Il diritto
I diritti umani sono entrati
nelle principali legislazioni dell’occidente, dopo essere stati solennemente “dichiarati”
in diverse occasioni, spesso come preambolo alle carte costituzionali di cui tra
la fine del Seicento e il Ventesimo secolo si sono dotati i paesi europei,
americani e poi di tutto il mondo.
Ma di che cosa si tratta? Che
cosa intendiamo quando parliamo di “diritti umani”?
Innanzitutto, precisiamo che la
parola “diritto” rimanda alla legislazione. Il diritto è un insieme di
norme o leggi che regola la vita dei popoli radunati in una compagine politica
che si è data una forma di governo. Laddove vi è un popolo governato mediante
istituzioni che indirizzano la sua vita civile all’interno di un certo
territorio, lì c’è un diritto, cioè l’insieme delle regole della convivenza dei
membri di quella comunità.
Se l’insieme delle leggi prende
il nome di diritto (il diritto vigente in Italia o in Germania, i codici di
diritto, cioè la raccolta delle leggi etc.) anche la scienza che studia la
legislazione, parimenti si chiama diritto (o giurisprudenza).
Giustizia e diritto naturale
Bene le leggi contenute nei
codici di diritto – diversi a seconda delle sfere dell’esistenza che regolano
(diritto privato, pubblico, costituzionale, amministrativo, civile, bellico,
marittimo etc.) si rifanno generalmente a un senso di giustizia comunemente
accettato dalle società in cui vigono. Data la storia e la cultura complessiva
di un popolo, si avrà una corrispondente legislazione che apparirà per lo più
giusta o giustificata agli occhi almeno della maggioranza dei membri di quel
popolo. Alcuni ritengono che le leggi non possano essere giuste se non
discendono da un senso di giustizia universale, da alcuni principi
morali-giuridici che essi chiamano complessivamente diritto naturale,
perché inscritto nella stessa natura umana (è la corrente di pensiero giuridico-filosofica
che in epoca moderna prende il nome di giusnaturalismo). Tale diritto
contiene numerose norme generali di giustizia ma è stato magistralmente
sintetizzato dal grande giurista romano Ulpiano (170-228 d.C.) nella seguente
definizione: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique
tribuendi. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere alterum non laedere, suum
cuique tribuere” ("La giustizia consiste nella costante e perpetua
volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto. Le regole del diritto sono
queste: vivere onestamente, non recare danno ad altri, dare a ciascuno il
suo".
Dal diritto naturale al
diritto soggettivo
L’idea di un diritto naturale,
cioè di principi generalissimi di giustizia da ognuno riconoscibili, che deve
fare da criterio per il diritto positivo, cioè per le leggi normalmente
vigenti in uno Stato - quelle che puniscono il furto o l’omicidio o qualsiasi
altro tipo di reato - ha contribuito, sempre all’inizio dell’epoca moderna a
dar luogo ad una peculiare concezione della legge.
Si è ritenuto che “per natura”
gli uomini avessero certe prerogative di agire o fare qualcosa, e che le
istituzioni di governo dovessero rispettarle, pena un’inguaribile ferita
inferta alla stessa umanità. Su questa base si è istituito un diritto
soggettivo e lo si è distinto dal tradizionale diritto oggettivo.
Infatti, le regole della
convivenza civile possono
-
vietare, prescrivere o permettere certi
comportamenti disciplinando la condotta degli uomini mediante regole oggettive.
Ciò accade quando la legge dice: «Il comportamento X è vietato»; «Il
comportamento Y è obbligatorio». Queste sono le leggi del diritto OGGETTIVO;
-
stabilire che certi comportamenti messi in atto
dai singoli cittadini per perseguire un loro scopo o interesse sono
riconosciuti come legittimi e dunque nessuno può impedirli e anzi la società e
le istituzioni devono favorirli: ciò accade quando una legge dice: «Il soggetto
X ha diritto di fare Y»; «Il soggetto Y ha facoltà di ottenere Z». Queste sono
le leggi del diritto SOGGETTIVO.
Così viene distinto per il
diritto oggettivo una norma dell’agire che dice che cosa si deve o non
si deve fare; e per il diritto soggettivo una facoltà di agire che dice
che cosa la volontà di ciascuno può fare e non deve essere impedita di fare o
anzi deve essere favorita nel fare. Per esempio: si può con una norma di
diritto oggettivo affermare che “è vietato rubare”, o con una norma di diritto
soggettivo dire che “quando ciascuno voglia usufruire in maniera esclusiva di
un bene posseduto legittimamente (proprietà), nessuno può vietarglielo o
impedirglielo” (diritto alla proprietà).
Diritti umani e diritto
soggettivo
I diritti umani appartengono a
questa sfera di diritto soggettivo naturale. Le loro prime formulazioni
risalgono alla scuola di Salamanca del frate domenicano spagnolo Francisco de
Vitoria (1543-1586) e hanno come scopo l’affermazione di una comune giustizia e
di alcune comune prerogative possedute dagli indios dell’America Latina
e dai conquistatori europei, tali che i primi non potevano essere
indiscriminatamente oppressi e resi schiavi dai secondi (di qui le leggi di
Burgos del 1512 e le Leggi nuove del 1542 a difesa dei popoli del
Nuovo mondo appena scoperto). De Vitoria sosteneva che il diritto a essere
rispettati nel proprio corpo, nella propria libertà e nei propri possessi
proviene all’uomo dal “dominium sui propri atti e sul proprio corpo”,
che egli esercita mediante la ragione. Quest’ultimo è senz’altro attribuibile
anche agli indios, malgrado certe manifestazioni che indurrebbero a pensare che
essi siano meno sviluppati e meno adulti degli europei. Quand’anche
fosse così, nulla consente di mettere in atto comportamenti lesivi o discriminatori
nei loro confronti.
Il concetto di diritto umano
soggettivo fu successivamente sviluppato da altri autorevoli giuristi e
filosofi come Ugo Grozio (1583-1645) che definisce il diritto soggettivamente
come “una facoltà morale in forza della quale la persona, cui compete tale
facoltà, può pretendere una cosa o un comportamento altrui con giustizia”; come
Thomas Hobbes (1588-1689) che sostiene che, anteriormente al definirsi delle
istituzioni statali, ciascun uomo hanno per natura diritto a tutto; o come Samuel Pufendorf (1632-1694) che ha sottolineato che l’uomo
possiede diritti in quanto uomo, e non in quanto cristiano; o infine come John
Locke (1632-1704), che ha stabilito i tre fondamentali diritti posseduti da
ogni uomo, vita, libertà e proprietà, a difesa dei quali gli individui di una
società hanno originariamente stipulato il patto da cui sono nati il governo e
tutte le altre istituzioni, proprio con lo scopo di difenderli.
I diritti umani e il loro utilizzo
politico
Già in queste prime formulazioni,
la teoria dei diritti umani si presta a specifici utilizzi politici: Vitoria
convince la Corona a promuovere una politica di limitazione dei soprusi dei conquistadores
nei confronti dei popoli del Nuovo mondo; Hobbes vuole far presente come un
indiscriminato diritto di tutti a tutti generi un’altrettanto indiscriminata
guerra di tutti contro tutti, che rende necessaria la forza indiscutibile di un
monarca assoluto, la sola in grado di garantire la pace; Pufendorf si inserisce
nelle dispute religiose europee tra cattolici e protestanti e propone un
moratoria giuridica delle conflittualità religiose in base a un comune senso di
giustizia; Locke diventa il padre del liberalismo e l’ideologo della Glorious
Revolution (1688) che limita le prerogative del sovrano a favore del
parlamento, garantendo che un potere così ridimensionato consenta una migliore
difesa dei diritti umani dei sudditi.
Le Rivoluzioni del Settecento
Sotto il profilo strettamente
politico, dopo il Bill of Rights inglese, una dichiarazione i diritti
umani fa la sua comparsa nella costituzione americana del 1787, in particolare
nei primi 10 emendamenti entrati in vigore nel 1791, dopo che già la
dichiarazione di indipendenza del 1776 vi conteneva ampi riferimenti con
l’interessante novità del vago ma seducente “diritto alla felicità”. Tutto ciò
risente inequivocabilmente del contributo dell’Illuminismo
Con l’illuminismo assistiamo,
infatti, al definitivo trionfo della dottrina, nella forma individuata da Locke,
poi rivista da altri teorici come Rousseau, Montesquieu, Sieyes e
cristallizzata infine nella Dichiarazione del 1789 che segna in modo
indelebile l’esordio della Rivoluzione francese. In particolare, il secondo articolo
di tale dichiarazione recita: “Il fine di ogni associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi
diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza
all’oppressione”
Lo spazio data alla “resistenza
all’oppressione”, che logicamente poteva rientrare nel concetto di libertà,
evidenzia in modo chiaro l’intento politico dell’Assemblea nazionale francese:
quello di opporsi al regime monarchico assoluto guidato da Luigi XVI, che, in
quanto assoluto, secondo gli illuministi non poteva che rappresentare una forma
insopportabile di dispotismo. L’uomo possedeva dei diritti, dunque, la cui
principale funzione risultava essere quella di rivendicare l’illegittimità del
potere del re che veniva accusato efficacemente per una loro storica
non-osservanza. Tale enfasi oppositiva lascerà qualche dubbio a Mazzini: “Colla
teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli (leggi: i
regimi politici considerati oppressivi); ma non fondare forte e durevole
l'armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione”. Ciò è sintomo di
una prima riflessione critica, fuori dal contesto strettamente reazionario,
sulle conseguenze politico-sociali dei diritti umani, pur in un contesto di
sostanziale accoglimento del loro retroterra culturale illuministico.
Dal Settecento all’Ottocento
Nel XIX secolo un utilizzo non
del tutto innocente della teoria dei diritti umani non sfuggirà ai più acuti
uomini della Chiesa cattolica, tra cui molti papi che condannano “la
Dichiarazione in quanto la vedono, con buone ragioni, come ‘una via di
emancipazione del consorzio civile dalla direzione della Chiesa sulla società’”.
Cioè vi vedono non tanto la difesa di alcune prerogative umane, ma l’dea che la
natura dell’uomo debba interpretarsi a prescindere dal Dio che l’aveva creata e
dalla sua Chiesa che ne garantiva l’autentico rispetto. Così l’uomo, mediante
la difesa di diritti affermati apoditticamente come appartenenti ad una sua
natura, non meglio e non oltre giustificata, acquisirebbe pure il diritto di
emanciparsi dalla guida divina, con grande disgrazia morale e politica per
l’individuo e per la società[1].
Una tassonomia
Nel XX secolo la dottrina dei
diritti umane viene ulteriormente approfondita, in particolare si definisce una
più precisa tassonomia dei suddetti diritti:
-
i diritti civili che determinano
l’obbligo dello Stato di limitare il proprio potere nei confronti dei cittadini
(obbligo di non fare). Fanno parte dei diritti civili il diritto alla libertà
di movimento, di associazione, di riunione, di coscienza, di religione, di non essere
privati della proprietà, di non essere incarcerati senza processo (habeas
corpus).
-
I diritti sociali che determinano
l’obbligo dello Stato di erogare prestazioni nei confronti dei cittadini
(obbligo di fare). Fanno parte dei diritti sociali il diritto alla salute,
all’istruzione, al lavoro, alla protezione sociale nei confronti di malattia,
vecchiaia, disoccupazione, infortunio.
-
I diritti politici che riguardano l’obbligo
dello Stato di ammettere forme in cui i cittadini possono partecipare alle
decisioni politiche, per esempio il voto, l’accesso alle cariche pubbliche e
amministrative, l’auto-organizzazione collettiva in partiti e i sindacati.
La Dichiarazione del 1948
La dichiarazione del 1948,
all’indomani della Seconda guerra mondiale, dopo un periodo che aveva visto
molti regimi politici negare o sottovalutare la dottrina dei diritti,
contestando le sue radici illuministiche e razionalistiche e le limitazioni
alla sovranità che ne derivavano, segna la consacrazione definitiva dei diritti
umani nel contesto morale e politico mondiale. Nondimeno gli intellettuali
riuniti da Eleanor Roosevelt, capo della commissione dell’Onu per i Diritti
umani, per offrire un quadro culturale e filosofico alla successiva
dichiarazione, elaborarono una serie di documenti così disparati e tra loro incompatibili
che si preferì glissare sui fondamenti filosofici e procedere alla redazione
della Carta così come oggi la leggiamo. La Carta, emanata il 10 dicembre 1948, nelle intenzioni avrebbe dovuto diventare
criterio morale per l’azione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite,
consentendole di raggiungere i suoi scopi: “ To maintain international peace and security”; “To develop
friendly relations among nations based on respect for the principle of equal
rights and self-determination of people”; “To achieve international
co-operation in solving international problems of an economic, social,
cultural, or humanitarian character, and in promoting and encouraging respect
for human rights and for fundamental freedoms for all without distinction as to
race, sex, language, or religion”. Purtroppo, la realtà della
politica globale dopo il 1945 rimarrà molto lontano dagli ideali e dalle buone
intenzioni dei redattori della Carta, e lo si potrà subito constatare in
occasione del milione e mezzo di morti che fa la Guerra tra Corea del Sud,
sostenuta dagli Stati Uniti, e Corea del Nord, sostenuta dal blocco comunista
tra il 1950 e il 1953.
Dalla Guerra Fredda ad oggi:
generazioni
Malgrado gli avvenimenti che
hanno caratterizzato il periodo della Guerra Fredda, fino al 1989 e il
turbolento periodo successivo, sotto il profilo della mentalità comune e del
riconoscimento internazionale la Carta del 1948 ha contribuito tuttavia a
determinare il consolidamento dei diritti di seconda generazione cui si
sarebbero aggiunti, verso la fine del Novecento altri, considerati di terza
generazione. Tra i diritti menzionati annoveriamo
-
I principali diritti sociali (II generazione)
-
diritti di gruppo o collettivi
-
il diritto all'autodeterminazione
-
il diritto allo sviluppo economico e sociale
-
diritto a un ambiente salubre
-
diritto alle risorse naturali
-
diritto a comunicare e diritti di comunicazione
-
diritto alla partecipazione al patrimonio
culturale
-
diritti all'equità intergenerazionale e alla
sostenibilità (III generazione)
-
diritto all’integrità del patrimonio genetico a
fronte dei progressi della ricerca biologica;
-
diritto alle cure palliative (ossia l’accesso a
tutti i trattamenti, inclusi i trattamenti che permettano al malato di evitare
inutili sofferenze).
-
Diritto al multiculturalismo
-
Diritto alla proprietà intellettuale
In tale proliferazione si è determinata
una sorta di corsa al diritto, che diventa al tempo stesso
ipergarantismo sociale – la società che provvede a tutto, perché a tutto vi è
un diritto – e una gara di dubbia legittimità etica, politica e filosofica,
quando si introducono diritti mostruosi come, per esempio, il presunto (ed
esecrabile) diritto delle madri ad ammazzare i figli che portano nel grembo
(diritto all’aborto).
Una prospettiva critica
Ciò conduce a elaborare di
necessità una prospettiva critica che valuti attentamente la legittimità e la
ragionevolezza della dottrina alla luce dei suoi presupposti filosofici (sui
quali non c’è accordo), e dei suoi effetti etico-politici nel corso di almeno cinquecento
anni di storia.
La mancanza di un linguaggio
condiviso
Cominciamo dalla mancanza di un
perché. Come abbiamo visto, tutti sono d’accordo sul fatto che gli uomini
posseggano diritti, ma pochissimi concordano sul motivo. In ciò ha un ruolo non
secondario l’assenza di un comune riferimento culturale che dia ai concetti presenti
nelle varie dichiarazioni un senso univoco e condiviso. Infatti, per esempio,
non tutti intendono la stessa cosa con la parola uomo: nella storia occidentale
vi sono state diverse posizioni, intese ad escludere gruppi più o meno ampi da
tale qualifica (per esempio nella legge statunitense chiamata Naturalization
Act del 1790, la qualifica di uomini è riservata a coloro che sono «free
white persons»). Ma non si tratta solo di questo, si tratta anche dell’importanza
da dare al soggetto individuale rispetto alle regole sociali, molto più
rilevanti in Oriente che in Occidente; oppure del posto da assegnare al
rapporto uomo–Dio, fondamentale in alcune civiltà secondo le quali esso prevale
sulla volontà individuale di libera autodeterminazione (così come viene pensata
dalla cultura europea otto-novecentesca)… E di molti altri fattori che
determinano il senso delle frasi usate nelle varie dichiarazioni, quando si
tratta di trasformarle in leggi e politiche concrete.
Se manca una giustificazione
condivisa, ci si basa su una fragile ed emozionale evidenza. Per es.: «L’uomo
ha diritto alla libertà». Sì, ma chi concretamente ne ha diritto? E che
cosa significa esercitare la libertà? È una libertà collettiva o individuale?
Nello Stato o contro lo Stato? Nella religione o contro la religione? Nella
famiglia o contro la famiglia? E fin dove si spinge? Fino all’uccisione
dell’oppressore? E chi è l’oppressore: i capitalisti (Marx), il re (liberali),
il prete (illuministi anticlericali); l’infedele (estremisti induisti, mussulmani
o di altre religioni); i massoni (cattolici); gli occidentali (cinesi); i russi
(americani)…e così via.
Così Raymond Aron può dire:
«Formule come ‘gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti’ non resistono
all’analisi (nascere libero, nel senso proprio, non significa nulla)» (R. Aron,
Scienza e coscienza della società, Lucarini, Roma 1990, p. 225).
La diversità dei linguaggi non
fa venir meno la pretesa universalistica dei diritti
Benché sia difficile ritrovare
una giustificazione comune alla dottrina dei diritti, essa mantiene il suo
carattere universale, la sua validità erga omnes, anche al di là dei
confini degli Stati e delle diversità delle culture. Ma ciò genera problemi
assai gravi. Per esempio, alcuni diritti entrano in contrasto con le
legislazioni e le consuetudini di determinati popoli, dove per esempio si
ammette la pena di morte, in violazione del diritto alla vita, che invece è
interpretato restrittivamente laddove si ammette l’aborto. La stessa nozione di
diritto non è universale, potendo essere interpretato assai diversamente nelle
culture orientali: per esempio in lingua indiana si usano termini molto
approssimativi come yucta e ucita (appropriato), nyayata (giusto)
o ancora dharma (obbligazione). In cinese diritto si dice attraverso la
giustapposizione di due parole chuan e li che designano ‘potere’
e ‘interesse’. In arabo il termine haqq (diritto) significa anzitutto
‘verità’» (A. De Benoist, Oltre i diritti dell’uomo. Per difendere la
libertà, tr. it., Settimo Sigillo, Roma 2004).
L’universalismo dei diritti e
la particolarità dei suoi banditori
Infine, la questione più importante è che se i
diritti umani sono da considerarsi universali, i suoi banditori sono sempre
soggetti particolari. Non esiste, né può esistere come abbiamo visto, il caso
in cui tutti gli uomini si ergano unanimemente, a una sola voce e in un solo
tempo a difesa di un diritto. Sono sempre soggetti, singoli, collettivi o
politici che alzano la bandiera di un diritto o in generale dei diritti umani.
Fatalmente, per tale motivo, coloro che innalzano detta bandiera sono anche
coloro che dei diritti danno l’interpretazione il più delle volte favorevole ai
propri interessi. Così recentemente sono state compiute azioni militari, a
volte illegittime, a volte inutilmente crudeli, a volte irrispettose delle più
elementari norme di convivenza, nei confronti di singoli, popoli o Stati
considerati contrari ai diritti e quindi rei, colpevoli e meritevoli di
punizione. Sono state addirittura giustificate e condotte guerre in nome dei
diritti e con la benedizione fornita dai più entusiasti sostenitori tra i loro
sostenitori (pensiamo alle guerre americane nel Golfo Persico, nei Balcani, in
Siria, in Libia). Ma si può evitare che diritti universali vengano banditi,
quando non branditi, da soggetti particolari? Da questa contraddizione non si
esce. Perché non esiste, di per sé nel mondo storico e immanente, alcun
soggetto universale. Cioè non esiste nessuno che abbia il diritto di parlare a
nome dell’umanità, che ne rappresenti credibilmente le istanze, ammesso che l’umanità,
nell’enorme varietà delle sue disposizioni e qualificazioni, si possa
immaginare come un soggetto unitario che parla una voce sola. Allora, vigendo
una teoria dei diritti universali, sarà inevitabile che sotto tale bandiera qualche
parte parli, agisca e pensi per il tutto, finendo per privilegiare se stessa e
per svantaggiare altri.
L’individualismo
Infine, l’ultimo carattere distintivo assai
difficile da accettare nella dottrina dei diritti umani è il suo carattere
individualistico. Chiamiamo individualistica una dottrina che considera l’uomo
come individuo astratto al di fuori dai suoi legami sociali e familiari.
Evidentemente quando si ipotizza che in un ipotetico contratto sociale l’uomo
(astratto) fondi le sue istituzioni politiche per difendere la proprietà, o la
libertà, o la vita (i principali diritti umani per Locke), non si pensa
all’uomo concreto che vive in una famiglia, che ha una religione, che ha amici,
che ama, lavora e vive in una dato territorio… Che se ne fa l’uomo concreto e
reale della sua proprietà senza che i suoi beni siano godibili dalla sua
famiglia? Che senso ha per lui essere libero, quando i membri del suo popolo
non lo sono? Che vita può essere la sua senza quella dei suoi affetti, o senza
poter adorare il suo Dio? Vita, libertà, proprietà sono veramente diritti
inalienabili o nella concreta esistenza degli uomini c’è qualche valore
superiore che risiede nei legami di sangue, affettivi, amicali, comunitari,
religiosi? E quando in nome dei diritti si distruggono le culture autoctone,
introducendo stili di vita occidentali, come sorprendersi che i popoli così
profondamente violentati nella loro identità e specificità non si ribellino?
Negoziare i diritti
Queste contraddizioni dovrebbero
indurre ad abbandonare il concetto di diritto umano e di diritto soggettivo?
Non è detto. Come suggerisce Alain De Benoist, vi sono alcune
evidenze difficilmente contestabili. Per esempio, è indubbio che l’habeas
corpus, cioè il diritto a non essere detenuto senza che vi siano condizioni
legali e procedurali indispensabili per farlo, è una conquista di civiltà.
Tuttavia, spesso la pretesa superiorità di questo come di altri diritti umani è
stata imposta assieme a un modello di società capitalistica tipicamente
euro-occidentale, che ha pensato il resto del mondo come una sorta di luogo di
missione per una nuova religione dei diritti, incontestabile e inderogabile, difesa
dai suoi tribunali e affermata a volte con la forza dei suoi eserciti.
Passare dall’imposizione a una
paziente negoziazione fatta di reciproca tolleranza tra culture diverse sarebbe
la via maestra per calare la dottrina dei diritti in realtà molto disomogenee,
diverse da quella occidentale e ciascuna avente le proprie caratteristiche e i
propri valori. Così i diritti umani
diverrebbero formule diverse in contesti diversi, tutti con il fine nobile di
esaltare, da punti di vista molteplici la bellezza e la varietà infinita
dell’essere umano. Tale negoziazione risulta impossibile laddove la diversità
non sia riconosciuta e l’obiettivo sia quello di un’unica, intollerante e
oppressiva società globale. Le luci dei grattacieli e le serie di Netflix,
infatti, non a tutti piacciono. Anche le dichiarazioni solenni dei diritti in
lingua inglese e dagli scranni di un palazzo newyorkese potrebbero non piacere.
[1]
Successivamente la Chiesa ha sostanzialmente accettato la dottrina dei diritti
umani, che le è sembrata un modo efficace per esprimere l’amore di Cristo per l’umanità,
in un modo che potesse essere condiviso anche dalla civiltà occidentale nata
dalla Rivoluzione francese. Di fronte all'entusiasmo di molti intellettuali cattolici, come Jaques Maritain, per il nuovo orientamento ecclesiale, un grande teologo del Novecento, Erik Peterson, ha fatto notare che “«l’uomo, che
domanda qui [nella Rivoluzione francese] i suoi diritti non è solo l’uomo che
ha ucciso il re, la nobiltà e il clero e ha imposto la coscrizione
obbligatoria, ma è l’uomo che si dichiara senza peccato – come è soltanto il
Figlio dell’Uomo, ma a differenza di Lui senza prendere su di sé i peccati del
mondo – ed è a partire da questa pretesa di essere senza peccato che predica la
liberté, égalité e fraternité in nome di un’umanità sporca di sangue e di
lacrime».
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.