lunedì 10 aprile 2023

I diritti umani: una sintesi critica

 

Il diritto

I diritti umani sono entrati nelle principali legislazioni dell’occidente, dopo essere stati solennemente “dichiarati” in diverse occasioni, spesso come preambolo alle carte costituzionali di cui tra la fine del Seicento e il Ventesimo secolo si sono dotati i paesi europei, americani e poi di tutto il mondo.

Ma di che cosa si tratta? Che cosa intendiamo quando parliamo di “diritti umani”?

Innanzitutto, precisiamo che la parola “diritto” rimanda alla legislazione. Il diritto è un insieme di norme o leggi che regola la vita dei popoli radunati in una compagine politica che si è data una forma di governo. Laddove vi è un popolo governato mediante istituzioni che indirizzano la sua vita civile all’interno di un certo territorio, lì c’è un diritto, cioè l’insieme delle regole della convivenza dei membri di quella comunità.

Se l’insieme delle leggi prende il nome di diritto (il diritto vigente in Italia o in Germania, i codici di diritto, cioè la raccolta delle leggi etc.) anche la scienza che studia la legislazione, parimenti si chiama diritto (o giurisprudenza).

Giustizia e diritto naturale

Bene le leggi contenute nei codici di diritto – diversi a seconda delle sfere dell’esistenza che regolano (diritto privato, pubblico, costituzionale, amministrativo, civile, bellico, marittimo etc.) si rifanno generalmente a un senso di giustizia comunemente accettato dalle società in cui vigono. Data la storia e la cultura complessiva di un popolo, si avrà una corrispondente legislazione che apparirà per lo più giusta o giustificata agli occhi almeno della maggioranza dei membri di quel popolo. Alcuni ritengono che le leggi non possano essere giuste se non discendono da un senso di giustizia universale, da alcuni principi morali-giuridici che essi chiamano complessivamente diritto naturale, perché inscritto nella stessa natura umana (è la corrente di pensiero giuridico-filosofica che in epoca moderna prende il nome di giusnaturalismo). Tale diritto contiene numerose norme generali di giustizia ma è stato magistralmente sintetizzato dal grande giurista romano Ulpiano (170-228 d.C.) nella seguente definizione: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere alterum non laedere, suum cuique tribuere” ("La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto sono queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, dare a ciascuno il suo".

Dal diritto naturale al diritto soggettivo

L’idea di un diritto naturale, cioè di principi generalissimi di giustizia da ognuno riconoscibili, che deve fare da criterio per il diritto positivo, cioè per le leggi normalmente vigenti in uno Stato - quelle che puniscono il furto o l’omicidio o qualsiasi altro tipo di reato - ha contribuito, sempre all’inizio dell’epoca moderna a dar luogo ad una peculiare concezione della legge.

Si è ritenuto che “per natura” gli uomini avessero certe prerogative di agire o fare qualcosa, e che le istituzioni di governo dovessero rispettarle, pena un’inguaribile ferita inferta alla stessa umanità. Su questa base si è istituito un diritto soggettivo e lo si è distinto dal tradizionale diritto oggettivo.

Infatti, le regole della convivenza civile possono

-        vietare, prescrivere o permettere certi comportamenti disciplinando la condotta degli uomini mediante regole oggettive. Ciò accade quando la legge dice: «Il comportamento X è vietato»; «Il comportamento Y è obbligatorio». Queste sono le leggi del diritto OGGETTIVO;

-        stabilire che certi comportamenti messi in atto dai singoli cittadini per perseguire un loro scopo o interesse sono riconosciuti come legittimi e dunque nessuno può impedirli e anzi la società e le istituzioni devono favorirli: ciò accade quando una legge dice: «Il soggetto X ha diritto di fare Y»; «Il soggetto Y ha facoltà di ottenere Z». Queste sono le leggi del diritto SOGGETTIVO.

Così viene distinto per il diritto oggettivo una norma dell’agire che dice che cosa si deve o non si deve fare; e per il diritto soggettivo una facoltà di agire che dice che cosa la volontà di ciascuno può fare e non deve essere impedita di fare o anzi deve essere favorita nel fare. Per esempio: si può con una norma di diritto oggettivo affermare che “è vietato rubare”, o con una norma di diritto soggettivo dire che “quando ciascuno voglia usufruire in maniera esclusiva di un bene posseduto legittimamente (proprietà), nessuno può vietarglielo o impedirglielo” (diritto alla proprietà).

Diritti umani e diritto soggettivo

I diritti umani appartengono a questa sfera di diritto soggettivo naturale. Le loro prime formulazioni risalgono alla scuola di Salamanca del frate domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (1543-1586) e hanno come scopo l’affermazione di una comune giustizia e di alcune comune prerogative possedute dagli indios dell’America Latina e dai conquistatori europei, tali che i primi non potevano essere indiscriminatamente oppressi e resi schiavi dai secondi (di qui le leggi di Burgos del 1512 e le Leggi nuove del 1542 a difesa dei popoli del Nuovo mondo appena scoperto). De Vitoria sosteneva che il diritto a essere rispettati nel proprio corpo, nella propria libertà e nei propri possessi proviene all’uomo dal “dominium sui propri atti e sul proprio corpo”, che egli esercita mediante la ragione. Quest’ultimo è senz’altro attribuibile anche agli indios, malgrado certe manifestazioni che indurrebbero a pensare che essi siano meno sviluppati e meno adulti degli europei. Quand’anche fosse così, nulla consente di mettere in atto comportamenti lesivi o discriminatori nei loro confronti.

Il concetto di diritto umano soggettivo fu successivamente sviluppato da altri autorevoli giuristi e filosofi come Ugo Grozio (1583-1645) che definisce il diritto soggettivamente come “una facoltà morale in forza della quale la persona, cui compete tale facoltà, può pretendere una cosa o un comportamento altrui con giustizia”; come Thomas Hobbes (1588-1689) che sostiene che, anteriormente al definirsi delle istituzioni statali, ciascun uomo hanno per natura diritto a tutto;  o come Samuel Pufendorf  (1632-1694) che ha sottolineato che l’uomo possiede diritti in quanto uomo, e non in quanto cristiano; o infine come John Locke (1632-1704), che ha stabilito i tre fondamentali diritti posseduti da ogni uomo, vita, libertà e proprietà, a difesa dei quali gli individui di una società hanno originariamente stipulato il patto da cui sono nati il governo e tutte le altre istituzioni, proprio con lo scopo di difenderli.

I diritti umani e il loro utilizzo politico

Già in queste prime formulazioni, la teoria dei diritti umani si presta a specifici utilizzi politici: Vitoria convince la Corona a promuovere una politica di limitazione dei soprusi dei conquistadores nei confronti dei popoli del Nuovo mondo; Hobbes vuole far presente come un indiscriminato diritto di tutti a tutti generi un’altrettanto indiscriminata guerra di tutti contro tutti, che rende necessaria la forza indiscutibile di un monarca assoluto, la sola in grado di garantire la pace; Pufendorf si inserisce nelle dispute religiose europee tra cattolici e protestanti e propone un moratoria giuridica delle conflittualità religiose in base a un comune senso di giustizia; Locke diventa il padre del liberalismo e l’ideologo della Glorious Revolution (1688) che limita le prerogative del sovrano a favore del parlamento, garantendo che un potere così ridimensionato consenta una migliore difesa dei diritti umani dei sudditi.

Le Rivoluzioni del Settecento

Sotto il profilo strettamente politico, dopo il Bill of Rights inglese, una dichiarazione i diritti umani fa la sua comparsa nella costituzione americana del 1787, in particolare nei primi 10 emendamenti entrati in vigore nel 1791, dopo che già la dichiarazione di indipendenza del 1776 vi conteneva ampi riferimenti con l’interessante novità del vago ma seducente “diritto alla felicità”. Tutto ciò risente inequivocabilmente del contributo dell’Illuminismo

Con l’illuminismo assistiamo, infatti, al definitivo trionfo della dottrina, nella forma individuata da Locke, poi rivista da altri teorici come Rousseau, Montesquieu, Sieyes e cristallizzata infine nella Dichiarazione del 1789 che segna in modo indelebile l’esordio della Rivoluzione francese. In particolare, il secondo articolo di tale dichiarazione recita: “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”

Lo spazio data alla “resistenza all’oppressione”, che logicamente poteva rientrare nel concetto di libertà, evidenzia in modo chiaro l’intento politico dell’Assemblea nazionale francese: quello di opporsi al regime monarchico assoluto guidato da Luigi XVI, che, in quanto assoluto, secondo gli illuministi non poteva che rappresentare una forma insopportabile di dispotismo. L’uomo possedeva dei diritti, dunque, la cui principale funzione risultava essere quella di rivendicare l’illegittimità del potere del re che veniva accusato efficacemente per una loro storica non-osservanza. Tale enfasi oppositiva lascerà qualche dubbio a Mazzini: “Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli (leggi: i regimi politici considerati oppressivi); ma non fondare forte e durevole l'armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione”. Ciò è sintomo di una prima riflessione critica, fuori dal contesto strettamente reazionario, sulle conseguenze politico-sociali dei diritti umani, pur in un contesto di sostanziale accoglimento del loro retroterra culturale illuministico.

Dal Settecento all’Ottocento

Nel XIX secolo un utilizzo non del tutto innocente della teoria dei diritti umani non sfuggirà ai più acuti uomini della Chiesa cattolica, tra cui molti papi che condannano “la Dichiarazione in quanto la vedono, con buone ragioni, come ‘una via di emancipazione del consorzio civile dalla direzione della Chiesa sulla società’”. Cioè vi vedono non tanto la difesa di alcune prerogative umane, ma l’dea che la natura dell’uomo debba interpretarsi a prescindere dal Dio che l’aveva creata e dalla sua Chiesa che ne garantiva l’autentico rispetto. Così l’uomo, mediante la difesa di diritti affermati apoditticamente come appartenenti ad una sua natura, non meglio e non oltre giustificata, acquisirebbe pure il diritto di emanciparsi dalla guida divina, con grande disgrazia morale e politica per l’individuo e per la società[1].

Una tassonomia

Nel XX secolo la dottrina dei diritti umane viene ulteriormente approfondita, in particolare si definisce una più precisa tassonomia dei suddetti diritti:

-        i diritti civili che determinano l’obbligo dello Stato di limitare il proprio potere nei confronti dei cittadini (obbligo di non fare). Fanno parte dei diritti civili il diritto alla libertà di movimento, di associazione, di riunione, di coscienza, di religione, di non essere privati della proprietà, di non essere incarcerati senza processo (habeas corpus).

-        I diritti sociali che determinano l’obbligo dello Stato di erogare prestazioni nei confronti dei cittadini (obbligo di fare). Fanno parte dei diritti sociali il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla protezione sociale nei confronti di malattia, vecchiaia, disoccupazione, infortunio.

-        I diritti politici che riguardano l’obbligo dello Stato di ammettere forme in cui i cittadini possono partecipare alle decisioni politiche, per esempio il voto, l’accesso alle cariche pubbliche e amministrative, l’auto-organizzazione collettiva in partiti e i sindacati.

La Dichiarazione del 1948

La dichiarazione del 1948, all’indomani della Seconda guerra mondiale, dopo un periodo che aveva visto molti regimi politici negare o sottovalutare la dottrina dei diritti, contestando le sue radici illuministiche e razionalistiche e le limitazioni alla sovranità che ne derivavano, segna la consacrazione definitiva dei diritti umani nel contesto morale e politico mondiale. Nondimeno gli intellettuali riuniti da Eleanor Roosevelt, capo della commissione dell’Onu per i Diritti umani, per offrire un quadro culturale e filosofico alla successiva dichiarazione, elaborarono una serie di documenti così disparati e tra loro incompatibili che si preferì glissare sui fondamenti filosofici e procedere alla redazione della Carta così come oggi la leggiamo. La Carta, emanata il 10 dicembre 1948,  nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare criterio morale per l’azione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, consentendole di raggiungere i suoi scopi: To maintain international peace and security”; “To develop friendly relations among nations based on respect for the principle of equal rights and self-determination of people”; “To achieve international co-operation in solving international problems of an economic, social, cultural, or humanitarian character, and in promoting and encouraging respect for human rights and for fundamental freedoms for all without distinction as to race, sex, language, or religion”. Purtroppo, la realtà della politica globale dopo il 1945 rimarrà molto lontano dagli ideali e dalle buone intenzioni dei redattori della Carta, e lo si potrà subito constatare in occasione del milione e mezzo di morti che fa la Guerra tra Corea del Sud, sostenuta dagli Stati Uniti, e Corea del Nord, sostenuta dal blocco comunista tra il 1950 e il 1953.

Dalla Guerra Fredda ad oggi: generazioni

Malgrado gli avvenimenti che hanno caratterizzato il periodo della Guerra Fredda, fino al 1989 e il turbolento periodo successivo, sotto il profilo della mentalità comune e del riconoscimento internazionale la Carta del 1948 ha contribuito tuttavia a determinare il consolidamento dei diritti di seconda generazione cui si sarebbero aggiunti, verso la fine del Novecento altri, considerati di terza generazione. Tra i diritti menzionati annoveriamo

-        I principali diritti sociali (II generazione)

-        diritti di gruppo o collettivi

-        il diritto all'autodeterminazione

-        il diritto allo sviluppo economico e sociale

-        diritto a un ambiente salubre

-        diritto alle risorse naturali

-        diritto a comunicare e diritti di comunicazione

-        diritto alla partecipazione al patrimonio culturale

-        diritti all'equità intergenerazionale e alla sostenibilità (III generazione)

-        diritto all’integrità del patrimonio genetico a fronte dei progressi della ricerca biologica;

-        diritto alle cure palliative (ossia l’accesso a tutti i trattamenti, inclusi i trattamenti che permettano al malato di evitare inutili sofferenze).

-        Diritto al multiculturalismo

-        Diritto alla proprietà intellettuale

In tale proliferazione si è determinata una sorta di corsa al diritto, che diventa al tempo stesso ipergarantismo sociale – la società che provvede a tutto, perché a tutto vi è un diritto – e una gara di dubbia legittimità etica, politica e filosofica, quando si introducono diritti mostruosi come, per esempio, il presunto (ed esecrabile) diritto delle madri ad ammazzare i figli che portano nel grembo (diritto all’aborto).

Una prospettiva critica

Ciò conduce a elaborare di necessità una prospettiva critica che valuti attentamente la legittimità e la ragionevolezza della dottrina alla luce dei suoi presupposti filosofici (sui quali non c’è accordo), e dei suoi effetti etico-politici nel corso di almeno cinquecento anni di storia.

La mancanza di un linguaggio condiviso

Cominciamo dalla mancanza di un perché. Come abbiamo visto, tutti sono d’accordo sul fatto che gli uomini posseggano diritti, ma pochissimi concordano sul motivo. In ciò ha un ruolo non secondario l’assenza di un comune riferimento culturale che dia ai concetti presenti nelle varie dichiarazioni un senso univoco e condiviso. Infatti, per esempio, non tutti intendono la stessa cosa con la parola uomo: nella storia occidentale vi sono state diverse posizioni, intese ad escludere gruppi più o meno ampi da tale qualifica (per esempio nella legge statunitense chiamata Naturalization Act del 1790, la qualifica di uomini è riservata a coloro che sono «free white persons»). Ma non si tratta solo di questo, si tratta anche dell’importanza da dare al soggetto individuale rispetto alle regole sociali, molto più rilevanti in Oriente che in Occidente; oppure del posto da assegnare al rapporto uomo–Dio, fondamentale in alcune civiltà secondo le quali esso prevale sulla volontà individuale di libera autodeterminazione (così come viene pensata dalla cultura europea otto-novecentesca)… E di molti altri fattori che determinano il senso delle frasi usate nelle varie dichiarazioni, quando si tratta di trasformarle in leggi e politiche concrete.

Se manca una giustificazione condivisa, ci si basa su una fragile ed emozionale evidenza. Per es.: «L’uomo ha diritto alla libertà». Sì, ma chi concretamente ne ha diritto? E che cosa significa esercitare la libertà? È una libertà collettiva o individuale? Nello Stato o contro lo Stato? Nella religione o contro la religione? Nella famiglia o contro la famiglia? E fin dove si spinge? Fino all’uccisione dell’oppressore? E chi è l’oppressore: i capitalisti (Marx), il re (liberali), il prete (illuministi anticlericali); l’infedele (estremisti induisti, mussulmani o di altre religioni); i massoni (cattolici); gli occidentali (cinesi); i russi (americani)…e così via.

Così Raymond Aron può dire: «Formule come ‘gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti’ non resistono all’analisi (nascere libero, nel senso proprio, non significa nulla)» (R. Aron, Scienza e coscienza della società, Lucarini, Roma 1990, p. 225).

La diversità dei linguaggi non fa venir meno la pretesa universalistica dei diritti

Benché sia difficile ritrovare una giustificazione comune alla dottrina dei diritti, essa mantiene il suo carattere universale, la sua validità erga omnes, anche al di là dei confini degli Stati e delle diversità delle culture. Ma ciò genera problemi assai gravi. Per esempio, alcuni diritti entrano in contrasto con le legislazioni e le consuetudini di determinati popoli, dove per esempio si ammette la pena di morte, in violazione del diritto alla vita, che invece è interpretato restrittivamente laddove si ammette l’aborto. La stessa nozione di diritto non è universale, potendo essere interpretato assai diversamente nelle culture orientali: per esempio in lingua indiana si usano termini molto approssimativi come yucta e ucita (appropriato), nyayata (giusto) o ancora dharma (obbligazione). In cinese diritto si dice attraverso la giustapposizione di due parole chuan e li che designano ‘potere’ e ‘interesse’. In arabo il termine haqq (diritto) significa anzitutto ‘verità’» (A. De Benoist, Oltre i diritti dell’uomo. Per difendere la libertà, tr. it., Settimo Sigillo, Roma 2004).

L’universalismo dei diritti e la particolarità dei suoi banditori

 Infine, la questione più importante è che se i diritti umani sono da considerarsi universali, i suoi banditori sono sempre soggetti particolari. Non esiste, né può esistere come abbiamo visto, il caso in cui tutti gli uomini si ergano unanimemente, a una sola voce e in un solo tempo a difesa di un diritto. Sono sempre soggetti, singoli, collettivi o politici che alzano la bandiera di un diritto o in generale dei diritti umani. Fatalmente, per tale motivo, coloro che innalzano detta bandiera sono anche coloro che dei diritti danno l’interpretazione il più delle volte favorevole ai propri interessi. Così recentemente sono state compiute azioni militari, a volte illegittime, a volte inutilmente crudeli, a volte irrispettose delle più elementari norme di convivenza, nei confronti di singoli, popoli o Stati considerati contrari ai diritti e quindi rei, colpevoli e meritevoli di punizione. Sono state addirittura giustificate e condotte guerre in nome dei diritti e con la benedizione fornita dai più entusiasti sostenitori tra i loro sostenitori (pensiamo alle guerre americane nel Golfo Persico, nei Balcani, in Siria, in Libia). Ma si può evitare che diritti universali vengano banditi, quando non branditi, da soggetti particolari? Da questa contraddizione non si esce. Perché non esiste, di per sé nel mondo storico e immanente, alcun soggetto universale. Cioè non esiste nessuno che abbia il diritto di parlare a nome dell’umanità, che ne rappresenti credibilmente le istanze, ammesso che l’umanità, nell’enorme varietà delle sue disposizioni e qualificazioni, si possa immaginare come un soggetto unitario che parla una voce sola. Allora, vigendo una teoria dei diritti universali, sarà inevitabile che sotto tale bandiera qualche parte parli, agisca e pensi per il tutto, finendo per privilegiare se stessa e per svantaggiare altri.

L’individualismo

 Infine, l’ultimo carattere distintivo assai difficile da accettare nella dottrina dei diritti umani è il suo carattere individualistico. Chiamiamo individualistica una dottrina che considera l’uomo come individuo astratto al di fuori dai suoi legami sociali e familiari. Evidentemente quando si ipotizza che in un ipotetico contratto sociale l’uomo (astratto) fondi le sue istituzioni politiche per difendere la proprietà, o la libertà, o la vita (i principali diritti umani per Locke), non si pensa all’uomo concreto che vive in una famiglia, che ha una religione, che ha amici, che ama, lavora e vive in una dato territorio… Che se ne fa l’uomo concreto e reale della sua proprietà senza che i suoi beni siano godibili dalla sua famiglia? Che senso ha per lui essere libero, quando i membri del suo popolo non lo sono? Che vita può essere la sua senza quella dei suoi affetti, o senza poter adorare il suo Dio? Vita, libertà, proprietà sono veramente diritti inalienabili o nella concreta esistenza degli uomini c’è qualche valore superiore che risiede nei legami di sangue, affettivi, amicali, comunitari, religiosi? E quando in nome dei diritti si distruggono le culture autoctone, introducendo stili di vita occidentali, come sorprendersi che i popoli così profondamente violentati nella loro identità e specificità non si ribellino?

Negoziare i diritti

Queste contraddizioni dovrebbero indurre ad abbandonare il concetto di diritto umano e di diritto soggettivo?

Non è detto. Come suggerisce Alain De Benoist, vi sono alcune evidenze difficilmente contestabili. Per esempio, è indubbio che l’habeas corpus, cioè il diritto a non essere detenuto senza che vi siano condizioni legali e procedurali indispensabili per farlo, è una conquista di civiltà. Tuttavia, spesso la pretesa superiorità di questo come di altri diritti umani è stata imposta assieme a un modello di società capitalistica tipicamente euro-occidentale, che ha pensato il resto del mondo come una sorta di luogo di missione per una nuova religione dei diritti, incontestabile e inderogabile, difesa dai suoi tribunali e affermata a volte con la forza dei suoi eserciti.

Passare dall’imposizione a una paziente negoziazione fatta di reciproca tolleranza tra culture diverse sarebbe la via maestra per calare la dottrina dei diritti in realtà molto disomogenee, diverse da quella occidentale e ciascuna avente le proprie caratteristiche e i propri valori.  Così i diritti umani diverrebbero formule diverse in contesti diversi, tutti con il fine nobile di esaltare, da punti di vista molteplici la bellezza e la varietà infinita dell’essere umano. Tale negoziazione risulta impossibile laddove la diversità non sia riconosciuta e l’obiettivo sia quello di un’unica, intollerante e oppressiva società globale. Le luci dei grattacieli e le serie di Netflix, infatti, non a tutti piacciono. Anche le dichiarazioni solenni dei diritti in lingua inglese e dagli scranni di un palazzo newyorkese potrebbero non piacere.



[1] Successivamente la Chiesa ha sostanzialmente accettato la dottrina dei diritti umani, che le è sembrata un modo efficace per esprimere l’amore di Cristo per l’umanità, in un modo che potesse essere condiviso anche dalla civiltà occidentale nata dalla Rivoluzione francese. Di fronte all'entusiasmo di molti intellettuali cattolici, come Jaques Maritain, per il nuovo orientamento ecclesiale, un grande teologo del Novecento, Erik Peterson, ha fatto notare che “«l’uomo, che domanda qui [nella Rivoluzione francese] i suoi diritti non è solo l’uomo che ha ucciso il re, la nobiltà e il clero e ha imposto la coscrizione obbligatoria, ma è l’uomo che si dichiara senza peccato – come è soltanto il Figlio dell’Uomo, ma a differenza di Lui senza prendere su di sé i peccati del mondo – ed è a partire da questa pretesa di essere senza peccato che predica la liberté, égalité e fraternité in nome di un’umanità sporca di sangue e di lacrime».

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

mercoledì 5 aprile 2023

Made in Italy? No: eccellenza italiana. Un nuovo modello di liceo


 Un’idea eccellente cui prestare molta attenzione: una scuola per dare valore alle proprie radici e offrire all’identità della propria nazione il luogo dove possa crescere e protendersi verso il futuro. Perciò va curata in modo particolare, perché non perda vigore lungo il cammino che porta alla sua realizzazione, trovandosi senza più energie al traguardo dei fatti.

Partiamo innanzitutto dalla denominazione ed evochiamo subito l’obbligante adagio latino nomina sunt consequentia rerum. Se è vero che la scuola in questione, un supposto Liceo del made in Italy, deve riguardare le potenzialità della nostra patria, è assolutamente necessario che non sia designato con una locuzione inglese. Il principio di non contraddizione e il senso di ciò che è opportuno ci comandano di rivedere questa formula. Liceo dell’Eccellenza Italiana, con il bell’acronimo LEI sarebbe una valida alternativa (che useremo nel presente articolo)… però in questo campo si potrebbe dare libero sfogo alla fantasia e alla creatività, di cui peraltro vantiamo, e non a torto, un possesso a livello di carattere nazionale.

Entrando invece nel merito, ho dato un’occhiata al progetto depositato in senato agli inizi del 2023 nel DDL 497. Rispetto ai licei tradizionali, manca ogni riferimento alla classicità, si aggiunge Diritto ed economia politica (primo biennio), Economia e gestione delle imprese del made in Italy, Modelli di business, Made in Italy e mercati internazionali (secondo biennio e quinto anno) e Informatica (tutti i cinque anni). Nel primo biennio Storia e Geografia rimangono accorpate, nel secondo rimane una spruzzatina di Filosofia e scompaiono Geografia e Scienze naturali. Invariata è la presenza di Italiano e Matematica, forse potenziata risulta Storia dell’arte.

Bene, che cosa dunque caratterizza questo corso di studi? Quattro materie economiche e una tecnica (Informatica). Quindi la valorizzazione dell’identità italiana dovrebbe essere esclusivamente una questione economica. Cioè in poche parole: istruzioni per fare i soldi con il marchio “Italia”.

Può funzionare una simile impostazione? Direi di no, anzitutto sotto il profilo che vorrebbe potenziare, quella appunto economico. Perché la ricchezza italiana è un patrimonio storico, artistico, etico, morale e culturale. Da qui viene tutto il resto. Ma un simile serbatoio di risorse va coltivato, non può essere solo sfruttato. Non è un semplicemente un capitale ma è il frutto delle passioni e degli sforzi degli uomini, del loro lavoro, inteso nel senso più nobile, non del “business”. Quindi una scuola che vuole dare valore all’eccellenza, deve anzitutto suscitare passione per quello che l’Italia “è”. Coltivare un patrimonio significa preservarlo, ma anche farlo crescere e ciò non si dà senza un’autentica passione per l’Italia.

E come studiare che cosa è l’Italia senza l’articolazione storica degli insegnamenti? Nel progetto in questione manca la storia e la civiltà classica, manca una storia dell’industria, dell’artigianato, dello stile e della moda. Manca una storia dell’enogastronomia. Queste materie devono completare la Storia e Storia dell’arte e devono costituire insieme a Lingua e letteratura italiana, l’ossatura del liceo. Altrove già ho sottolineato che la storia svolge un compito critico fondamentale, che si aggiunge alla sua funzione monumentale ed esemplare (per dirla con Nietzsche). Distrugge i dogmi, appunto storicizzandoli, ma costruisce anche le identità portandone alla luce i pilastri fondamentali, sepolti dalle scorie del tempo. La storia è un’arte che restituisce la forma dell’uomo e della civiltà. Un liceo economico è un liceo informe, un liceo storico capace di dare forma, identità, struttura agli individui e alla comunità…e anche alle attività economiche che da quella storia vorrebbero trare un legittimo profitto a vantaggio e per il bene di tutti.

Diritto ed economia non vanno pertanto sottovalutati, ma devono trovare un giusto spazio, entro il quale far rientrare non i “modelli di business”, ma la “progettazione e pianificazione economica e aziendale” (forza, dai che ce la facciamo a parlare italiano!). In un liceo critico e storico anche la tecnica economica trova una collocazione e un senso, ma all’interno di un contesto equilibrato, in cui il sapere costruisce una visione complessiva della realtà, per lasciare ulteriori approfondimenti al ciclo di studi di livello universitario e specialistico (un liceale non deve sapere tutto!). Del resto, un siffatto contesto ricondurrebbe la disciplina ad una più autentica norma-della-casa, in cui si impara ad abitare eticamente la terra che ci ospita. Non più crematistica dello sfruttamento indiscriminato, ma economia della presa in carico, della cura responsabile, della gestione appassionata non di un astratto “creato”, non di un astratto “pianeta”, reso un inferno proprio dalle sue sentinelle globali, ma del posto in cui vivi, del tuo ambiente, del tuo mondo.

Per completare il sistema dei contenuti offerti dal nostro Liceo dell’eccellenza risulterebbe particolarmente indicato lo studio della retorica e delle tecniche del discorso pubblicitario. Si tratta di una materia di raccordo tra passato e futuro, tra ambito umanistico/teorico e ambito pratico/economico, dalle enormi potenzialità in una società della comunicazione e al tempo stesso in grado di veicolare stili antichi e modelli di civiltà fondamentali per la nostra crescita.

Il quadro così completato non necessita affatto dello studio dell’informatica come materia a sé, che non ha qui alcun senso, visto che le tecniche di informatizzazione della didattica e dell’apprendimento si spalmano ora su tutte le materie e ricevono un’enfasi anche eccessiva dai nuovi (e per certi versi disastrosi) indirizzi pedagogici. Inoltre il livello di automazione che l’intelligenza artificiale permette di conseguire renderà verosimilmente obsoleti e riservati a una piccolissima schiera di tecnici specializzati tutti i compiti puramente meccanici,  come quello di scrivere programmi, mentre diventerà sempre più importante, come è stato autorevolmente sostenuto, l’intelligenza non artificiale, umanistica, finalistica, estetica, in grado di associare agli aspetti logico-deduttivi quelli storico-creativo-intuitivi, quella insomma che ci consentirà di rivedere felicemente il passaggio da Comte a Bergson, dal meccanico all’organico, dal sistema alla persona.

Altrettanto fuori tema appare Filosofia (lo dico da insegnante di questa materia), ai cui contenuti si può accedere per vie diverse negli altri insegnamenti senza appesantirne l’insieme. Bisogna infatti preservare lo studio della filosofia dall’eccessiva semplificazione che espone la materia al rischio di trasformarsi in prezzemolo per ogni indirizzo di studi e riserva di discorsi per tutte le stagioni, soprattutto per quelle dove fiorisce l’erba maligna dell’ideologia e dell’argumentum ex (o pro) potestate.

Viceversa, non appare accettabile nel primo biennio il confinamento della geografia in una materia-ircocervo come geo-storia e la sua eliminazione completa nel triennio successivo. Questa disattenzione alla dimensione territoriale della vita e del sapere è espressione non solo di ignoranza antropologica, ma di uno strisciante progetto culturale di sradicamento. Vi si veicola una visione dell’uomo per la quale egli non appartiene più ai suoi spazi e alla sua terra, ma a mostri artificiali quali l’umanità, il mercato e la società globale. Il Liceo dell’eccellenza italiana dovrebbe invece essere il liceo delle radici territoriali, che dà piena soddisfazione a quell’aspetto dell’esistenza umana per cui la terra, la casa, la natura non sono un fondo da gestire a proprio piacimento come se fosse il bancomat delle risorse date, ma l’essenza più profonda del proprio essere-al-mondo, circostanziato, localizzato, colorato, vivente e concreto. L’Italia per gli italiani è questo, non un marchio, e diventa un marchio di successo solo nella misura in cui dietro vi è una simile vissuto di appartenenza.

Infine, con un pizzico di coraggio nel nuovo Liceo sarebbe utile pensare in modo diverso anche l’ora di Religione Cattolica, pur non toccando i limiti concordatari, anzi soddisfacendoli in modo super erogatorio. Sarebbe da ripensare la religione, in modo fortemente anticonformista e inattuale, come qualcosa che connota profondamente l’identità del nostro popolo, le sue abitudini, le sue attitudini e il suo modo di concepire la vita. Se è così, essa non può essere concepita come facoltativa e presentata insieme a una qualsiasi materia alternativa, perché non è più una questione di fede, come peraltro non dovrebbe essere a scuola e nel contesto di un insegnamento, ma di cultura. È quel non poter non dirsi cristiani di crociana memoria che trasforma il paesaggio italiano, rendendolo unico e culturalmente irripetibile.  È una forza spirituale che lo compenetra e che va resa vivente e palpitante mediante la riconduzione dei temi fondamentali della storia della salvezza ai luoghi, ai tempi e alle opere della devozione cristiana in Italia, così da ripercorrere il senso di quell’identità romana del Cristo sottolineata da Dante e ribadita dal magistero di papa san Giovanni Paolo II. Regis Debray aveva detto che non si può crescere nell’ignoranza religiosa. Per un italiano tale ignoranza è ancora più grave perché, a prescindere da qualsiasi esplicito atto di fede, essa diviene ignoranza di sé. L’ora di Religione Cattolica non può essere un’ora-cenerentola, ma deve essere considerata parte integrante e indispensabile del curriculum scolastico: né di catechismo, né proselitismo, ma cultura, civiltà e conoscenza.

Da questi brevi cenni si possono già evincere le potenzialità di un Liceo dell’eccellenza italiana, ossia la possibilità di rappresentare non una semplice aggiunta nella cosiddetta “offerta formativa”, ma nuovo modo di intendere la scuola. Le radici concrete contro gli universalismi astratti; la storia e la vita contro il dogma; la cultura dei contenuti, delle conoscenze e di una reale esperienza del mondo contro la tirannia del metodo, la povertà della cassetta per gli attrezzi, la pesante ridondanza delle tattiche di problem solving senza profondità e senza orizzonti: questi potrebbero diventare solo alcuni dei punti di svolta.

Ma forse già possediamo un modello simile, che dobbiamo solamente rivitalizzare e riproporre come la vera eccellenza scolastica italiana, il Liceo classico. È vero: la nostra comunità nasce, rinasce e risorge nei classici e grazie ai classici. La loro tradizione, il loro sangue che scorre nelle nostre vene è linfa vitale che il Liceo classico non smette di proporre come fondamento dell’istruzione del popolo e delle sue classi dirigenti dalla riforma Gentile in poi…

A che cosa serve allora un Liceo dell’eccellenza italiana? Beh, una marina che si rispetti ha una nave ammiraglia, ma anche tutto l’altro naviglio deve essere all’avanguardia per dominare i mari.

Il nostro Liceo è una classe di imbarcazioni che corrobora, fuor di metafora, tutta la scuola. Infatti, nel Classico si punta a una cultura che diremmo fondata sulle cosiddette scienze teoretiche, dove balugina la pienezza di senso universale di un bìos theoretikòs autosufficiente e felice; dove un orientamento, esclusivo ma non escludente, al sapere e alla vita dello spirito, si viene delineando e offrendo in una vasta e nobile tradizione culturale italiana.

Nel Liceo dell’eccellenza italiana il genius loci è collocato in primo piano e declinato nelle sue potenzialità poietiche, cioè produttive nel senso più vasto del termine: l’arte, l’artigianato, l’industria, orientate al bello e all’utile. La justissima tellus, racchiusa nei confini d’Italia, dei suoi monti, delle sue pianure, delle sue acque e dei suoi prati, delle sue città e delle sue cattedrali è posta in primo piano perché, fecondata dal lavoro dei suoi abitanti, restituisca il centuplo di ogni goccia di sudore e di ogni lacrima di fatica.

Ogni progetto deve sorgere da un bisogno. Nella presentazione ufficiale del Liceo del made in Italy si ritiene che esso contribuisca a determinare la “capacità dell'economia italiana di mantenere e conquistare un posizionamento significativo nello scenario globale del terzo millennio. Questo avviene soprattutto per le piccole e medie imprese, che costituiscono la maggioranza delle imprese del Made in Italy che, per intraprendere un percorso di internazionalizzazione, devono affrontare molti problemi; per questi motivi risulta indispensabile avere una classe dirigenziale capace di analizzare i nuovi mercati, le opportunità di business e i processi digitali a supporto dell'export in mercati strategici per il Made in Italy”.

Questo discorso, assai compiaciuto, è in realtà molto povero. Riecheggia stili confindustriali e modelli anglosassoni e adombra un bisogno di efficienza globalistica in perfetta contraddizione con il radicamento territoriale e culturale che invece sta alla base del successo nel mondo dei prodotti italiani. Il bisogno reale non è quello di una trasformazione tecnocratica dell’apparato produttivo italiano ma della conservazione della sua originalità e creatività. L’intuizione corretta è che l’aggettivo italiano nasconda potenzialità ancora da esplorare.

Allora cominciamo a lavorare su questo, senza provincialismi esterofili, senza linguaggi parodisticamente bocconiani e senza dilettantismi da ultimi arrivati nei salotti buoni, ma con la consapevolezza di essere nani sulle spalle di giganti (e quanti giganti abbiamo avuto fra noi!) umilmente intenti a guardare sempre un po’ più in là.

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