Ho recentemente visto una trasmissione in cui si accusava Giorgia Meloni di voler surrettiziamente modificare o abrogare la legge 194/78, malgrado le sue ripetute smentite. Non voglio qui discutere approfonditamente la miopia del tatticismo della destra (e anche, in modo sorprendente e triste, di mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita) che dall'opposizione netta all'aborto, è passata a una opposizione strategica, senza che nulla ci garantisca che in futuro non passi a una accettazione con riserva e infine a una promozione entusiastica. Il dramma del conservatorismo è che quello che ieri era progressista oggi appare conservatore, e a questa apparenza spesso ci si conforma e adegua. Più inquietante è invece il mostro ideologico abbracciato dai sostenitori della "scelta": ora non si tratta più di rivendicare appunto una possibilità di scelta (che almeno in linea di diritto lascia uno spiraglio aperto alla vita), ma propriamente un diritto all'aborto, quasi che l'ammazzamento di un bambino fosse qualcosa di indiscutibilmente buono e tale da suscitare in altri una sorta di dovere di accettazione o anche di complicità. In questo senso la sinistra e i suoi apparati mediatici determinano veramente un esito disumano e apertamente si dichiarano partigiani del Mostro. Non è stato sempre così. E' stato piuttosto un piano inclinato che alla ricerca di un'argomentazione razionale (benché erronea) ha sostituito un grado via via più intenso di depravazione spirituale che rivendica apertamente se stessa e si autoimpone dogmaticamente e violentemente. In questa sede mi sono prefisso il compito di tornare alla ragione e confrontarmi con le tesi di un'intellettuale raffinata che ha creduto di poter dimostrare la liceità morale dell'aborto. Lo scopo è esibire i punti deboli e retorici del suo ragionamente, fiducioso nel fatto che, prima o poi, la simobiosi di un richiamo alla bellezza della natura umana e al dovere della razionalità possa riportare il dibattito su un piano autenticamente umano e consentire alla verità morale condensata nel comandamento "non uccidere" di tornare in primo piano, di essere contemplata e amata come fondamento delle relazioni tra gli uomini. (L'articolo è già apparso in AaVv, Controcorrente. Saggi contro la deriva antropologica, Vol III, Bioetica, Edizioni Croce Via, 2017, pp. 59-81).
Non conosco il curriculum di
Judith Jarvis Thomson, né voglio farlo. Mi basta sapere che ha scritto agli
inizi degli anni Settanta del Novecento su una rivista scientifica di prestigio
come “Philosophy and public affairs” (1/1971) e che il suo articolo ha fatto
epoca, provocando reazioni e approfondimenti che si sono protratti nel tempo.
Mi basta constatare che gli argomenti che l’autrice avanza nel suo Una difesa dell’aborto sono sottili e
circolano ancora presso i sostenitori del diritto della donna ad abortire (i
cosiddetti “pro-choice”). L’intento di questo scritto sarebbe quello di
prendere seriamente le provocazioni di questa studiosa ed elaborarle per
dimostrare che, laddove esse hanno validità, in modo solo apparentemente
paradossale riconducono alla reale dimensione morale dell’aborto, che è e
rimane qualcosa di assolutamente indegno, di straordinariamente degradante, di
eccezionalmente umiliante per chi lo commette e vi partecipa in qualsiasi modo.
Laddove esse, invece, risultano non valide, sono comunque contrassegnate da una
sapiente retorica che deve essere demistificata per riportare il linguaggio
alla sua funzione filosofica e scientifica di medium di descrizione della realtà.
Il bambino-persona
Seguendo propriamente il discorso
della Thomson, iniziamo a considerare gli aspetti retorici. Al suo esordio ella
comincia a escludere l’interesse per gli argomenti relativi allo status ontologico del feto. Non le importa
stabilire se il feto sia una persona o no e, in effetti, il suo articolo non
verterà su questa tematica. Tuttavia, a mo’ di considerazione laterale e
aggiuntiva, ella esprime l’idea che l’argomento della continuità - secondo cui,
non essendovi nel processo biologico che caratterizza lo sviluppo del feto
alcuna cesura, bisogna considerarlo una persona e trattarlo come tale - non è affatto
pertinente. Come, infatti, non siamo portati a ritenere che una ghianda sia una
quercia, allo stesso modo non dovremmo considerare un bambino un essere umano,
solo perché nello sviluppo di entrambi non si possono trovare cesure. Il feto
sarà, dunque, un “agglomerato di cellule”, secondo un’espressione ormai entrata
nel lessico comune degli abortisti, sebbene si ammetta che esso diventi una
persona umana “ben prima della nascita” (“invero si resta sorpresi quando si
viene ad apprendere quanto precoce sia l’inizio dell’acquisizione delle
caratteristiche umane”).
Tale esordio argomentativo
appare convincente proprio perché noi tendiamo a considerare la ghianda (acorn) e la quercia (oak tree) a prescindere dal rapporto di
continuità del loro sviluppo, anche per via della loro denominazione (già
diverso suonerebbe l’esempio con i termini italiani castagna-castagno, arancia-arancio)
che evidenzia più la diversità che la continuità. Nel lessico comune, dunque,
abbiamo maggiori difficoltà a identificare una ghianda con una quercia
non-ancora-tale, molto di più di quanto accade con i termini
feto-bambino-persona adulta. Inoltre, la Thomson, pur alludendo al fatto che,
prima della cesura del parto, il feto possiede caratteristiche umane, tace che,
allo stesso modo, prima della cesura della fecondazione siamo sicuramente in
presenza di qualcosa che appartiene al corpo umano (l’uovo e lo spermatozoo) ma
che certamente non è un essere umano. Pertanto, la continuità stabilita dagli
antiabortisti è ben situata tra due momenti di “salto”, prima e dopo il quale
abbiamo certezza che rispettivamente non vi sia e vi sia un essere umano.
Dentro questo segmento che va dal punto della fecondazione al punto del parto
vi sarebbe già una situazione di dubbio che potrebbe essere decisa solo in base
a un principio di prudenza. Avere il dubbio che X sia una persona è, infatti,
moralmente più rilevante del dubbio se X sia una quercia. Per il primo è del
tutto legittimo invocare la prudenza perché è in ballo una vita umana (dovremmo
pertanto dire: “Considero X un essere umano perché se sbaglio commetto un
errore molto meno grave dell’uccisione di un essere umano in caso di errore contrario”).
Tuttavia se, per sua stessa ammissione, la certezza che vi sia essere umano va
anticipata a un momento anteriore al secondo salto, cioè a quello del parto,
non si può non concludere che abbiamo a che fare con un essere umano anche nel
segmento di tempo che va dalla fecondazione al parto stesso, dato che non c’è
evidente soluzione di continuità se non al momento della fecondazione.
Tale modo di argomentare non conduce, come asserito dalla Thomson, alla
fallacia del piano inclinato. L’autrice attribuisce agli antiabortisti il
seguente errore: data l’impossibilità di stabilire un momento preciso in cui il
feto va considerato una persona dentro una certa continuità di sviluppo
biologico, ciò implica lo stabilire una connessione logica arbitraria tra un
primo momento, dato dalla fecondazione, e l’ultimo dato dal parto, tale che,
dato il primo, si dà, in modo non provato,
anche l’ultimo. In realtà non vi è qui alcuna fallacia, perché il ragionamento
non si fonda su implicazioni arbitrarie concernenti il futuro: non si sta qui
ipotizzando che dato un fatto “A” ne seguirà uno “B”, poi uno “C”, uno “D” e
uno “E”, tanto da concludere in modo illegittimo che dato “A” seguirà “E”. Per
esempio: “Se compri un motorino (A), andrai troppo veloce (B), se andrai troppo
veloce (B) non ti fermerai al semaforo rosso (C), se non ti fermerai al
semaforo rosso (C) avrai un incidente con un Tir (D), se avrai un incidente con
un Tir (D), morirai (E), quindi se compri un motorino (A), morirai (E)”. Non si
tratta per niente di un ragionamento di questo tipo poiché la continuità dello
sviluppo di una persona è fatta di implicazioni biologiche, non (fallacemente) logiche
e, tra le due, le prime non sono arbitrarie, ma seguono leggi che sono da
ritenersi valide fino a prova contraria. Non c’è qui alcuna ipotesi arbitraria,
come nelle implicazioni prima esemplificate (nulla ci dice che se compro un
motorino andrò troppo veloce o passerò col rosso) ma la certezza che l’embrione
ha una specifica modalità di sviluppo e tale modalità porta invariabilmente,
escludendo possibili patologie, al parto di un essere umano.
Queste dinamiche riguardano un
essere che si sta sviluppando per giungere a esercitare tutte quelle
caratteristiche che sono proprie di un essere umano e che si posseggono come un
atto primo sin dall’inizio, cioè come
la vita di un essere umano che esiste anche se tutte le caratteristiche che la
contraddistinguono non sono esercitate né esercitabili per qualche giorno o
mese o qualche anno.
Siccome l’impossibilità di esercitare certe funzioni tipiche dell’uomo, come
l’essere coscienti e attenti (atto
secondo in senso aristotelico)
non determina il venir meno del nostro status
di persone, analogamente l’impossibilità di esercitare certe funzioni
tipicamente umane per un feto non cambia nulla circa il suo possesso di quella
qualità fondamentale dell’essere umano che lo porterà a esercitarle in un
futuro abbastanza breve. Pertanto, non solo dovremmo ammettere per ipotesi
retorica che il feto sia un bambino e una persona, ma lo dovremmo fare costretti
da un’analisi senza pregiudizi della realtà effettuale. Il passaggio di
ammettere e non concedere l’umanità e personalità del feto, che la Thomson
attua in modo retorico per passare a quello che ella ritiene il suo argomento
fondamentale, va di conseguenza considerato in modo non retorico, mentre tutto
quanto è posto prima, relativamente all’analogia tra ghianda-quercia e
feto-persona, va considerato come un artificio puramente
linguistico-psicologico.
Il violinista
A partire da tale prospettiva
possiamo analizzare l’altra e più rilevante analogia thomsoniana: quella tra il
feto e il “violinista”. Essa costituisce la parte fondamentale del discorso
della studiosa americana, ed è su questo paragone che si costruisce
l’argomentazione più importante e suggestiva. L’autrice ci chiede “di
immaginare questa situazione. Una mattina vi svegliate distesi a fianco di un
violinista privo di conoscenza, un violinista molto famoso. Gli è stata
diagnosticata una grave insufficienza renale, la società dei musicofili ha
consultato tutti gli archivi medici disponibili e ha scoperto che siete gli
unici a possedere il tipo di sangue adatto per la trasfusione. Vi hanno rapito
e la notte precedente il sistema circolatorio del violinista è stato collegato
al vostro, in modo che i vostri reni possono depurare il suo sangue così come
fanno con il vostro. Il direttore dell’ospedale vi dice ora: ‘Guardi, siamo
spiacenti che la società dei musicofili le abbia fatto questo – non l’avremmo
mai permesso se l’avessimo saputo. Tuttavia l’hanno fatto e ora il violinista è
collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma non c’è da
preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua
insufficienza e potrà essere staccato senza pericoli’. Avete il dovere morale di
acconsentire a questa situazione? Farlo sarebbe gentile da parte vostra, molto
gentile, ma dovete acconsentirvi?”.
La domanda retorica, con cui
si chiude il brano, rimanda chiaramente ad uno scarico di responsabilità da
parte della donna che rifiuta di concedere l’uso del suo corpo ad una persona
che non ne ha diritto, perché nessuno ha il diritto di usare il corpo di un
altro, che è sua proprietà, nemmeno se dall’uso del corpo dipendesse la
sopravvivenza della persona che ne usufruisce. In sostanza come il violinista
appare nell’esempio un estraneo, un ospite sgradito e financo un invasore, così
sarebbe il feto per la madre che lo ospita senza volerlo. L’unica
responsabilità che si potrebbe attribuire alla madre è quella di aver consapevolmente
accettato il rischio di rimanere incinta e quindi di dover nuovamente accettare
il figlio che ora deve a lei la continuazione della sua esistenza. Infatti, in
questo caso, non avendo preso le necessarie precauzioni contro una gravidanza,
la sua negligenza implicherebbe un’assunzione di responsabilità circa le
conseguenze della sua azione, il cui esito non potrebbe essere fatto ricadere
sul figlio che non ha chiesto di essere concepito e che ora dipende dalla madre.
In tutti gli altri casi, non essendoci stato un esplicito consenso alla
presenza del figlio nel proprio corpo e all’uso che il figlio deve fare di
questo per nove mesi, la sua uccisione, cioè il procedere ad un distacco di ciò
che lo tiene unito alla madre, non è moralmente condannabile come
un’ingiustizia. Infatti, come il violinista non ha diritto a usare il corpo
della donna cui è attaccato a prescindere dalla sua volontà, allo stesso modo
questo diritto non è posseduto dalla persona-non-nata. Insomma, neanche la vita
di qualcun altro può determinare una sospensione del diritto di proprietà
esclusiva che ciascuno ha sul proprio corpo.
L’argomento è da prendere seriamente,
anche perché arriva a sostenere che è corretto garantire il diritto di ogni
persona alla vita, “ma non quando per vivere è necessario qualcosa cui non si
ha diritto”, cioè, per esempio il corpo di un’altra persona. Dunque. supera lo
scoglio assai grande della scarsa persuasività di considerare il feto “un grumo
di cellule” ed elabora una massima morale apparentemente accettabile.
Il legame
Il problema è però diverso.
C’è un fatto che rende l’analogia violinista-feto improponibile. Tale fatto è
il legame che esiste tra il feto e la madre. Il feto non è semplicemente un
essere collegato al corpo della madre in modo tale da poterlo sfruttare per il
proprio sviluppo e la propria vita. Egli è una persona che ha un legame d’intimità
profondissima con la madre, un legame che ha una matrice certamente biologica,
ma che giunge a un livello tale da assumere una qualità morale e spirituale.
Che dinamica di giustizia si può instaurare tra persone che hanno un simile
legame? La giustizia è compendiabile nel diritto di proprietà che ognuno ha sul
suo corpo? È tutta una questione di proprietà e di scambio? È solamente una
certa parità da raggiungere quando a ciascuno è garantito il suo? Certo con l’estraneo può essere così. Con l’estraneo
la giustizia è il fondamento per l’instaurazione di un legame. Rispettare la
sfera dell’altro è condizione perché ciascuno non si senta aggredito e quindi
possa legarsi a un'altra persona con sufficiente fiducia. A tal fine è
indispensabile quella parificazione dei rapporti per la quale, appunto, a
ciascuno va restituito il suo (unicuique
suum) e, nel calcolo, nessuno ci perda.
Quando tuttavia il legame è già presente, l’altro non è più il partner di uno scambio che ha da essere
paritario, ma è colui che chiama ad assumere il suo punto di vista. Il piano
più alto della giustizia non è il rispetto della spettanza altrui, ma è
l’assunzione consapevole del punto di vista dell’altro. “L’altro ha pure
dall’esistenza il diritto ad essere come è; dobbiamo dunque anche consentirglielo”
dice Romano Guardini… e fin qui anche la Thomson potrebbe concordare. Ma
Guardini va oltre: questo “consentire” non è solo teoretico, ma avviene “nel
nostro sentimento e nei nostri pensieri; nel comportamento e nell’attività
quotidiana. E questo soprattutto nel nostro ambiente più intimo: nella
famiglia, nell’amicizia, nella professione. Questa sarebbe la giustizia che
comprende l’altro dal suo punto di vista e che si comporta in modo
corrispondente”.
E qui la Thomson viene meno, perché esclude a priori, e ciò è sorprendente da
parte di una donna, quel ragionamento caldo
che tiene conto degli aspetti emotivi, delle dimensioni relazionali ed
empatiche che connotano la comunità umana e che hanno un ruolo morale
rilevante. La Thomson tende a relegare tutto ciò nella dimensione del
super-erogatorio. La sua ipotesi è che a fronte della posta in gioco di una
vita umana, anche postulando uno sforzo assai più esiguo di quello che avviene
realmente per portare a termine una gravidanza, sarebbe “moralmente indecente”
procedere ad un aborto per difendere la propria autonomia e indipendenza, ma
non sarebbe ingiusto. Sarebbe come un individuo che rifiuta di dare un
cioccolatino a suo fratello motivando il suo comportamento con il fatto che la
scatola di cioccolatini è stata regalata solo a lui. Egli sarebbe egoista,
insensibile, ma non ingiusto, perché il fratello non potrebbe vantare nessun
diritto su qualcosa che non è suo. Dare il cioccolatino sarebbe dunque
“qualcosa in più”, qualcosa che si eroga oltre al dovuto, così come condurre a
termine la gravidanza sarebbe generoso e “gentile”, ma non obbligatorio.
Il ragionamento formalmente
tiene, umanamente no. Il merito della Thomson è quello di lasciare aperta la
via al super-erogatorio, cioè a fornire un argomento razionale al rifiuto
personale dell’aborto. Questo è già tanto. Come dire: abortire è ammesso, ma
attenta, perché se lo fai rischi di diventare, quand’anche non “ingiusta”, una
persona “indecente” e “mostruosa”. Ovviamente tale rischio è commisurato a
determinate condizioni: hai voluto la gravidanza? Quale tipo di sacrificio ti è
richiesto a fronte della vita di tuo figlio? Ritieni tale sacrificio
insopportabile o no? Siamo ben lontani dalla superficialità inqualificabile delle
Bonino e delle Faccio, ma ancora altrettanto lontani da una prospettiva
autenticamente umana. Ciò accade proprio perché nella realtà i beni non sono
oggetti formali, ma si collocano dentro la rete emotiva, spirituale e razionale
dei legami umani, in cui il confine tra il mio e il tuo sfuma e le spettanze
aumentano proporzionalmente all’intensità del legame stesso. Pertanto, nella vita reale e relazionale la
responsabilità che si ha verso l’altro non dipende dalla sua formale
assunzione, ma dall’evidenza del bene che rappresenta l’altro e della risposta
che egli chiede a tale suo valore,
risposta che è esigita nella forma dell’amore. E qui allora “amare il prossimo”
non è un super erogatorio da buon samaritano, come afferma la Thomson, ma è un
preciso dovere.
Il samaritano, infatti, diventa prossimo di colui che è stato derubato e
percosso lungo la strada proprio perché sente un dovere nei suoi confronti, il
dovere che non è sentito dagli altri, il sacerdote e il levita, che infatti non
gli sono “prossimi”. Chi invece è prossimo ha l’obbligo nei confronti del suo
prossimo di essere giusto nei suoi
confronti, amandolo. Questo è un
precetto, è un comandamento, non è un consiglio per chi desiderasse una
perfezione migliore. Il dovere, che si sente e cui si ottempera da parte del
samaritano, costituisce dunque la prossimità, una prossimità che è
contraddistinta proprio da quel dovere. E nel caso tale prossimità già vi sia?
Possiamo dire che abbiamo nei confronti dei nostri genitori gli stessi doveri
che sussistono nei confronti di altri? No, perché i nostri genitori sono già
oggetto di un legame particolare, intimo e intenso che determina una peculiare
prossimità, che pure non è stata scelta (la scommessa cristiana è che si possa
istituire una prossimità profonda anche con altri che non sono già prossimi,
sentendo un dovere particolare nei loro confronti, quello di amarli come si ama
se stessi. Questo dovere, sentito come
verso il prossimo, finisce col fare dell’estraneo effettivamente il prossimo).
E qual è concretamente il dovere che abbiamo, in forme crescenti d’intensità,
nei confronti dei legami crescenti che ci collocano a fianco del nostro
prossimo? Il dovere è quello di perfezionare la natura dell’altro. Il
fondamento di una relazione umana non è né biologico, né convenzionale ma, a
partire dalla dimensione corporea e biologica che caratterizza l’esistenza
dell’essere umano,
impossibile a eludersi come vorrebbero i cartesiani e i sostenitori fallaci
della cosiddetta “fallacia naturalistica”, diviene un compito etico. Ognuno di
noi ha nei confronti del suo prossimo il compito di portare a compimento
l’eccellenza della sua natura. Questo è il senso della socialità umana: l’uomo
è l’animale che trae da un altro individuo della propria specie l’eccellenza
della natura di quell’individuo, e può assolvere a questo compito tanto meglio
quanto più il legame è intenso, profondo, empatico…e ciò avviene ovviamente in
modo reciproco. Questo è anche il senso della vita umana, di colui che, essendo
intimo a se stesso, è intimo anche agli altri e viceversa, perché ha l’altro
non dentro il suo corpo, ma dentro il suo spirito attraverso la relazione dei
corpi. Da ciò si evince che la situazione di potenzialità in cui qualcuno si
trova rispetto alla sua eccellenza – il suo non essere ancora “compiuto” - non
è ostacolo al compito etico che gli altri hanno nei cuoi confronti, ma ne è la
condizione: proprio perché imperfetti, incompiuti, mai pieni nel nostro essere,
gli altri possono e devono operare nei nostri confronti perché la pienezza e il
compimento siano raggiunti. Il dovere che si ha nei confronti degli altri è
quindi un dovere che si ha verso individui a metà affinché essi divengano persone
integrali. È del tutto evidente come allora, in virtù del legame che unisce il
feto alla madre, esso costituisca un dovere per la madre, tanto più intenso
quanto lo è il legame, e tanto più intenso quanto è incompiuto l’essere della
persona-non-nata. Paradossalmente, ma non tanto, il dovere non diminuisce al
diminuire dell’età del feto, ma aumenta e raggiunge i massimi livelli quando si
tratta di un bambino appena concepito, cioè allo stato embrionale.
Giustizia e giustizia
Per comprendere tutto ciò
bisogna risalire da un concetto di giustizia aristotelico
ad uno platonico.
Il primo insiste sulla nozione di uguaglianza, il secondo su quella di ordine.
Sono certo due nozioni che non si escludono. Non vi è ordine e armonia tra gli
uomini, infatti, senza una reciprocità nelle loro relazioni. Tuttavia, diverso
è lo sguardo che i due punti di vista generano. La nozione di uguaglianza
presuppone uno sguardo orizzontale e il calcolo di ciò che spetta, quella di
ordine uno sguardo verticale e globale. L’ordine è un “tutto”, qualcosa che è
concepito nella sua globalità come se fosse visto dall’alto, è la rete
complessiva della pòlis e delle
nostre relazioni sociali. In esso si coglie una molteplicità di rapporti di
diversa natura, armonizzati in misura di una nozione come quella di suum agere, cioè di “svolgere il proprio
compito” nei riguardi degli altri, che rappresenta il leit Motiv della Repubblica
platonica. Si tratta invero di pensare lo Stato come luogo dove la giustizia è
fare ciò che compete per il bene del tutto e di tutti a seconda delle proprie
dotazioni e vocazioni personali cui presiede l’anima, cioè, diremmo oggi,
l’intima qualità personale di ciascun individuo. Tale prospettiva integra e
arricchisce la nozione di spettanza e di diritto, calandola nella realtà dei
concreti legami familiari, amicali, affettivi, e infine generalmente sociali. Se
si esclude tale seconda nozione, si corre il rischio di non tenere presente il
senso etico di un’antropologia relazionale che ammette l’intersoggettività (il Mit-sein, con-essere, di Heidegger;
la società trascendentale di Gentile;
l’intersoggettività husserliana;
il rapporto con l’altro studiato da Levinas
e Ricouer;
tematiche su cui molta della riflessione contemporanea si trova in sostanziale
accordo) come costitutiva di ogni essere umano, finendo così per considerare il
bambino che la mamma porta in grembo come un violinista sconosciuto che, per un
“caso funesto”,
è stato surrettiziamente attaccato al corpo di una donna… Siamo spiacenti per la
Thomson ma questa non è la realtà, ma
è bensì una costruzione more geometrico
finalizzata a dimostrare una certa tesi, eludendo proprio quel carattere
ingiusto e perciò degradante e infame che appartiene all’atto di uccidere, non
solo Tizio da parte di Caio, ma il proprio figlio
da parte di una madre.
Il caso estremo o il caso diverso?
Sin dall’inizio della sua
argomentazione la Thomson, per aumentare l’efficacia delle sue deduzioni,
introduce l’analisi di quello che lei chiama “un caso estremo”, cioè l’ipotesi
che la vita della madre sia messa a rischio dalla nascita e sviluppo del feto.
Tale allusione ha ancora una funzione retorica: quella di mettere in chiaro con
un esempio lampante che cosa significa “espropriare” il corpo della madre. Nulla
più di un figlio, la cui presenza può essere fatale per la donna, “espropria”
il suo corpo. L’obiettivo polemico sono coloro che sostengono che l’aborto,
come uccisione diretta del feto, è inammissibile anche in caso di pericolo
reale e imminente per la vita (e non per la “salute” come recita sibillinamente
e ambiguamente la nostra legge 194/78 art. 4) della madre. Non fare niente per
salvare la madre con un “aborto terapeutico” e opporsi a ogni intervento
costringendola ad andare incontro a morte sicura: se tale orientamento
ricevesse una sanzione legale, ciò apparirebbe un’insopportabile sopraffazione
da parte dello Stato che si troverebbe nella condizione di costringere
qualcuno, innocente e avente diritto alla vita in quanto persona, a sacrificarsi
in favore di qualcun altro, il figlio, che non possiede maggiore diritto alla
vita della madre stessa. Così, sostiene la Thomson, accade che a una donna
venga sottratta la disponibilità del suo corpo e persino della sua vita. Ma
tale espropriazione sussiste, in modo significativo anche se a un grado minore,
ogniqualvolta la madre sia costretta in una gravidanza non voluta a impiegare
il suo corpo per dare ospitalità a qualcuno. Nessuno ha infatti il diritto di
chiedere il sacrificio di qualcun altro se non vi sia stato una sorta di
contratto che renda doveroso, in nome dell’uguaglianza dei rapporti, tale
sacrificio.
Se la funzione chiarificatrice
di questo esempio risiede, come detto, nell’evidenziare il senso della tesi
complessiva della Thomson: i figli non voluti sono soggetti che senza diritto
parassitano il corpo materno, il suo esito retorico sta nello svalutare
preventivamente il campo anti-abortista con lo stigma dell’estremismo
irrazionale che svaluta a priori la titolarità della donna al possesso del
proprio corpo. A fronte di ciò bisogna affermare con forza che tale esempio non
costituisce alcun caso estremo, ma un
caso diverso. La sussistenza di un pari diritto alla vita
della madre e del figlio rende il sacrificio della madre effettivamente un
super erogatorio. Infatti nel caso di un sacrificio della madre a favore della
vita del figlio il dovere di portare a compimento l’altro nella sua eccellenza
è considerato prioritario rispetto al diritto di vivere, per cui la solidarietà
e continuità tra la giustizia come parità/uguaglianza e la giustizia come
ordine/legame viene spezzata dalla totale auto-donazione della madre al costo
della sua stessa esistenza: non c’è più uguaglianza e non c’è più un legame; la
madre muore per il suo bambino, ogni ordine possibile nella dimensione terrena
viene meno in favore di un ordine spirituale, metafisico, escatologico che
rappresenta qui e ora l’alterità totale dell’assoluto. Tale nobilissimo e
santissimo gesto va chiaramente oltre il dovuto e quindi non può essere esigito
giustamente da nessuna legge o istituzione civile.
Che cosa accade dunque? Accade
che nell’eventualità di un rischio reale per la vita della donna, in assenza di
una sua volontà di sacrificio, ogni discorso sui diritti che reciprocamente
avrebbero madre e figlio si annulla nella loro sostanziale parità. Cioè il
problema non è più una questione di diritto, ma di fatto. Non essendoci una
ragione migliore per giustificare un comportamento piuttosto che un altro, ogni
comportamento è legittimo: legittimo è il sacrificio super erogatorio,
legittima è la difesa della propria vita tramite un parto anticipato, anche se
tale parto porterà sicuramente alla morte del feto (il problema dell’uccisione
diretta di una persona non sussisterebbe in questo caso, come pretenderebbe la
Thomson, perché sin dall’inizio la morte del feto non sarebbe voluta come mezzo
per salvare la madre, anzi non sarebbe voluta in ogni caso, ma risulterebbe una
conseguenza delle procedure minime necessarie a salvarle la vita). Eticamente,
dunque, nei rari casi in cui tale eventualità potesse verificarsi, non è in
discussione una procedura abortiva (che non è un atto medico, non
configurandosi la gravidanza come una malattia, bensì un intervento sul corpo
di qualcuno con mezzi medici), ma appunto una procedura terapeutica che
coinvolge nei suoi effetti la vita del bambino, laddove tali effetti negativi
sono proporzionati al bene in gioco, cioè la vita della madre.
La conclusione della Thomson
Il discorso della Thomson
invece conduce dall’ammissione del diritto della madre nei riguardi del bambino
la cui gestazione minaccia la sua vita - che non è in realtà un diritto, ma un
fatto e non riguarda la vita del bambino, ma la propria - al diritto di una
donna di esprimere la proprietà del suo corpo uccidendo “non ingiustamente” il
figlio che porta in grembo, secondo una continuità che in realtà non esiste.
Tale diritto di uccisione, secondo lei, sussiste pienamente quando la donna non
è responsabile della gravidanza e diminuisce progressivamente in ragione della
responsabilità cui ella può essere chiamata nell’aver provocato la sua
condizione gestatoria. La conclusione è che l’aborto è ammissibile, ma non in
ogni caso, e che comunque la nascita e sopravvivenza del bambino fuori dal
corpo della madre elimina ogni diritto alla sua soppressione. Siamo contenti di
questa moderazione, ma non troppo. In realtà l’individualismo estremo di chi
riduce i rapporti umani a una sorta di contratto, dove le responsabilità sono
esplicitate con l’acribia del notaio commercialista, non costituisce nessuna
garanzia né per la madre né per il figlio. La madre che abortisce non è perciò
protetta dalla tragedia interiore di aver ucciso una persona che invece era
chiamata ad amare; il bambino che può essere ucciso non è protetto nel suo
essere persona dipendente da qualcun altro, come lo sono tutte le persone per
quanto attiene al loro sviluppo e alla loro realizzazione piena. E la giustizia
viene comunque ferita, perché non vi può essere nessuna giustizia senza una
visione complessiva dell’uomo, il cui orizzonte morale non è il guscio che
protegge il suo narcisismo, ma è l’oltre infinitamente grande di un’alterità
costitutiva, esigente e affascinante.
Il prossimo e l’estraneo
Il percorso compiuto sviluppa
una critica alle tesi della Thomson partendo dalla riaffermazione della
personalità del feto, cosa che va ammessa e concessa,
se si vuole inquadrare correttamente e razionalmente il problema. Da qui si
procede all’esposizione e all’analisi dell’argomento del violinista,
sottolineando come sia difficile equiparare un soggetto generico e indifferente
come “il violinista” a una persona come un figlio con cui una donna mantiene un
legame del tutto particolare e profondo. Non solo quindi non è giusto uccidere
una persona, ma non è giusto uccidere un figlio. Un figlio non è semplicemente
qualcuno che invade il proprio corpo, nei riguardi del quale è immaginabile,
sebbene non giustificabile in toto,
un comportamento di rifiuto e/o rigetto, bensì quell’altro che è il più
prossimo dei prossimi, verso il quale la qualità del legame impone un certo
criterio di comportamento. Tale criterio esclude sempre l’uccisione del bambino
poiché essa rappresenta non tanto la legittima difesa contro un invasore non
richiesto, ammesso e non concesso che tale legittima difesa debba produrre per
forza la morte del feto, ma una grave violazione del dovere fondamentale di
perfezionare la vita dell’altro, dovere che ognuno possiede nei confronti del
proprio prossimo e che supera la dimensione dell’uguaglianza dei rapporti e del
calcolo freddo che punta a restituire a ciascuno quello che gli spetta in virtù
della sua esistenza atomica e individuale. L’unico caso in cui la morte del
feto è accettabile è quello in cui essa sia conseguenza di una procedura
terapeutica intesa a salvare la madre in concreto e accertato pericolo di vita
a causa della gravidanza, sempre che non si tratti di un’uccisione deliberata.
Quest’ultima appare ammissibile, nei rarissimi casi in cui è necessaria, solo
come male minore, a fronte della difesa del diritto della madre a vivere -
diritto che non è inferiore a quello del figlio - e in attesa che tale male,
incontestabilmente e radicalmente male quand’anche “minore”, sia tecnicamente del
tutto evitabile.
Si è visto come nel corso
della mia argomentazione mi sono sorpreso che una donna possa tranquillamente
equiparare suo figlio a un qualsiasi individuo che accampi diritti
ingiustificati sul suo corpo. La freddezza di questa considerazione, a ben
pensarci, può essere solo dettata da un pregiudizio negativo sul figlio, a
partire dalle circostanze del suo concepimento e/o dalla storia e dai vissuti
personali. La forza di un pregiudizio originato da esperienze profondamente
negative e traumatiche può generare un processo di alienazione di questo tipo.
Si può comprendere tutto ciò attraverso quello sforzo empatico che chiama a
immedesimarci nelle sofferenze altrui e nell’effetto che esse producono sulla
psiche, inducendo la ragione a compiere percorsi oscuri e a prendere strade
senza uscita. Il calore innaturale di simili esperienze può finire per
scacciare con la sua violenza il calore umano della ragione attraversata
dall’amore e dall’attaccamento. Ma il fuoco desolato delle regioni infere non
può prendere il posto di quello elevato di una razionalità affezionata al vero
e al buono quando si tratta di elaborare criteri etici per la vita e il bene di
tutti e di ciascuno.
Così non si può confondere il prossimo
con l’estraneo. Non si può raffreddare e distruggere il legame che si ha con il
proprio prossimo, allontanandolo nella sfera dell’estraneità, anche a
prescindere dal fatto che noi saremmo chiamati a farci prossimo all’estraneo.
Appare del tutto singolare, in un contesto sociale come il nostro, che
quest’ultimo dovere sia continuamente richiamato, insistendo sull’innocuità e,
anzi, su una presunta utilità sociale dell’accoglienza di coloro che per motivi
diversi, e non sempre plausibili, entrano nel nostro paese sedotti dal miraggio
del benessere occidentale. Un ragionamento superficialmente sociologico
conduce, infatti, a considerare l’approdo a una società multirazziale
economicamente conveniente ed eticamente positivo, grazie alla fiducia incontaminata
nelle capacità di assorbimento del “sistema”. Le strutture di una società “a
scarsità moderata”, più o meno funzionante e dotata di un vasto serbatoio di
energie morali e materiali da profondere nell’assistenza e nel welfare, inducono a pensare che il
sistema stesso sia in grado di assorbire l’urto di un’immigrazione massiccia e
incontrollata e di dirottarne la forza distruttiva in direzione di un’ulteriore
crescita ed espansione. E così la giustizia comoda del sistema distoglie lo
sguardo dalla concreta ingiustizia delle relazioni, dai soprusi che un processo
di portata epocale genera per tutti coloro che già vivono la propria esistenza
nell’indigenza e nella difficoltà: dalla disperazione dello sradicamento, alle
guerre fra poveri, dalla desertificazione culturale all’aumento dello
sfruttamento, dalla perdita di dignità che subiscono tutti coloro che sono
confinati ai margini della società in attesa che “il sistema” provveda, siano
essi italiani o stranieri, alla costruzione di ghetti in cui emarginazione e
degrado vanno di pari passo con criminalità e violenza nell’assurdità dei
conflitti etnici e delle sopraffazioni mafiose e paramafiose. Ma finché la vita
delle periferie, e di tutti coloro per i quali la povertà e la disperazione
sono di nuovo l’unico spettro che si aggira per l’Europa, non giunge a far
sentire la sua voce al centro, è molto più comoda la giustizia accogliente del
sistema. Questa, con l’esigua spesa di un bel pensiero (“dobbiamo essere buoni
e misericordiosi”) e, se vogliamo, anche di due ore di volontariato alla
settimana, consente di comprarsi il paradiso di una coscienza a posto e
dell’orgoglio del giusto.
Di contro, la sconfortante
realtà della vita di un bambino che si appella al singolo e che può diventare
presenza ingombrante perché ricca solo di povertà e bisogni, appare nella sua
scomoda prossimità un peso insopportabile. La questione non si risolve infatti
con un buon pensiero, né con un proclama politicamente corretto, ma richiede
dedizione e rinunce, forza e impegno, pagando con una gioia difficile
l’enormità delle energie profuse… insomma, nel calcolo dei costi e dei
benefici, un vero disastro!
Ecco allora che risulta più
facile allontanare il prossimo e avvicinare l’estraneo, il primo atto essendo
conseguenza del rifiuto di un coinvolgimento personale, il secondo la sua abile
mistificazione.
Allora ha ragione R. Guardini
quando dice che “spesso le grandi cose sembrano esserci per distrarre l’uomo da
quei punti dove le cose si fanno serie. Dove si fa realmente seria la giustizia
dell’ordine (alla quale qui ci si è richiamati, n.d.r.)? La risposta avrà un
suono meno grandioso ma in compenso molto più concreto […]. A casa tua nel
rapporto con gli amici, in ufficio, là appunto dove tu sei assieme alle persone
umane. E nel fatto che tu a seconda delle tue possibilità dici, dai e fai ciò a
cui ciascuno ha diritto”.
Questa consapevolezza è l’antidoto alle fughe in avanti moralistiche e al tempo
stesso profondamente immorali nei buoni pensieri e nella giustizia del sistema.
Infatti, non c’è un pensiero
della giustizia, né un sistema della giustizia che siano giusti. La giustizia è
un compito infinito che va assunto in prima persona: la giustizia è un
asintoto, una linea iperbolica che per quanto si avvicini alla retta, ha sempre
un percorso infinito da fare per toccarla
e questo percorso è la vita reale e concreta dell’uomo, nelle sue relazioni,
vicinanze e prossimità alle quali è chiamato a divenire sufficiente mediante la
sola arma di uno sforzo continuo. Questo fanno tutte le madri che normalmente
ed eroicamente sentono l’appello che proviene dalla presenza mite e indigente
dei loro figli. Ecco perché la gratitudine verso le nostre madri è un bisogno
prima che un dovere, perché esse hanno preso sulle loro spalle questo compito
della giustizia e, con i poveri mezzi che la natura ha dato loro, l’hanno
portato a termine dignificando la loro e la nostra vita.
Massimo Maraviglia
Cfr. la teoria morale del doppio
effetto, che si ritrova originariamente in Tommaso, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7. Essa implica una distinzione
tra i fini voluti di una certa azione e le conseguenze provocate. Un conto,
infatti, è volere qualcosa, un conto è sapere che il raggiungimento dello scopo
provocherà conseguenze negative non volute che, tuttavia, si è disposti a
sopportare. Per esempio, una madre che sacrifica la sua vita per suo figlio non
vuole suicidarsi, non deve avere in odio la sua stessa esistenza, ma è
semplicemente disposta a sopportare di morire (conseguenza negativa) per
ottenere il fine che suo figlio viva (fine voluto). Quindi in questi come in
altri casi un’azione ha un doppio effetto, uno voluto e uno previsto, non
voluto ma sopportato. Lo sviluppo dell’indagine filosofica su questa dinamica
precisa che di un atto che ha una conseguenza negativa prevista è lecito il
compimento “1) se l’atto è in sé stesso buono o eticamente neutrale; 2) se la
conseguenza cattiva non è voluta come fine; 3) e se la conseguenza cattiva non
è voluta nemmeno come mezzo per la produzione della conseguenza buona; 4) se
c’è proporzionalità tra la conseguenza buona e cattiva” (G. Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham,
l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, Milano 2004, p.
152). Caso tipico in letteratura è proprio quello di una donna gravida affetta
da una malattia che potrebbe condurla alla morte se portasse a termine la
gravidanza. In queste circostanze, suggerisce Samek Lodovici, vi è una chiara
differenza tra l’isterectomia condotta sulla donna gravida affetta da tumore
all’utero - operazione che condurrebbe alla morte del feto come conseguenza
prevista, non voluta direttamente né come fine né come mezzo, ma sopportata
perché il bene della vita della madre è proporzionato al bene della vita del
feto – e craniotomia del feto in tutti quei casi in cui, in mancanza di mezzi medici
adatti, non sarebbe stato consentito altrimenti il parto e ciò avrebbe portato
alla morte della madre (uso i verbi al passato perché si tratta di operazioni
adesso non più necessarie). Tale craniotomia uccide direttamente il bambino per
consentire alla madre di vivere. Quest’ultimo atto vuole la morte del feto come
mezzo diretto a mantenere la vita della madre e quindi non è lecito. Questo
sarebbe l’unico caso in cui potrebbe essere richiesta l’astensione del medico
dall’agire. I trattati di ostetricia ottocenteschi come A. Velpeau, Trattato completo di ostetricia medica,
Venezia 1837, pp. 392 ss., consci del problema etico implicato nell’operare
direttamente per produrre la morte del feto, lo consigliano solo a feto morto
e/o probabilmente morente. Nel medesimo ambito di valutazione si situa, quasi
un secolo e mezzo dopo, L’Enciclopedia
medica Italiana, Uses, Firenze, 1976, pp. 1285 ss., sostenendo precisamente
che gli interventi embriotomici hanno quasi esclusivamente un interesse storico
e che esiste solo un indicazione in casi di “idrocefalia a feto morto” (p.
1286), mentre a feto vivo sarebbe un “delitto” (ibidem). Il problema morale della salvezza della vita della madre,
in casi simili, tuttavia rimane, sebbene oggi sia possibile evitare di
incorrervi. Samek Lodovici lascia aperto uno spiraglio etico per la madre nella
“scelta del male minore” (p. 155), un male minore che soggettivamente per la
madre potrebbe essere inteso nella perdita della vita del figlio a salvezza
della propria, così come lo diventerebbe, sempre soggettivamente, per coloro
che hanno un rapporto comunicativo, affettivo, di comunanza di vita e valori
con la madre. Questi ultimi (includendo nel gruppo anche i medici
responsabili), data la sostanziale parità di diritto alla vita fra il feto e la
gestante, potendo intervenire a favore della vita della madre e non facendolo
per non uccidere il feto direttamente, sarebbero nella spira del dilemma tra
un’omissione che genererebbe la morte della madre e un’azione che genererebbe
la morte del bambino: tra queste due potrebbero sentirsi costretti a scegliere
il male che loro appare minore, cioè l’azione che produce la morte del secondo.
Ovviamente la consapevolezza che tale azione è e rimane un delitto ha avuto e
ha l’effetto di stimolare la ricerca di altre vie e possibilità terapeutiche.
Così se la teoria del doppio effetto qui appare difficilmente accettabile nella
sua pienezza per chi, come noi, ritiene che una gravidanza possa condurre alla
morte della madre solo come conseguenza inevitabile in assoluto, o solo come
conseguenza scelta come super-erogatorio dalla madre; tuttavia, il suo
mantenimento risulta essere un importante criterio regolativo per lo sviluppo
della ricerca scientifica in un simile, rilevantissimo ambito. Su tale
questione è di diverso avviso P. Foot, The
problem of abortion and the doctine of double effect, “Oxford rewiew”
5(1967), che ritiene necessario
astenersi da ogni intervento, ma non in base alla dottrina del doppio effetto,
bensì alla seguente considerazione: “Grazie ad uno stretto parallelo con casi
che non coinvolgono i nascituri potremmo trovare che la conclusione (di
astenersi dalla craniotomia, n.d.r.) è corretta ma raggiunta attraverso una
motivazione sbagliata (quella data mediante la dottrina del doppio effetto,
n.d.r.) Supponiamo, ad esempio, che nella vita successiva alla sua nascita la
presenza di un bambino possa certamente portare alla morte la madre. Non
penseremmo certamente di essere giustificati nel liberarla di lui per mezzo di
un processo che porterebbe alla sua morte. Ciò perché in generale non pensiamo
che possiamo uccidere una persona innocente per salvare un altro, lasciando
abbastanza a parte la questione della cura particolare che riteniamo sia dovuta
ai bambini una volta che hanno prudentemente ottenuto di nascere” (p. 15).