Dosso Dossi, La seduzione, 1520-22
L’Avvenire del 26 maggio titola: “Non è una scuola per dislessici”. L’Associazione Italiana Dislessici lamenta da un sondaggio qualitativo e, ammette, non scientifico, che buona parte degli alunni (802) e dei genitori (2375) intervistati ritengono
- - che i docenti non abbiano una conoscenza
adeguata di che cosa siano i disturbi specifici di apprendimento;
- - che i PDP (piani didattici personalizzati) non
siano sufficientemente rispettati nel percorso scolastico;
- - che pochi hanno avuto accesso agli strumenti
compensativi e dispensativi;
- - che gli studenti dichiarano di sentirsi
“diversi” e poco accolti nelle loro classi;
- - che molti hanno ricevuto un voto inferiore a
quello che meritavano a causa dell’utilizzo di strumenti compensativi;
- - che solo gli insegnanti che hanno seguito corsi
di formazione sull’argomento dei disturbi specifici di apprendimento affronta i
casi applicando con rigore la legge 170/2010.
La stessa Associazione, si dice nell'articolo, rifiuta l’idea che i
Bisogni Educativi Speciali siano una moda, visto che in Italia i ragazzi
coinvolti sono il 5% della popolazione scolastica, mentre all’estero si arriva
fino al 15%.
Bene, forse chiedere a certe istituzioni una fotografia di
un fenomeno a partire dagli interessi connessi alla loro missione è
metodologicamente dubbio: sarebbe come chiedere all’oste se il suo vino è
buono. Pensare inoltre che istituzioni anche meritorie non sviluppino interessi
è metodologicamente ingenuo. Se poi tale fotografia risulta compiuta con un
apparecchio non affidabile, cioè senza una prassi consolidata sotto il profilo
scientifico-statistico, si rischia di vedere o troppo o troppo poco, oppure di
confondere linee e colori, nell’oscurità in cui tutte le vacche sono nere,
tutti gli studenti DSA, tutti gli insegnanti superficiali o “cattivi.
Il guaio è che l’emergere della tematica della dislessia e
di altri simili disturbi non è un evento neutro, ma va di pari passo con
l’affermarsi delle nuove pedagogie, nelle quali il sapere viene posto in
secondo piano rispetto alle competenze, l’impegno e lo studio sono sovrastati
dalle prospettive inclusive e democratiche dell’accesso universale al sistema
della produzione e dei consumi, la funzione culturale della scuola cede il
passo al suo ruolo onnicomprensivo di assistenza sociale e di welfare
socio-psicologico.
A ciò si aggiunga che la logica della moltiplicazione delle
sindromi (di oscura eziologia) che sembra essere abbracciata dai manuali internazionali
ha una peculiare ricaduta nell’ambito dell’apprendimento e della scuola. La
tendenza appare quella della medicalizzazione delle difficoltà e del disagio.
La pluralità di manifestazioni della condizione umana nella sua fragilità, invece
che occasione per una riflessione sui limiti che porta con sé l’avventura della
vita e sugli sforzi per superarli secondo ragione e coscienza e senza
velleitari prometeismi, diventa motivo di implosione vittimistica e di ricerca
spasmodica della rassicurazione narcotica da parte del welfare sociale.
La legislazione vigente continuamente enfatizza, alla luce del pressing
sociale e familiare, sostenuto dalla seduzione esercitata dalla dottrina
pedagogica dominate, la questione dei disturbi di apprendimento che diventa il cimitero
dell’impegno e della conoscenza.
A completare il quadro ci si mettono l’allegra
superficialità di talune diagnosi – e qui parlo per esperienza personale -, la
proliferazione dei centri di certificazione e lo scarso controllo sul loro
operato, la tendenza a ricorrere allo specialista come scorciatoia per le fatiche,
talvolta fisiologiche, degli studenti, l’arroganza di qualche professionista
che si ritiene in diritto di dettare la prassi didattica all’insegnante e
infine l’arrendevolezza delle istituzioni scolastiche che accolgono i responsi
medicali e/o psico attitudinali come altrettanti oracoli indubitabili e
inoppugnabili.
Certo, negli ultimi concorsi pubblici lo studio delle
legislazioni sui disturbi d’apprendimento ha acquisito importanza tale da costituire
un prerequisto fondamentale per l’accesso all’abilitazione. Non si può pensare che
questo entusiasmo burocratico per le leggi più progressive e progressiste del
nostro ordinamento non abbia lasciato traccia nella coscienza dei docenti, che
finiscono per praticare una didattica “difensiva” nello stesso spirito in cui i
medici, assillati dal sistema dei ricorsi e del risarcimento danni, praticano
una medicina “difensiva”. Solo che l’eccesso di diagnosi non è per lo più
direttamente dannoso sul malato, mentre lo è sullo studente, che non deve e non
può essere trattato come un paziente.
Ciò a suo esclusivo beneficio. L’estensione dei propositi
terapeutici ben al di là dei limiti delle patologie conclamate e bisognose di
intervento tecnico-specialistico rappresenta una pericolosa seduzione, quella
della cura e dell’ amore, quella dell’ipocrita I care di
donmilaniana memoria, che getta il sistema scolastico nell’immensa brodaglia amniotica
del buon sentimento un tanto al chilo, dei finti tremori di compassione, della
carezzevole promiscuità dell’empatia che tutto confonde, lasciando aperto il
baratro dell’universale livellamento verso il basso della cultura e dell’intelligenza.
Agli studenti così crudelmente perseguitati da questa fascinazione perversa, a spese
della loro Bildung e del loro futuro bisognerebbe dedicare la
considerazione che Louis Ferdinand Céline sviluppò sulle sorti del popolo
francese nel 1789: “Quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che
vogliono ridurvi in salsicce da battaglia… È il segnale… È infallibile. È con
l'amore che comincia”.
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