Fernando La Greca, Tiberio
Gracco e Blossio di Cuma. Filosofia e politica a Roma nel secolo degli Scipioni,
Licosia edizioni, Ogliastro Cilento 2016, pp. 145, E. 18
Tiberio Gracco fu tribuno
della plebe nella Roma repubblicana della prima metà del secondo secolo a.
C. Il suo destino politico è legato alla Lex sempronia con cui
redistribuiva le terre di pubblico dominio (ager publicus) espropriando
coloro che se ne erano accaparrati una porzione maggiore di 500 iugeri,
la cui parte eccedente sarebbe stata divisa tra i cittadini più poveri, e al
contempo confermando nella proprietà coloro che ne possedevano un’estensione
minore. Si tratta di una misura rivolta a ingraziarsi la plebe romana ma anche gli
italici che avevano servito Roma senza avere ufficialmente ricevuto una
ricompensa idonea, rimanendo solo ufficiosamente detentori di una porzione di
terra sufficiente al sostentamento loro e della famiglia. In generale erano
pochi in Italia coloro che possedevano più di 500 iugeri, così che la legge
sembrava destinata principalmente a rendere fedeli a Roma quei membri
della piccola borghesia rurale, i cosiddetti possessores, assai
importanti sotto il profilo politico-militare, ma oggetto di disinteresse da
parte delle élites dell’Urbe. Così Tiberio con la sua legge avrebbe
ottenuto un duplice effetto: “Da una parte si proponeva alla plebe romana una
redistribuzione dell’ager publicus, lasciando che si immaginassero
chissà quali eccedenze, dall’altra [...], prima di queste
redistribuzioni, si sistemavano come piena proprietà molte situazioni di
possesso precario, forse migliaia, includendo e regolarizzando anche possessores
latini e italici, e rendendoli così cittadini a pieno titolo”. In questo modo
si sarebbe potuto “attenuare il divario tra le classi sociali [...] rafforzare
la classe media con un redistribuzione delle risorse, assicurando un
lavoro dignitoso, possibilità di crescita e pari diritti alle masse popolari
romane e italiche”. Tutto ciò è spiegato con documentatissima precisione da
Fernando La Greca, nella prima parte del suo testo. Qui emerge un Tiberio
certamente “popolare”, ma incline anche a valorizzare la piccola proprietà e
gli alleati italici senza per questo poter evitare la furia degli optimates
che temevano non solo le conseguenze a lungo termine della legge, ma anche il
consolidamento e forse l’ulteriore espansione del potere dei Gracchi e del loro
“partito”, sostenuto dall’importante famiglia degli Scaevolae, e
poi da un vasto consenso “di popolo” in tutta la Penisola. Dunque, come si può
cogliere in un Sallustio ritradotto e rivisto, “la nobiltà colpevole e perciò
atterrita proprio dagli alleati, dai Latini e dai cavalieri, si scaglia
contro i Gracchi”, e ordisce la congiura che nel giugno del 133 metterà fine
alla vita del tribuno. L’immagine di Tiberio che si delinea dalla disanima di
La Greca lo conferma perciò come politico accorto, innovatore, consapevole
delle esigenze della Repubblica di allargare il bacino della cittadinanza per
mantenere la pace sociale a Roma e in Italia e garantirsi nuove prospettive di
espansione e di potenza. Insomma, di là dalla conclusione infelice della sua
vicenda, si tratterebbe di una figura di rivoluzionario “realista” o di un
ardito riformista, perfettamente a suo agio, tuttavia, nei meccanismi e nella
cultura del potere romano.
Non estranea alle scelte del
politico è la costante presenza al suo fianco di due figure interessanti: il
retore Diofane di Mitilene e il filosofo Blossio di Cuma. Quest’ultimo, su cui
si concentra l’Autore, sembra offrire a Tiberio un quadro di
giustificazioni etico-metafisiche alla sua prassi, rimanendovi legato
ostinatamente anche al declinare improvviso e violento delle fortune del
Gracco. Disgraziatamente del nostro filosofo non ci è stato trasmesso niente
eccetto le testimonianze di Plutarco, Valerio Massimo e Cicerone. Da loro
risulta che “Blossio, filosofo originario di Cuma fu discepolo ad Atene dello
stoico Antipatro di Tarso, di cui conquistò l’amicizia e la stima; a Roma fu
hospes degli Scaevolae ed ebbe una parte importante nei piani di
riforma di Tiberio Gracco di cui fu probabilmente maestro e sicuramente amico
fedele; dopo la tragica fine di Tiberio si recò in Asia minore presso
Aristonico, il quale, aspirando al trono di Pergamo, aveva suscitato una
rivolta contro Roma; allorché Aristonico fu fatto prigioniero dei Romani,
Blossio si uccise”.
La Greca anzitutto fa parlare le
fonti dirette, aggiungendovi qualche ulteriore testimonianza che potrebbe
alludere a Blossio. Ma più o meno non si esce dalle notizie che abbiamo testé
riassunto. Allora lo studioso campano opta per una strategia, diremmo, di
accerchiamento, passando in rassegna tutti i contesti che possono
gettare una qualche luce sul testo-Blossio. Si parte da un excursus
sulle sue origini familiari nella città di Cuma. Poi si affronta il
rapporto generale tra lo stoicismo e la politica per vedere come esso trova una
particolare declinazione nella riflessione del suo maestro Antipatro di Tarso.
Di seguito si analizza lo stoicismo romano, contrapponendo la sua ala
conservatrice che fa riferimento a Panezio, a quella rivoluzionaria del gruppo
di Tiberio. Infine si affronta l’utopia eliopolita che probabilmente orienta
ideologicamente il ribelle Aristonico che Blossio finisce per sostenere con un
impegno diretto e definitivo.
Tale strategia di avvicinamento
progressivo al nostro protagonista cumano, mediante tutto ciò che più o meno
direttamente lo riguarda, parte dall’ unico dato teorico assodato: il valore
assoluto dato da Blossio all’amicizia e la conseguente venerazione per l’amico
Tiberio, assieme ovviamente al ruolo esistenziale e filosofico dell’impegno
politico evidente dai dati biografici. Che cosa dunque aggiungere? Un’analisi
dei retaggi familiari della gens Blossia, conduce a ipotizzare un
preciso orientamento ideologico. I Blossii erano una famiglia proveniente da
Capua, città tradizionalmente ribelle a Roma. Essi non solo condividevano tale
orientamento ma lo promuovevano attivamente, distinguendosi nel 210 come
guide di un fallito attacco al presidio romano della città, riconquistata da
appena un anno, dopo la sua alleanza con Annibale del 215. Appartenenti alla
fazione democratica e antiromana, i Blossii, si disperdono dopo la caduta della
città e alcuni di loro si stabiliscono a Cuma, senza perdere una virgola delle
loro convinzioni politiche. È interessante notare come i democratici potessero
farsi portatori di una fierezza indipendentistica e nazionalistica, a fronte
degli aristocratici che cedono ben presto a una solidarietà di casta e
preferiscono passare dalla parte di Roma collegandosi con le élites dirigenti
dell’Urbe. Nondimeno, di là da questo orientamento generale dei membri della gens,
Cuma, a differenza di Capua, è fedele a Roma - e i suoi abitanti, quali membri
di una civitas sine suffragio, a Roma non sono stranieri ma cittadini (municipes).
Ciò consente al discendente Blossio di inserirsi nella clientela di Tiberio e
di fare, diremmo oggi, politica attiva, portandosi dietro quel retaggio
popolare che era appartenuto alla sua stirpe. A Roma egli giunge come filosofo
già formato e forse con una certa fama. Già, infatti, aveva compiuto il suo cursus
studiorum presso Antipatro ad Atene. La stima del maestro nei confronti
dell’allievo è indubbia e ciò lascia supporre che il primo vedesse nel secondo
un continuatore legittimo delle proprie dottrine e del proprio stile
filosofico. In particolare nell’ambito di quella che oggi chiameremmo filosofia
politica, se la tradizione stoica aveva evidenziato l’idea di un cosmopolitismo
universale fondato sulla comune appartenenza degli uomini al Logos divino, ciò
non esimeva il saggio dal prodigarsi anche in un presente ancora ordinato
secondo una suddivisione dell’umanità in popoli e Stati. In questo quadro
poteva essere superata l’apparente contraddizione della chiamata del saggio a
servire lo Stato, mettendo a sua disposizione la conoscenza e la pratica della
verità e della giustizia. Quindi, contrariamente ad ogni forma di “ritiro dal
mondo”, per il filosofo stoico se è necessario passare a forme di convivenza
sempre più razionali, è pure indispensabile partire dal dato di realtà di una
pluralità di differenti organizzazioni politiche, per compenetrarlo di ragione
in modo sempre più marcato. Di qui, sin dall’allievo di Zenone, Perseo di
Cizio, e dal successivo Sfero di Boristene, l’invito all’impegno presso i re e
le autorità per influenzarne la politica secondo principio etico-razionali.
Non estraneo a tale impostazione
era Antipatro, il cui pensiero si connota di accenti particolarmente realistici
quando associa al perseguimento del sommo bene, quello di beni intermedi che in
qualche misura lo preparino e lo annuncino. In tale senso è significativa la
distinzione tra due sostantivi che riguardano la sfera semantica del concetto
di “fine o scopo”: skopos, cioè l’obiettivo esterno e diremmo oggettivo
di un’azione e telos, l’azione morale che insiste sull’impegno personale
nel realizzare l’obiettivo sottolineando il ruolo del coinvolgimento soggettivo
nell’agire. Se bisogna colpire un bersaglio, le circostanze esterne “possono
fare sì che il bersaglio sia colpito oppure no; ciò, tuttavia, non solleva il
soggetto dal dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per colpirlo”.
Blossio deve aver recepito tale prospettiva nel momento in cui tende sempre “a
raggiungere anche obiettivi minimi in vista dell’ideale stoico di una comunità
di eguali, a cominciare dalla redistribuzione delle terre nel progetto agrario
di Tiberio e dall’eliminazione della schiavitù nella Eliopoli di Aristonico”,
realizzando al contempo uno skopos reale e sociale, e il telos
della quella concreta militanza politica che non teme sconfitte provvisorie e
che nella quotidianità dell’impegno non perde di vista il fatto che il bene da
conseguire non è solo squisitamente politico ma eminentemente etico e
interiore. Su questo doppio binario non stupisce che Blossio abbia potuto non
sentire lo stacco tra la ricerca filosofica e la dimensione dell’agorà.
Qui Antipatro sosteneva particolarmente il valore della famiglia e del
matrimonio per il bene e la continuità della patria, tema sul quale insiste
Tiberio confortato non solo dalla tradizione romana, ma anche evidentemente
dalla mediazione filosofica di Blossio, attento ad un bene intermedio assai
rilevante per il complessivo miglioramento della vita comunitaria.
Recependo infine il dibattito tra
Antipatro e Diogene di Babilonia sul rapporto tra l’utile e l'onesto, cioè tra
una condotta strategica e spregiudicata e una consapevole di un valore
intrinseco, universale e perciò obbligante dell’azione, Blossio deve aver su
questo fondato quella sua peculiare intransigenza rivoluzionaria che qualcuno
in secoli recenti avrebbe indicato con l’impegnativa parola “virtù”.
Di qui anche la radicale opposizione che lo stile di
Blossio avrebbe incontrato presso i circoli conservatori degli Scipioni, legati
allo stoicismo reazionario di Panezio, tutto potere e proprietà privata.
Al contrario il filosofo cumano potrebbe, senza alcuna forzatura, essere indicato
come l’ispiratore di Tiberio, il maggior innovatore della politica romana,
colui che aveva potuto retoricamente chiedere “se non fosse giusto che i beni
comuni fossero divisi in comune, se un cittadino non fosse più autentico di uno
schiavo, e se un soldato più utile di un non combattente, e se uno che avesse
parte nei beni pubblici non fosse meglio disposto verso gli interessi dello
Stato”. Il legame fra i due, cementato dalla comune passione popolare, appare una sorta di destino che attraversa
anche le altalenanti sorti della politica. Si può ben comprendere allora il
resoconto di Cicerone, del tutto simile a quello di Plutarco: “[Blossio
sostenne] di avere tanta stima di Tiberio Gracco da fare qualunque cosa egli
volesse. Allora gli dissi ‘Anche se avesse voluto che tu dessi fuoco con le
fiaccole al Campidoglio?’ ‘ Non avrebbe mai ordinato una cosa del genere -
disse - ma se lo avesse fatto avrei ubbidito”.
Ebbene, conservando nel cuore
quest’intimità fiduciosa e fedele, nel 133, alla fine dell’avventura del tribunato,
Blossio fugge da Roma e si reca a Pergamo, altro luogo di rivolta e
sperimentazione politica. Aristonico, pretendente al trono del regno
ellenistico dopo la morte di Attalo III Filometore, che aveva nel testamento
lasciato i suoi domini al popolo romano, si fa banditore nel medesimo
territorio della costruzione di una nuova compagine politica, lo Stato utopico
di Eliopoli. Qui sotto la sua sovranità caratterizzata da un’intensa devozione
al Sole, dio benvolente ed egualitario, tutti, anche gli schiavi, avrebbero
vissuto in una condizione di libertà, indipendenza, uguaglianza e prosperità.
L’utopia eliopolita ha origini letterarie
lontane, provenendo dal resoconto su una mitica “isola del sole”, steso
dal viaggiatore Giambulo (forse anch’egli invenzione poetica) e tramandato in
forma di riassunto da Diodoro Siculo (90-30 a. C. circa) nella sua Biblioteca
storica: “Gli abitanti di quest’isola utopica sono distribuiti in piccole
comunità che vivono in pace e armonia ; la loro massima divinità è il
sole. L’isola abbonda per natura di frutti e animali, tuttavia tutti sono
tenuti a lavorare, eseguendo a turno vari tipi di lavoro, per soddisfare le
esigenze essenziali della comunità. Si dedicano anche ad attività culturali,
specialmente all’astronomia. Le donne e i bambini sono in comune; il più
anziano è il capo della comunità; altre magistrature sono assunte da ciascuno a
rotazione. Vivono fin oltre 150 anni e muoiono volontariamente addormentandosi
sotto piante velenose. La caratteristica principale di questa ‘isola del sole’
è la completa uguaglianza fra gli abitanti: tutti lavorano [...], a turno
assumono cariche civili e religiose [...] e infine non vi sono schiavi. Si
tratta di un'utopia filosofico-letteraria, una descrizione di un paese
immaginario, ma che pure presenta un’ ideale di organizzazione sociale e
politica”. Non mancavano nel mondo greco elaborazioni simili e soprattutto la
visione di Giambulo sembrava adattarsi benissimo alle prospettive politicamente
egualitarie elaborate dall’antico stoicismo zenoniano. Non è poi da tralasciare
il fatto che in Cleante, secondo scolarca stoico, esiste un’esaltazione del
sole quale “principio fisico e spirituale del mondo, sovrano dispensatore di
giustizia a tutti in parti uguali”. Quanto a Blossio, a tali tradizioni
letterarie e filosofiche si aggiunga la diffusione del culto di Apollo a Cuma,
ricco di simboli solari e componente fondamentale dell’orgoglio identitario
della città.
È del tutto plausibile allora che
Blossio, trasferendosi a Pergamo, abbia trovato terreno favorevole a una sorta
di missione emancipatrice collegata con le riflessioni stoiche più
politicamente ardite e con la letteratura utopica di cui si è detto. Di qui
l’ulteriore spinta che può aver dato al progetto rivoluzionario di Aristonico,
al tempo stesso egualitario e antiromano, diremmo oggi radicalmente democratico
e nazionale.
Ecco dunque delinearsi l’immagine
di un Blossio eroe dei due mondi, capace di spendersi ovunque si
presenti un' occasione propizia e promotore di un' ideologia di rivolta
sociale che è al tempo stesso una filosofia e una teologia politica. Qui gli
aspetti egualitari giungono a fondersi con una dimensione di rivalsa popolare e
indipendentistica, perché sia nel caso del passato capuano dei Blossii, sia nel
caso dell’opposizione aristocratica a Tiberio, sia infine nella vicenda di
Pergamo, una caratteristica mi sembra emergere dal preciso approfondimento di
La Greca: le aristocrazie sono tendenzialmente internazionalistiche, cioè
mostrano indifferenza all’eventualità che la comunità di appartenenza possa
essere assorbita da una potenza straniera o non vedono, nel caso di Roma,
l’utilità di una solidarietà interclassista dove l’appartenenza comune e una
missione politica vissuta come ideologia mobilitante possa alimentare un
ulteriore incremento della propria potenza. L’importante appare l'immutabilità
del quadro e delle gerarchie sociali. Viceversa laddove vi sia una proposta di
mutamento o financo rovesciamento delle suddette gerarchie, lì si diffonde
anche una peculiare sensibilità per un destino comune, dove un certo orgoglio
nazionale non manca di associarsi a percorsi di militanza politica di risveglio
utopico connotati da grande afflato religioso e, nei circoli più consapevoli,
filosofico-razionale.
Caio Blossio di Cuma -
filosofo dell’amicizia, promotore ovunque di una coscienza politica elevata, in
cui il servizio alla comunità diventava un dovere assoluto delle élites
e un principio etico che poteva ricondurre la convivenza sociale a una
superiore e divina razionalità - sembra dall’ indagine preziosa di La Greca
essere il crocevia di queste tensioni e tendenze. Pertanto, confortati
dall’idea crociana ed ermeneutica che ogni storia è storia del presente,
corriamo volentieri il rischio dell'anacronismo dicendo che egli può dire molto
alla nostra contemporaneità che ha irresponsabilmente cacciato le utopie
sociali e nazionali nella spazzatura della storia, accontentandosi del grigiore
di un presente monocratico e globalista sotto l’impero, certo a suo modo
egualitario, ma innaturale, violento, straccione e criminale, del denaro.