di Simone Elia
Sorel è stato, certamente, uno spirito eretico, incline anche al paradosso pur di essere se stesso…dunque uno spirito in linea con quella che mi appare l’esigenza sempre attuale di ogni “movimento verso qualcosa”: l’autonomia. Ecco perché, in primo luogo, tornare, almeno un po’, a pensarci su, con riferimento specialmente alle Riflessioni sulla violenza.
Quanto
all’ereticità del nostro ingegnere di ponti, il suo percorso
politico-intellettuale non tradisce le attese che si possono nutrire per uno
spirito libero: vario fino all’incoerenza, almeno in superficie.
Dapprima
marxista ortodosso, sebbene mai incline al determinismo volgare, ma piuttosto
attento alla difesa del materialismo storico posta in essere da Antonio
Labriola; poi, in pieno Bernstein-Debatte,
simpatetico nei confronti del revisionismo, apprezzato per il tentativo di
riunire teoria e prassi, per la visione del socialismo come ideale etico e la
critica spietata verso il determinismo kautskyano; pochi anni e scrive le Riflessioni sulla violenza e la Decomposizione del marxismo: siamo al
Sorel classico, propugnatore del sindacalismo rivoluzionario. Seguiranno ancora
una breve intesa con l’Action française di
Maurras, l’opposizione alla Grande Guerra e, infine, l’entusiasmo assoluto per
Lenin e il possibilismo verso il fascismo, ancora movimento.
Insomma, non
stupisce troppo che i giudizi su Sorel non siano del tutto deducibili dallo
schieramento politico dei giudici. Se Lenin lo bolla laconicamente come “ben
noto confusionario” (Materialismo ed
empiriocriticismo, 1909), Gramsci scrive che “Il rigore e la precisione del
ragionamento e l’impetuosità polemica…sono in lui accompagnate da una immediata
e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, della sua fresca
originalità…è un amico disinteressato del proletariato” (L’Ordine nuovo, ottobre 1919). Dal lato opposto, Mussolini afferma:
“È a Sorel che debbo di più”.
Il retroterra
filosofico del mondo borghese (che include il socialismo politico) è per Sorel
l’ottimismo razionalistico stile XVIII secolo, insomma l’ideale illuministico
del progresso. Scrive il Nostro: “L’ottimista è in campo politico un uomo
incostante o addirittura pericoloso”. Infatti, se il primo risultato
dell’ottimismo acritico è l’attitudine imbelle verso il mondo e la vita – a che
pro agire se le cose migliorano da sole? –, il secondo è il “fratello cattivo”
dell’inattività, apparentemente suo opposto: la brutalità isterica, del tipo
realizzatosi nel Terrore giacobino. Del resto, se il mondo di suo va per il
meglio, ma di fatto il bene e l’armonia non regnano, non può essere che per
l’incapacità o la malvagità di qualcuno che ostacola il corso delle cose: vada
alla ghigliottina. “Gli uomini che versarono più sangue furono quelli che
avevano il desiderio più vivo di far godere ai loro simili l’età dell’oro che
avevano sognato”. Si tenga presente: l’antigiacobinismo è un tratto costante
della produzione di Sorel, che può aiutare a chiarire anche il senso della difesa
della violenza da lui avanzata.
Che cosa
intende con “mito” Sorel? In prima battuta, il mito non è l’utopia. Questa è
per Sorel una costruzione dell’intelletto, razionale, analitica, indice di un
disegno d’autorità, che cerca di adattare tecnicamente il mondo in vista di una
qualche utilità. Attraverso il modello dell’utopia si può intervenire sugli
ingranaggi dell’ordine esistente per ingrassarli e farli girare meglio: è lo
sfondo dell’immobilismo riformista. Tutt’altro è il mito. Il mito è una
totalità d’immagini afferrata intuitivamente che muove all’agire creativo. Il
mito, cioè, è il motore dell’azione umana che pone un ordine nuovo[2]. Scrive
il Nostro: “Noi non saremmo capaci di agire se non uscissimo dal presente, se
non ragionassimo su questo avvenire che sembra condannato a sfuggire sempre
alla nostra ragione. L’esperienza ci prova che le costruzioni di un avvenire
indeterminato nel tempo possono possedere una certa efficacia…allorché siano di
una certa natura; ciò che si verifica quando si tratta di miti nei quali si
ritrovano le più forti tendenze di una classe, che si presentano allo spirito
con l’insistenza degli istinti e danno un aspetto di piena realtà a speranze di
azione prossima sulle quali si fonda la riforma della volontà”.
Allora, il
punto reale del marxismo è il suo essere un mito, quel mito che è lo sciopero
generale proletario, solo questo conta. Ad esempio, Sorel, che si considererà
sempre marxista, riconosce apertamente che la divisione marxiana della società
in due gruppi profondamente antagonisti – la borghesia e il proletariato – è
una “tesi dicotomica spesso combattuta attraverso l’osservazione empirica”. Deve
forse dedursene che il marxismo non serve più a nulla perché evidentemente non
è una scienza? Al contrario per Sorel, con la tesi dicotomica “Marx intende
farci capire che tutta la preparazione del proletariato dipende unicamente
dall’organizzazione di una resistenza ostinata e appassionata contro l’ordine
di cose esistente”. Che è come dire: il valore della dicotomia è nel suo essere
un mito che promuove la rivoluzione, non il suo essere una descrizione, e tanto
meno una previsione, scientifica. Il socialismo è tutto racchiuso nel mito, nel
senso che il socialismo, nella sua totale opposizione allo stato di cose
presente, è figlio dell’azione creatrice che si materializza attorno al mito e
per suo tramite.
Non è forza
giacché la forza è intesa da Sorel come propria degli atti d’autorità, non
produce novità, non crea, conserva l’ordine gerarchico esistente, può, al
massimo, ri-assemblare gli elementi presenti nella società, sostituendo una
certa minoranza dominante con un’altra. Così legge Sorel la Rivoluzione
francese, influenzato – sembra – dalla tesi del Tocqueville de L’Antico Regime e la Rivoluzione circa
la perfetta continuità tra Rivoluzione e Antico Regime nel rafforzamento del potere
statale.
La violenza,
poi, non è brutalità perché non è un semplice regresso alla condizione
bestiale; non ha, infatti, un contenuto né immediatamente né esclusivamente
materiale. Certo, essa ha anche un contenuto materiale, ma non è questo a
caratterizzarla. Sorel esplicitamente afferma che la violenza proletaria non è
un bagno di sangue, non è il Terrore giacobino; dal punto di vista materiale la
violenza è tutta una questione di limiti, è il minimo che serva, anche se non è
chiarito – né sarebbe possibile data la sua natura di mito – quali siano questi
limiti.
Veniamo a
quel che la violenza è. La violenza, in opposizione alla forza, è atto di
ribellione, non conserva, né assembla, ma distrugge l’autorità e
simultaneamente crea l’ordine nuovo. È distruzione creativa, in cui lo
sradicamento del Vecchio è l’istituzione del Mondo Nuovo. La violenza è primariamente
lo star saldi nel “No!” al compromesso, nella scissione nei confronti
dell’ordine borghese; dunque la violenza è in
primis un atto psicologico-morale, la fedeltà a sé fino all’estremo, il non
fare un passo, qualunque sia la conseguenza: “La violenza, secondo me, è una
dottrina intellettuale, è la volontà dei cervelli poderosi, che sanno dove
vogliono andare” (Sorel, Lenin, C.
Valori, a cura di). Si intuisce qui il senso morale della violenza soreliana: è
l’istinto e lo sforzo di stare all’opposto rispetto al do ut des, il coltivare o il custodire la capacità di agire al
meglio senza altro scopo che l’agire al meglio, di perfezionarsi sempre senza
altro fine, di condurre la lotta continua per essere sempre meglio se stessi. Questa
morale di Sorel è tensione eroica, al sublime, che ricorda lo sforzo dell’Io
fichtiano. È il disinteresse, che non fa calcoli, che si erge contro il
compromesso, a cui sempre devono tornare i conti. La violenza è il custode di
questa morale, che Sorel chiama “morale dei produttori”, è ciò che salvaguarda
la separazione proletaria e, quindi, la purezza della “morale dei produttori”,
la quale è, insieme, titolo di legittimità, dunque prerequisito, della
rivoluzione proletaria e suo risultato: “Il progresso morale del proletariato è
necessario quanto il progresso materiale delle attrezzature, per portare
l’industria moderna al livello più elevato…se il mondo contemporaneo non
contiene in sé le radici di una nuova morale, che cosa diverrà?”.
Agli occhi di
Sorel la rivoluzione proletaria incombe sull’ordine borghese come “catastrofe
morale”, prima, e ben più, che economica. Per Sorel Marx stesso è da
considerare soprattutto un pensatore morale, sebbene ciò possa avvenire solo
contro Marx, o – ed è quanto sostiene Sorel – almeno contro la sua lettera. In
effetti, posta la rivoluzione come fatto morale, non è chiaro quanto
consapevolmente Sorel dica Marx, ma intenda Proudhon.
[1] Apparse
nel 1906 in forma di articoli su Le
mouvement socialiste e poi in volume nel 1908.
[2] Scrive
Sorel: il mito è “un insieme di immagini capace di evocare in blocco e per
mezzo della sola intuizione la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse
manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società
moderna”