Dovevo spiegare Heidegger ai miei ragazzi del linguistico, ma non avevo una sintesi ad hoc...ho provato a metterla giù. La stesura è stranamente avvenuta senza consultare documenti. Dunque possiamo ammettere qualche svarione della memoria (vi sono illustrissimi precedenti in ciò, ma non li cito per non apparire veramente presuntuoso). In cambio però si tratta di quello che mi è rimasto in testa ... un certo succo significativo ... oltre e al di là di ogni virtuosismo linguistico e oscurità lessicale (che spesso servono a tappare buchi concettuali) e nella forma migliore, quella che si esige quando si spiegano le cose agli altri, quella che implica la massima semplicità e chiarezza per sé. Se poi mi è scappato pure lo svarione concettuale, chiedo scusa a tutti i cultori della materia...dirò eventualmente che quello sorridente nella cornice sono io e non il nostro Martin Pastore. Buona lettura!!!
La vita e le opere principali
Martin Heidegger nasce nel 1889 a
Messkirch nella Germania sud-occidentale. Frequenta l'università a Friburgo
nella facoltà di Teologia e poi di Filosofia. Conclude gli studi nel 1913 e nel
1916 ottiene la libera docenza. Dal 1916, dopo che Husserl è giunto
all'università di Friburgo, Heidegger inizia con lui un periodo di
collaborazione in qualità di assistente. Docente in altre università, prosegue
la sua ricerca nell’alveo della fenomenologia, pur con apporti originali che sì
concretizzano nel 1927 nella sua opera maggiore Essere e tempo, testo
fondamentale dell’esistenzialismo contemporaneo, in cui si fornisce una
peculiare interpretazione dell’esistenza dell’uomo, riprendendo Kierkegaard in
chiave laica e sviluppando le analisi fenomenologiche in due direzioni: la
ricerca sull’essere in senso complessivo (ontologia) e la ricerca sull’uomo che
è colui che si pone la domanda sull’essere e che bisogna comprendere per
capire l’essere stesso. Come si vede già dai suoi temi fondamentali, questo
testo, pur debitore della fenomenologia husserliana, introduce tuttavia
importanti novità che determinano l'allontanamento dal maestro. Nel 1933 Heidegger
è eletto rettore dell'università di Friburgo, episodio cui segue l'adesione al Partito
nazionalsocialista, che è condizione per assumere effettivamente la carica.
L' adesione al regime si esprime in modo compiuto nella prolusione con cui
assume ufficialmente il suo ruolo di rettore: L’autoaffermazione
dell'università tedesca del 27 maggio 1933. Il progetto di Heidegger
sarebbe quello di portare il regime sulle proprie posizioni, ad accettare la
propria visione filosofica del mondo, cosa che presto si rivela impossibile, a
motivo dei diversi orientamenti dell’ideologia del III Reich. Ciò causa
dissensi con le autorità del partito e dello Stato tedesco. Tali contrasti sono
alla base delle sue dimissioni dal rettorato nel 1934. Fino alla fine della
guerra la sua posizione sarà marginale e nel 1942 sarà pure allontanato dall’insegnamento.
Nondimeno in alcune opere manifesterà ancora la fiducia in una funzione
positiva del regime per il destino della Germania. Chiusa l'esperienza della
guerra, viene perseguito dalle autorità alleate che lo tengono lontano dalla
docenza universitaria, cui nuovamente accederà solo nel 1951. Nel contempo
continua a pubblicare testi importanti come L'essenza della verità del
1943 e soprattutto la Lettera sull’umanismo del 1947. Questi sono gli
scritti che meglio descrivono la svolta nel suo pensiero in direzione di
una più compiuta trattazione dei temi ontologici. Importante è il suo volume
sul tema del nichilismo, dedicato a Nietzsche (1961) e ulteriori successivi interventi
che ne fanno il principale filosofo tedesco del dopoguerra. Dalla sua
riflessione verrà un filone di ricerca estremamente fecondo che costituirà una
pietra miliare del pensiero contemporaneo.
L’indagine di Heidegger riguarda
il modo di apparire dell’essere nella sua generalità, il darsi dell’essere alla
coscienza umana. Essa giunge a un guadagno essenziale per la filosofia: se la
metafisica tradizionale aveva cercato di fondare tutta la realtà su un oggetto
supremo, l’idea di Platone, il motore immobile di Aristotele, l’ente
sommo (Dio) di Tommaso, o la sostanza di Cartesio e
Spinoza, Heidegger sostiene che l’essere
non è un oggetto, non è una cosa fra le altre, nemmeno la più nobile e alta
delle cose, ma è il suo stesso darsi, il suo rivelarsi nella sua verità (= alétheia
dal greco a-léthe= non-nascondimento). Se noi capiamo il mondo, se noi
lo comprendiamo nei suoi significati è perché l’essere ha il “pregio” di manifestarsi
a noi nei suoi significati fondamentali, di farsi intendere, di uscire
dall’ombra in modo tale che noi possiamo comprenderlo, se correttamente ci
mettiamo in una condizione ricettiva, in ascolto attento. La filosofia è questo
“ascolto attento” del rivelarsi del senso delle cose e di tutta la realtà.
Quindi l’essere non è una cosa ma, possiamo dire con una metafora antica e non
heideggeriana, una luce che per noi illumina le cose, mostrandole via via nel
tempo in diverse forme e con diversa profondità.
La condizione tragica dell’Esserci è che, però, ogni progetto si scontra con l’inevitabile nulla della morte. Egli si progetta perché nella sua vita c’è un novero amplissimo di possibilità, tra le quali egli sceglie. La sua vita è possibilità, come in Kierkegaard. Ma ogni possibilità non ha come sbocco positivo la pienezza dell’eternità in Dio, bensì la brusca interruzione della morte che è “l’impossibilità di ogni possibilità”, la fine reale di ogni possibile. L’esistenza umana è destinata a finire e i sentieri a essere interrotti. L’uomo è perciò un “essere alla morte” (zum Tode sein), sempre in rapporto con lo sfondo della sua vita che è la fine della vita stessa. Vita autentica non è, come in Kierkegaard, vita religiosa proiettata in Dio, benché sempre a rischio di fallire in tale proiezione, ma solo può essere vita consapevole del nulla cui è destinata. Assumere questa tragica condizione distingue una vita autentica, cioè appunto cosciente di sé e della sua verità, e una vita “scaduta”, cioè presa dentro il vortice delle cose da fare tutti i giorni, presa dentro le occupazioni e le chiacchiere: lo scadimento (Verfallen) è sempre nella chiacchiera, in quello che pensano tutti, in quello che fanno tutti senza riflettere, cioè nel luogo comune, ignaro di sé e della tragica verità della vita. Questo è lo sbocco dell’esistenzialismo heideggeriano, cioè della parte della sua filosofia che pone a tema specifico l’essere-nel-mondo (esistere) dell’Esserci, le sue potenzialità, i suoi limiti, le sue contraddizioni e infine la sua finale sconfitta di fronte alla morte. Tuttavia, accanto a questo scacco finale, che non bisogna dimenticare, l’uomo possiede la grande prerogativa di comprendere, di elaborare e definire il senso delle cose e della realtà: una capacità che lo porta ben oltre al limite del suo proprio destino individuale. Questa prerogativa va messa a frutto.
Dopo aver parlato dell’essere dell’Esserci, nell’ultima parte di Essere e tempo Heidegger doveva concentrarsi sul senso dell’essere in generale, per realizzare quella comprensione di cui poc’anzi si è detto, ma l’opera rimarrà incompiuta (dice il filosofo, per la mancanza di un linguaggio adatto). Di tale argomento si occuperà negli scritti successivi alla “svolta” (Kehre), che determinerà proprio l’abbandono dell’Esserci come ente privilegiato per l’analisi del senso dell’essere e si concentrerà direttamente su quest’ultimo. Quindi il fuoco dell’attenzione, dopo la svolta, non è più sull’uomo, ma sull’essere: l’importantissima Lettera sull’umanismo lo afferma in modo esplicito. Proviamo a vedere come si sviluppa il ragionamento heideggeriano. L’essere emerge sempre nella dimensione del tempo. La realtà si comprende sempre a partire dal concetto di tempo. La temporalità dell’essere diventa qui il modo in cui di volta in volta l’essere si dà nella realtà storico-naturale e spirituale. Che cosa è il darsi dell’essere? È quello che accade nel mondo e nella storia come qualcosa di significativo. Accade qualcosa, lì l’essere si dà. Il darsi dell’essere è l’accadere di qualcosa, ma non come qualcosa di muto e insignificante ma come qualcosa che “vuol dire”, che “ha senso”. “Darsi dell’essere” e “cose che accadono”: è come quando si dice che “ci si offre” per l’interrogazione. Che significa? Significa che chi si offre diventa colui che è interrogato e “accade” l’interrogazione. Bene quando l’essere si offre, si dà, diventa ciò-che-è, ovvero le cose del mondo, gli enti (ente = ciò che è), il cui accadere è il loro presentarsi sulla scena del mondo. La realtà si nutre dell’essere, è qualcosa perché l’essere si offre a essa facendola essere, e si offre sempre in modi diversi nei diversi tempi. La realtà tuttavia non “è” l’essere. Gli enti esistenti, tutti gli enti pensabili, l’ente supremo stesso della metafisica (Dio, le idee platoniche etc.) non “sono” l’essere. L’essere non è la cosa-che-è, cioè non è l’ente. L’essere stesso non “è” (infatti non è l’ente, è il ni-ente, mentre propriamente gli enti “sono-ciò che-sono”!) ma “si dà” (es gibt): questa è la grande scoperta di Heidegger, che egli chiama “differenza ontologica”, cioè appunto la differenza tra essere ed ente.Noi viviamo in mezzo a un mondo di cose: queste cose sono. L’essere non è le cose ma quello che le fa essere. Questo cielo, questi monti, queste case esistono, sono. Perché esistono? Perché provengono da una fonte indicibile, nascosta, oscura, che però si svela nelle cose, si illumina nelle cose. L’essere è come l’improvvisa radura (Lichtung) in un bosco oscuro, che illumina una sua porzione lasciando il resto nell’oscurità. Così l’essere nelle cose è una luce che si offre provenendo dall’ombra, interrompendo l’ombra, così che le cose nascoste nell’ombra escano dal loro nascondimento e vengano a essere, essendo come sono, in quel modo, nella loro verità e infine con un certo senso per noi. Perché l’essere delle cose è il loro senso. Il senso che si dà. Ma qual è questo senso, che cosa vogliono dire gli enti, la realtà, il mondo?
L’essere è quell’indicibile
ragione della presenza degli enti, che si dà e si offre negli enti, in modo
parziale, incompleto, ma importante e illuminante. Allo stesso tempo l’essere,
nel suo complesso, nella sua totalità, e quanto al suo senso originario, si nasconde.
La radura è sempre un gioco di luce e ombra. La verità dell’essere (in greco a-letheia
= non nascondimento) non è mai totalmente colta dagli uomini. Essi, anzi,
falliscono nella misura in cui ambiscono a costruire un puro sapere degli enti
- una scienza ontica (= delle cose-che-sono) che vuole conoscere per
dominare l’ente e gestirlo a proprio uso e consumo come nei grandi apparati
scientifici e tecnologici - e tralasciano
ciò che sta dietro l’ente, l’essere il cui senso bisogna custodire come un
pastore accudisce il suo gregge, il gregge della verità che gli è stato donato perché
egli lo accolga nella sua sapienza ontologica (= dell’essere che-si-dà).
L’uomo in tale ottica deve diventare pastore dell’essere e non
dominatore dell’ente. Ciò gli apre nuovi orizzonti. La scienza ontica vorrebbe
descrivere compiutamente gli enti, pensando di aver così compreso la realtà,
come avviene per esempio con le scienze naturali. Nondimeno le loro formule, le
loro leggi, le loro descrizioni, la loro razionalità logico-matematica
rimangono inevitabilmente alla superficie, quando non costringono con violenza
e a forza la realtà nei propri schemi e nelle proprie gabbie concettuali. Al
contrario per un’autentica ontologia, cioè per una disciplina che vuole andare
più a fondo, l’essere non è delimitabile nella forma del linguaggio apofantico,
cioè descrittivo, dichiarativo, logico, proprio delle scienze esatte, ma va
colto nel suo offrirsi a partire da una sfera indicibile dalla quale l’essere
proviene ed e-viene nel suo senso originario. L’essere dunque non è ciò-che-è,
ma è l’evento (Ereignis) che arriva all’ente rivelandosi in esso
e al tempo stesso nascondendosi. L’evento è l’episodio che nella storia, nella
vita, nell’universo mostra un qualche senso a chi lo comprende e si sforza di
ascoltarne il significato. Esso è storico, accade nel tempo, appartiene alla
storia dell’umanità e della civiltà, ma non è un “prodotto” degli uomini. Gli
uomini lo comprendono e lo capiscono ma non lo “fanno”, perché esso proviene
dall’essere. È l’invio di ciò che l’essere stesso, nella sua abissale
profondità, destina all’uomo perché l’uomo lo viva e lo faccia proprio. Esso
determina l’uomo, dà il tono alla sua vita, ne è il vero significato, è ciò che
gli è più proprio, ma non è suo prodotto, né suo possesso. Il senso della vita
non ci appartiene, non ce lo costruiamo noi, lo possiamo solo ricevere,
ascoltare accogliere. È quello che accade e che rivela un qualche significato
perché proviene dall’essere, origine insondabile e in ombra di tutti i
significati luminosi. Solo qualche illuso può pensare che l’uomo sia “fabbro
della sua fortuna” e può credere nel mito del “self made man”. Carriera,
lavoro, amori, successi e rovesci, per noi come per Napoleone, per un bambino
del Congo come per il presidente della Cina, sono, nel loro accadere sensato,
un destino/invio dell’essere, una verità che si propone a noi e ci sfida alla
comprensione, più che la materia che hanno plasmato le nostre mani. Ogni
progetto, per quanto ambizioso, e ogni capacità, per quanto grande, deve essere
posta nella luce dell’essere. Il progetto che noi siamo (cfr.: Essere e
tempo) ha limiti molto più radicali che non la sola morte, ma da questi
limiti noi siamo portati oltre verso la luce di qualcosa di molto più grande di
noi.
Quindi l’essere non è
l’ente, si dà, è evento temporale e storico di un certo senso. Ma, di
nuovo, che cosa è questo senso. Come capire il senso dell’essere? Come dirlo?
Il senso dell’essere si offre a colui che nella storia si pone in ascolto del
suo rivelarsi e nascondersi, cioè al pensiero. Questo è però intimamente e
indissolubilmente legato al linguaggio. Il pensiero, nella storia della
filosofia, ha travisato il senso dell’essere, interpretandolo come ente, cioè
come cosa. Ciò è avvenuto lungo tutta la storia della filosofia metafisica
occidentale, ma è stato in qualche modo un travisamento “necessario” perché il
senso metafisico dell’essere è pur sempre un modo in cui nella storia è stato
interpretato il senso dell’essere: che l’essere fosse la cosa-Dio, la cosa-Idea
platonica, la cosa-Sostanza, la cosa-Soggetto etc. è stato un equivoco, ma pur
sempre un equivoco proveniente dall’essere e quindi inevitabile. L’oblio, la
dimenticanza della differenza ontologica tra essere ed ente è stato pertanto un
tratto tipico di tutta la storia passata, ma oggi è possibile cogliere un nuovo
e più autentico significato. Esso affiora quando il pensiero, invece che
affidarsi alle scienze e alla filosofia tradizionale e metafisica, si affida a
un altro tipo di fonte di significato, che parla un’altra lingua. È un linguaggio
privilegiato in cui emerge l’essere come evento ricchissimo di senso e mai
esauribile, è il linguaggio della poesia. Solo la poesia, con la sua profonda
allusività, con le sue immagini che rimandano a un contenuto profondo senza
volerlo razionalizzare logicamente e onticamente, è il luogo di manifestazione
del senso dell’essere. Il linguaggio, dunque, e in particolare la poesia, è la casa
dell’essere (Lettera sull’umanismo), il luogo definitivo dove noi
possiamo avvicinarci all’abissale profondità ontologica da cui tutto ciò-che-è
(gli enti). Abbandonandoci alla poesia noi ci mettiamo in ascolto di
quell’essere dal quale noi dipendiamo e attorno al quale noi costruiamo la
nostra esistenza. Ogni poesia, ogni grande poesia, esprime il senso delle cose
e del mondo, tematizza l’essere in un suo aspetto, lasciandoci intravedere
l’abisso delle sue profondità, ce ne rivela il senso e deve diventare una guida
per colui che lo indaga. Ma attenzione! nella poesia è particolarmente visibile
ciò che caratterizza il linguaggio in generale: esso non dipende da noi.
Nessuna lingua è stata mai costruita da noi. Gli uomini parlano una lingua che
hanno imparato, in cui sono immersi ma che non dominano. Non l’uomo parla un
linguaggio, bensì un linguaggio, che l’uomo trova sempre già fatto, parla
l’uomo, cioè fa l’uomo parlante e gli consente di capire la realtà. Ciò
accade in special modo nella poesia: il poeta non decide, ma è portato a spasso
e condotto per mano dalla logica dell’ispirazione poetica che lo porta dove vuole,
e dalla sua lingua, dalla bellezza e significatività della parola, che nella
poesia viene prima di tutto e conduce il gioco. Così la filosofia si rigenera
nelle acque della poesia e, nella ricerca del senso dell’essere, vi si affida
diventando arte ermeneutica, cioè interpretazione. Essa finisce per
considerare tutto il mondo un’immensa poesia da interpretare e la poesia quella
parte di realtà che meglio esibisce il senso del tutto e del cosmo, in cui si
condensano i suoi significati più autentici
Il linguaggio è la casa
dell’essere. L’espressione è usata da Heidegger per alludere al fatto che
bisogna rivolgersi al linguaggio – e in particolare a quello poetico – per
trovare l’essere, come quando si va a casa di qualcuno per incontrarlo. Se ciò
è vero, allora per capire il mondo dobbiamo cercare di interpretare il
linguaggio. A partire da tale impostazione si sviluppa con Hans Georg
Gadamer (1900-2002), allievo di Heidegger e autore di un’opera fondamentale
come Verità e metodo, una disciplina chiamata, come si è visto,
ermeneutica (ermeneusi = interpretazione). Essa si fonda sull’assunto che
tutto l’essere che è comprensibile è linguaggio. Cioè che il senso di
ciò-che-è, essendo racchiuso nel linguaggio, è tutto l’essere che noi possiamo
capire, poiché evidentemente noi non potremmo comprendere niente che non sia in
qualsiasi modo “detto”, manifestato attraverso “segni linguistici”. Per tale
disciplina, la filosofia è tutta nell’interpretazione e la realtà è, lo
ripetiamo, un immenso testo da interpretare.
Nell’interpretazione di un testo
ha una rilevanza imprescindibile la situazione storica in cui siamo immersi e
la tradizione della quale siamo eredi. Quando noi leggiamo qualsiasi testo, lo
facciamo dal particolare punto di vista dal quale ci poniamo, con la nostra
cultura e i nostri pregiudizi. Il senso del testo viene trovato a partire dalle
domande che noi, nella nostra peculiare situazione, gli muoviamo. Dunque,
fondamentale è la nostra pre-comprensione dell’oggetto di cui parla il testo
stesso. Il suo senso nascerà e si svilupperà seguendo le linee della nostra
pre-comprensione. Quindi noi già sappiamo ciò che cerchiamo di apprendere da un
testo? In un certo senso sì. La comprensione dopo la lettura è sempre il
riflesso della pre-comprensione prima della lettura…
Se fosse solo così ci sarebbe una circolarità
viziosa che renderebbe impossibile e inutile l’accostamento a un testo: io
immagino e cerco il significato di un testo; il testo conferma il significato
che ho cercato e immaginato, che era a sua volta la pre-condizione per la sua lettura.
In realtà le cose non stanno così perché la nostra pre-comprensione si deve
sempre misurare con il testo come con qualcosa che urta contro le nostre
aspettative. Non possiamo fare a meno di avere aspettative, ma ogni testo non
corrisponde mai del tutto alle nostre aspettative. Dunque, noi dobbiamo in
qualche modo produrre una sintesi tra ciò che siamo e ciò che interpretiamo,
fondendo il nostro orizzonte con quello del testo e dando luogo a un,
parziale ma significativo, mutamento di prospettiva. Così il circolo non si
chiude in modo vizioso, ma rimane aperto a un approfondimento da parte di colui
che lo legge e al ritrovamento di un senso nuovo e imprevisto. Così
l’ermeneutica non nega né si arrende totalmente al circolo, ma vi sta
dentro in modo proficuo.
Se la precomprensione ha un ruolo
così importante nell’interpretazione di un testo, quest’ultimo non sarà
consegnata al destino di non avere mai un senso definitivo? Tante sono le
pre-comprensioni, altrettanti saranno i sensi del testo, che differiranno
quindi a seconda delle situazioni storiche, geografiche, linguistiche e
culturali dei soggetti impegnati nel processo interpretativo. Questo è il
problema dell’ermeneutica: un’interpretazione che si fa infinita e che non
tiene conto fino in fondo dell’oggettiva valenza delle parole impiegate e della
struttura del testo, oltre che dell’intenzione di chi lo ha prodotto. Contro il
rischio di relativismo dell’interpretazione, il giurista e filosofo italiano Emilio
Betti (1890-1968) nella sua Teoria generale dell’interpretazione in
dialogo costante con Gadamer, ma in significativo contrasto con lui, ha
elaborato una metodica obiettivistica dell’interpretazione che valorizza
tutti i fattori anzidetti: la ricerca di un senso oggettivo, sicuro,
argomentabile e stabile del testo, che non è dato immediatamente ma che è il
punto a cui la fatica dell’interpretazione deve giungere e, se non sempre lo
può fare, almeno deve tendere.
La filosofia di Heidegger si
stende fra due poli: da un lato l’esistenzialismo, cioè l’analisi dell’essere
dell’Esserci e la presa d’atto della sua finitezza; dall’altro l’ermeneutica
cioè l’affiorare del senso dell’essere nel linguaggio e in particolare in
quello poetico (ma anche quello più generalmente letterario e artistico). Gli
orizzonti che sembrano chiusi dal fatto che noi “siamo alla morte” (sempre lì
lì per morire perché non sappiamo quando moriremo, benché speriamo e facciamo
le corna perché sia il più tardi possibile), si aprono invece nelle inaudite
possibilità di senso che offre la poesia: Heidegger trovava molto interessanti
e affascinanti due grandi autori come Friedrich Hölderlin (1770-1843) e Georg
Trakl (1887-1914) ma ognuno, credo, può rivolgersi a quelli che
piacciono di più. La poesia apre ciò che la vita profana sembrerebbe chiudere. Tutto
il mondo è ricompreso in questa lingua che l’uomo non “crea” ma che proviene
dalla verità ed è il modo della verità di comunicarsi all’uomo nella storia,
nei fatti che sono bruti, insulsi senza una poesia che li illumini. La poesia è
il linguaggio nella sua forma migliore, è lo sbocciare del linguaggio e ne
esprime tutte le potenzialità. La lezione heideggeriana è pertanto la seguente:
i sentieri del linguaggio sono il cammino verso la comprensione di noi stessi e
del tutto. Parlare una lingua – o meglio esserne parlati, condotti, indirizzati
mediante la sua struttura sintattico grammaticale, ma poi anche mediante la sua
letteratura e infine mediante il fiore della sua poesia – è una prospettiva sul
mondo e un progresso in quel cammino. Aprirsi a una lingua vuol dire scoprire
una nuova poesia del mondo, ripetere il gesto del pioniere e dell’esploratore,
inoltrarsi in un’avventura eccezionale che ci lega profondamente agli uomini
quanto profondamente può stringerci il legame dell’essere stesso.
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.