martedì 30 maggio 2023

La scuola terapeutica e la fine della cultura

 

                                                Dosso Dossi, La seduzione, 1520-22

L’Avvenire del 26 maggio titola: “Non è una scuola per dislessici”. L’Associazione Italiana Dislessici lamenta da un sondaggio qualitativo e, ammette, non scientifico, che buona parte degli alunni (802) e dei genitori (2375) intervistati ritengono

-   - che i docenti non abbiano una conoscenza adeguata di che cosa siano i disturbi specifici di apprendimento;

-        - che i PDP (piani didattici personalizzati) non siano sufficientemente rispettati nel percorso scolastico;

-       -  che pochi hanno avuto accesso agli strumenti compensativi e dispensativi;

-       -  che gli studenti dichiarano di sentirsi “diversi” e poco accolti nelle loro classi;

-       -  che molti hanno ricevuto un voto inferiore a quello che meritavano a causa dell’utilizzo di strumenti compensativi;

-        - che solo gli insegnanti che hanno seguito corsi di formazione sull’argomento dei disturbi specifici di apprendimento affronta i casi applicando con rigore la legge 170/2010.

La stessa Associazione, si dice nell'articolo, rifiuta l’idea che i Bisogni Educativi Speciali siano una moda, visto che in Italia i ragazzi coinvolti sono il 5% della popolazione scolastica, mentre all’estero si arriva fino al 15%.

Bene, forse chiedere a certe istituzioni una fotografia di un fenomeno a partire dagli interessi connessi alla loro missione è metodologicamente dubbio: sarebbe come chiedere all’oste se il suo vino è buono. Pensare inoltre che istituzioni anche meritorie non sviluppino interessi è metodologicamente ingenuo. Se poi tale fotografia risulta compiuta con un apparecchio non affidabile, cioè senza una prassi consolidata sotto il profilo scientifico-statistico, si rischia di vedere o troppo o troppo poco, oppure di confondere linee e colori, nell’oscurità in cui tutte le vacche sono nere, tutti gli studenti DSA, tutti gli insegnanti superficiali o “cattivi.

Il guaio è che l’emergere della tematica della dislessia e di altri simili disturbi non è un evento neutro, ma va di pari passo con l’affermarsi delle nuove pedagogie, nelle quali il sapere viene posto in secondo piano rispetto alle competenze, l’impegno e lo studio sono sovrastati dalle prospettive inclusive e democratiche dell’accesso universale al sistema della produzione e dei consumi, la funzione culturale della scuola cede il passo al suo ruolo onnicomprensivo di assistenza sociale e di welfare socio-psicologico.

A ciò si aggiunga che la logica della moltiplicazione delle sindromi (di oscura eziologia) che sembra essere abbracciata dai manuali internazionali ha una peculiare ricaduta nell’ambito dell’apprendimento e della scuola. La tendenza appare quella della medicalizzazione delle difficoltà e del disagio. La pluralità di manifestazioni della condizione umana nella sua fragilità, invece che occasione per una riflessione sui limiti che porta con sé l’avventura della vita e sugli sforzi per superarli secondo ragione e coscienza e senza velleitari prometeismi, diventa motivo di implosione vittimistica e di ricerca spasmodica della rassicurazione narcotica da parte del welfare sociale. La legislazione vigente continuamente enfatizza, alla luce del pressing sociale e familiare, sostenuto dalla seduzione esercitata dalla dottrina pedagogica dominate, la questione dei disturbi di apprendimento che diventa il cimitero dell’impegno e della conoscenza.

A completare il quadro ci si mettono l’allegra superficialità di talune diagnosi – e qui parlo per esperienza personale -, la proliferazione dei centri di certificazione e lo scarso controllo sul loro operato, la tendenza a ricorrere allo specialista come scorciatoia per le fatiche, talvolta fisiologiche, degli studenti, l’arroganza di qualche professionista che si ritiene in diritto di dettare la prassi didattica all’insegnante e infine l’arrendevolezza delle istituzioni scolastiche che accolgono i responsi medicali e/o psico attitudinali come altrettanti oracoli indubitabili e inoppugnabili.

Certo, negli ultimi concorsi pubblici lo studio delle legislazioni sui disturbi d’apprendimento ha acquisito importanza tale da costituire un prerequisto fondamentale per l’accesso all’abilitazione. Non si può pensare che questo entusiasmo burocratico per le leggi più progressive e progressiste del nostro ordinamento non abbia lasciato traccia nella coscienza dei docenti, che finiscono per praticare una didattica “difensiva” nello stesso spirito in cui i medici, assillati dal sistema dei ricorsi e del risarcimento danni, praticano una medicina “difensiva”. Solo che l’eccesso di diagnosi non è per lo più direttamente dannoso sul malato, mentre lo è sullo studente, che non deve e non può essere trattato come un paziente.

Ciò a suo esclusivo beneficio. L’estensione dei propositi terapeutici ben al di là dei limiti delle patologie conclamate e bisognose di intervento tecnico-specialistico rappresenta una pericolosa seduzione, quella della cura e dell’ amore, quella dell’ipocrita I care di donmilaniana memoria, che getta il sistema scolastico nell’immensa brodaglia amniotica del buon sentimento un tanto al chilo, dei finti tremori di compassione, della carezzevole promiscuità dell’empatia che tutto confonde, lasciando aperto il baratro dell’universale livellamento verso il basso della cultura e dell’intelligenza. Agli studenti così crudelmente perseguitati da questa fascinazione perversa, a spese della loro Bildung e del loro futuro bisognerebbe dedicare la considerazione che Louis Ferdinand Céline sviluppò sulle sorti del popolo francese nel 1789: “Quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia… È il segnale… È infallibile. È con l'amore che comincia”.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

venerdì 12 maggio 2023

"Anime nascoste" di Stefano Zecchi

 


Lorenzo, antiquario veneziano, trapiantato nella capitale lombarda, traccia in un diario intimo i contorni della sua esistenza spirituale. La donna che ha amato e quella che ama si manifestano come centri di significato e poli simbolici di un cammino di formazione. La donna del presente è figura etica della famiglia e della responsabilità, quella del passato richiama il mondo estetico dell’inquietudine e della convinzione. Il due universi si incontrano per caso quando il figlio di Barbara, che ha ormai trovato in Lorenzo un punto di riferimento dopo la morte del padre, rischia a sua volta di morire per un grave incidente di moto. Nel periodo drammatico della sua ospedalizzazione giunge un messaggio di Gloria, l’antica fidanzata, rifugiata a Parigi dopo una lunga militanza nelle file della destra radicale e una pericolosa contiguità con la lotta armata. Questioni irrisolte di un passato burrascoso tra il Sessantotto e gli anni Settanta sono tornate a galla e l’hanno condotta in carcere. Di lì, dopo decenni di silenzio, fa pervenire a Lorenzo la sua richiesta di aiuto. Anche per Lorenzo un passato non privo di angoscia, benché intenso di vita, sentimenti e bellezza, tornando, impone le sue condizioni e i suoi dilemmi, in un momento già complicato e problematico. Parigi, tuttavia, riserverà sorprese e imprevisti, nuove svolte e nuove riconciliazioni nella trama esistenziale del protagonista. Lì si risolvono nel più classico dei riconoscimenti le sedimentazioni di un’anima nascosta che il racconto ci manifesta nelle due relazioni decisive della sua vita: quella adulta e disincantata con Barbara e quella giovanile e utopica con Gloria. Sempre di ritorni si tratta: il ritorno alle radici di sé in un amore complesso dove solo Barbara può sollevare con una nuova e serena bellezza il peso dell’irrisolto passato di Lorenzo; il ritorno alle radici del dramma della possibilità e dell’incertezza che Gloria resuscita con l’evocazione di una gioventù condotta sul filo delle sue sollecitazioni a un’impossibile radicalità rivoluzionaria.

Questo in fondo diventa il problema di Lorenzo e qui l’interiorità incappa nella politica. Ma ciò avviene sulla scia di un’altra precedente e fondamentale esperienza: l’incontro con Antonello, un giovane e tormentato aristocratico che lo introduce al pensiero reazionario e anticonformista dell’Otto-Novecento: “Presi i libri poggiandoli sulle ginocchia, lessi autori e titoli a voce alta: Oswald Spengler, Il tramonto dell’occidente; Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra; Ernst Jünger, Il trattato del ribelle; Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare;  Rene Guénon […], La crisi del mondo moderno […] Julius Evola, Cavalcare la tigre…” (p. 85). Antonello è il negativo di Gloria: l’elitismo ritirato e sdegnoso di chi, consapevole del ciclo destinale della civiltà, opta per la coltivazione del Sé, per “restare in piedi in un mondo di rovine”, a fronte del gusto attivistico per l’azione sociale della ragazza che abbraccia, si badi bene, non il distaccato e impolitico agire senza agire di evoliana memoria, ma un engagement militante, giacobino, sindacale e soreliano. Lorenzo rimane imbrigliato nel dilemma.

Egli risulta trasformato dalle sue letture e mi piace pensare che lo sia in particolare, come lo fu chi scrive, dalla Crisi del mondo moderno, vero libro-dinamite che distrugge la totalità moderna adombrando l’opposta e irriducibile totalità della Tradizione. Ma fuori da una comprensione militante, come fu la mia, l’esito non poteva che essere la resa all’irresistibile fascino dell’apolitia, cui già Antonello si era definitivamente consegnato. È una “distanza interiore e irrevocabile da questa società e dai suoi ‘valori’, è il non accettare di restare legati ad essa per un qualche vincolo spirituale e morale” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano, 1971, p. 175). Infatti “nell’attuale situazione politica, in clima di ‘democrazia’ e di ‘socialismo’, le condizioni obbligate del gioco sono tali che l’uomo in quistione (l’uomo tradizionale, n.d.r.) non può assolutamente prendervi parte” (ivi, p. 174).

Lorenzo sembra acquisire dall’amico – che muore prematuramente lasciando il campo libero allo stendardo della fidanzata - questo fondamentale atteggiamento. L’incontro-scontro con l’amata Gloria è inevitabile. Da un lato li accomuna la medesima opposizione alla modernità nel suo complesso, dall’altro li divide la seduzione irresistibile non, come detto, dell’azione distaccata e impersonale, ma della militanza politica fatta di strategia e dell’inevitabile e tragico rapporto mezzi-fini. Il tutto accade nel clima surriscaldato del Sessantotto. Lo scatenarsi di una passione politica universale e generazionale non può che segnare lo spazio di una divergenza che si fa più grande man mano che l’esperienza militante di Gloria nelle organizzazioni della destra radicale si fa più coinvolgente e totalizzante.

Ma noi non vediamo il cuore di Gloria. Ci è aperto, bensì, quello di Lorenzo. Egli è pure il narratore e mantiene la libertà di dischiudere la propria prima persona che è tanto intensa da decolorare e sfumare le linee della realtà storica. I suoi tratti finiscono per disperdersi lungo il racconto in accenni di una rapsodia esterna che offre solo la cadenza, ma non determina i fatti, del tutto o quasi trasfigurati dalla dimensione interiore.

Vi sono in particolare alcuni elementi decisamente stranianti: lo svolgersi delle riunioni semi-cospirative di studenti di destra a casa di Gloria appare modellato sul paradigma delle più note consuetudini dei loro coetanei di sinistra, sin dal termine con cui viene indicato il gruppo politico di riferimento: il Collettivo (un nucleo di destra mai avrebbe usato questa designazione). Allo stesso modo la mancanza di un dibattito sul fascismo risulta singolarmente irrealistica. Le animate discussioni nel Collettivo passano dalla dimensione culturale a quella politica. L’attualità è presente, come pure il tentativo di leggerla mediante i principi delineati dai maestri della tradizione di destra. Ma il problema dei problemi non compare mai, se non nelle vesti di un convitato di pietra: l’ingiusta accusa per cui gli altri “ci dicono che siamo fascisti”.

Anche questa è una pellicola in bianco e nero, espressione di una narrazione interiore costretta dalle proprie telecamere a sopprimere l’intensità dei contrasti. Ma, nella sovrapposizione dell’io narrante e di quello autorale, ciò si può comprendere. Forse qui agisce l’eco di uno sguardo benevolo su un mondo estraneo. Forse a parlare è colui che nel 1974 scriveva su Ernst Bloch un testo intitolato Utopia e speranza nel comunismo, mostrando l’inclinazione a uscire dalle ortodossie e a scavalcare le loro cortine di ferro. Ma la benevolenza di Zecchi/Lorenzo non può che giungere alle soglie del campo ancor oggi minato del fascismo. Di qui l’intento di urbanizzare la gigantomachia attorno fascismo stesso che si consumava negli ambienti del radicalismo missino ed extraparlamentare, dalla quale si sarebbe consolidata, sopravvivendo fino ai giorni nostri, l’antica distanza tra regime e movimento, tra la destra borghese che parassita l’esperienza mussoliniana, rimanendone suo malgrado invischiata e contaminata, e l’orientamento rivoluzionario conservatore, a suo volta diviso fra tradizione elitista e sperimentazione mazziniana e socialista.

Gloria e Lorenzo sembra si dibattano entro quest’ultima alternativa che in interiore homine viene vissuta nello scontro fra la tentazione apolitica di lui e quella politica di lei… ossia tra l’uomo che mediante la bellezza intende guadagnare un centro di gravità permanente della vita non solo spirituale ma anche sentimentale, e la donna che chiede alla trasformazione del mondo ciò che alla trasformazione del Sé manca quanto a universalità intersoggettiva, comunitaria, epocale e cosmica.

Il riconoscimento da parte di Gloria del sostanziale fallimento di tale seconda opzione va di pari passo con la piena comprensione del proprio percorso individuale da parte di Lorenzo. L’esito non è simmetrico. Ci sono vincitori e vinti…e il vincitore riceve infine l’avallo della nuova e dell’antica fidanzata. Non manca però un fil rouge di malinconia dentro il complesso cammino dell’antiquario veneziano – che più che vincere “se la cava” - , forse in ragione di ciò che la storia ha negato all’anima: la possibilità di specchiarsi in un mondo diverso, che è la via che tentò quel Sessantotto di destra un po’ irreale e colto tuttavia nel romanzo con occhi veritieri, delicati e quasi affettuosi.

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venerdì 5 maggio 2023

Sul corpo di José Antonio

 


La cronaca è questa. Recentemente il governo spagnolo ha compiuto l’ennesimo scempio di morti. Dopo aver agguantato il cadavere di Francisco Franco per strapparlo al suo riposo nella Valle de los Caídos e averlo buttato, per legge, in un altro cimitero, è l’ora di José Antonio. Le mani sporche degli yuppie capitalsocialsti di Pedro Sánchez e degl’impuri chandala di Pablo Iglesias si sono gettate sul corpo del nobile capo della Falange, fucilato a suo tempo da vigliacchi senza umanità e senz’anima, per aggredirlo con nuove e più striscianti vigliaccherie. Anche lui via dalla Valle! … via, dentro il piccolo recinto di San Isidoro alla periferia di Madrid, scelto per dare a tutto il crisma feroce dell’insignificanza. Sono le opere della legge, direbbero le Scritture, opere, fuori di metafora, di una legge vomitevole e totalitaria, la Ley de memoria democrática, quella che promuove la cancellazione della storia vera della Spagna con lo scopo di sostituirla con la sua risignificazione appunto “democratica”. Vale a dire: prendo i monumenti del passato, ne distruggo la parti scomode e li risignifico, cioè costringo il loro simbolismo dentro i canoni della correttezza politica neopuritana della sinistra. Come Stalin condannava i dissidenti al pentimento pubblico, l’omuncolo del potere madrileno vi costringe i monumenti. Ma affinché la strategia abbia successo, bisogna lavorare ... anche e soprattutto sui corpi, perché le pietre parlano per mezzo dei corpi, sono simboli di più potenti simboli corporei di un passato che nel corpo della nazione spagnola è incarnato… malgrado l’indifferenza dei più che pensano a far soldi o a godersela. Separati i corpi dalle loro pietre, si crede di farla finita… e poter riscrivere la storia con il basso ventre. Non è più allora il tempo della Spagna invertebrata di Ortega, ma è la Spagna vomitevole di Irene Montero (che distrugge croci e acquista ville). Beh, vedere la danza pornografica dei potenti di un giorno sui cadaveri di un’epoca mette grande tristezza, e forse anche rabbia. Sulle vesti dei più grandi, i peggiori e i malriusciti gettano le sorti. La Valle de los Caídos, dove riposavano insieme i repubblicani e i nazionali, accostamento voluto in segno di leale riconciliazione alla fine di una sanguinosa guerra civile, è ora pronta al funerale della bellezza che Madrid le prepara da tempo. Ma nessuno creda che l’infamia che si pretende immortale, usurpando le sedi dell’onore, possa mai durare poco più del tempo della sua putrefazione. Poi le puzze democratiche dilegueranno e un po’ di luce tornerà. “A un tratto, in un giorno chiuso appare il margine estremo della massa continua delle nubi, giù basso all’orizzonte, e rivela il sereno, le montagne luminose nella gloria del sole”. Ma non è solo un evento climatico, bensì la storia di volontà che si risvegliano, di cultura che si rimette in moto e di sensibilità che riprendono vigore. Temano i topi che ora occupano la fogna della Moncloa il ritorno degli uomini.

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