nel quale si sostanzia la virtù democratica la cui formula potrebbe suonare nel modo seguente: agisci in modo tale che i tuoi fini possano essere in ogni momento assunti come i fini del tuo popolo.

Lo slogan di Fratelli d’Italia può quindi essere letto come un’allusione e una via d’accesso alla virtù. Questo può avvenire dentro una dimensione personale, paradossalmente anche a prescindere dai programmi, cioè dalla fragile accortezza comunicativa di questo mondo. A prescindere dagli apparati ideologici costruiti a posteriori su diverse e a volte inestricabili reti di interessi. A prescindere dalle superficialità e dagli errori di prospettiva che giocoforza allignano in un gruppo che media le sue diverse anime non sempre verso l’alto.

Se ciò, malgrado tutto avvenisse, ci collocheremmo alla soglia del voto critico: occasione e apertura che non definisce un’identità in modo grossolano e rapsodico, ma rinvia ad un lavoro e ad un impegno; che è un inizio non un compimento; che è un segno semplice in cerca di una sostanza complessa; che deve fare appello alla persona e alla sua integralità. Il suo carattere critico non allude necessariamente né a un insieme di teorie preconfezionate (i “nostri valori”), né ad un atteggiamento di protesta, né ad un atto di affidamento consapevole ai meccanismi della rappresentanza, né all’assunzione critica, cioè dimidiata e parziale degli scopi del partito (ti voto turandomi il naso, perché mi piaci a metà), ma al senso originario della parola. Il voto critico è un passaggio, la tappa di un cammino pratico, l’episodio di una serie articolata che conduce alla fedeltà a sé stessi e al proprio compito. Una fedeltà che è dunque al tempo stesso conservatrice in quanto fedeltà e rivoluzionaria in quanto rivolta al futuro di ciò che si deve realizzare e della vita che si deve costruire.

Il voto a Fratelli d’Italia, del cui simbolo mi approprio personalmente, mettendovi, con un pizzico di ironia socratica, alla base un libro, cioè il Mezzo della sapienza d’Occidente, può essere critico? E questo che noi vorremmo? Sì, è questo.


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

giovedì 15 settembre 2022

Bambini e violinisti.Riflessioni sull’aborto in margine ad un famoso articolo di Judith Jarvis Thomson

 


Ho recentemente visto una trasmissione in cui si accusava Giorgia Meloni di voler surrettiziamente modificare o abrogare la legge 194/78, malgrado le sue ripetute smentite. Non voglio qui discutere approfonditamente la miopia del tatticismo della destra (e anche, in modo sorprendente e triste, di mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita) che dall'opposizione netta all'aborto, è passata a una opposizione strategica, senza che nulla ci garantisca che in futuro non passi a una accettazione con riserva e infine a una promozione entusiastica. Il dramma del conservatorismo è che quello che ieri era progressista oggi appare conservatore, e a questa apparenza spesso ci si conforma e adegua. Più inquietante è invece il mostro ideologico abbracciato dai sostenitori della "scelta": ora non si tratta più di rivendicare appunto una possibilità di scelta (che almeno in linea di diritto lascia uno spiraglio aperto alla vita), ma propriamente un diritto all'aborto, quasi che l'ammazzamento di un bambino fosse qualcosa di indiscutibilmente buono e tale da suscitare in altri una sorta di dovere di accettazione o anche di complicità. In questo senso la sinistra e i suoi apparati mediatici determinano veramente un esito disumano e apertamente si dichiarano partigiani del Mostro. Non è stato sempre così. E' stato piuttosto un piano inclinato che alla ricerca di un'argomentazione razionale (benché erronea) ha sostituito un grado via via più intenso di depravazione spirituale che rivendica apertamente se stessa e si autoimpone dogmaticamente e violentemente. In questa sede mi sono prefisso il compito di tornare alla ragione e confrontarmi con le tesi di un'intellettuale raffinata che ha creduto di poter dimostrare la liceità morale dell'aborto. Lo scopo è esibire i punti deboli e retorici del suo ragionamente, fiducioso nel fatto che, prima o poi, la simobiosi di un richiamo alla bellezza della natura umana e al dovere della razionalità possa riportare il dibattito su un piano autenticamente umano e consentire alla verità morale condensata nel comandamento "non uccidere" di tornare in primo piano, di essere contemplata e amata come fondamento delle relazioni tra gli uomini. (L'articolo è già apparso in AaVv, Controcorrente. Saggi contro la deriva antropologica, Vol III, Bioetica, Edizioni Croce Via, 2017, pp. 59-81). 


Non conosco il curriculum di Judith Jarvis Thomson, né voglio farlo. Mi basta sapere che ha scritto agli inizi degli anni Settanta del Novecento su una rivista scientifica di prestigio come “Philosophy and public affairs” (1/1971) e che il suo articolo ha fatto epoca, provocando reazioni e approfondimenti che si sono protratti nel tempo. Mi basta constatare che gli argomenti che l’autrice avanza nel suo Una difesa dell’aborto sono sottili e circolano ancora presso i sostenitori del diritto della donna ad abortire (i cosiddetti “pro-choice”). L’intento di questo scritto sarebbe quello di prendere seriamente le provocazioni di questa studiosa ed elaborarle per dimostrare che, laddove esse hanno validità, in modo solo apparentemente paradossale riconducono alla reale dimensione morale dell’aborto, che è e rimane qualcosa di assolutamente indegno, di straordinariamente degradante, di eccezionalmente umiliante per chi lo commette e vi partecipa in qualsiasi modo. Laddove esse, invece, risultano non valide, sono comunque contrassegnate da una sapiente retorica che deve essere demistificata per riportare il linguaggio alla sua funzione filosofica e scientifica di medium di descrizione della realtà.

 

Il bambino-persona

Seguendo propriamente il discorso della Thomson, iniziamo a considerare gli aspetti retorici. Al suo esordio ella comincia a escludere l’interesse per gli argomenti relativi allo status ontologico del feto. Non le importa stabilire se il feto sia una persona o no e, in effetti, il suo articolo non verterà su questa tematica. Tuttavia, a mo’ di considerazione laterale e aggiuntiva, ella esprime l’idea che l’argomento della continuità - secondo cui, non essendovi nel processo biologico che caratterizza lo sviluppo del feto alcuna cesura, bisogna considerarlo una persona e trattarlo come tale - non è affatto pertinente. Come, infatti, non siamo portati a ritenere che una ghianda sia una quercia, allo stesso modo non dovremmo considerare un bambino un essere umano, solo perché nello sviluppo di entrambi non si possono trovare cesure. Il feto sarà, dunque, un “agglomerato di cellule”, secondo un’espressione ormai entrata nel lessico comune degli abortisti, sebbene si ammetta che esso diventi una persona umana “ben prima della nascita” (“invero si resta sorpresi quando si viene ad apprendere quanto precoce sia l’inizio dell’acquisizione delle caratteristiche umane”).

Tale esordio argomentativo appare convincente proprio perché noi tendiamo a considerare la ghianda (acorn) e la quercia (oak tree) a prescindere dal rapporto di continuità del loro sviluppo, anche per via della loro denominazione (già diverso suonerebbe l’esempio con i termini italiani castagna-castagno, arancia-arancio) che evidenzia più la diversità che la continuità. Nel lessico comune, dunque, abbiamo maggiori difficoltà a identificare una ghianda con una quercia non-ancora-tale, molto di più di quanto accade con i termini feto-bambino-persona adulta. Inoltre, la Thomson, pur alludendo al fatto che, prima della cesura del parto, il feto possiede caratteristiche umane, tace che, allo stesso modo, prima della cesura della fecondazione siamo sicuramente in presenza di qualcosa che appartiene al corpo umano (l’uovo e lo spermatozoo) ma che certamente non è un essere umano. Pertanto, la continuità stabilita dagli antiabortisti è ben situata tra due momenti di “salto”, prima e dopo il quale abbiamo certezza che rispettivamente non vi sia e vi sia un essere umano. Dentro questo segmento che va dal punto della fecondazione al punto del parto vi sarebbe già una situazione di dubbio che potrebbe essere decisa solo in base a un principio di prudenza. Avere il dubbio che X sia una persona è, infatti, moralmente più rilevante del dubbio se X sia una quercia. Per il primo è del tutto legittimo invocare la prudenza perché è in ballo una vita umana (dovremmo pertanto dire: “Considero X un essere umano perché se sbaglio commetto un errore molto meno grave dell’uccisione di un essere umano in caso di errore contrario”). Tuttavia se, per sua stessa ammissione, la certezza che vi sia essere umano va anticipata a un momento anteriore al secondo salto, cioè a quello del parto, non si può non concludere che abbiamo a che fare con un essere umano anche nel segmento di tempo che va dalla fecondazione al parto stesso, dato che non c’è evidente soluzione di continuità se non al momento della fecondazione[1]. Tale modo di argomentare non conduce, come asserito dalla Thomson, alla fallacia del piano inclinato. L’autrice attribuisce agli antiabortisti il seguente errore: data l’impossibilità di stabilire un momento preciso in cui il feto va considerato una persona dentro una certa continuità di sviluppo biologico, ciò implica lo stabilire una connessione logica arbitraria tra un primo momento, dato dalla fecondazione, e l’ultimo dato dal parto, tale che, dato il primo, si dà, in modo non provato, anche l’ultimo. In realtà non vi è qui alcuna fallacia, perché il ragionamento non si fonda su implicazioni arbitrarie concernenti il futuro: non si sta qui ipotizzando che dato un fatto “A” ne seguirà uno “B”, poi uno “C”, uno “D” e uno “E”, tanto da concludere in modo illegittimo che dato “A” seguirà “E”. Per esempio: “Se compri un motorino (A), andrai troppo veloce (B), se andrai troppo veloce (B) non ti fermerai al semaforo rosso (C), se non ti fermerai al semaforo rosso (C) avrai un incidente con un Tir (D), se avrai un incidente con un Tir (D), morirai (E), quindi se compri un motorino (A), morirai (E)”. Non si tratta per niente di un ragionamento di questo tipo poiché la continuità dello sviluppo di una persona è fatta di implicazioni biologiche, non (fallacemente) logiche e, tra le due, le prime non sono arbitrarie, ma seguono leggi che sono da ritenersi valide fino a prova contraria. Non c’è qui alcuna ipotesi arbitraria, come nelle implicazioni prima esemplificate (nulla ci dice che se compro un motorino andrò troppo veloce o passerò col rosso) ma la certezza che l’embrione ha una specifica modalità di sviluppo e tale modalità porta invariabilmente, escludendo possibili patologie, al parto di un essere umano[2].

Queste dinamiche riguardano un essere che si sta sviluppando per giungere a esercitare tutte quelle caratteristiche che sono proprie di un essere umano e che si posseggono come un atto primo sin dall’inizio, cioè come la vita di un essere umano che esiste anche se tutte le caratteristiche che la contraddistinguono non sono esercitate né esercitabili per qualche giorno o mese o qualche anno[3]. Siccome l’impossibilità di esercitare certe funzioni tipiche dell’uomo, come l’essere coscienti e attenti (atto secondo in senso aristotelico[4]) non determina il venir meno del nostro status di persone, analogamente l’impossibilità di esercitare certe funzioni tipicamente umane per un feto non cambia nulla circa il suo possesso di quella qualità fondamentale dell’essere umano che lo porterà a esercitarle in un futuro abbastanza breve. Pertanto, non solo dovremmo ammettere per ipotesi retorica che il feto sia un bambino e una persona, ma lo dovremmo fare costretti da un’analisi senza pregiudizi della realtà effettuale. Il passaggio di ammettere e non concedere l’umanità e personalità del feto, che la Thomson attua in modo retorico per passare a quello che ella ritiene il suo argomento fondamentale, va di conseguenza considerato in modo non retorico, mentre tutto quanto è posto prima, relativamente all’analogia tra ghianda-quercia e feto-persona, va considerato come un artificio puramente linguistico-psicologico.

 

Il violinista

A partire da tale prospettiva possiamo analizzare l’altra e più rilevante analogia thomsoniana: quella tra il feto e il “violinista”. Essa costituisce la parte fondamentale del discorso della studiosa americana, ed è su questo paragone che si costruisce l’argomentazione più importante e suggestiva. L’autrice ci chiede “di immaginare questa situazione. Una mattina vi svegliate distesi a fianco di un violinista privo di conoscenza, un violinista molto famoso. Gli è stata diagnosticata una grave insufficienza renale, la società dei musicofili ha consultato tutti gli archivi medici disponibili e ha scoperto che siete gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per la trasfusione. Vi hanno rapito e la notte precedente il sistema circolatorio del violinista è stato collegato al vostro, in modo che i vostri reni possono depurare il suo sangue così come fanno con il vostro. Il direttore dell’ospedale vi dice ora: ‘Guardi, siamo spiacenti che la società dei musicofili le abbia fatto questo – non l’avremmo mai permesso se l’avessimo saputo. Tuttavia l’hanno fatto e ora il violinista è collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma non c’è da preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua insufficienza e potrà essere staccato senza pericoli’. Avete il dovere morale di acconsentire a questa situazione? Farlo sarebbe gentile da parte vostra, molto gentile, ma dovete acconsentirvi?”.

La domanda retorica, con cui si chiude il brano, rimanda chiaramente ad uno scarico di responsabilità da parte della donna che rifiuta di concedere l’uso del suo corpo ad una persona che non ne ha diritto, perché nessuno ha il diritto di usare il corpo di un altro, che è sua proprietà, nemmeno se dall’uso del corpo dipendesse la sopravvivenza della persona che ne usufruisce. In sostanza come il violinista appare nell’esempio un estraneo, un ospite sgradito e financo un invasore, così sarebbe il feto per la madre che lo ospita senza volerlo. L’unica responsabilità che si potrebbe attribuire alla madre è quella di aver consapevolmente accettato il rischio di rimanere incinta e quindi di dover nuovamente accettare il figlio che ora deve a lei la continuazione della sua esistenza. Infatti, in questo caso, non avendo preso le necessarie precauzioni contro una gravidanza, la sua negligenza implicherebbe un’assunzione di responsabilità circa le conseguenze della sua azione, il cui esito non potrebbe essere fatto ricadere sul figlio che non ha chiesto di essere concepito e che ora dipende dalla madre. In tutti gli altri casi, non essendoci stato un esplicito consenso alla presenza del figlio nel proprio corpo e all’uso che il figlio deve fare di questo per nove mesi, la sua uccisione, cioè il procedere ad un distacco di ciò che lo tiene unito alla madre, non è moralmente condannabile come un’ingiustizia. Infatti, come il violinista non ha diritto a usare il corpo della donna cui è attaccato a prescindere dalla sua volontà, allo stesso modo questo diritto non è posseduto dalla persona-non-nata. Insomma, neanche la vita di qualcun altro può determinare una sospensione del diritto di proprietà esclusiva che ciascuno ha sul proprio corpo.

L’argomento è da prendere seriamente, anche perché arriva a sostenere che è corretto garantire il diritto di ogni persona alla vita, “ma non quando per vivere è necessario qualcosa cui non si ha diritto”, cioè, per esempio il corpo di un’altra persona. Dunque. supera lo scoglio assai grande della scarsa persuasività di considerare il feto “un grumo di cellule” ed elabora una massima morale apparentemente accettabile.

 

Il legame

Il problema è però diverso. C’è un fatto che rende l’analogia violinista-feto improponibile. Tale fatto è il legame che esiste tra il feto e la madre. Il feto non è semplicemente un essere collegato al corpo della madre in modo tale da poterlo sfruttare per il proprio sviluppo e la propria vita. Egli è una persona che ha un legame d’intimità profondissima con la madre, un legame che ha una matrice certamente biologica, ma che giunge a un livello tale da assumere una qualità morale e spirituale. Che dinamica di giustizia si può instaurare tra persone che hanno un simile legame? La giustizia è compendiabile nel diritto di proprietà che ognuno ha sul suo corpo? È tutta una questione di proprietà e di scambio? È solamente una certa parità da raggiungere quando a ciascuno è garantito il suo? Certo con l’estraneo può essere così. Con l’estraneo la giustizia è il fondamento per l’instaurazione di un legame. Rispettare la sfera dell’altro è condizione perché ciascuno non si senta aggredito e quindi possa legarsi a un'altra persona con sufficiente fiducia. A tal fine è indispensabile quella parificazione dei rapporti per la quale, appunto, a ciascuno va restituito il suo (unicuique suum) e, nel calcolo, nessuno ci perda.

Quando tuttavia il legame è già presente, l’altro non è più il partner di uno scambio che ha da essere paritario, ma è colui che chiama ad assumere il suo punto di vista. Il piano più alto della giustizia non è il rispetto della spettanza altrui, ma è l’assunzione consapevole del punto di vista dell’altro. “L’altro ha pure dall’esistenza il diritto ad essere come è; dobbiamo dunque anche consentirglielo” dice Romano Guardini… e fin qui anche la Thomson potrebbe concordare. Ma Guardini va oltre: questo “consentire” non è solo teoretico, ma avviene “nel nostro sentimento e nei nostri pensieri; nel comportamento e nell’attività quotidiana. E questo soprattutto nel nostro ambiente più intimo: nella famiglia, nell’amicizia, nella professione. Questa sarebbe la giustizia che comprende l’altro dal suo punto di vista e che si comporta in modo corrispondente”[5]. E qui la Thomson viene meno, perché esclude a priori, e ciò è sorprendente da parte di una donna, quel ragionamento caldo che tiene conto degli aspetti emotivi, delle dimensioni relazionali ed empatiche che connotano la comunità umana e che hanno un ruolo morale rilevante. La Thomson tende a relegare tutto ciò nella dimensione del super-erogatorio. La sua ipotesi è che a fronte della posta in gioco di una vita umana, anche postulando uno sforzo assai più esiguo di quello che avviene realmente per portare a termine una gravidanza, sarebbe “moralmente indecente” procedere ad un aborto per difendere la propria autonomia e indipendenza, ma non sarebbe ingiusto. Sarebbe come un individuo che rifiuta di dare un cioccolatino a suo fratello motivando il suo comportamento con il fatto che la scatola di cioccolatini è stata regalata solo a lui. Egli sarebbe egoista, insensibile, ma non ingiusto, perché il fratello non potrebbe vantare nessun diritto su qualcosa che non è suo. Dare il cioccolatino sarebbe dunque “qualcosa in più”, qualcosa che si eroga oltre al dovuto, così come condurre a termine la gravidanza sarebbe generoso e “gentile”, ma non obbligatorio.

Il ragionamento formalmente tiene, umanamente no. Il merito della Thomson è quello di lasciare aperta la via al super-erogatorio, cioè a fornire un argomento razionale al rifiuto personale dell’aborto. Questo è già tanto. Come dire: abortire è ammesso, ma attenta, perché se lo fai rischi di diventare, quand’anche non “ingiusta”, una persona “indecente” e “mostruosa”. Ovviamente tale rischio è commisurato a determinate condizioni: hai voluto la gravidanza? Quale tipo di sacrificio ti è richiesto a fronte della vita di tuo figlio? Ritieni tale sacrificio insopportabile o no? Siamo ben lontani dalla superficialità inqualificabile delle Bonino e delle Faccio, ma ancora altrettanto lontani da una prospettiva autenticamente umana. Ciò accade proprio perché nella realtà i beni non sono oggetti formali, ma si collocano dentro la rete emotiva, spirituale e razionale dei legami umani, in cui il confine tra il mio e il tuo sfuma e le spettanze aumentano proporzionalmente all’intensità del legame stesso. Pertanto, nella vita reale e relazionale la responsabilità che si ha verso l’altro non dipende dalla sua formale assunzione, ma dall’evidenza del bene che rappresenta l’altro e della risposta che egli chiede a tale suo valore, risposta che è esigita nella forma dell’amore. E qui allora “amare il prossimo” non è un super erogatorio da buon samaritano, come afferma la Thomson, ma è un preciso dovere[6]. Il samaritano, infatti, diventa prossimo di colui che è stato derubato e percosso lungo la strada proprio perché sente un dovere nei suoi confronti, il dovere che non è sentito dagli altri, il sacerdote e il levita, che infatti non gli sono “prossimi”. Chi invece è prossimo ha l’obbligo nei confronti del suo prossimo di essere giusto nei suoi confronti, amandolo. Questo è un precetto, è un comandamento, non è un consiglio per chi desiderasse una perfezione migliore. Il dovere, che si sente e cui si ottempera da parte del samaritano, costituisce dunque la prossimità, una prossimità che è contraddistinta proprio da quel dovere. E nel caso tale prossimità già vi sia? Possiamo dire che abbiamo nei confronti dei nostri genitori gli stessi doveri che sussistono nei confronti di altri? No, perché i nostri genitori sono già oggetto di un legame particolare, intimo e intenso che determina una peculiare prossimità, che pure non è stata scelta (la scommessa cristiana è che si possa istituire una prossimità profonda anche con altri che non sono già prossimi, sentendo un dovere particolare nei loro confronti, quello di amarli come si ama se stessi. Questo dovere, sentito come verso il prossimo, finisce col fare dell’estraneo effettivamente il prossimo)[7]. E qual è concretamente il dovere che abbiamo, in forme crescenti d’intensità, nei confronti dei legami crescenti che ci collocano a fianco del nostro prossimo? Il dovere è quello di perfezionare la natura dell’altro. Il fondamento di una relazione umana non è né biologico, né convenzionale ma, a partire dalla dimensione corporea e biologica che caratterizza l’esistenza dell’essere umano[8], impossibile a eludersi come vorrebbero i cartesiani e i sostenitori fallaci della cosiddetta “fallacia naturalistica”, diviene un compito etico. Ognuno di noi ha nei confronti del suo prossimo il compito di portare a compimento l’eccellenza della sua natura. Questo è il senso della socialità umana: l’uomo è l’animale che trae da un altro individuo della propria specie l’eccellenza della natura di quell’individuo, e può assolvere a questo compito tanto meglio quanto più il legame è intenso, profondo, empatico…e ciò avviene ovviamente in modo reciproco. Questo è anche il senso della vita umana, di colui che, essendo intimo a se stesso, è intimo anche agli altri e viceversa, perché ha l’altro non dentro il suo corpo, ma dentro il suo spirito attraverso la relazione dei corpi. Da ciò si evince che la situazione di potenzialità in cui qualcuno si trova rispetto alla sua eccellenza – il suo non essere ancora “compiuto” - non è ostacolo al compito etico che gli altri hanno nei cuoi confronti, ma ne è la condizione: proprio perché imperfetti, incompiuti, mai pieni nel nostro essere, gli altri possono e devono operare nei nostri confronti perché la pienezza e il compimento siano raggiunti. Il dovere che si ha nei confronti degli altri è quindi un dovere che si ha verso individui a metà affinché essi divengano persone integrali. È del tutto evidente come allora, in virtù del legame che unisce il feto alla madre, esso costituisca un dovere per la madre, tanto più intenso quanto lo è il legame, e tanto più intenso quanto è incompiuto l’essere della persona-non-nata. Paradossalmente, ma non tanto, il dovere non diminuisce al diminuire dell’età del feto, ma aumenta e raggiunge i massimi livelli quando si tratta di un bambino appena concepito, cioè allo stato embrionale[9].

 

Giustizia e giustizia

Per comprendere tutto ciò bisogna risalire da un concetto di giustizia aristotelico[10] ad uno platonico[11]. Il primo insiste sulla nozione di uguaglianza, il secondo su quella di ordine. Sono certo due nozioni che non si escludono. Non vi è ordine e armonia tra gli uomini, infatti, senza una reciprocità nelle loro relazioni. Tuttavia, diverso è lo sguardo che i due punti di vista generano. La nozione di uguaglianza presuppone uno sguardo orizzontale e il calcolo di ciò che spetta, quella di ordine uno sguardo verticale e globale. L’ordine è un “tutto”, qualcosa che è concepito nella sua globalità come se fosse visto dall’alto, è la rete complessiva della pòlis e delle nostre relazioni sociali. In esso si coglie una molteplicità di rapporti di diversa natura, armonizzati in misura di una nozione come quella di suum agere, cioè di “svolgere il proprio compito” nei riguardi degli altri, che rappresenta il leit Motiv della Repubblica platonica. Si tratta invero di pensare lo Stato come luogo dove la giustizia è fare ciò che compete per il bene del tutto e di tutti a seconda delle proprie dotazioni e vocazioni personali cui presiede l’anima, cioè, diremmo oggi, l’intima qualità personale di ciascun individuo. Tale prospettiva integra e arricchisce la nozione di spettanza e di diritto, calandola nella realtà dei concreti legami familiari, amicali, affettivi, e infine generalmente sociali. Se si esclude tale seconda nozione, si corre il rischio di non tenere presente il senso etico di un’antropologia relazionale che ammette l’intersoggettività (il Mit-sein, con-essere, di Heidegger[12]; la società trascendentale di Gentile[13]; l’intersoggettività husserliana[14]; il rapporto con l’altro studiato da Levinas[15] e Ricouer[16]; tematiche su cui molta della riflessione contemporanea si trova in sostanziale accordo) come costitutiva di ogni essere umano, finendo così per considerare il bambino che la mamma porta in grembo come un violinista sconosciuto che, per un “caso funesto”[17], è stato surrettiziamente attaccato al  corpo di una donna… Siamo spiacenti per la Thomson ma questa non è la realtà, ma è bensì una costruzione more geometrico finalizzata a dimostrare una certa tesi, eludendo proprio quel carattere ingiusto e perciò degradante e infame che appartiene all’atto di uccidere, non solo Tizio da parte di Caio, ma il proprio figlio da parte di una madre.

 

Il caso estremo o il caso diverso?

Sin dall’inizio della sua argomentazione la Thomson, per aumentare l’efficacia delle sue deduzioni, introduce l’analisi di quello che lei chiama “un caso estremo”, cioè l’ipotesi che la vita della madre sia messa a rischio dalla nascita e sviluppo del feto. Tale allusione ha ancora una funzione retorica: quella di mettere in chiaro con un esempio lampante che cosa significa “espropriare” il corpo della madre. Nulla più di un figlio, la cui presenza può essere fatale per la donna, “espropria” il suo corpo. L’obiettivo polemico sono coloro che sostengono che l’aborto, come uccisione diretta del feto, è inammissibile anche in caso di pericolo reale e imminente per la vita (e non per la “salute” come recita sibillinamente e ambiguamente la nostra legge 194/78 art. 4) della madre. Non fare niente per salvare la madre con un “aborto terapeutico” e opporsi a ogni intervento costringendola ad andare incontro a morte sicura: se tale orientamento ricevesse una sanzione legale, ciò apparirebbe un’insopportabile sopraffazione da parte dello Stato che si troverebbe nella condizione di costringere qualcuno, innocente e avente diritto alla vita in quanto persona, a sacrificarsi in favore di qualcun altro, il figlio, che non possiede maggiore diritto alla vita della madre stessa. Così, sostiene la Thomson, accade che a una donna venga sottratta la disponibilità del suo corpo e persino della sua vita. Ma tale espropriazione sussiste, in modo significativo anche se a un grado minore, ogniqualvolta la madre sia costretta in una gravidanza non voluta a impiegare il suo corpo per dare ospitalità a qualcuno. Nessuno ha infatti il diritto di chiedere il sacrificio di qualcun altro se non vi sia stato una sorta di contratto che renda doveroso, in nome dell’uguaglianza dei rapporti, tale sacrificio.

Se la funzione chiarificatrice di questo esempio risiede, come detto, nell’evidenziare il senso della tesi complessiva della Thomson: i figli non voluti sono soggetti che senza diritto parassitano il corpo materno, il suo esito retorico sta nello svalutare preventivamente il campo anti-abortista con lo stigma dell’estremismo irrazionale che svaluta a priori la titolarità della donna al possesso del proprio corpo. A fronte di ciò bisogna affermare con forza che tale esempio non costituisce alcun caso estremo, ma un caso diverso.  La sussistenza di un pari diritto alla vita della madre e del figlio rende il sacrificio della madre effettivamente un super erogatorio. Infatti nel caso di un sacrificio della madre a favore della vita del figlio il dovere di portare a compimento l’altro nella sua eccellenza è considerato prioritario rispetto al diritto di vivere, per cui la solidarietà e continuità tra la giustizia come parità/uguaglianza e la giustizia come ordine/legame viene spezzata dalla totale auto-donazione della madre al costo della sua stessa esistenza: non c’è più uguaglianza e non c’è più un legame; la madre muore per il suo bambino, ogni ordine possibile nella dimensione terrena viene meno in favore di un ordine spirituale, metafisico, escatologico che rappresenta qui e ora l’alterità totale dell’assoluto. Tale nobilissimo e santissimo gesto va chiaramente oltre il dovuto e quindi non può essere esigito giustamente da nessuna legge o istituzione civile.

Che cosa accade dunque? Accade che nell’eventualità di un rischio reale per la vita della donna, in assenza di una sua volontà di sacrificio, ogni discorso sui diritti che reciprocamente avrebbero madre e figlio si annulla nella loro sostanziale parità. Cioè il problema non è più una questione di diritto, ma di fatto. Non essendoci una ragione migliore per giustificare un comportamento piuttosto che un altro, ogni comportamento è legittimo: legittimo è il sacrificio super erogatorio, legittima è la difesa della propria vita tramite un parto anticipato, anche se tale parto porterà sicuramente alla morte del feto (il problema dell’uccisione diretta di una persona non sussisterebbe in questo caso, come pretenderebbe la Thomson, perché sin dall’inizio la morte del feto non sarebbe voluta come mezzo per salvare la madre, anzi non sarebbe voluta in ogni caso, ma risulterebbe una conseguenza delle procedure minime necessarie a salvarle la vita). Eticamente, dunque, nei rari casi in cui tale eventualità potesse verificarsi, non è in discussione una procedura abortiva (che non è un atto medico, non configurandosi la gravidanza come una malattia, bensì un intervento sul corpo di qualcuno con mezzi medici), ma appunto una procedura terapeutica che coinvolge nei suoi effetti la vita del bambino, laddove tali effetti negativi sono proporzionati al bene in gioco, cioè la vita della madre[18].

 

La conclusione della Thomson

Il discorso della Thomson invece conduce dall’ammissione del diritto della madre nei riguardi del bambino la cui gestazione minaccia la sua vita - che non è in realtà un diritto, ma un fatto e non riguarda la vita del bambino, ma la propria - al diritto di una donna di esprimere la proprietà del suo corpo uccidendo “non ingiustamente” il figlio che porta in grembo, secondo una continuità che in realtà non esiste. Tale diritto di uccisione, secondo lei, sussiste pienamente quando la donna non è responsabile della gravidanza e diminuisce progressivamente in ragione della responsabilità cui ella può essere chiamata nell’aver provocato la sua condizione gestatoria. La conclusione è che l’aborto è ammissibile, ma non in ogni caso, e che comunque la nascita e sopravvivenza del bambino fuori dal corpo della madre elimina ogni diritto alla sua soppressione. Siamo contenti di questa moderazione, ma non troppo. In realtà l’individualismo estremo di chi riduce i rapporti umani a una sorta di contratto, dove le responsabilità sono esplicitate con l’acribia del notaio commercialista, non costituisce nessuna garanzia né per la madre né per il figlio. La madre che abortisce non è perciò protetta dalla tragedia interiore di aver ucciso una persona che invece era chiamata ad amare; il bambino che può essere ucciso non è protetto nel suo essere persona dipendente da qualcun altro, come lo sono tutte le persone per quanto attiene al loro sviluppo e alla loro realizzazione piena. E la giustizia viene comunque ferita, perché non vi può essere nessuna giustizia senza una visione complessiva dell’uomo, il cui orizzonte morale non è il guscio che protegge il suo narcisismo, ma è l’oltre infinitamente grande di un’alterità costitutiva, esigente e affascinante.

 

Il prossimo e l’estraneo

Il percorso compiuto sviluppa una critica alle tesi della Thomson partendo dalla riaffermazione della personalità del feto, cosa che va ammessa e concessa, se si vuole inquadrare correttamente e razionalmente il problema. Da qui si procede all’esposizione e all’analisi dell’argomento del violinista, sottolineando come sia difficile equiparare un soggetto generico e indifferente come “il violinista” a una persona come un figlio con cui una donna mantiene un legame del tutto particolare e profondo. Non solo quindi non è giusto uccidere una persona, ma non è giusto uccidere un figlio. Un figlio non è semplicemente qualcuno che invade il proprio corpo, nei riguardi del quale è immaginabile, sebbene non giustificabile in toto[19], un comportamento di rifiuto e/o rigetto, bensì quell’altro che è il più prossimo dei prossimi, verso il quale la qualità del legame impone un certo criterio di comportamento. Tale criterio esclude sempre l’uccisione del bambino poiché essa rappresenta non tanto la legittima difesa contro un invasore non richiesto, ammesso e non concesso che tale legittima difesa debba produrre per forza la morte del feto, ma una grave violazione del dovere fondamentale di perfezionare la vita dell’altro, dovere che ognuno possiede nei confronti del proprio prossimo e che supera la dimensione dell’uguaglianza dei rapporti e del calcolo freddo che punta a restituire a ciascuno quello che gli spetta in virtù della sua esistenza atomica e individuale. L’unico caso in cui la morte del feto è accettabile è quello in cui essa sia conseguenza di una procedura terapeutica intesa a salvare la madre in concreto e accertato pericolo di vita a causa della gravidanza, sempre che non si tratti di un’uccisione deliberata. Quest’ultima appare ammissibile, nei rarissimi casi in cui è necessaria, solo come male minore, a fronte della difesa del diritto della madre a vivere - diritto che non è inferiore a quello del figlio - e in attesa che tale male, incontestabilmente e radicalmente male quand’anche “minore”, sia tecnicamente del tutto evitabile. 

Si è visto come nel corso della mia argomentazione mi sono sorpreso che una donna possa tranquillamente equiparare suo figlio a un qualsiasi individuo che accampi diritti ingiustificati sul suo corpo. La freddezza di questa considerazione, a ben pensarci, può essere solo dettata da un pregiudizio negativo sul figlio, a partire dalle circostanze del suo concepimento e/o dalla storia e dai vissuti personali. La forza di un pregiudizio originato da esperienze profondamente negative e traumatiche può generare un processo di alienazione di questo tipo. Si può comprendere tutto ciò attraverso quello sforzo empatico che chiama a immedesimarci nelle sofferenze altrui e nell’effetto che esse producono sulla psiche, inducendo la ragione a compiere percorsi oscuri e a prendere strade senza uscita. Il calore innaturale di simili esperienze può finire per scacciare con la sua violenza il calore umano della ragione attraversata dall’amore e dall’attaccamento. Ma il fuoco desolato delle regioni infere non può prendere il posto di quello elevato di una razionalità affezionata al vero e al buono quando si tratta di elaborare criteri etici per la vita e il bene di tutti e di ciascuno.

Così non si può confondere il prossimo con l’estraneo. Non si può raffreddare e distruggere il legame che si ha con il proprio prossimo, allontanandolo nella sfera dell’estraneità, anche a prescindere dal fatto che noi saremmo chiamati a farci prossimo all’estraneo. Appare del tutto singolare, in un contesto sociale come il nostro, che quest’ultimo dovere sia continuamente richiamato, insistendo sull’innocuità e, anzi, su una presunta utilità sociale dell’accoglienza di coloro che per motivi diversi, e non sempre plausibili, entrano nel nostro paese sedotti dal miraggio del benessere occidentale. Un ragionamento superficialmente sociologico conduce, infatti, a considerare l’approdo a una società multirazziale economicamente conveniente ed eticamente positivo, grazie alla fiducia incontaminata nelle capacità di assorbimento del “sistema”. Le strutture di una società “a scarsità moderata”, più o meno funzionante e dotata di un vasto serbatoio di energie morali e materiali da profondere nell’assistenza e nel welfare, inducono a pensare che il sistema stesso sia in grado di assorbire l’urto di un’immigrazione massiccia e incontrollata e di dirottarne la forza distruttiva in direzione di un’ulteriore crescita ed espansione. E così la giustizia comoda del sistema distoglie lo sguardo dalla concreta ingiustizia delle relazioni, dai soprusi che un processo di portata epocale genera per tutti coloro che già vivono la propria esistenza nell’indigenza e nella difficoltà: dalla disperazione dello sradicamento, alle guerre fra poveri, dalla desertificazione culturale all’aumento dello sfruttamento, dalla perdita di dignità che subiscono tutti coloro che sono confinati ai margini della società in attesa che “il sistema” provveda, siano essi italiani o stranieri, alla costruzione di ghetti in cui emarginazione e degrado vanno di pari passo con criminalità e violenza nell’assurdità dei conflitti etnici e delle sopraffazioni mafiose e paramafiose. Ma finché la vita delle periferie, e di tutti coloro per i quali la povertà e la disperazione sono di nuovo l’unico spettro che si aggira per l’Europa, non giunge a far sentire la sua voce al centro, è molto più comoda la giustizia accogliente del sistema. Questa, con l’esigua spesa di un bel pensiero (“dobbiamo essere buoni e misericordiosi”) e, se vogliamo, anche di due ore di volontariato alla settimana, consente di comprarsi il paradiso di una coscienza a posto e dell’orgoglio del giusto.

Di contro, la sconfortante realtà della vita di un bambino che si appella al singolo e che può diventare presenza ingombrante perché ricca solo di povertà e bisogni, appare nella sua scomoda prossimità un peso insopportabile. La questione non si risolve infatti con un buon pensiero, né con un proclama politicamente corretto, ma richiede dedizione e rinunce, forza e impegno, pagando con una gioia difficile l’enormità delle energie profuse… insomma, nel calcolo dei costi e dei benefici, un vero disastro!

Ecco allora che risulta più facile allontanare il prossimo e avvicinare l’estraneo, il primo atto essendo conseguenza del rifiuto di un coinvolgimento personale, il secondo la sua abile mistificazione.

Allora ha ragione R. Guardini quando dice che “spesso le grandi cose sembrano esserci per distrarre l’uomo da quei punti dove le cose si fanno serie. Dove si fa realmente seria la giustizia dell’ordine (alla quale qui ci si è richiamati, n.d.r.)? La risposta avrà un suono meno grandioso ma in compenso molto più concreto […]. A casa tua nel rapporto con gli amici, in ufficio, là appunto dove tu sei assieme alle persone umane. E nel fatto che tu a seconda delle tue possibilità dici, dai e fai ciò a cui ciascuno ha diritto”[20]. Questa consapevolezza è l’antidoto alle fughe in avanti moralistiche e al tempo stesso profondamente immorali nei buoni pensieri e nella giustizia del sistema.

Infatti, non c’è un pensiero della giustizia, né un sistema della giustizia che siano giusti. La giustizia è un compito infinito che va assunto in prima persona: la giustizia è un asintoto, una linea iperbolica che per quanto si avvicini alla retta, ha sempre un percorso infinito da fare per toccarla[21] e questo percorso è la vita reale e concreta dell’uomo, nelle sue relazioni, vicinanze e prossimità alle quali è chiamato a divenire sufficiente mediante la sola arma di uno sforzo continuo. Questo fanno tutte le madri che normalmente ed eroicamente sentono l’appello che proviene dalla presenza mite e indigente dei loro figli. Ecco perché la gratitudine verso le nostre madri è un bisogno prima che un dovere, perché esse hanno preso sulle loro spalle questo compito della giustizia e, con i poveri mezzi che la natura ha dato loro, l’hanno portato a termine dignificando la loro e la nostra vita.

 

                                                                                                                                      Massimo Maraviglia

 

 

 



[1] Del resto, non appena è avvenuta la fecondazione in cui si sono incontrate due cellule che rappresentano altrettanti sistemi autonomi, “ha inizio una catena di attività che indica con evidenza che non sono più i due sottosistemi (dello spermatozoo e dell’ovocita, n.d.r.) a operare indipendentemente l’uno dall’altro, ma che si è costituito un nuovo sistema, che comincia ad operare come una ‘unità’, detta ‘zigote’ o embrione unicellulare’” (E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano 20063, vol I, p. 441). Questa unità possiede “i caratteri di determinazione programmata, finalismo, continuità senza soluzione qualitativa, autoproduzione e autodirezione del programma” (ivi, p. 444). Quindi “lo sviluppo biologico è ininterrotto e si attua senza soluzione qualitativa, senza che sia necessario un ulteriore intervento causativo e si deve dire che la nuova entità costituisce un nuovo individuo umano che dall’istante del concepimento prosegue il suo ciclo o meglio la sua curva vitale. L’autogenesi dell’embrione avviene in maniera tale che la fase successiva non elimina la precedente ma l’assorbe e la sviluppa secondo una legge biologica individualizzata e controllata” (ivi, p. 445). Per tale motivo appaiono del tutto convenzionali e non giustificate dalla realtà dello sviluppo embrionale tutte quelle distinzioni tra un cosiddetto pre-embrione e l’embrione vero e proprio, distinzioni che determinerebbero la considerazione dell’embrione come essere umano solo alla comparsa della cosiddetta linea primitiva, a indicare che “le cellule destinate a costituire l’embrione vero e proprio si sono ormai differenziate dalle cellule che formeranno i tessuti placentari e protettivi” (ivi, p. 446). Infatti, anche tali processi appaiono preparati da uno sviluppo le cui fasi si compenetrano a vicenda e all’interno del quale non è individuabile alcuna cesura (la linea primitiva non compare improvvisamente ma è il prodotto di un processo che non può aver luogo se non si è verificata la fecondazione e che dalla fecondazione continua senza salti). Cfr. anche M. Chiodi, Etica della vita. Le sfide della pratica e le questioni teoriche, Glossa, Milano 2006, pp. 157-170.

[2] Cfr. supra, nota 1

[3] Mi sembra che sostanzialmente sia questo il senso dell’affermazione di Tertulliano secondo cui “è già uomo colui che lo sarà”: Tertulliano, Apologeticum IX, 8.

[4] “L’anima è atto primo di un corpo naturale che ha vita in potenza”:  Aristotele, De Anima, 412 a. Ciò significa che essa nell’uomo consente di possedere tutte le qualità tipiche della specie umana  -  un tipo di vita particolare perché contrassegnato dalla razionalità – e che rappresentano il suo tratto distintivo, la sua perfezione, la realizzazione delle sue possibilità fondamentali, senza che queste qualità debbano per forza essere esercitate attualmente in un atto, cioè in una prestazione che viene dopo e realizza ulteriormente le qualità che già si posseggono (atto secondo). Come dire: una Ferrari è una Ferrari perché ne ha tutti i pregi distintivi (atto primo: perfezioni principali), senza che per forza qui e ora debba sfrecciare a 300 km all’ora e o accelerare da 0 a 100 kmh in 2 secondi (esercizio attuale di queste perfezioni cioè atto secondo).

[5] R. Guardini, Virtù, Morcelliana, Brescia, 2001, p. 64.

[6] Infatti “valore è ciò che rilevante in sé stesso, e come tale rivolge un appello alla persona, ad ogni persona, indipendentemente dalle sue preferenze soggettive, affinché essa lo colga, lo apprezzi e vi risponda in modo adeguato […]. Ora qual è la relazione tra il valore e la risposta? In quanto importante in sé, il valore non solo motiva una risposta, ma ad ogni valore è dovuta una risposta adeguata”: P. Premoli De Marchi, Introduzione a D. Von Hildebrand, Essenza dell’amore, tr. it., Bompiani, Milano 2003, p. 8.

[7] La Thomson distingue un “samaritano minimale” che sarebbe colui che fornisce un aiuto minimo a un altro soggetto in difficoltà, e un “buon samaritano” colui che fa come il protagonista della parabola di Luca 10, 25-37. Per illustrare che cosa significa essere un “samaritano minimale”, ella cita un fatto di cronaca in cui una donna è stata assassinata mentre trentotto persone che stavano assistendo all’omicidio non hanno fatto niente, nemmeno avvertendo le forze dell’ordine. Nessuno si è comportato da samaritano minimale, facendo il minimo a favore della donna, cioè chiamando la polizia, e tuttavia negli Usa non esiste alcuna legge che consenta di accusare questo comportamento “mostruoso”. Per contro, dice la studiosa, esistono leggi che costringono le donne a essere “buone samaritane”, obbligandole al super-erogatorio di consentire a che una persona occupi il loro corpo per nove mesi, non avendo alcun diritto a farlo. In realtà qui non vi è un diverso grado di bontà morale, cui il buon samaritano avrebbe avuto accesso, aiutando il passante aggredito, grado cui nessuno potrebbe essere costretto per legge. Non è per Gesù, che racconta la parabola, una questione di gradi, ma una questione di una diversa concezione della giustizia. Il sacerdote e il levita non intervengono per una questione di purità, cioè per non essere contaminati dal sangue. L’intento di Gesù è esplicitamente religioso: il sacerdote e il levita hanno il dovere di rimanere puri e vi si attengono, così avrà pensato il dottore della legge cui era destinata la parabola (cfr. B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita e pensiero, Milano 1992, pp. 176-177). Per Gesù questo dovere viene meno a fronte della presenza di un altro, se è intenzione del soggetto quella di farsi prossimo e guadagnare il Regno dei cieli. Tale scopo non è secondario nella prospettiva di Gesù, ma rappresenta un dovere, come attesta l’uso dell’imperativo nella chiusura della parabola: “Va’ è fa’ anche tu lo stesso!” Allora ha ragione P. Sequeri quando, commentando la parabola, così conclude: “Quando il samaritano si ferma, tutti capiscono benissimo che cosa fa. Se c’è una cosa giusta (corsivo  mio) su questo pianeta, e su tutti i pianeti possibilmente abitati dell’universo, che tutti capiscono benissimo, è proprio quello che il samaritano fa. Ecco questo è Dio. D’un sol colpo, siamo riconsegnati alla commozione del mistero e sottratti alla vischiosità dell’enigma. ‘Questo comandamento essenziale dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, che fanno tutt’uno, non è al di là del mare’. Il resto sono chiacchiere e stanno a zero”: P. Sequeri, L’ombra di Pietro. Legami buoni e altre beatitudini, Vita e Pensiero, Milano, 2006, p. 147 (peraltro esistono in Italia e in Europa leggi che condannerebbero i trentotto spettatori indifferenti dell’omicidio, in taluni casi come complici dello stesso).

[8] Potremmo dire che la biologia fonda un dovere? La Thomson contesterebbe tale assunto in quanto naturalistico, ma lo farebbe non accorgendosi che l’insistenza sulla proprietà da parte della donna del suo corpo non fa altro che rimandare al fatto che ciascuno è il proprio corpo (cfr. V. Melchiorre, Corpo e persona, in Idem, Il corpo, La scuola, Brescia, 1988, pp. 5-42). Da ciò ella deduce il diritto all’aborto in certe condizioni. Qui si afferma invece che, proprio perché la donna è il proprio corpo, il bambino che porta in grembo, che è così intimamente congiunto al proprio corpo, non è un estraneo protagonista di un’invasione, ma è suo figlio, il più prossimo dei prossimi nei quali i doveri reciproci si configurano in modo diverso.

[9] Sulla tematica si vedano le risposte pertinenti del card. Tonini alle provocazioni di G. M. Pace, in L’embrione. Una questione aperta, Sperling & Kupfer, Milano, 1998, pp. 119-151.

[10] Aristotele, Etica Nicomachea, V, in particolare il par. 2 sulla nozione di uguaglianza. Essa rappresenta un tipo più specifico di giustizia, rispetto a quello più ampio e perfetto di “giustizia legale” che ha una dimensione sociale e politica, ma finisce anch’esso, nella sua determinazione di giustizia distributiva (corretta distribuzione dei beni, proporzionale ai meriti di ciascuno) e giustizia correttiva (riequilibrio delle relazioni in cui è venuta meno la corrispondenza tra ciò che è dato e ciò che è ricevuto), per considerare l’uguaglianza come criterio determinante.

[11] Platone, La repubblica, IV, 433a-434c.

[12] “L’analisi dell’essere-nel-mondo (cioè dell’uomo come individuo in rapporto con il suo ambiente, n.d.r.) ha reso chiaro che non ‘è’ dato innanzi tutto, e non è mai dato un soggetto senza mondo. Allo stesso modo non è mai dato innanzi tutto un io isolato, senza gli altri. La constatazione fenomenica che, nell’essere-nel-mondo gli altri ci sono sempre qui con, non ci può autorizzare a ritenere ovvia la struttura ontologica di questo ‘dato’ e a considerare la ricerca relativa come superflua. Il problema è quello invece di rendere fenomenicamente trasparente il modo di questo con-Esserci nella quotidianità immediata e interpretarlo in modo ontologicamente adeguato”. A questo sforzo M. Heidegger dedica il cap. IV del suo Essere e Tempo, tr. it. , Longanesi, Milano, 1976, pp. 150-167 (cit. p. 151).

[13] “L’individuo umano non è atomo. Immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Perché non c’è Io, in cui si realizzi l’individuo, che non abbia, non seco, ma in se medesimo, un alter, che è il suo essenziale socius: ossia un oggetto che non è semplice oggetto (cosa) opposto a un soggetto, ma è pure soggetto come lui”: G. Gentile, Genesi e struttura della società, in Idem, L’attualismo, Bompiani, Milano 2014, p. 1277. Tale considerazione costituisce il punto di partenza di tutta la filosofia politica di Gentile, che trova un fondamento metafisico della relazione con gli altri e lì individua l’origine dello Stato e della sua eticità.

[14] Husserl ha un interesse prevalentemente gnoseologico: in questo campo egli sostiene che l’esperienza dell’altro è fondamentale nella conoscenza del mondo, che sarebbe fondamentalmente diversa, quando non impossibile, se noi non presupponessimo altri soggetti, con cui ci intendiamo sullo stesso mondo, ogni volta che conosciamo le cose: cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, tr. it. Einaudi, Torino 1965, I, III, 18, vol I, pp. 473-474; Idem, Meditazioni cartesiane, tr. it. Bompiani, Milano 1960, V, 42-43, pp. 139-142 in S. Zecchi, La fenomenologia, Loescher Torino, 1988, pp. 120-129.

[15] Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it., Jaka Book, Milano, 1977, in cui l’incontro con il volto dell’altro diviene ciò che spezza la “logica rigorosa e universale della totalità” che “tutto sottomette alla propria identità”. L’indigenza e la nudità dell’altro ci si rivolgono in maniera incondizionata e senza reciprocità e rinviano all’”infinito mai tematizzabile ‘al di là del volto’ (F, Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, B. Mondadori, Milano 2000, sv Levinas). In sostanza se la filosofia occidentale con la sua logica stringente ha cercato di sussumere l’altro, il molteplice e il diverso entro categorie che ne distruggessero l’estraneità, per ridurlo al Medesimo (il Totale), è necessaria una filosofia che si faccia invece accogliente di un Altro che ha di per sé un significato irriducibile all’Io ed “esiste prima di ogni nostra iniziativa e potere” (Totalità e infinito, cit., p. 203). Tale alterità ci rivela l’infinito di un senso trascendente del mondo, anche sotto il profilo morale, quale “valore” immediatamente etico che non si può uccidere.

[16] Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, tr. it., Jaka Book, Milano 1996. “…È chiaro come l’identità per Ricoeur non sia totalmente chiusa e di per sé già formata, ma risulti essere un reale processo sempre in corso, che si costituisce in modo dinamico nel tempo tramite la costante dialettica tra medesimezza e ipseità, la quale rende l’io da un lato una totalità chiusa e compiuta, l’io-idem appunto, dall’altro lato invece, una totalità aperta soggetta a mutamenti ed evoluzione, l’io-ipse. Ricoeur sottolinea come identità-medesimezza e identità-ipseità non vadano pensate l’una distinta dall’altra o di per sé autonome, quanto invece nella loro reciproca relazionalità: “Un ente è identico a se stesso soltanto rispetto a ciò che è altro da esso e nel corso del mutamento temporale». Tale dialettica rappresenta alla fine un soggetto che oscilla perennemente tra la tendenza, da una parte, all’uscire fuori di sé aprendosi all’altro e, dall’altra parte, ad una chiusura stabilizzante percepita come bisogno ineludibile; un soggetto tensionale quindi, in costante conflitto tra due orientamenti apparentemente contraddittori, un soggetto che pur aprendosi all’altro vuole proclamarsi autosufficiente. Questa costante tensione e inquietudine, agli occhi di Ricoeur, non è semplicemente uno stato emotivo quanto invece la struttura ontologica stessa dell’essere umano: il soggetto deve imparare, durante il cammino della propria vita, a riconoscersi quale soggetto finito e abituarsi alla costante tensione rispetto alle molteplici possibilità di diventare se stesso nel rapporto con l’altro”: E. Casagrande http://www.lachiavedisophia.com.

[17] Mi riferisco qui ad un classico dell’antropologia individualista, cioè a J. J. Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza fra gli uomini, tr. it. in Idem, Opere, Sansoni, Firenze 1989, pp. 31-96. Per il grande intellettuale ginevrino l’uomo in stato di natura è essenzialmente solo, in un rapporto di feconda simbiosi con la natura che soddisfa i suoi semplici bisogni. Tale solitudine è intervallata da rapporti con i suoi simili dati dal caso e avente il carattere della provvisorietà e della scarsa durata nel tempo. È pure il caso a intensificare tali rapporti e a modificare la portata dei bisogni umani fino a determinare l’esito funesto della nascita della società, fonte di ogni corruzione.

[18] Cfr. la teoria morale del doppio effetto, che si ritrova originariamente in Tommaso, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7. Essa implica una distinzione tra i fini voluti di una certa azione e le conseguenze provocate. Un conto, infatti, è volere qualcosa, un conto è sapere che il raggiungimento dello scopo provocherà conseguenze negative non volute che, tuttavia, si è disposti a sopportare. Per esempio, una madre che sacrifica la sua vita per suo figlio non vuole suicidarsi, non deve avere in odio la sua stessa esistenza, ma è semplicemente disposta a sopportare di morire (conseguenza negativa) per ottenere il fine che suo figlio viva (fine voluto). Quindi in questi come in altri casi un’azione ha un doppio effetto, uno voluto e uno previsto, non voluto ma sopportato. Lo sviluppo dell’indagine filosofica su questa dinamica precisa che di un atto che ha una conseguenza negativa prevista è lecito il compimento “1) se l’atto è in sé stesso buono o eticamente neutrale; 2) se la conseguenza cattiva non è voluta come fine; 3) e se la conseguenza cattiva non è voluta nemmeno come mezzo per la produzione della conseguenza buona; 4) se c’è proporzionalità tra la conseguenza buona e cattiva” (G. Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 152). Caso tipico in letteratura è proprio quello di una donna gravida affetta da una malattia che potrebbe condurla alla morte se portasse a termine la gravidanza. In queste circostanze, suggerisce Samek Lodovici, vi è una chiara differenza tra l’isterectomia condotta sulla donna gravida affetta da tumore all’utero - operazione che condurrebbe alla morte del feto come conseguenza prevista, non voluta direttamente né come fine né come mezzo, ma sopportata perché il bene della vita della madre è proporzionato al bene della vita del feto – e craniotomia del feto in tutti quei casi in cui, in mancanza di mezzi medici adatti, non sarebbe stato consentito altrimenti il parto e ciò avrebbe portato alla morte della madre (uso i verbi al passato perché si tratta di operazioni adesso non più necessarie). Tale craniotomia uccide direttamente il bambino per consentire alla madre di vivere. Quest’ultimo atto vuole la morte del feto come mezzo diretto a mantenere la vita della madre e quindi non è lecito. Questo sarebbe l’unico caso in cui potrebbe essere richiesta l’astensione del medico dall’agire. I trattati di ostetricia ottocenteschi come A. Velpeau, Trattato completo di ostetricia medica, Venezia 1837, pp. 392 ss., consci del problema etico implicato nell’operare direttamente per produrre la morte del feto, lo consigliano solo a feto morto e/o probabilmente morente. Nel medesimo ambito di valutazione si situa, quasi un secolo e mezzo dopo, L’Enciclopedia medica Italiana, Uses, Firenze, 1976, pp. 1285 ss., sostenendo precisamente che gli interventi embriotomici hanno quasi esclusivamente un interesse storico e che esiste solo un indicazione in casi di “idrocefalia a feto morto” (p. 1286), mentre a feto vivo sarebbe un “delitto” (ibidem). Il problema morale della salvezza della vita della madre, in casi simili, tuttavia rimane, sebbene oggi sia possibile evitare di incorrervi. Samek Lodovici lascia aperto uno spiraglio etico per la madre nella “scelta del male minore” (p. 155), un male minore che soggettivamente per la madre potrebbe essere inteso nella perdita della vita del figlio a salvezza della propria, così come lo diventerebbe, sempre soggettivamente, per coloro che hanno un rapporto comunicativo, affettivo, di comunanza di vita e valori con la madre. Questi ultimi (includendo nel gruppo anche i medici responsabili), data la sostanziale parità di diritto alla vita fra il feto e la gestante, potendo intervenire a favore della vita della madre e non facendolo per non uccidere il feto direttamente, sarebbero nella spira del dilemma tra un’omissione che genererebbe la morte della madre e un’azione che genererebbe la morte del bambino: tra queste due potrebbero sentirsi costretti a scegliere il male che loro appare minore, cioè l’azione che produce la morte del secondo. Ovviamente la consapevolezza che tale azione è e rimane un delitto ha avuto e ha l’effetto di stimolare la ricerca di altre vie e possibilità terapeutiche. Così se la teoria del doppio effetto qui appare difficilmente accettabile nella sua pienezza per chi, come noi, ritiene che una gravidanza possa condurre alla morte della madre solo come conseguenza inevitabile in assoluto, o solo come conseguenza scelta come super-erogatorio dalla madre; tuttavia, il suo mantenimento risulta essere un importante criterio regolativo per lo sviluppo della ricerca scientifica in un simile, rilevantissimo ambito. Su tale questione è di diverso avviso P. Foot, The problem of abortion and the doctine of double effect, “Oxford rewiew” 5(1967),  che ritiene necessario astenersi da ogni intervento, ma non in base alla dottrina del doppio effetto, bensì alla seguente considerazione: “Grazie ad uno stretto parallelo con casi che non coinvolgono i nascituri potremmo trovare che la conclusione (di astenersi dalla craniotomia, n.d.r.) è corretta ma raggiunta attraverso una motivazione sbagliata (quella data mediante la dottrina del doppio effetto, n.d.r.) Supponiamo, ad esempio, che nella vita successiva alla sua nascita la presenza di un bambino possa certamente portare alla morte la madre. Non penseremmo certamente di essere giustificati nel liberarla di lui per mezzo di un processo che porterebbe alla sua morte. Ciò perché in generale non pensiamo che possiamo uccidere una persona innocente per salvare un altro, lasciando abbastanza a parte la questione della cura particolare che riteniamo sia dovuta ai bambini una volta che hanno prudentemente ottenuto di nascere” (p. 15).

[19] La condizione del violinista a ben vedere è una condizione limite. La pura, rousseauiana individualità irrelata, non esiste. Proviamo a immaginare la donna ipoteticamente attaccata al violinista. Non comincerebbe forse a conoscerlo, a parlarci, ad apprezzarlo per certi versi e forse anche a odiarlo per altri? Non si instaurerebbe pertanto un legame? Non vi sarebbe un’esperienza comune da condividere, una relazione da costruire, un rapporto spirituale come accade sempre fra gli uomini. E se tale rapporto fosse conflittuale non ci si domanderebbe quale sia la lealtà e il riconoscimento che noi dobbiamo al nostro nemico in virtù del fatto che l’essere che ci divide è pure quello che ci unisce? E se fosse un rapporto di amicizia, benevolenza, amore non saremmo disposti, nei panni della donna a rinunciare a qualcosa di nostro a suo favore? E ciò non sarebbe in nome di un diritto astratto, ma proprio in virtù di quella singola persona che è quella con cui si ha a che fare. Così è per tutti gli estranei, la cui estraneità non può mai essere definita se non come una questione di gradi diversi di intimità.

[20] R. Guardini, cit., p. 62

[21] Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1982, pp. 78-79


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