Il popolo oltre i leader
Il comizio “Save America” è finito. “Che ne dite se
sfiliamo davanti al Campidoglio (la sede del Congresso americano a Washington)?
Ma sì … già che ci siamo!”, si saranno detti gli americani convenuti nella
capitale per ascoltare il loro presidente. Le parole che avevano sentito sicuramente
si riferivano a una vittoria elettorale rubata. In effetti lo spettacolo cui si
è assistito è stata la congiura di tutti i poteri forti d’America che hanno
vinto la partita persa con la Clinton: da un lato raschiare il fondo del barile
elettorale democratico, dall’altro provvedere con qualche aiutino di qua e di
là, per sopperire a qualche assenza, a qualche voto mancante. Poi tanto ci sono
i giornali, le tv, i Gates e gli Zuckemberg che premono, che legittimano, che
trasformano le denunce dei brogli in vaneggiamenti di chi non vuole abbandonare
la poltrona. Troppe poche guerre ha fatto Trump, troppo poco imperiale
l’America di Trump, e dentro i confini economia in crescita fino alla tragedia
del covid cinese, pochi aborti, poco peso ai deliri politicamente corretti …
no, così non può andare! Trump parla alla folla, ma poi, in un sussulto di
viltà borghese, non la guida al Campidoglio. La sua presenza là avrebbe avuto
un senso. Se avesse voluto bloccare l’incursione, l’avrebbe potuto fare lui. Se
l’avesse voluta guidare, l’avrebbe potuto fare lui. Invece ha preferito
assentarsi. E il popolo ha fatto da sé.
Democrazia: identità di governanti e governati. Da
Robespierre a Tocqueville e oltre
Che cos’è la democrazia? Certo è il “potere del popolo”.
Fin troppo semplice. Ma questo potere non si realizza se non nell’ “identità
dei governanti e dei governati”. Le stesse persone devono essere quelle che
governano e quelle che sono governate. Quello che fa il governo non è
nient’altro che quello che ciascuno farebbe nei confronti di se stesso. È un ideale
che presuppone la capacità di ciascuno di autogovernarsi e l’assoluta onestà
intellettuale del governante nello smettere di considerarsi tale, se non nei
confronti di sé stesso. È un’utopia che presuppone la virtù. Ma siccome la
virtù è, essa stessa, un’ideale regolativo e non si può dire mai acquisita,
allora lo sforzo che bisogna compiere è quello di conquistarla. Ma siccome,
oltre ad essere difficile, ci si mettono anche i refrattari, i nemici, coloro
che lavorano-contro, coloro che preferiscono il Vizio…allora bisogna imporla:
“Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del
governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore.
La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale
la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa,
inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. È molto meno un
principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della
democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria. Si è detto da
alcuni che il terrore era la forza del governo dispotico. Il vostro terrore
rassomiglia dunque al dispotismo? Sì, ma come la spada che brilla nelle mani
degli eroi della libertà assomiglia a quella della quale sono armati gli
sgherri della tirannia. Che il despota governi pure con il terrore i suoi
sudditi abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il terrore i
nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come fondatori della
Repubblica”.
Quale eco di puritanesimo selvaggio in queste parole di
Robespierre[1]! Per chi
ne coglie tutta l’inaudita violenza, l’unica soluzione è quella di rinunciare a
questa democrazia e accettare il popolo per quello che è. Una democrazia
che non sia selvaggia vuole pazienza e sopportazione, realismo e disincanto. Poi
bisogna leggere Tocqueville e capire che cosa c’è di positivo nelle
consuetudini americane, con i suoi pesi e contrappesi, con il suo
associazionismo e i suoi corpi intermedi – invenzione dell’Ancien Régime -,
senza rinunciare alla critica. Lo Stato è res populi, questo è il grande
argomento democratico; le élites devono eccellere, questo è il grande argomento
antidemocratico. La politica, nella tradizione euro-occidentale, si gioca entro
questi due estremi.
La liturgia liberal-democratica, un’ipocrita
conciliazione.
Il liberalismo è l’ideologia borghese della separazione dei
poteri e del primato del legislativo. Si può dire con una certa approssimazione,
che esso nasce nel Seicento dall’aspirazione dei nuovi ricchi ad avere spazio
libero per fare i propri comodi economici, oltre e al di là della volontà del
sovrano. Questa è la libertà. Questa è la lotta dei liberali contro l’autorità:
una costante di tutti i tempi. I nostri regimi, le cosiddette democrazie occidentali,
nascono invece da un compromesso del liberalismo vittorioso con le istanze
popolari che ne avevano permesso il trionfo. La rivoluzione contro le monarchie
era stata compiuta con l’ausilio necessario del popolo…almeno quello di Parigi,
almeno quello cittadino più sensibile alle parole degli oratori che l’avevano
saputo infiammare contro i despoti. Liberal-democrazia significa un
sistema strettamente controllato dalle élites borghesi, ma legittimato
dal consenso popolare. Il popolo, come diceva Schmitt, può solo dire di sì o di
no…al resto pensano gli illuminati, i possidenti, i ricchi, i furbi, gli
immanicati etc. Siccome questa realtà è ben prosaica, serve una liturgia. Il
potere sempre ha le sue liturgie, ma da quando la monarchia è stata smascherata
come dispotismo, da quando è stato per sempre denunciato l’inganno criminale
del sempiterno connubio trono-altare, ogni liturgia avrebbe dovuto essere
bandita. Il diritto umano dei popoli è infatti l’esatto contrario del diritto
divino dei re. Allora le liturgie democratiche diventano una contraddizione in
termini. Esse appaiono insopportabili, molto di più di quanto non lo fossero i
rituali di corte dei re taumaturghi. La sacralità dei luoghi, per esempio delle
aule parlamentari, le cerimonie di insediamento, le parate, gli inni, gli
alzabandiera, le celebrazioni, i gesti rituali e ripetitivi dei rappresentanti
del potere…tutto ciò a rigore non dovrebbe essere ammesso…tutto ciò è residuo
del dispotismo: decorazioni e culti per coprire una realtà tanto, troppo
prosaica.
Il popolo contro le liturgie liberali.
Di fronte a questo sopruso dispotico, il popolo si riprende
i suoi diritti e chiede il divorzio dalle élites liberali, (questo è il populismo)
le quali nel frattempo si sono fatte sempre più autoreferenziali, fino addirittura
ad avere elaborato un linguaggio proprio, l’odioso politicamente corretto, che
dai campus universitari, loro eletto luogo di riproduzione, vorrebbero che
forzatamente fosse imposto a tutta la società. Il popolo si riprende i suoi
diritti, anzitutto esteticamente. Trump non ha voluto guidarlo. Ebbene il
popolo ha organizzato una visita non guidata nei luoghi del potere. Qualcuno
potrebbe dire che quello non era il popolo in base a un discorso puramente
quantitativo. Falso, come tutti i discorsi puramente quantitativi! Il popolo si
distingue per qualità: esso non è l’élite borghese, ricca, pasciuta,
decadente, laida e ipocrita; esso non è la canaglia, per esempio i black
lives matter, fanatica, violenta, iconoclasta, manipolata con poche e
ignobili parole d’ordine, ladra e assassina. Tra questi due estremi si situano
coloro-che-non-hanno-potere, che aspirano a costruirsi la propria vita senza
nuocere ad altri. Possiamo guardare con altezzoso sussiego a questa categoria
di persone, così refrattaria alle parole d’ordine dello Zeitgeist, così
fuori dalla storia, che vive, lavora, fa figli che vivranno, lavoreranno e
faranno figli, sempre a rischio di finire triturati dal potere, dalla società,
dalle leggi, dai buoni di turno, dai riformatori del mondo, dai difensori della
Giustizia… ma la loro è la sostanza morale della storia e della vita, una
sostanza che si muove solo quando il livello di sopportazione è superato e solo
quando i buoni, i giusti, i democratici, i santi hanno veramente rotto le
scatole!
Allora, oltre le democrazie teorizzate, pensate, progettate
e regolarmente tradite, c’è una democrazia eterna, che dal basso del
popolo-così-come-è e di coloro-che-non-hanno-potere si esprime in due modi:
nell’acclamazione e nella rivolta. 1) L’assemblea riunita approva e mostra la
sua volontà. Guai a contraddirla, guai a toccarla. 2) La folla riunita si è
stufata e agisce.
Il secondo caso è quello americano. Le prime vittime della
sua azione sono le decorazioni e i paramenti sacri del potere. Ecco che cosa è
successo a Washington: il popolo entra nel tempio del potere liberale e
para-democratico e disincanta, decostruisce, demistifica i simboli delle
liturgie liberali con cui si usa raccontare la favoletta della sovranità
popolare e della legalità democratica. Ricorda che a lui stesso appartiene il
potere costituente e che tale prerogativa non può essere limitata e conculcata
da nessuna delle istituzioni del potere costituito. Che non c’è legalità
democratica che tenga a fronte della legittimità popolare.
La beffa dello Sciamano, una dissacrazione esteticamente
sublime.
Come si esprime la rivolta? Con gesti. Non sono le
esplosioni di rabbia plebea delle manifestazioni liberal (poi le verginelle del
giornalismo à la page credono di essere acute quando domandano perché al
Campidoglio non c’era lo stesso schieramento del Lincoln Memorial durante la
sfilata dei black lives matter… domanda retorica, stupida o in malafede,
cui bisogna subito rispondere non retoricamente: perché l’esperienza dice che
la violenza isterica non appartiene al popolo, ma alla canaglia, e si vede
subito quando c’è il popolo e quando la canaglia). Non è, dunque, il gesto
violento dell’iconoclastia puritana, ma l’espressione ingenua di chi dice di no
a un furto. Semplice: non si ruba. Semplice: se uno cerca di derubarti gli dici
di no. Semplice: se questo indossa divise e paramenti sacri, lo si spoglia e
gli si dice: il re (ladro) è nudo.
Come si annuncia la nudità del re? Con una modalità
estetica. Abbiamo qualche immagine: Jake Angeli, lo sciamano, in pelliccia,
corna di bisonte, catena al collo, faccia dipinta coi colori della bandiera, la
stessa che impugna con orgoglio facendosi fotografare dallo scranno di Mike
Pence, presidente del Senato e vicepresidente degli Stati uniti. Abbiamo
Richard Barnett, detto Bigo, che appoggia le sue pesanti scarpe sulla scrivania
di Nancy Pelosi e preleva dalla postazione una busta da lettera che regolarmente
paga lasciando 25 centesimi. C’è un tizio, vestito da Batman, che a un certo
punto si erge tra la folla (anche se sembra che l’immagine sia un
fotomontaggio); c’è un signore in posa mentre solleva un piedistallo con il
bassorilievo dorato di una stella della bandiera americana; c’è quello che gira
con la bandiera sudista, simbolo degli sconfitti che sempre fa paura ai
benpensanti; c’è il deputato della Virginia che cammina per le stanze del
palazzo, dice il giornale, “come un turista in visita”, e ammonisce “niente vandalismi,
mi raccomando”.
Le categorie che mi vengono subito in mente sono il kitsch
e il sublime. Il kitsch per il moralizzante Baudrillard “si definisce di
preferenza come pseudo-oggetto, vale a dire come simulazione, copia, oggetto
artificiale, stereotipo, come povertà di significato reale e sovrabbondanza di
segni, di riferimenti allegorici, di connotazioni disparate, come esaltazione
del dettaglio e saturazione per mezzo dei dettagli"[2].
Per il più spregiudicato Zevi "Il kitsch è il linguaggio del nostro
tempo. In un mondo in cui è la realtà stessa a dominare, nella sua
immediatezza, eccentricità e diversità, il kitsch riesce ad esprimere
questa ricchezza meglio di ogni altra tendenza". In questa eccentricità,
elemento proprio del kitsch è il contrasto dell’opera con il suo
contesto: il kitsch è fuori posto, è un oggetto sbagliato in sé, perché
riprodotto, perché maldestra imitazione, perché di scarso valore e, infine,
perché dis-locato e inopportuno. Ma Zevi parla anche di immediatezza e
diversità. L’oggetto kitsch colpisce subito e salta all’occhio, è un
pugno in un occhio. Ebbene, Jake lo sciamano, Batman e Bigo sono esattamente
fuori posto e poi, come delle opere dozzinali, sono tremendamente ordinari
dentro un ambiente eccezionale, dentro il giardino delle élite, gli umili
giardinieri hanno rubato la scena ai gran signori della democrazia.
Ma dal kitsch al sublime il tratto è assai breve. Il
sublime è fuori-forma, eccentrico, diverso … ma perché tende all’infinito:
sublime matematico, dice Kant, infinitamente grande; sublime dinamico,
infinitamente potente. Quando il limite della forma viene violato, quando la
forma diventa angusta fino ad essere essa stessa kitsch per
l’impossibilità di un rimando a un contenuto significativo, quando
un’architettura simboleggia solo l’ordinaria manipolazione della realtà e la
sistematica digestione e defecazione politicamente corretta degli ideali,
allora il kitsch diventa sublime, perché dimostra che un altro modo di
essere è possibile. Il travestimento dozzinale ed esibizionista, immesso dentro
l’affettazione decadente e finto-classica di un palazzo della menzogna le cui
colonne sorreggono il nulla di un potere che vige perché vige, è uno sputo che
diventa una marea purificatrice. La forma affettata, la pura esteriorità,
l’armonia solo apparente di un ordine che non risplende perché è ornamento
dell’oscurità, kallopìsma òrfnes, il cinismo retorico in forma
figurativa: tutto ciò viene sfondato dalla sublime differenza della semplicità
ordinaria del vero, del carattere umano che si manifesta nell’immediato per ciò
che è, dell’istinto popolare che proviene dal fango, humus degli uomini,
ma puro e senza infingimenti.
Tutto ciò ha poi il sapore della beffa. Non importa quanto
intenzionale. L’opera, il gesto è in sé beffardo. L’immissione di quel vino
nuovo in otri vecchi è al tempo stesso una presa in giro di quella decrepitezza
laida. I rozzi fan di Trump al Congresso sorridono e fanno sorridere come
Trinità e Bambino in un ristorante di lusso. L’irruzione è gioiosamente
menefreghista e si impone quasi dicendo al borghese scandalizzato con la
boccuccia a culo di pollo: “Ecco, sono qui, adesso ti becchi la mia puzza e i
miei modi rudi che irridono la tua presunta forza”, una forza che si manifesta
ora come viltà, effeminata pruderie, raffinatezza vuota da basso impero,
insignificanza e miseria travestita in abiti da grandeur… Il travestito
sciamano mostra che gli habitués del luogo sono i veri travestiti,
perché sono il nulla che si dà arie di grandezza. E infatti il senatore-tipo,
al felice irrompere della festa popolare, ha paura e si nasconde sotto le sue
poltrone, chiedendo protezione, frignando tutto il suo spavento, impallidendo
della propria sordida impotenza.
Così lo scherzo funziona: “Guarda che non ti facciamo
niente, smettila di fartela addosso, o gran rappresentate del popolo … guarda
che il popolo è qui, non temere, stai tranquillo, sorridi, ci stiamo tutti
divertendo”. E il senatore si riprende, salvo poi, alla fine di tutto,
denunciare, denunciare che si è salvato per un pelo, denunciare che lo volevano
rapire, denunciare che volevano fargli la bua!
Tutto ciò, come detto, trascende complessivamente le
intenzioni e il carattere dei singoli: è un tutto che è più delle sue parti.
Bisogna vedere l’evento nella sua totalità…un grande happening, un’opera
d’arte che fa impallidire quelle di Christo. Un’opera d’arte sublime,
fatta della vivente scultura degli uomini, di folle danzanti, di pitture e tattoo,
di architetture rimodellate nella loro destinazione, di letteratura pop, di parole,
musica e poesia…l’opera d’arte totale, l’arte dell’avvenire, direbbe Wagner. La
perfetta consonanza dell’arte con la vita, una vita che si riprende i suoi
diritti contro la forma morta, il situazionismo di una vita esuberante che
vuole far festa, seppellendo con una risata la cadaverica arroganza di sinistri
demagoghi e strateghi della struttura passatista dello status quo.
La festa e la morte: in ricordo di Ashli Babbit
Ogni Fiume ha il suo Natale di sangue, ogni festa politica
ha la sua corrispondente tragedia. Non sembri sproporzionato il paragone con il
lontanissimo e glorioso episodio dannunziano. D’altronde ogni analogia possiede
una maior dissimilitudo e tante sono le differenze, a partire
dall’enorme disparità di caratura dei leader: da una parte un poeta
coraggioso fino all’eroismo che si mette sempre in prima fila, che ha fatto la
guerra in prima persona, contribuendo fattivamente alla vittoria della sua
patria, che ha cultura sterminata e
sensibilità profondissima, che vive nel culto della bellezza e che infine
possiede un genio smisurato e inarrivabile; dall’altra un imprenditore di
successo, ma senza grande levatura umana, senza grande coraggio, senza grande
cultura, benché con tratti di autenticità, capacità di cogliere le esigenze
delle masse e con un progetto di ricostruzione della sua nazione fedele alla
storia e allo spirito profondo di quest’ultima. Diversi i capi, diversi i
protagonisti, diversi anche i comprimari…non c’è molto da aggiungere…
Ma l’analogia è che in entrambi i casi la politica diventa
occasione per una festa popolare che trasgredisce i confini della presunta
santità delle istituzioni. Allora si mette a nudo l’insignificanza della classe
politica e, con la leggerezza di una gita fuori porta, si genera scandalo nella
comunità dei Cosimo Trombetta che detengono alte cariche ammnistrative dei
rispettivi Paesi: Cagoia Nitti e Cagoia Biden o Cagoia Pelosi. È la messa in
crisi del mondo dei cagoia. E allora certamente il pitale avvolto in un mazzo
di rape, lanciato da Guido Keller, nudista già ritratto col tridente di Nettuno
nelle spiagge di Fiume, sul palazzo del parlamento italiano, fa il paio che le
corna di Jake Angeli e i 25 centesimi di Bigo Barnett… diversi contesti, stessa
irriverente ironia, stesso effetto straniante rispetto alla mediocrità ladresca
del potere costituito.
E la morte di una combattente (e qui non conta nulla il
fatto che le guerre americane siano state tutte sbagliate) come Ashli Babbit
nell’Epifania 2021 è certamente analoga a quella di altri combattenti nel
Natale 1920. C’è sempre un generale Caviglia che fa il lavoro sporco e
costringe altri a sparare. In questo caso gli altri erano dei poliziotti
impreparati che hanno ucciso per paura, senza essere minacciati. Ashli stava
entrando disarmata nei corridoi che portavano all’aula del Senato ed è stata
assassinata dalla mediocrità alla cui imposizione si stava ribellando. È morta
“amando l’America con tutto il cuore”, dicono
i giornali. È morta perché la politica può essere festa, ma è anche sangue, e
il nemico deriso non perdona. Perché la politica riguarda i legami fra gli
uomini, che quanto più si legano fra loro, tanto più si contrappongono ad
altri. E se non c’è un’educazione al conflitto onorevole, se manca uno jus
in bello, se manca un riconoscimento del diritto alla lotta, se manca la
capacità di cogliere nella lotta ciò che è opportuno e ciò che non lo è, non ci
si ferma al momento giusto e può capitare di uccidere così, per niente, per
semplice, inutile, piccolo amor proprio. L’uccisore che ama se stesso, l’uccisa
che ama l’America, nulla di nuovo sotto il sole!
Assieme ad Ashli Babbit, bisogna per ricordare anche altri
tre morti, deceduti in circostanze meno chiare, subito attribuite dalla
narrazione dominante a motivi fisiologici (infarto, ictus etc.). Sarà difficile
rendere loro giustizia, oltre alla giustizia inerente a priori alla loro
condizione e a quello che stavano facendo. Infine, c’è anche un morto tra la
polizia. Anche in tal caso non è chiaro lo svolgimento dei fatti, sembra che
abbia subito dei colpi durante una colluttazione con i manifestanti e che poi
sia crollato una volta finito tutto e tornato in caserma. Anche lui si è
sacrificato, anche lui fa parte dei migliori. In questo caso il sacrificio
definisce la qualità umana (non la causa, ma la pena cui ci si sottopone assumendo
i rischi della propria condizione, definisce il tipo di uomo che si è…). Cerchiamo
di stare ben distanti dai pregiudizi law&order come da quelli ACAB…
sempre orientati a giudicare gli uomini in base alle categorie cui appartengono
e non in base all’agire e al patire!
Essere americani: antiamericanismo radical chic
Amare l’America…embeh? Che male c’è? Un americano che cosa
dovrebbe fare? Dovrebbe forse fare come i surrealisti francesi che odiano tutto
ciò che è francese? Come i comunisti tedeschi che odiano tutto ciò che è
tedesco? Come i ricchi cosmopoliti di tutte le razze e di tutte le nazionalità,
pronti a diventare cittadini dei loro paradisi fiscali? O dobbiamo giudicare una
forma di rozzezza spaventosa e orripilante l’amore di un americano per
l’America, per poi rivendicare la legittimità del nostro patriottismo? Forse
perché l’America che noi vediamo è tutta dentro il range Steven
Segal-Woody Allen e non è, invece, terra, vita, lingua, paesaggi, pensiero,
arte: William Faulkner, Flannery O’Connor, Jack Keruac, Walt Withman, Thomas Stearns Eliot, Thomas Merton e,
udite udite Ezra Pound?
Insomma, sarebbe ora di emanciparsi da quello sterile
antiamericanismo snob che rivendica Il male americano o Il nemico
principale come letture aristocratiche che avrebbero illuminato ciò che
nessuno avrebbe capito, che cioè gli USA
sono una potenza imperialista da combattere sempre e comunque. Il ruolo
deleterio dell’imperialismo statunitense è sotto gli occhi di tutti coloro che
nel corso del Ventesimo secolo lo hanno subito. Ma un conto è ciò che gli USA
fanno nei riguardi dei Paesi che ritengono sottomessi e inferiori, un conto è
l’orribile e violenta ipocrisia di dominio della dottrina Monroe, contro cui è
lecito scagliarsi con tutte le forze, altro conto è ciò che l’America è: una
nazione, ciò una forma di vita che esprime l’infinita ricchezza dell’umano e
che è un crimine perdere. Perché delle due l’una: o riteniamo l’ordinamento
pluralistico del mondo come una ricchezza, oppure lo consideriamo un flagello.
Nell’un caso siamo nazionalisti, nell’altro imperialisti. E se da imperialisti
lottiamo contro l’imperialismo americano solo in nome di un altro utopico, più
giusto, più santo imperialismo siamo ipocriti e puritani mascherati. Se in più vediamo nelle più sincere manifestazioni
popolari americane dei meeting di buzzurri, preferendo loro le criminali
espressioni della canaglia antirazzista e politicamente corretta, che in tutto
il mondo sono sempre le stesse, hanno sempre gli stessi simboli di morte, gli
stessi insulsi slogan da servizio della CNN di terz’ordine … se va a loro la
nostra preferenza, allora siamo noi i veri, autentici e più sinceri
mondialisti…i più sinceri sostenitori dell’uomo a una dimensione, del regime
orwelliano della fratellanza imposta, i più acritici fautori dell’avvento del kali
yuga egualitario e totalitario sulla
Terra.
Vigliacchi di tutti i paesi, unitevi!!! Epifania della
reazione.
Tra le avanguardie dell’età del ferro andiamo a collocare
tutte le autorità dell’Occidente europeo che hanno avuto una reazione sinergica
e concomitante: la condanna senza appello di un attacco alla democrazia.
Ora, solo un soggetto stordito dal potere – il potere logora anche chi ce l’ha,
e ciò accade anzitutto in interiore homine – può considerare
antidemocratico il popolo che si raduna nella piazza e decide. Questa,
viceversa, è l’origine, diretta, pura, essenziale della democrazia, di cui l’escamotage
della rappresentanza è solo un pallido simulacro. Ma Emmanuel Macron si
scandalizza e così fanno Boris Johnson e Angela Merkel, mentre chiudono a
doppia mandata i loro armadi stracolmi di scheletri, e via via seguono tutte le marionette delle burocrazie
europee, esperte in totalitarismi per via amministrativa, aborti, eugenetica,
commercio di uomini, inverni (e non primavere) arabi e insurrezioni teleguidate.
Venendo all’Italia, non sorprendono certo le reazioni della
sinistra integrata, con i suoi interessi globali e le sue locali necrosi etico-politiche.
Fanno, invece, veramente ribrezzo le posizioni dello schieramento (fintamente)
opposto: dal titolo del “Giornale” di Berlusconi: “Non è la nostra destra”, agl’inopinati
ragionamenti di Sallusti sulla “caduta del muro di Berlino per i sovranisti” e alla
retromarcia di tutti i filoamericani di Forza Italia e della Lega, che hanno
difeso pubblicamente i peggiori crimini della amministrazioni di Washington
(dalle guerre dei Bush, a quelle di Clinton e Obama fino all’ultimo assassinio
politico di Soleimani), per poi prendere le distanze a mezzo stampa dai fatti
di Capitol Hill … insomma un generale e nemmeno celato badoglismo si è
impossessato di tutto lo schieramento di centro-destra, assumendo peraltro l’argomento
risibile della violenza, tema di sguazzo di certa sinistra strabica che immagina
sempre e immancabilmente apocalissi di destra proiettando i suoi sadismi e le
sue frustrazioni sul nemico politico. Sarebbe stato facile per Giorgia Meloni
prendere la posizione giusta, ma da quel
che ho capito, il segretario di FdI appoggia Trump pur condannando l’irruzione
nel Congresso: esattamente il contrario di quello che avrebbe dovuto fare,
perché Trump - che ha ragione a lamentarsi dei brogli elettorali troppo facili
con il voto per posta - ha detto a tutti: “Armiamoci e partite” e in ciò è
indifendibile … e se la situazione è degenerata è stata anche colpa sua … Proviamo
immaginare se lui stesso, al contrario, avesse accompagnato il suo popolo nelle
stanze del potere – anche le sue – e avesse detto a tutti: “Questa è roba
vostra, perciò vi ascoltiamo!!!” … e a chi si fosse ribellato in nome delle
istituzioni e bla bla bla, avesse replicato: “Zitto, taci perché qui parla il
popolo!” ... Sì va bene, si dirà, stiamo parlando di Trump, mica del Comandante…
e il poeta è andato dove c’era la vita, senza temere la morte; Trump ha temuto
la vita, stando ben lontano da ogni pericolo.
Così oltre a quella di Cristo Signore, a Capitol Hill il 6
gennaio si sono avute diverse epifanie, di diverso segno: l’epifania della
democrazia liberale svelata nelle sue nudità di opera buffa; l’epifania della
volontà popolare capace esprimere lo stile e di dare voce all’identità
dell’America più profonda e vera; l’epifania della reazione e della ferocia
liberal, la vendetta dei pavidi che non tarderà ad abbattersi sui colpevoli,
anche attraverso una ben collaudata macchina del fango; infine l’epifania della
reazione europea e italiana, sorpresa con i suoi comprimari, assai poco
coraggiosi, nell’alacre lavoro a favore di un sinistro re di Prussia, quello di
cui finiranno prima o poi per lamentare soprusi e ingiustizie liberticide.
Solo una jacquerie
In fondo però è stata solo una jacquerie e i protagonisti
erano solo dei Jacques Bonhomme, pronti a farsi reprimere dai loro padroni. I
padroni, corretti e benvestiti, possono anzi manifestare per loro mezzo l’ angelicata voglia della quiete acquiescente
che essi chiamano pace e che più correttamente sarebbe il cimitero della
critica e della lotta e l’apologia di tutti gli appassimenti. Anche i
professori che rivendicavano una più autentica genuinità rivoluzionaria lo
hanno detto: è l’estrema destra degli idioti. Con il suo gesto inconsulto tale
idiozia ha seppellito tutti i progetti delle destre rispettabili, che tanto
somigliano alle loro controparti di sinistra.
Felice idiozia, mi viene da replicare, quella che porta un
lampo di luce e la voce troppo semplice dei Forrest Gump di Capitol Hill a
cantare per un momento di gioia vera, che fa balenare per un momento strade
divergenti, mondi possibili, aule sorde e grigie che diventano concerti di
musica country.
[1]Discorso
pronunciato il 18 piovoso, anno II (5 febbraio 1794). Il testo originale è in Oeuvres
de Maximilien Robespierre, Société des études robespierristes, Parigi,
1961-1967, a cura, fra gli altri, di Marc Bouloiseau, Georges Lefebvre e Albert
Soboul, v. X, pp. 350-366; il testo italiano è in Maximilien Robespierre, La
rivoluzione giacobina, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1984,
pp. 158-181.
[2] In V.
Torselli, Il kitsch, “Artonweb. Punti di vista sull’arte”
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.