Introduzione: discorsi lunghi e brevi
Lo straniero di Elea comincia a dialogare con Teeteto dopo una
premessa sul metodo: tra il
discorso lungo, a mo' di dimostrazione e il discorso breve, fatto di domande e
risposte, la scelta è per lui in ultima istanza dipendente dal tipo di
interlocutore (con Socrate va bene quello breve, con un altro magari no). Egli in
questo caso, per dovere di ospitalità sceglie, quello
breve.
Primi tentativi di definire il sofista
Nel dialogo si tratterà complessivamente della definizione di
"sofista". Si partirà da qualcosa di molto semplice, dimodoché possa
facilmente emergere la bontà del metodo, quello dialettico-diairetico - di cui la modalità
di conversazione per brevi domande e risposte è una forma di espressione
- da
applicarsi poi alla questione principale e più difficile. Il punto di partenza
“facile” sarà quindi l'analisi del concetto di “pescatore”, che pur nella sua
semplicità e immediatezza quotidiana, si vedrà, non è senza attinenza con il
tema fondamentale.
Schema 1: il pescatore
Ecco
la definizione del pescatore e della sua attività: di tutta l'arte in
generale, per metà una parte è arte di
acquistare, la metà di questa è arte di impossessarsi, di questa metà è poi
arte della caccia, e parte della caccia è dare
la caccia ai viventi, e la metà di questa è la
caccia delle specie acquatiche, e della caccia delle specie acquatiche, la
parte inferiore è nel suo insieme la pesca: una metà di questa è percussoria, poi la metà della percussoria è la pesca
all'amo; di questa, poi, quella che si esegue mediante un colpo tirato dal
basso in alto e poi si tira su, viene detta pesca a sbalzi, che è poi la pesca
con la lenza che stavamo cercando (221 b - 221 c).
A questo punto lo Straniero si dice pronto a cercare che cosa è il sofista. Come per il pescatore, bisogna supporre che
anche il sofista sia uno che possiede un’arte (221 d). In particolare, il sofista ha in comune con
il pescatore il fatto di essere cacciatore esperto nell'arte di acquistare.
Schema 2: il sofista, prima definizione
In base al ragionamento appena fatto occorrerà chiamare sofistica
l'abilità nel "procacciarsi, sequestrare, impossessarsi, nella caccia agli
animali, in quella degli animali di terra, in quella rivolta agli animali
domestici, in quella agli uomini, in quella della persuasione, in quella
privata, in quella che si fa per avere ricompensa, in quella che vuol sembrare
che educhi, in quella che si
rivolge a giovani ricchi e di nobile famiglia” (223 b).
Tuttavia, si può vedere la questione in un altro modo ancora.
Schema 3: il sofista seconda definizione
Ciò che è “parte dell'arte di acquistare, di scambiare, di vendere
al minuto, di commerciare, di commerciare aspetti dello spirito che riguardano
ragionamenti e insegnamenti della virtù, questo secondo commercio si manifesta
chiaro come arte della sofistica” (224 d). In sostanza il sofista viene definito come
mercante di cose che riguardano l’anima (a scopo di conforto e di sollecitudine
ci può essere anche un’arte illusionistica - thaumatopoioiikon o arte del
prestigiatore 224 a - su cui poi si insisterà nella definizione finale di
sofista in 268 d).
Il sofista terza e quarta definizione (senza schema)
Come terzo punto, dice lo Straniero di Elea rivolto a Teeteto, tu,
se uno venisse qui in città, talora per comprare nozioni, talaltra per crearsi di
per se stesso insegnamenti riguardo a queste cose (l’anima) e poi venderle, e da questo si proponesse di trarre da
vivere, non lo chiameresti con un nome diverso da quello che hai appena detto?
Alla risposta negativa di Teeteto, lo
Straniero conclude: "Dunque la parte della tecnica di acquisizione che si svolge
mediante uno scambio, per compravendita, sia per la vendita al minuto di
prodotti altrui (questa definizione è
considerata da Platone la terza vera e propria,
n.d.r), sia per vendita diretta di prodotti propri (questo caso implica
per Platone una quarta definizione, n.d.r.), in
entrambi i casi, qualunque sia il genere di vendita delle nozioni relative
all'oggetto-anima, sembra che tu la chiamerai, a quanto pare, sofistica (224
e). Qui lo Straniero insiste sul fatto che il sofista vende al minuto,
cioè al dettaglio, le nozioni in generale (cioè un sapere in generale) e in
particolare di quelle riguardanti l’anima.
Ma
lo Straniero prosegue:"Consideriamo ancora se il
genere che è stato sottoposto non sia somigliante
a qualcos'altro..."
Schema 4: il sofista quinta definizione
Secondo la quinta definizione la sofistica è attività intesa ad accumulare,
che appartiene all'arte eristica, che è parte
del contraddittorio, che è parte della controversia, che è parte della lotta,
che è parte dell'arte di acquisire (226 a). In sostanza il sofista è un erista
(Reale), cioè è un “atleta della tecnica competitiva nell’ambito dei
discorsi, essendosi appropriato della tecnica eristica” (Casertano, Il nome della cosa, p. 120).
Dopo tale definizione lo Straniero di Elea ribadisce la
complessità dell'identità del sofista, dicendo che non basta una sola mano ad
afferrarla, ma sono necessarie
entrambe. Quindi bisogna procedere a un altro
tentativo dialettico.
Schema 5 il sofista sesta definizione
Finora
dunque il sofista è apparso in diverse sembianze:
1)
un cacciatore di
giovani ricchi;
2)
un commerciante
all’ingrosso che fa import ed export di conoscenze che riguardano l’anima;
3) un rivenditore al minuto delle stesse conoscenze
che riguardano l’anima e che ha acquisito da altri;
4) un rivenditore di conoscenze che riguardano
l’anima e che si è procurato da solo;
5) un atleta nell’arte del contendere - eristica -
per via di discorsi e ragionamenti;
6)
un purificatore
dell’anima da opinioni che costituiscono un ostacolo all’apprendimento (232 a).
Il sofista come esperto dell’apparenza
Il
guaio è che tale molteplicità di definizioni non coglie l’essenza del proprio
oggetto, quindi è necessario ricorrere a un’ulteriore definizione, che riprenda
e sviluppi la più significativa delle precedenti: il sofista come maestro del contraddittorio. Egli, per essere tale,
deve saper affrontare nelle più diverse occasioni una molteplicità di
argomenti, così da potere sempre prevalere nella lotta con l’interlocutore
(cosa che conferma anche Protagora nei suoi scritti tra cui quello sulla lotta,
232 e). Ma, ci si domanda, è mai possibile che un uomo abbia la scienza di
tutte le cose? No certamente. Tuttavia i sofisti devono apparire uomini di tal
fatta ai loro allievi che per questo li pagano. Pertanto il sofista si
presenterà giocoforza come colui che è dotato di una scienza vastissima, benché
in realtà apparente (233 c). Egli si manifesta, a un esame attento, un esperto
di mimetica, in grado di incantare e
sedurre in virtù della sola imitazione delle cose reali e dei contenuti del
sapere. Sembra allora che per raggiungere un risultato definitivo sia
necessario partire dall’arte imitativa. Essa si può dividere in due parti (235
d):
1)l’arte
del copiare o della raffigurazione che dà delle cose una riproduzione fedele al
modello, seguendone le proporzioni in modo precisissimo (eikastikén technén, 235 e);
2)
l’arte dell’apparenza che non riproduce le proporzioni esatte, ma quelle che
sembrano più belle (fantastikén technén,
236 c), ed è propria di gran parte della pittura e dell’arte mimetica.
Tra
queste arti dove va collocato il sofista (236 d)?
L’apparire che è: un problema “parmenideo”
La
ricerca è difficile da tutti i punti di vista perché il concetto di apparenza è assai ambiguo: “Infatti
questo apparire e sembrare, ma non essere, e il dire qualcosa, ma qualcosa di
non vero, tutto ciò è pieno di difficoltà sempre, nel passato e nel presente. “Come infatti si debba parlare e opinare per
dire che il falso esiste realmente, senza che pronunciando questa affermazione
si cada in contraddizione, Teeteto, è assolutamente difficile sapere” (236
e - 237 a). Qui è coinvolto l’ammonimento di Parmenide: “di non accettare mai
che sia ciò che non è” è ciò rende il tutto degno della massima attenzione.
Proviamo ora a esaminare questo problema (237 b).
Dire il non essere: la questione del
singolare e del plurale
La
locuzione l’ “assolutamente non-essere” non può sicuramente essere attribuita a
nessun ente, e dunque a niente che sia “qualcosa”. Infatti la parola “qualcosa”
allude sempre a “un” qualcosa, che può diventare “due” qualcosa o “molti”
qualcosa, ma mai “nessun” qualcosa. Nessun qualcosa, infatti è “niente” e chi
vuole dire “nessun qualcosa” non deve dire niente del tutto. Il problema è
dunque il seguente: da un lato non si può pensare che, nel caso si pronunci la
locuzione “non ente”, “uno dica ma non dica niente”; dall’altro “bisogna
affermare che neppure dice chi pretende di pronunciare ‘non ente/non essere’” (238 a).
Anzitutto
va specificato che se si pronuncia la locuzione “non ente/non essere” si parla
al singolare e si distingue tale locuzione da “non enti” al plurale”. Ma “uno”,
“alcuno”, “molti”, “un certo numero”, sono anch’essi a loro modo enti e qualità
“ontiche” (n.d.r.) che non si adattano a significare qualcosa che non è, ma
sempre qualcosa che è, appunto, secondo un certo numero. Pertanto, non appena
si tenta di pronunciare la locuzione “non ente” anche solo con un’intenzione
confutatoria, si cade in contraddizione, perché non si può attribuire un numero
al non-ente/non essere. “Se si vorrà parlare in maniera corretta [del
non-essere/non ente] non bisogna definirlo né come uno, né come molteplice,
anzi non lo si deve nominare affatto” (239 a), nemmeno con un pronome (“lo”:
“non ‘lo’ si dovrebbe nominare”), perché si entrerebbe in una fatale
contraddizione. Questa indicibilità, tuttavia, siccome vale anche per le
confutazioni, renderebbe il non-ente/non essere inconfutabile. Infatti,
confutandolo, lo si nominerebbe e gli si attribuirebbe un numero parlandone al
singolare.
Il
sofista si è dunque nascosto in un luogo pericolosissimo perché ci costringe a
parlare di essere/ente e di non-essere/non ente, con un discorso che rischia
continuamente di cadere in contraddizione.
Quando
noi lo chiamiamo “produttore di immagini” (eidolopoion), avrà buon gioco a
farci cadere in contraddizione sulla base del concetto di apparenza, che
tornerà sulla questione dell’essere che non è, del dire qualcosa che,
apparendo, non è. Infatti egli per prima cosa ci chiederà di definire
l’immagine, cercandone l’essenza razionale ed evitando gli esempi sensibili. Si
dovrà pertanto rispondergli che l’immagine è “l’oggetto fatto a somiglianza di
quello vero, diverso ma simile” (240 a). Ma se con simile si intende “diverso
dal vero”, bisognerà ammettere che è “non vero” e che quindi “non è”. Eppure
sembra che si debba dire che l’immagine abbia una realtà, quella della
raffigurazione (eikon, 240b). Così concepita, però, questa raffigurazione
finirebbe per essere, pur non essendo realmente (240 c). Il sofista in questo
modo ci costringerebbe a riconoscere che il non essere/non ente in qualche modo
è (nella forma dell’immagine).
Il sofista opina il falso
Volendo
opporci al sofista, su tali basi diremmo che la sua è un’arte dell’apparenza
(fantasma) e dell’inganno (apate). Ma dicendo così dovremmo ammettere che egli
opina (doxazein) il falso ossia ciò che non è. Ma opinando il falso, bisogna
ammettere una sua qualche consistenza, poiché, opinando, ci si sbaglia in qualcosa, anche se di poco.
Opinano
del resto il falso anche coloro che opinano che gli enti in assoluto non siano.
Allo
stesso modo fanno coloro che opinano che le cose che sono non sono e che le
cose che non sono sono.
In
tutti questi casi il fatto stesso di opinare fa entrare in contraddizione,
perché con l’opinare si offre una realtà al non essere, almeno nell’opinione,
cioè nell’apparenza e nell’immagine, e il sofista se ne accorgerà e lo
sottolineerà, richiamando l’assunto che essere e non essere non possano essere
compatibili.
Quindi
ponendo il sofista nel campo degli incantatori e dei mistificatori, si cade in
contraddizioni infinite, di cui quella qui notata è solo un esempio (241 b-c).
Per uscirne bisognerà mettere alla prova Parmenide correndo il rischio del
parricidio (241 d).
Mettere alla prova Parmende: il tema
dell’essere nei fisici pluralisti
Mettere
alla prova Parmenide significa “forzare l’essere/ente a non essere e il non
ente-non essere ad essere”. Senza fare ciò è impossibile parlare con coerenza
di discorsi falsi, opinioni false, immagini, raffigurazioni, imitazioni.
Si
partirà da un’analisi delle opinioni dei presocratici sul problema dell’essere.
Innanzitutto si esaminano le opinioni dei pluralisti che Platone così
sintetizza:
- Ferecide di Siro o Ione di Chio (V sec.
a.C.): “Gli esseri sono tre, talvolta si fanno guerra tra loro, talvolta
fanno nozze”;
- Archelao di Atene, discepolo di Anassagora:
“L’essere è l’umido e il secco, o il freddo e il caldo”;
- Senofane e la scuola eleatica: “L’essere è
uno solo e coincide con il tutto”;
- Le Muse della Ionia (Eraclito) e della
Sicilia (Empedocle): “L’essere è uno e molteplice al tempo stesso, infatti
si dilacera e si ricompone (Eraclito); si fa uno per merito di Afrodite, e
si fa molteplice e nemico di sé stesso a causa della contesa”
I
loro discorsi, però, sono troppo complicati, a volte incomprensibili, perché,
parlando dell’essere che diviene o che si mescola ad altro, implicano il
non-essere, il cui concetto, nel nostro discorso, è divenuto problematico (243
c). Infatti sul non-essere si pensava di capire cosa significasse ma in realtà
non lo si sa, e forse ci si trova nella stessa situazione riguardo all’essere.
L’essere non è due cose (caldo e freddo)
Anzitutto
concentriamoci sull’essere (243 d), che è la cosa più importante e il
fondamento primo. Immaginando di interrogare i filosofi del passato che abbiamo
citato, se l’essere è caldo e freddo (243 e), o comunque è due cose, che cosa si intende dicendo
che entrambi, il caldo e il freddo, e ciascuno dei due sono? Che cosa dobbiamo intendere col loro essere ? Forse un qualcosa di terzo, oltre quei due. Allora «il tutto» sarebbe tre (il caldo, il freddo e l’essere) e
non due. D’altro canto, se l’essere
del caldo e del freddo fosse lo stesso, entrambi, il caldo e il freddo, sarebbero. Dunque il caldo e il freddo
non sarebbero due cose ma una sola, quindi l’essere sarebbe una sola cosa.
Così si confutano coloro che
ritengono che l’essere sia due cose. La domanda successiva si propone di andare
di andare più a fondo sul senso della parola essere. Che cosa dobbiamo insomma intendere quando pronunciamo il
termine «ciò che è» (244a)?
L’essere non è Uno (monisti)
Rispondendo a questa domanda si
incontrano i “monisti”, che affermano che il tutto è uno. Essi affermano che
solo una cosa è. Quindi devono attribuire all’essere il nome “uno”.
Ma che cosa intendono essi col
termine «Ciò che è»? Dicendo che l’essere-ente "è" solo uno, e
chiamando questo uno essere/ente/«ciò che è» in questo modo, usano due nomi (uno ed essere/ente/«ciò che è») per il medesimo uno, per la medesima cosa
(244 b-c).
Ma è ridicolo ammettere due nomi
quando non si pone che una sola cosa (244c-d):
questo è un primo errore dei monisti.
Per
evitarlo si potrebbe dire che l’unica cosa che è, è il nome “uno”, ponendo solo
il nome. Tuttavia, accettare senz’altro che un nome “è” (dove per “è”
intendiamo che abbia una consistenza autonoma e sia qualcosa) non ha
significato. Come potremmo infatti intendere quell”’è” del nome?
- il
nome è diverso dalla cosa, per esempio il nome “libro” è diverso dalla
cosa libro. In questo modo avremmo il nome/cosa accanto alla cosa/cosa e
quindi avremmo due cose e scomparirebbe il monismo.
- il nome è identico alla cosa. ciò implica due
possibilità:
a.
o si appiattisce il
nome sulla cosa, in modo tale che è veramente esistente è solo la cosa, e con
ciò si otterrebbe che il nome non è nulla. Per esempio:
1. esiste solo il
2 il nome “libro” non ha alcuna esistenza autonoma
3 il nome “libro” è nulla
b.
o si appiattisce la
cosa sul nome, così che a esistere veramente non sarebbe più la cosa ma il
nome. In questo caso il nome, essendo l’unico rimasto, non sarebbe più il nome
di una cosa ma il nome di un nome. Per esempio:
1 esiste solo il nome “libro”
2 la cosa X scompare,
così che il nome “libro” diventa nome di sé stesso, cioè nome di un nome.
Questa dissoluzione del nome nella cosa fa sì
che la parola “uno”, essendo nome della cosa-uno, è anche l'uno del nome (244d), cioè finisce
per essere l’unica cosa che esiste, e cioè non nomina nulla perché non è
possibile distinguere dal nome una cosa nominata.
La
questione dell’intero: l’essere non può essere uno e al tempo stesso essere un
intero (A), ma anche non può essere uno evitando di essere un intero (B)
A)
Confutazione di
Parmenide, che afferma che l’essere è la coincidenza dell’uno e dell’intero: se
l’essere è un intero non potrà essere veramente uno. I nostri monisti che dicono che l’essere è
uno, diranno che esso è l’intero. Ma anche a proposito dell'intero, lo diranno diverso
dall'uno che è, o identico ad esso (244d-e)? Se l’essere è un intero, una sfera
ben rotonda, come dice Parmenide, esso avrà centro e un’estremità, dunque avrà
parti (244e). Ma se ha parti, esso non è l'uno in sé, cioè il vero uno, che è
senza parti (245a). L’essere che solo “partecipa” dell’unità, come lo è
l’intero che è l’unità delle sue parti, non potrà essere veramente uno. Infatti
se l’essere è solo affetto in qualche
modo dall'uno, apparirà un
ente non identico
all'uno, e quindi «tutte le cose» saranno più di uno.
Se E = I e I = non Uv allora E
= non Uv
Posto che non Uv = Uf allora,
se E = Uf, E sarà una molteplicità. Pertanto verrà meno il monismo.[1]
B)
In alternativa
all’idea che l’essere sia la coincidenza dell’uno e dell’intero, si potrebbero
avanzare le seguenti ipotesi che ammettono che l’essere, rimanendo uno, non sia
un intero.
- L’essere non è l’intero e l’intero esiste. Ma se l’essere non è un intero inteso come
unità delle parti, e se l'intero stesso è, allora l’essere risulta privo
di se stesso. Ma se l’essere è privo di se stesso, non sarà essere.
Se E = non I (Uf) e se I = E, allora E = non E
- L’essere non è l’intero. Ancora, se l’essere non è l’intero,
ciascuno avrà una natura separata dall’altra, e quindi ci saranno due cose
e non più una.
Se E = non-I;
allora E + I = 2 cose
- L’intero non è. Se l’intero assolutamente non fosse, allora
l’essere non sarebbe. E, non essendo, non potrebbe mai divenire essere.
Se
non-I allora non-E; e se non-E,
allora non-E mai diviene E
- L’intero non è, tenendo conto che il divenire è divenire un intero.
Se il divenire è divenire un Intero, per conseguenza togliendo l’Intero
cade il divenire. Ma togliendo il divenire cade anche l’essere, perché “è”
solo ciò che è divenuto tale.
Se D = D(I) e se non-I, allora non-D, ma se non-D allora
non-E, perché E = D(E)
- L’intero non è,
pur sussistendo il concetto di quantità. Ma togliendo l’Intero si toglie anche la
possibilità di avere una quantità determinata, perché ciò che è di una
determinata quantità è della quantità che forma un Intero, l’Intero di
quella quantità.
Conclusione
del ragionamento generale sulle due prospettive del pluralismo e del monismo
Idealisti e materialisti
Ora
passiamo ad analizzare coloro che argomentano diversamente (246a - fino ad
adesso si è argomentato sul rapporto uno - molti, ora si tratta del tema se
l’essere sia ideale o materiale e delle conseguenze di ciascuna di queste tesi)
per capire che dire che cosa è l’essere non è per niente più facile di dire che
cosa è il non essere. Cominciamo dall’essere. Sull’essere vi è una grande
disputa tra
“I
figli della terra” che sostengono che l’essere è “corpo” che “offre
resistenza al contatto” (246a-b). Questi sono “uomini terribili”. |
Gli “amici
delle idee” che sostengono che l’essere sono certe sostanze/forme/idee
intellegibili e incorporee. Questi per mezzo dei loro ragionamenti, tolgono
valore e plausibilità all’essere corporeo, in quanto lo degradano a “divenire
continuo” (247 a B). |
Contro di loro bisogna argomentare, cercando
di far loro ammettere l’esistenza di un’anima che possiede certe virtù
(assennatezza, giustizia etc.) e che tali virtù, essendo, sono incorporee
(247 a - 247 b) |
Essi affermano di comunicare con il mondo
intellegibile per mezzo dell’intelletto e con quello sensibile e in divenire
per mezzo dei sensi (248a). |
Per loro sarà molto difficile ammettere ciò.
Potremmo allora convenire su una definizione di essere più “di compromesso” e
anteriore alla distinzione corpo/incorporeo, cioè l’essere è potenza di agire
e di subire (247e). |
Riguardo all’essere come potenza di agire e
subire, essi sostengono che tale definizione si attaglia all’essere in
divenire e non a quello ideale. |
|
A loro bisogna chiedere, tuttavia se ammettono
che l’essere ideale, possa essere conosciuto dall’anima umana e se l’essere
conosciuto non è una forma del subire (248 d-e). In quanto subisce qualche
azione, l’essere non è in quiete, ma si muove. |
|
Inoltre se l’essere è tale in senso eminente
(che compiutamente è/assolutamente perfetto - pantelòs), non si può dire che manchi di un’anima (249 a). Se ha
un’anima, allora non solo si muove subendo una conoscenza, ma anche
conoscendo, cioè agendo. L’essere che ha vita, intelletto e anima, dunque,
non può essere immobile. |
|
Tuttavia è vero che la scienza presuppone la
stabilità, e quindi chi ha intelletto deve avere in sé l’identico e non può
muoversi continuamente (249c). |
|
Pertanto è necessario: 1)
Rifiutare che
l’essere sia immobile, come sostenuto dagli amici delle idee; 2)
Che l’essere sia
“mosso in ogni direzione” come dicono i figli delle terra; 3)
Ma dire che “ciò che è immobile è anche in movimento” (249 d). |
Come fa l’essere ad essere immobile e in
movimento?
Bisogna
ora ipotizzare che coloro che ritenevano che l’essere fosse caldo e freddo ci
chiedano conto di quello che diciamo, cioè dell’apparente contraddizione
movimento-immobilità. Che cosa significa dire infatti che l’essere è in quiete
e in movimento. Forse vorrà dire che noi consideriamo che quiete e movimento sono entrambi? Se è così, ciò
significherebbe ammettere l’Essere di “quiete” e “movimento” come qualcosa di
ulteriore, una terza cosa, che abbraccia quiete e movimento, perché ambedue
hanno in comune l’Essere. Ma, essendo una terza cosa, diversa da quiete e
movimento, l’Essere non dovrebbe essere né quiete né movimento (250 c).
E =
non Immob
Immobil
= E
→ E =
non E
Ma è possibile che una cosa non sia in
quiete senza essere in movimento o in movimento senza essere in quiete? La difficoltà in questo caso è grande, ancora di più di
quella incontrata analizzando il non essere. Dunque la ricerca dovrà procedere
oltre.
Unità e molteplicità dal punto di vista
della predicazione
Visto che abbiamo parlato di come l’Essere
si predica di Quiete e Movimento, e delle difficoltà che qui si incontrano,
parliamo ora della predicazione in generale. Cerchiamo di mettere a fuoco come
si predica una cosa con molti nomi (per esempio l’uomo che ha molte
caratteristiche).
Qui subito reagiranno coloro che, dicendo
impossibile che l’uno sia molti e i molti uno (Parmenide), diranno lecito
esprimere solo giudizi come “il buono è buono” o “l’uomo è uomo” e non “l’uomo
è buono”. A loro bisogna opporre la seguente triplice alternativa:
A)
non si deve unire
l’Essere a Quiete e Movimento, e nessuna cosa va congiunta con le altre,
cosicché ognuna rimanga separata. In questo modo Essere, Quiete e Movimento non
comunicano, pertanto tutti coloro che ritengono che
1.
l’Essere si muova,
2.
l’Essere sia fermo,
3.
l’Essere sia uno e
diventi molteplice,
4.
l’Essere sia
molteplice e diventi uno,
esprimerebbero tesi impossibili.
Coloro che affermano un tale orientamento finirebbero per
contraddirsi perché, dicendo “tutto è separato”, pure unirebbero un soggetto a
un predicato diverso e farebbero qualcosa che era stato detto impossibile [251
A - 252 C].
B) si deve
ricondurre tutto alla medesima cosa per rendere possibile la comunanza delle
cose, ma così si arriverebbe a comunanze contraddittorie come, per esempio, “la
Quiete è Movimento” [252 D].
C) si devono
ricondurre alcune cose ad altre e altre no. Questa appare la soluzione corretta
e suggerisce l’analogia tra le idee, i generi e l’alfabeto. Nell’alfabeto le vocali
attraversano tutte le parole permettendo connessione tra elementi che
normalmente non si legano.
La dialettica come grammatica delle idee
Ma come la disciplina che studia l’alfabeto
è la grammatica, per le idee ci sarà una disciplina che stabilisca quali idee
si accordino e quali no, e se ci sono alcune che le connettano attraversandole
tutte, e ancora, se un'idea possa essere all’interno divisa separando qualche
altra idea che a quella partecipa.
Questa è la scienza degli uomini liberi, cioè la dialettica che è propria del filosofo (cercando il sofista si è
trovato il filosofo) e che consiste nel dividere le idee secondo le reali
identità e diversità (253 e).
Il sofista è sfuggente e si nasconde
nell’oscurità del non-Essere. Il filosofo si troverà, invece, ovunque si
pratichi la dialettica, benché sia difficile scorgerlo. Ma la difficoltà
connessa all’individuazione del filosofo è diversa: egli con i ragionamenti
rimane vincolato all’Essere e i problemi sono legati non all’oscurità ma allo
splendore divino che da lui emana (254 b).
I Cinque generi sommi, loro deduzione
Dopo aver parlato del filosofo e del
sofista, Teeteto e lo Straniero concordano di continuare la ricerca sul
sofista, riprendendo la questione delle idee che si accordano o meno, secondo i
loro caratteri interni. L’analisi sarà condotta, dice lo Straniero, non su
tutte le idee ma solo su quelle “più grandi” cercando
-
quali sono
e
-
come entrano in
comunione fra loro (254 c).
Ebbene, si parte dalle idee or ora citate
di Essere, Quiete e Movimento: tre idee distinte in cui si può dire che
l’Essere partecipa delle altre due, ma che Quiete e Movimento sono
incompatibili. Si prosegue dimostrando altresì che ciascuna delle tre idee è
identica a sé e diversa dalle altre, in modo tale che che l'Identico e il
Diverso si mescolano alle altre forme pur rimanendo da loro differenti. Quindi
per riassumere
1)
Quiete e Movimento non sono né un che di Identico né un
che di Diverso, infatti non si possono predicare di entrambi: se si predicassero di entrambi, Quiete e Movimento,
predicandosi ciascuno di oggetti contrari, trasformerebbero l’Identico nel
contrario, cioè nel Diverso, e il Diverso nel contrario cioè nell’Identico. Se
Quiete e Movimento sono identici, essendo la Quiete il contrario del Movimento,
l’Identico della Quiete sarebbe il contrario, cioè diverso, dall’Identico del
Movimento; se invece Quiete e Movimento fossero entrambi diversi, essendo l’uno
il contrario dell’altro, il Diverso della Quiete sarebbe il contrario del
Diverso del Movimento, ma il contrario del Diverso è l’Identico, dunque anche
il Diverso sarebbe contrario a se stesso, cioè Identico.
2)
Identico e Diverso
non coincidono nemmeno con l’Essere,
infatti
2a) se l’Essere fosse uguale all’Identico, visto che
Quiete e Movimento entrambi “sono”, per la proprietà transitiva, allora Quiete
e Movimento sarebbero Identici, cosa non vera perché sono diversissimi e
contrari. Quindi l’Identico è una quarta idea, che si aggiunge a Essere, Quiete
e Movimento..
2b) se l’Essere fosse uguale al Diverso, ammettendo per
forza X) che il Diverso è diverso rispetto a un diverso, Y) che
l’Essere/Diverso partecipi ugualmente di Quiete e Movimento, Z) allora si
darebbe vita al seguente paradosso: la Quiete/Diverso non sarebbe differente
dal Movimento/Diverso, e allora il Diverso di Quiete e Movimento non sarebbe
Diverso, quindi il Diverso non sarebbe più diverso rispetto a un diverso.
se E=D
ma D ≠ D
tenendo conto che quiete e movimento entrambi “sono”,
cioè E=Q ed E=M (E in Q = E in M)
Allora se D coincidesse con Q e con M, allora
Qd=Md
D=D
il che è impossibile perché il Diverso è diverso da un
Diverso (D ≠ D).
Quindi il Diverso è una quinta idea che va ad aggiungersi
a Essere, Quiete, Movimento e Identico.
Entrambe, Identico e Diverso, attraversano le altre idee, senza coincidere con esse.
I rapporti tra i cinque generi sommi
Così di determinano i rapporti tra i cinque generi sommi:
-
il Movimento è
assolutamente diverso dalla Quiete, quindi il Movimento NON È la Quiete
-
il Movimento È
perché partecipa dell’Essere
-
il Movimento è
diverso dall’Identico
-
il Movimento NON È
l’Identico
-
il Movimento è
identico a sé e dunque partecipa anche dell’Identico,
Quindi
-
il Movimento è identico e non identico, cioè
solo partecipa dell’Identico
-
il Movimento è
diverso e non è diverso, cioè solo partecipa
del Diverso;
-
il Movimento è
diverso da Quiete, Identico e Diverso;
-
il Movimento non è
diverso dall’Essere, ma non coincide con l’Essere, bensì solo partecipa dell’essere.
Insomma, per la presenza del Diverso, tutti
gli altri esseri non-sono altri
esseri. Essi sono non-essere, ma ugualmente, per la presenza dell’Essere, essi
pure “sono”. Quindi tutti gli esseri ideali di cui si è parlato, al tempo
stesso sono e non sono. Per ogni essere ci sono infiniti non esseri, uno per
ogni ente diverso da quello.
Il non essere come essere-diverso
IN QUESTO SENSO QUANDO DICIAMO NON-ESSERE
NON DICIAMO QUALCOSA DI CONTRARIO ALL’ESSERE, MA DI DIVERSO: la particella
“non” davanti ai nomi delle idee introduce pertanto il Diverso.
Il Diverso, dal canto suo, ha la stessa
natura della scienza: una ma in molteplici discipline, allo stesso modo del
Diverso: uno e al tempo stesso molteplice. Siccome il Diverso rende tutti gli
enti “non” rispetto ad altri enti, deve essere considerato come il non-essere
che possiede una sua idea (257 d - 258 c). Per esempio:
il non-Bello ha un nome? Sì, esso è il
“diverso” dal Bello, dunque esiste come idea separata dall’idea di Bello,
pertanto sia il Bello è, sia il non-Bello è e quest’ultimo si chiama “diverso”
dal Bello. Così avviene per il non-Grande, il non-Giusto e anche il non-Essere:
anch’essi sono “diverso”. Il Diverso è l’idea che è suddivisa in tutte le idee
che sono in rapporto reciproco e si contrappone al loro essere. Essa è pertanto
non-Essere, ma un non-Essere che non è il contrario dell’Essere (cioè il non
essere assoluto, il nulla di Parmenide), ma il suo “contraddittorio”, cioè appunto
il suo diverso.
Ecco che ci si è allontanati da Parmenide
che dice: “Inoltre questo non potrà mai imporsi, che non siano le cose che
sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero” (258 d).
La mescolanza dei generi
Il Diverso implica che i generi si
mescolino fra di loro. Ciò accade quando l’Essere e il Diverso penetrano in
tutti i generi e l’uno nell’altro, in modo tale che
-
il Diverso,
partecipando dell’Essere, non è ciò di cui partecipa (l’Essere), ma è appunto
Diverso;
-
il Diverso dal canto
suo è necessario che sia non-Essere, in quanto appunto non coincide con l’idea
di Essere;
-
l’Essere, essendo partecipe del Diverso, sarà
appunto diverso dalle altre idee;
-
l’Essere, in quanto
diverso da tutti gli altri, “non è” nessuno degli altri, né presi singolarmente
né in gruppo, ma è appunto se stesso.
Ciò significa che l’Essere in innumerevoli
casi non è, e le altre idee parimenti per certi versi sono, per certi altri no.
Naturalmente bisogna condurre il discorso secondo la sua logica interna e non
“dichiarare l’identico sotto qualsiasi aspetto diverso, il grande piccolo, il
simile dissimile e provar gusto a introdurre sempre contrari nel discorso” in
modo casuale, irrazionale, facendo come fanno i neonati che non sono a contatto
con le cose che sono (259 d).
L’impossibile
separatezza e il discorso che non è (il discorso falso): qui si trova il
sofista
Il sofista potrebbe ribattere che, siccome
alcune idee si mescolano con altre (per esempio con il Diverso) e altre no, è
possibile pensare che- l’idea connessa con l’arte sofistica del produrre
immagini (eidolopoietiken) e apparenze (fantastiken) non si mescoli (per
esempio con il Diverso). Quindi la sua negazione, non potendo essere
compatibile con l’Essere, “non è” assolutamente e pertanto il discorso
sofistico falso non esiste, e il sofista non ne è affetto.
Allora dobbiamo valutare che cosa sono
discorso (logos), opinione (doxa) e apparenza (fantasia) per cogliere la loro
comunicazione con il non-essere, dimostrando che il falso c’è e che il sofista
vi è indissolubilmente legato (se lo troviamo di ciò colpevole) (261 a).
Analisi del discorso
Nel discorso sono contenuti i nomi, alcuni
ammettono accordo, altri no. Andando più a fondo bisogna ammettere che esistono
due tipi di segni con cui si indica l’Essere: i nomi che indicano colui che
compie le azioni e i verbi che indicano le azioni. Né un elenco di verbi né un
elenco di nomi fanno un discorso, bensì un insieme di nomi (soggetti) e di
verbi (predicati) (261 d - 262 a).
Tale insieme può avere due qualità: essere
vero o falso. Quello falso afferma i non-esseri come esseri, cioè afferma
esseri ma enti diversi da quelli che riguardano il soggetto al quale sono stati
attribuiti.
Inoltre, il discorso deve riferirsi
necessariamente a un oggetto (263 a), per esempio può riferirsi a Teeteto con
due frasi: Teeteto sta seduto (263 a) e Teeteto vola (ivi). Questi due discorsi hanno una loro qualità, l’uno è vero e
l’altro è falso. Il discorso falso dice le cose diverse da come sono, infatti
le cose dette in questo discorso sono non-esseri, poiché il volo è un
non-essere se applicato a Teeteto. Tuttavia, in questo discorso, questa “cosa”
falsa è detta come se fosse vera in modo che il discorso è realmente e
veramente (ontos kai alethos) un discorso falso (pseudes - 263 d).
Da qui risulta chiaro come conoscenza (dianoia - cfr Teeteto 189 e - 190 a), opinione (doxa - cfr Teeteto 206 d) e apparenza (phantasia - cfr Teeteto 152 c) sorgono sia veri sia falsi nella nostra anima.
Cerchiamo di capire come fanno a sorgere in questo modo, provando a comprendere che cosa conoscenza/pensiero (dianoia), opinione (doxa) e apparenza (phantasia) siano.
Innanzitutto il pensiero e il discorso (dianoia e logos) sono la stessa cosa, solo che il primo avviene dentro l’anima e senza voce, mentre il secondo è un certo soffio attraverso la bocca che si unisce alla voce (263 e). Entrambi sfociano in un’affermazione o una negazione; l’affermazione e la negazione che avvengono nell’anima nella forma del pensiero, in silenzio, le chiamiamo opinioni (doxa). L’opinione, quindi, è l’esito di un processo di pensiero avvenuto interiormente e che è giunto ad una conclusione affermativa o negativa. Quando l’opinione si presenta frammisto alla sensazione, cioè è proferita esternamente attraverso la voce, si ha invece l’apparenza (phantasia).
Posto che il discorso (logos) può essere vero o falso, e sono congeneri al discorso sia il dialogo dell’anima con sé stessa (dianoia) sia l’opinione (doxa) che è il compimento della dianoia, siccome l’espressione “appare” la diciamo una mistione di sensazione e opinione (quello che è la phantasia), è necessario che tutte e tre, dianoia, doxa e phantasia, possano essere vere o false (264 b).
Così è stato spiegato cos’è l’opinione e il
discorso falso. Riconducendo tutto al sofista, si parlava a suo proposito di
un’arte imitativa (eidolopoietikes) che abbiamo distinto in una che costruisce
immagini (eikon) e una che costruisce apparenze (phantastiken) (264 c). Lo
scoglio che dovevamo superare era quello per cui simulacro, immagine e
apparenza non potevano darsi in quanto falsi, ora appare chiaro che, essendoci
opinione e discorso falsi, può esserci pure un’arte votata all’inganno
(apatetiken).
L’ultimo e definitivo concetto del sofista
Da qui si procede con la definizione del
sofista [264 d]
L’arte dell’inganno risulta affine alla dimensione della produzione. Produzione e acquisizione sono due concetti distinti e se all’inizio, quando si era definito il sofista mediante i concetti di caccia, competizione, commercio, si era propeso per l’acquisizione ora invece si deve partire dalla produzione.
Schema ultima definizione 264 e segg
Dirà la cosa più vera colui che afferma che il sofista è della seguente stirpe (e sangue): della parte imitativa (mimetikon) nell’arte del contraddittorio (enantiopoiologikes) che fa parte del genere della simulazione basata sull’opinione (doxastikes), all’interno del genere della produzione di apparenze (fantastikon), che rientra in quello della produzione di immagini, non di origine divina, ma umana, all’interno della parte delimitata come produzioni di illusioni (thaumatopoioiikon) nei discorsi. [268 c-d]
(Il sofista è colui che possiede l’arte
umana e non divina di produrre immagini che sono apparenze (mentre quella
divina produce immagini autentiche) le quali, in quanto apparenze, dissimulano
la loro falsità. Egli produce l’apparenza attraverso la voce e non conoscendo
esattamente il modello originale, cioè la verità, da cui prende le mosse ma
dando ad intendere di conoscerlo; la sua pertanto è un’imitazione per mezzo
dell’opinione e non della conoscenza. In quanto orientato a non far capire che
non sa quello che imita, egli sarà un imitatore che simula. Questa simulazione
della verità - che è anche un’arte illusionistica simile a un’arte del
prestigiatore (268 d) - avverrà con brevi discorsi e in privato cercando di far
cadere l’interlocutore in contraddizione. [ricostruzione della definizione a
partire dal processo di divisione dell’idea di acquisizione, 264 e - 268 c]).
[1] E = Essere, I = Intero, Uv= Uno vero, veramente tale,
Uf = Uno falso, uno che è la somma delle sue parti