mercoledì 7 febbraio 2024

Idee, lotte e libertà. Momenti della storia del Movimento Operaio/1 Georges Sorel


 di Simone Elia

Sorel è stato, certamente, uno spirito eretico, incline anche al paradosso pur di essere se stesso…dunque uno spirito in linea con quella che mi appare l’esigenza sempre attuale di ogni “movimento verso qualcosa”: l’autonomia. Ecco perché, in primo luogo, tornare, almeno un po’, a pensarci su, con riferimento specialmente alle Riflessioni sulla violenza.  

Quanto all’ereticità del nostro ingegnere di ponti, il suo percorso politico-intellettuale non tradisce le attese che si possono nutrire per uno spirito libero: vario fino all’incoerenza, almeno in superficie.

Dapprima marxista ortodosso, sebbene mai incline al determinismo volgare, ma piuttosto attento alla difesa del materialismo storico posta in essere da Antonio Labriola; poi, in pieno Bernstein-Debatte, simpatetico nei confronti del revisionismo, apprezzato per il tentativo di riunire teoria e prassi, per la visione del socialismo come ideale etico e la critica spietata verso il determinismo kautskyano; pochi anni e scrive le Riflessioni sulla violenza e la Decomposizione del marxismo: siamo al Sorel classico, propugnatore del sindacalismo rivoluzionario. Seguiranno ancora una breve intesa con l’Action française di Maurras, l’opposizione alla Grande Guerra e, infine, l’entusiasmo assoluto per Lenin e il possibilismo verso il fascismo, ancora movimento.

Insomma, non stupisce troppo che i giudizi su Sorel non siano del tutto deducibili dallo schieramento politico dei giudici. Se Lenin lo bolla laconicamente come “ben noto confusionario” (Materialismo ed empiriocriticismo, 1909), Gramsci scrive che “Il rigore e la precisione del ragionamento e l’impetuosità polemica…sono in lui accompagnate da una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, della sua fresca originalità…è un amico disinteressato del proletariato” (L’Ordine nuovo, ottobre 1919). Dal lato opposto, Mussolini afferma: “È a Sorel che debbo di più”.

 Ora, venendo al cuore di Sorel, che cosa sono Le riflessioni sulla violenza[1]? Beh, per cominciare, nell’ambito della “crisi del marxismo” che caratterizza il passaggio tra XIX e XX secolo, sono l’opera centrale del “revisionismo di sinistra”, che individua nel sindacato – contro il partito -- la vera forza trainante dell’emancipazione proletaria, il solo protagonista possibile dell’azione rivoluzionaria. Come sempre per Sorel, opera asistematica. Tuttavia, si può cogliere una linea di sviluppo che si regge su due perni, uno distruttivo, l’altro costruttivo.

 Il perno distruttivo è rappresentato dal violento rifiuto del socialismo politico, tanto in versione riformista quanto in versione ortodossa, e della bassa morale borghese che lo avvolge, fatta di grettezza, do ut des, come emerge se si guarda al meccanismo elettorale e al cinico sfruttamento che i politici socialisti mettono in atto nei confronti degli scioperi operai: “Il socialismo parlamentare parla tante lingue quante sono le specie di clientele che ha…Nessuna contraddizione lo arresta”; o ancora: “Jaurès è divenuto maestro nell’arte di utilizzare le collere popolari…Bisogna…far credere agli operai che si porta la bandiera della rivoluzione; alla borghesia che si arresta il pericolo che la minaccia”.

Il retroterra filosofico del mondo borghese (che include il socialismo politico) è per Sorel l’ottimismo razionalistico stile XVIII secolo, insomma l’ideale illuministico del progresso. Scrive il Nostro: “L’ottimista è in campo politico un uomo incostante o addirittura pericoloso”. Infatti, se il primo risultato dell’ottimismo acritico è l’attitudine imbelle verso il mondo e la vita – a che pro agire se le cose migliorano da sole? –, il secondo è il “fratello cattivo” dell’inattività, apparentemente suo opposto: la brutalità isterica, del tipo realizzatosi nel Terrore giacobino. Del resto, se il mondo di suo va per il meglio, ma di fatto il bene e l’armonia non regnano, non può essere che per l’incapacità o la malvagità di qualcuno che ostacola il corso delle cose: vada alla ghigliottina. “Gli uomini che versarono più sangue furono quelli che avevano il desiderio più vivo di far godere ai loro simili l’età dell’oro che avevano sognato”. Si tenga presente: l’antigiacobinismo è un tratto costante della produzione di Sorel, che può aiutare a chiarire anche il senso della difesa della violenza da lui avanzata.

 Perché proprio questo è il perno costruttivo delle Riflessioni: “Oggi non esito a dichiarare che il socialismo non potrebbe sussistere senza un’apologia della violenza”. Violenza proletaria che si esprime nello sciopero generale, identificato da Sorel tout court con il marxismo autentico, anzi, di più con il socialismo stesso: esso è “il mito nel quale si racchiude tutto il socialismo”. E ancora: “Grazie a esso il socialismo rimane sempre giovane…in una parola, la scissione [del proletariato rispetto al mondo borghese] non corre mai il rischio di sparire”. Il marxismo, allora, è un mito e il suo centro è lo sciopero generale proletario.

Che cosa intende con “mito” Sorel? In prima battuta, il mito non è l’utopia. Questa è per Sorel una costruzione dell’intelletto, razionale, analitica, indice di un disegno d’autorità, che cerca di adattare tecnicamente il mondo in vista di una qualche utilità. Attraverso il modello dell’utopia si può intervenire sugli ingranaggi dell’ordine esistente per ingrassarli e farli girare meglio: è lo sfondo dell’immobilismo riformista. Tutt’altro è il mito. Il mito è una totalità d’immagini afferrata intuitivamente che muove all’agire creativo. Il mito, cioè, è il motore dell’azione umana che pone un ordine nuovo[2]. Scrive il Nostro: “Noi non saremmo capaci di agire se non uscissimo dal presente, se non ragionassimo su questo avvenire che sembra condannato a sfuggire sempre alla nostra ragione. L’esperienza ci prova che le costruzioni di un avvenire indeterminato nel tempo possono possedere una certa efficacia…allorché siano di una certa natura; ciò che si verifica quando si tratta di miti nei quali si ritrovano le più forti tendenze di una classe, che si presentano allo spirito con l’insistenza degli istinti e danno un aspetto di piena realtà a speranze di azione prossima sulle quali si fonda la riforma della volontà”.

Allora, il punto reale del marxismo è il suo essere un mito, quel mito che è lo sciopero generale proletario, solo questo conta. Ad esempio, Sorel, che si considererà sempre marxista, riconosce apertamente che la divisione marxiana della società in due gruppi profondamente antagonisti – la borghesia e il proletariato – è una “tesi dicotomica spesso combattuta attraverso l’osservazione empirica”. Deve forse dedursene che il marxismo non serve più a nulla perché evidentemente non è una scienza? Al contrario per Sorel, con la tesi dicotomica “Marx intende farci capire che tutta la preparazione del proletariato dipende unicamente dall’organizzazione di una resistenza ostinata e appassionata contro l’ordine di cose esistente”. Che è come dire: il valore della dicotomia è nel suo essere un mito che promuove la rivoluzione, non il suo essere una descrizione, e tanto meno una previsione, scientifica. Il socialismo è tutto racchiuso nel mito, nel senso che il socialismo, nella sua totale opposizione allo stato di cose presente, è figlio dell’azione creatrice che si materializza attorno al mito e per suo tramite.

 Dunque, il socialismo è istituito da un agire creativo reso possibile dal mito della violenza proletaria. Sorel, però, nell’arrischiarsi a elevare la violenza a mito creativo, circoscrive la nozione di violenza. Non è forza e non è brutalità.

Non è forza giacché la forza è intesa da Sorel come propria degli atti d’autorità, non produce novità, non crea, conserva l’ordine gerarchico esistente, può, al massimo, ri-assemblare gli elementi presenti nella società, sostituendo una certa minoranza dominante con un’altra. Così legge Sorel la Rivoluzione francese, influenzato – sembra – dalla tesi del Tocqueville de L’Antico Regime e la Rivoluzione circa la perfetta continuità tra Rivoluzione e Antico Regime nel rafforzamento del potere statale.

La violenza, poi, non è brutalità perché non è un semplice regresso alla condizione bestiale; non ha, infatti, un contenuto né immediatamente né esclusivamente materiale. Certo, essa ha anche un contenuto materiale, ma non è questo a caratterizzarla. Sorel esplicitamente afferma che la violenza proletaria non è un bagno di sangue, non è il Terrore giacobino; dal punto di vista materiale la violenza è tutta una questione di limiti, è il minimo che serva, anche se non è chiarito – né sarebbe possibile data la sua natura di mito – quali siano questi limiti.

Veniamo a quel che la violenza è. La violenza, in opposizione alla forza, è atto di ribellione, non conserva, né assembla, ma distrugge l’autorità e simultaneamente crea l’ordine nuovo. È distruzione creativa, in cui lo sradicamento del Vecchio è l’istituzione del Mondo Nuovo. La violenza è primariamente lo star saldi nel “No!” al compromesso, nella scissione nei confronti dell’ordine borghese; dunque la violenza è in primis un atto psicologico-morale, la fedeltà a sé fino all’estremo, il non fare un passo, qualunque sia la conseguenza: “La violenza, secondo me, è una dottrina intellettuale, è la volontà dei cervelli poderosi, che sanno dove vogliono andare” (Sorel, Lenin, C. Valori, a cura di). Si intuisce qui il senso morale della violenza soreliana: è l’istinto e lo sforzo di stare all’opposto rispetto al do ut des, il coltivare o il custodire la capacità di agire al meglio senza altro scopo che l’agire al meglio, di perfezionarsi sempre senza altro fine, di condurre la lotta continua per essere sempre meglio se stessi. Questa morale di Sorel è tensione eroica, al sublime, che ricorda lo sforzo dell’Io fichtiano. È il disinteresse, che non fa calcoli, che si erge contro il compromesso, a cui sempre devono tornare i conti. La violenza è il custode di questa morale, che Sorel chiama “morale dei produttori”, è ciò che salvaguarda la separazione proletaria e, quindi, la purezza della “morale dei produttori”, la quale è, insieme, titolo di legittimità, dunque prerequisito, della rivoluzione proletaria e suo risultato: “Il progresso morale del proletariato è necessario quanto il progresso materiale delle attrezzature, per portare l’industria moderna al livello più elevato…se il mondo contemporaneo non contiene in sé le radici di una nuova morale, che cosa diverrà?”.

Agli occhi di Sorel la rivoluzione proletaria incombe sull’ordine borghese come “catastrofe morale”, prima, e ben più, che economica. Per Sorel Marx stesso è da considerare soprattutto un pensatore morale, sebbene ciò possa avvenire solo contro Marx, o – ed è quanto sostiene Sorel – almeno contro la sua lettera. In effetti, posta la rivoluzione come fatto morale, non è chiaro quanto consapevolmente Sorel dica Marx, ma intenda Proudhon.

 Infine, per concludere e richiamare brevissimamente quanto si diceva in apertura, poche parole sull’attualità di Sorel. Paradossalmente, ma non troppo, anzi a me pare sia il punto dell’intera cultura umanistica e specie storico-filosofica, essa consiste nella sua inattualità. A noi, immersi nella weberiana “gabbia d’acciaio”, tornati a una sorta d’Antico Regime ideale – l’assenza di un orizzonte altro, che non sia in partenza un puro gioco di fantasia, mera utopia buona per riforme e riformine --, deve giovare sapere che è stato possibile pensare con forza un tale “spirito di scissione”, ricordare che si è saputo che la vita sociale, e quindi sindacale, è un atto creativo. Magari Sorel esagera in questa prospettiva, al modo dell’adolescente che pretende di rifare il mondo, ma almeno è libero di cuore e, poi, si sa melius abundare quam deficere.



[1] Apparse nel 1906 in forma di articoli su Le mouvement socialiste e poi in volume nel 1908.

[2] Scrive Sorel: il mito è “un insieme di immagini capace di evocare in blocco e per mezzo della sola intuizione la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna”