domenica 11 dicembre 2022

Lo stato di eccezione secondo Agamben: tra violenza e diritto.


Tornata d'attualità, ripubblico in questa sede una recensione a G. Agamben, Stato di eccezione (homo sacer II), Bollati Boringhieri, Torino, 2003, comparsa su Ekpyrosis, 2 (2006). 

L’idea-guida di Giorgio Agamben nella sua ultima fatica sullo stato di eccezione appare quella di una definizione negativa della politica. La politica consisterebbe in una prassi umana volta a separare due elementi che continuamente tendono ad articolarsi: la violenza e il diritto. “Veramente politica è quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto”, un legame che è secondo l’Autore il punto di partenza di un processo che sta progressivamente trasformando la democrazia in un regime para-autoritario e guerrafondaio. La trattazione del concetto di stato di eccezione ha precisamente a che fare con tale deriva. Infatti, esso rappresenta il punto di fusione di violenza e diritto e al contempo sta diventando vieppiù la regola giuridica dell’agire delle democrazie che l’Autore chiama ormai “governamentali” (per distinguerle dalle democrazie, invero più ideali che reali, ove il potere esecutivo è chiamato a rispettare ben precisi vincoli giuridici a difesa e protezione del cittadino).

Ma che cosa si intende specificamente con stato di eccezione? Esso è un dispositivo giuridico che sospende il diritto in una situazione di emergenza, permettendo di mettere in atto qualsiasi azione sia utile allo scopo di fronteggiarla con successo. Se ne possono ritrovare esempi notevoli nella legislazione dell’Europa moderna riguardante lo stato di assedio, ma anche in quelle costituzioni che hanno previsto, indipendentemente da situazioni di belligeranza, particolari misure atte a contenere e reprimere eventi potenzialmente sovversivi dell’ordine costituito. Un caso classico di realizzazione pratica del concetto di stato di eccezione è l’articolo 48 della costituzione di Weimar, che prevedeva, quando si fosse presentata una particolare emergenza politica, la possibilità da parte del presidente del Reich di attribuire al governo la prerogativa di prendere provvedimenti aventi forza di legge bypassando il parlamento. Non solo: il governo poteva anche ignorare le garanzie a difesa del cittadino previste in una serie di articoli della costituzione la cui validità poteva essere sospesa. Indipendentemente dall’uso che ne fecero i governi di Weimar ed Hitler stesso, ma anche i loro precursori nel XIX e XVIII secolo, questa sospensione eccezionale della norma nella riflessione di molti giuristi, e in particolare di Carl Schmitt, nonostante instauri effettivamente una zona di anomia, non è senza relazione con il diritto. Essa fa emergere «in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione» (Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 39). Detto elemento si pone al confine fra diritto e anomia proprio nella sua funzione di fondamento della norma a sua volta non fondato su una norma. Ciò però non elimina del tutto la sostanziale aporia dello stato di eccezione, che consiste nel fatto che con un dispositivo giuridico si aspira a mettere in mora il diritto (qui evidentemente interpretato in senso normativistico), lasciando via libera ad una prassi senza alcuna regola e che tuttavia pretende ancora di essere giuridica. Tale prassi isolerebbe allora una forza di legge senza legge, ovvero una vis obligandi sganciata dal criterio normativo che sta alla base dell’obbligazione, affinché, attraverso la creazione di una situazione normale oltre l’emergenza, la norma stessa possa trovare efficace applicazione. Questo tentativo di iscrivere una forza di legge senza legge, vale a dire una forza tout court, una violenza libera e sregolata, in un contesto giuridico appare, a un’analisi più approfondita, una mera finzione.

Esaminando l’origine dello stato di eccezione nel diritto romano, che lo contemplava nell’istituto del iustitium (una sospensione temporanea delle leggi e delle procedure vigenti, di fronte a un’emergenza politica o militare) Agamben giunge alla conclusione che in realtà in esso, mancando ogni modello legale di riferimento, non vi è più diritto e le azioni ivi commesse risultano giuridicamente inqualificabili: esse sono «meri fatti il cui apprezzamento, una volta scaduto il iustitium, dipenderà dalle circostanze» (p. 65). Si crea dunque con lo stato di eccezione uno spazio di violenza anomica che con il diritto «non ha alcuna articolazione sostanziale» (p. 111) e che oggi vale come espediente attraverso cui le democrazie tentano di emanciparsi dai vincoli legali per affermare un potere in grado di avere, a partire da una violenza vitalistica, presa diretta sulla vita. Ciò comporta, per coloro che sono oggetto di una tale prassi di dominio, la sottrazione di ogni strumento di difesa giuridica della propria persona. Il loro bìos, la loro vita avente dignità etica e civile, viene allora degradato a pura zoé, vita biologica, nuda vita, con la conseguente trasformazione del cittadino in materiale umano disponibile per l’agire autoreferenziale del potere. Ciò è quanto è avvenuto nei regimi totalitari, che hanno istituito i campi di concentramento, i quali rappresentano, con l’assoluta mortificazione del diritto e con il puro, estremo e violento dominio esercitato sulla persona, «lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 188).

Ma le democrazie, appunto, non ne sono immuni. Già in Homo sacer Agamben aveva notato i sintomi di un processo di trasformazione del potere democratico in potere governamentale, cioè tendenzialmente promotore di un’esecutività affrancata dal diritto e caratterizzata da inquietanti venature biopolitiche. Ora, mostrando l’esempio delle ultime guerre che hanno coinvolto gli Stati Uniti e di una tra le più stridenti ingiustizie cui hanno dato luogo il campo di prigionia di Guantanamo, egli afferma che tale deriva si è ulteriormente consolidata e siamo in presenza di una fase storica in cui precisamente l’eccezione è diventata la regola. La conseguenza è che la democrazia così come era stata pensata dalla tradizione liberale viene svuotata di senso. Ebbene, è proprio l’idea di uno stato di eccezione, in quanto posto ancora in relazione con il diritto, a mascherare ideologicamente questo svuotamento, qualificando una prassi violenta e solo governamentale come ancora legale.

A fronte di ciò Agamben intende compiere un’opera di demistificazione, che, sulla scorta di Per una critica della violenza di Walter Benjamin, produca una rescissione del legame fittizio tra violenza e diritto, dimostrando, principalmente contro Schmitt, la possibilità teorica e pratica di una violenza pura e, accanto ad essa, di un diritto puro. La politica si porrebbe tra queste due forze: una violenza smascherata nella sua catastrofica distruttività, e un diritto cui sarebbe tolto ogni valore d’uso e quindi ogni possibilità di essere strumentalizzato. Quest’ultimo diventerebbe allora realmente una “porta per la giustizia”, in opposizione netta ad una violenza concepita per ciò che veramente è. Tale operazione di disincanto, effetto di una politicità non priva di una certa connotazione utopica, permetterebbe secondo Agamben di interrompere il funzionamento dell’odierna macchina del potere che sta conducendo l’Occidente verso una guerra civile mondiale.

Così conclude il nostro Autore. In sede critica non si può non rilevare il grande acume diagnostico che caratterizza il suo testo, cui è difficile non accordare il proprio consenso relativamente alla interpretazione dei più recenti fenomeni bellico-politici mediante il paradigma dell’eccezione. Inoltre, anche alla luce di alcuni suoi testi precedenti, il tema sviluppato da Agamben del rapporto biopolitico tra potere e vita appare estremamente ricco di implicazioni e teoreticamente fecondo. Per converso, la critica a Carl Schmitt, che prende in considerazione principalmente i testi degli anni Venti (La dittatura e Teologia politica) fa emergere la concezione essenzialmente normativistica del diritto da parte del filosofo italiano. Ciò, a parere di chi scrive, è una delle possibili cause dell’estrema indeterminatezza della pars construens finale del suo testo. L’eliminazione del legame violenza-diritto non può infatti che considerarsi un compito utopico, laddove parimenti il significato politico di un diritto confinato nella pura dimensione del Sollen non può che riguardare una città che non ha luogo. La dottrina schmittiana è al contrario sempre attenta alla fattualità concreta del compito dell’ordine politico. Pertanto, ha sì tentato di inscrivere la violenza nel diritto, correndo il rischio di esporsi a strumentalizzazioni, ma ciò ha fatto proprio per fuggire a un’opposta deriva, quella che all’intensificazione dell’aspetto normativo del diritto ha visto corrispondere il suo scivolamento nella morale e nella tirannia dei valori: modo esemplare con cui il diritto nega se stesso.

Viceversa, Schmitt ha più volte sottolineato come la violenza bellica avesse trovato una grande forma di limitazione e umanizzazione nell’impresa giuridica del razionalismo europeo, forse grazie proprio al riconoscimento di un nesso violenza-diritto in grado di porre il secondo nelle condizioni di agire in senso limitativo e lenitivo sulla prima (jus in bello). Di qui la possibilità della costruzione e della difesa della categoria di justus hostis: un tema che va esteso ben oltre il campo del diritto internazionale, perché la sua logica vale altrettanto in quello interno, sussistendo per entrambi la dimensione originariamente politica del rapporto amico-nemico e la funzione dell’ordine istituzionale orientata a contenere il conflitto dentro limiti accettabili. Adottando questo criterio schmittiano è possibile avanzare un’altra interpretazione di quegli stessi eventi del panorama politico contemporaneo che ha citato Agamben. Si tratta della previsione della crescente intensificazione e disumanizzazione della guerra da attribuirsi alla sempre più arrogante esibizione di una justa causa (libertà, diritti umani etc.) al fine di scavalcare gli ostacoli giuridico-politici che si frappongono alle varie strategie dei soggetti di politica interna e internazionale. Ciò andrebbe eventualmente affiancato al paradigma dell’eccezionalità di Agamben. Le due interpretazioni non si escludono necessariamente. Ma la prima ha il pregio di consentire sotto il profilo teoretico di mantenere le categorie di decisione e di nemico; ovvero un’ermeneutica forte del fatto politico, capace di opporre alla “macchina letale” del potere non solo la non-violenza di una petitio principii ma una prassi efficace e delle significative controforze.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

martedì 6 dicembre 2022

La bestia, l'uomo, il dio. Il dialogo della salute di Carlo Michelstaedter

 "Il dialogo della salute" potrebbe anche intitolarsi: "La bestia, l'uomo, il dio". Infatti, descrive il passaggio attraverso queste tre tappe. La bestia nella sua innocenza ha bisogni, “desidera” e gode di tutto ciò che consente di continuare a vivere, e quindi gode del piacere del presente per poter nuovamente godere nel futuro, trovando in questa catena ininterrotta di bisogno-soddisfazione l’immediata in-consistenza della propria vita senza significato.

L'uomo si accorge, tramite la ragione, che il piacere-felicità può essere cercato. Però è lo stesso edonismo di chi invoca il piacere e fugge il dolore a dimostrare la sua vanità profonda, poiché non può che somigliare all'atto di "guardare nella propria ombra il proprio profilo": v'è piacere solo laddove vi è immediatezza, dove si gode nell'incoscienza di godere, perché, laddove si genera una mediazione consapevole, misteriosamente il piacere diventa "un iddio pudico" che "fugge da chi li invocò" che "ai piaceri è nemico" e che "fugge da chi lo cercò". Il piacere, cioè, è soprattutto una esperienza, è nemico della razionalità che riflette sui fini: esso non è e non può essere un valore, cioè l'oggetto di una ricerca, nella fattispecie un valore stabile e l'oggetto di una ricerca non infinita. Sono grandiose queste pagine che attraversano la tradizione dell'edonismo filosofico e ne confutano con grande forza i presupposti.

 Il terzo passaggio e quello verso il dio, ossia l'uomo-dio, colui che è persuaso, cioè l’individuo che ha trovato un senso convincente dell’esistenza, persuasivo come una verità che si impone improvvisamente, come una condizione di salute che distrugge ogni finzione e illumina ogni oscurità. La vita consacrata al piacere dissipa se stessa in un non-valore, ma la vita consta proprio di questa continua aspirazione a soddisfare bisogni, la vita è schopenhauerianamente volontà, la volontà di cose determinate che si fingono ricche e piene ma generano solamente un circolo vizioso, quello che subito si instaura tra il bisogno, la soddisfazione e un nuovo bisogno. Sembra che tale circolo oltre ad essere ripetitivo e nichilistico, sia nell'uomo peculiarmente artificiale e falso perché alla coscienza umana l'esperienza immediata della soddisfazione è negata alla radice, essendo invece concessa alla bestia incosciente. Che può fare, dunque, colui che si rende conto di un simile doppio vizio? Può rifiutare la vita, esprimendo così il desiderio di morte come riposo e negazione del bisogno … ma si tratta di una negazione che lascia permanere la coscienza. Si cerca la morte in quanto nella vita si ha l'insopportabile e lacerante coscienza dei bisogni insoddisfatti. Ma la morte non cancella solo il bisogno, ma anche la coscienza, lasciando permanere in essa un tragico senso di incompletezza. Il suicidio così diventa un pensiero con il quale ciascuno si costruisce uno sfondo falsamente consolatorio, a proprio uso e consumo di fronte alla frustrazione dell'esistenza. È una porta che ciascuno si lascia aperta ben sapendo che non conduce da nessuna parte, perché chi muore sa di non essere più, e sa che "il non-valore della morte non gli vale la speranza del valore". Anzi nell'invocazione della morte "parla la sua stessa debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore". Lì, dunque, si presenta un meccanismo paralogistico in cui è presente, pur dissimulata, "la volontà di continuare, la pietà commossa di se stessi". Che cosa resta da fare allora? Niente: nausea per la vita che è e che non è, disincanto totale per il mondo della volontà. Un niente, però, ricco di significati perché è la ribellione contro l'insignificanza del vivere. Questo fermarsi, questa rivolta immobile contro il divenire nichilistico delle cose è la via-non via della persuasione. "Allora non più invano spererai, non più sarai disperato, non più invano esulterai e non più avrai da lamentarti: ma il futuro non sarà più per te e nell'ultimo presente il tuo cuore consisterà [...] Niente da aspettare / niente da temere / niente da chiedere e tutto da dare / non andare / ma permanere / non c'è premio, non c'è posa / la vita è tutta una dura cosa". Il fermarsi contemplativo e ascetico di fronte alla durezza della vita è persuasione, il persuadersi di una verità scomoda e tremenda, che tuttavia è l'unica esistenzialmente autentica.

Michelstaedter nega che questa possa essere chiamata via, dal momento che consiste nella negazione di ogni via e di ogni andare che è sempre anche un inutile vagare. Nondimeno essa pur sempre rimane via in quanto implica un passaggio, una presa di coscienza, uno sforzo che dovrebbe condurre dalla naturale vita inautentica e dalla vana ricerca del piacere e della felicità, a una condizione diversa e superiore. La condizione di partenza è l’inconsistente e bramosa ricerca del futuro, l’attaccamento irrazionale alla vita (la filopsychia nell’accezione platonica) che Michelstaedter chiama "rettorica", perché a somiglianza dell'antica arte oratoria costituisce una trama, l'intreccio di condizioni, fatti, eventi, desideri, pulsioni che nascondono la reale consistenza della vita, come la retorica è una trama di argomenti, parole, immagini, figure che nascondono la reale consistenza della verità. Siccome la retorica è condizione di partenza di tutti, una sorta di generale Verfallen (scadimento) esistenziale, si presuppone che persuadersi della verità, cioè anti-retoricamente consistere, implichi appunto il percorrere una faticosa strada. Malgrado la sua dimensione puntuale - ci si persuade quando si smette di volere il futuro e di diluire l'esistenza nei diversi momenti della sua dialettica del desiderio - la persuasione è una meta, e come tale oggetto di una peculiare aspirazione. E questa è precisamente l'utopia michelstaedteriana, un'utopia escatologica che si intuisce nella significativa espressione che descrive la persuasione come "l'ultimo presente" in cui (si noti il verbo al futuro) "il cuore consisterà". La persuasione è, quindi, il desiderio di non più vanamente desiderare, la fame di non avere più fame, la speranza di non dover più sperare, cioè di un punto fermo in cui "la volontà si sarà raccolta e avrà fatto di se stessa fiamma", bruciando i desideri retorici, l’ansia del piacere, la vita sempre in bilico tra essere e non essere che costituisce il "caso mortale della nostra nascita".

 Allora c'è desiderio e desiderio, c'è speranza e speranza, c'è volontà e volontà: c'è il desiderio retorico del piacere vano, la speranza di ottenere le cose determinate che esprimono il non senso del vivere e la volontà che si rapporta gli oggetti per ribadire il circolo vizioso del bisogno, ma c'è anche il desiderio di autenticità, la volontà di verità, la speranza di una definitività che smetta di rimandare ad altro. Chiamerei la prima fattispecie "desiderio", per indicare una brama morbosa e inconcludente, del tutto naturalistica e quasi animale, un eros inesausto che alberga nella pulsione verso il piacere e non domanda il significato; la categoria di "speranza", credo viceversa che possa propriamente rendere la qualità ultima, dunque escatologica della tensione ascetica verso la verità nuda, disincantata e abissale a cui Michelstaedter si riferisce. Egli per nulla indulge alla speranza volgare nella folle illusione di una pienezza felice, ben sapendo che la vita si decide dove nulla di ciò che si vuole accade, dove però tutto è vero e il nuomeno di sé e del modo si spalanca violento e possente a chi ha la forza di guardarlo. Solo questo può accadere di buono, perciò io ancora questo chiamerei speranza e con un certo azzardo anche felicità.

 Lo stesso filosofo mette in bocca a uno degli interlocutori del dialogo, Nino, le seguenti parole: "Perché dare agli uomini questo desiderio senza speranza, questa fame che non si può soddisfare?", alludendo alla "nebbia maledetta" che identifica il fluire retorico delle cose nelle cose che reciprocamente si bramano e reciprocamente si annullano. Questo status naturale è oggetto di una ribellione utopica e divina: ad esso si oppone l’attesa demistificante di totalità, di unità e di immobilità che rappresenta il centro intimo e profondo, la domanda radicale del filosofo. Il rifiuto del "desiderio" e la logica della "speranza", seppur sui generis, inducono a ribaltare l'immagine usuale di Michelstaedter filosofo pessimista, non eludendo per questo la tragicità del suo disilluso realismo e il moto di profondo disagio razionale che lo ha generato.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

sabato 3 dicembre 2022

Il cittadino del sole. Breve ritratto di Ernst Jünger

 



Quando capita di leggere un libro che racconta verità profonde o ci affascina con immagini molto belle, subito il pensiero va a chi lo ha scritto: “Che tipo d’uomo sarà costui?”, ci si domanda, “Come è arrivato a dire cose così importanti?”. Se poi, una volta informati sull’autore, questi appare all’altezza della sua opera, l’innamoramento è molto facile. Viceversa se scopriamo nella sua vita qualche cosa che non va — e, dicendo così, alludo a qualcosa di serio e di importante, giacché tutti, in quanto uomini, abbiamo le nostre miserie e ognuno deve essere indulgente verso le piccolezze del prossimo, se vuole un po’ di indulgenza per le proprie — la delusione s’impossessa di noi e anche ciò che leggiamo perde valore.

Con Ernst Jünger siamo decisamente nel primo caso. Grandissimo letterato, filosofo e uomo di cultura nato ad Heidelberg nel 1895 e morto a Wiflingen nel 1998, si arruolò nel 1913 nella Legione Straniera, combatté nella Prima guerra mondiale dove si distinse in numerose azioni, fu ferito quattordici volte e si guadagnò, oltre alla croce di ferro di prima classe, la decorazione dell’Ordine “pour le mérite”, un’onorificenza raramente accordata in fanteria. Su questi temi e il loro rapporto intimo con la letteratura ebbe a dire: “All’eroismo mi spinse la lettura dell’Orlando furioso dell’Ariosto. Furono quelle parole, quelle rime lette durante le pause tra un combattimento e l’altro a motivarmi. E non già la retorica e l’ideologia della guerra sviluppatesi in seguito alla nostra vittoria nella guerra franco-prussiana del 1870-71...” (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano, 1997, p. 22).

Partecipò dopo il 1918 alla vita pubblica della Germania tra le fila dei critici della Repubblica di Weimar, nata dal peccato originale della resa della nazione tedesca, ma all’ascesa di Hitler si ritirò in una sorta di emigrazione interna, non risparmiando le sue critiche al regime in Sulle scogliere di marmo (1939, romanzo di altissimo pregio letterario che, pur contenendo metafore negative del nazionalsocialismo, non può essere ridotto alla sua dimensione politica). Dopo la Seconda guerra mondiale, cui nondimeno partecipò come ufficiale nell’esercito tedesco, e dopo avere rischiato molto a causa della sua amicizia con il conte von Stauffenberg, uno dei congiurati nell’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, si dedicò all’attività letteraria e alle sue passioni naturalistiche. Era infatti anche un esperto entomologo: “Non solo una mezza dozzina di scarabei, o ancor di più, sono stati battezzati grazie a me, ma ci sono anche farfalle, molluschi; il mio amico Theodorides mi  ha anche dedicato un organismo monocellulare, la gregarina jungeri. Inoltre esiste una sottospecie di cincidela che si chiama jungerella”: così affermò egli stesso nell’intervista concessa a Julien Herver e pubblicata con il titolo Conversazioni con Ernst Jünger (tr. it. di A. Marchi, Guanda, Parma, 1987, p. 50).

Nel lungo periodo del secondo dopoguerra scrisse alcune tra le sue opere di maggior respiro che si aggiungono a L’operaio. Dominio e forma (1932), suo capolavoro filosofico: Heliopolis (1949) e Eumeswil (1978), due romanzi voluminosi e di rara bellezza. Strinse amicizia, grazie ai buoni auspici del fratello Friedrich Georg (anch’egli filosofo e letterato), con il grande pensatore Martin Heidegger, in dialogo con il quale pubblicò Oltre la linea (1950), un acuto saggio sul nichilismo contemporaneo (quel fenomeno, indicato mediante l’uso della parola latina nihil = nulla, per cui la vita appare vieppiù senza senso, un deserto senza valori e significati). Si cimentò in un profondo esame del fenomeno del tempo in Al muro del tempo (1949); entrò in una feconda relazione culturale e umana con Carl Schmitt, autorità riconosciuta e insuperata nel campo della scienza giuridica; dalla loro collaborazione nacque Il nodo di gordio (1953), un confronto storico-filosofico-giuridico su oriente e occidente (siamo in epoca di guerra fredda, cioè in pieno scontro tra i due blocchi, quello orientale-sovietico e quello occidentale-statunitense, per l’egemonia planetaria). Attraversò con successo diversi generi letterari, quello diaristico, quello fantastico, quello fantascientifico, oltre alla prosa filosofica e scientifica: tutto ciò si aggiunge agli scritti anteriori al 1945 che vanno dal romanzo di guerra — famosissimo rimane il suo capolavoro Nelle tempeste d’acciaio (1920), sull’esperienza di Verdun e della Somme — ai saggi storico-filosofici sul senso del conflitto mondiale (La battaglia come esperienza interiore -1922) e alle riflessioni di strategia militare come Fuoco e movimento (1930). Si distinse anche per finezza della prospettiva, ricchezza della descrizione e sensibilità, diremmo oggi, ecologica nei resoconti di alcuni viaggi (Viaggio in Dalmazia - 1933) o in quelli di alcune escursioni naturalistiche in Cacce sottili (1967) e, per certi versi, in quello scritto complesso, a metà tra il diario e la raccolta di aforismi filosofici, che è Il cuore avventuroso (1929) Curioso fu anche il suo excursus sulle droghe e il significato degli stati allucinatori come via "pericolosa" alla conoscenza di sé (Avvicinamenti droghe ed ebbrezza, 1969)

Insomma siamo di fronte a un’opera vastissima e a un talento poliedrico che si unisce a qualità umane e virili oggi veramente rare. In particolare, questa sua capacità di leggere i segni dei tempi e di tramandare un’immagine nitida di accadimenti estremi come la guerra è stupefacente. Nel suo Nelle tempeste d’acciaio egli coglie appieno il significato rivoluzionario della Prima guerra mondiale, una guerra di masse, in cui l’individuo, come era stato concepito dalla società borghese, conta pochissimo e va progressivamente scomparendo la distinzione tra belligeranti e no, laddove la distruttività indiscriminata della tecnica e la logica dei materiali assumono un’importanza preponderante. Qui si forgia la nuova figura, il nuovo tipo umano adatto all’epoca, l’operaio. La guerra è infatti il luogo in cui emerge per la prima volta l’immagine del nuovo mondo trasformato  in un’immensa officina, in cui l’operaio non è più il lavoratore salariato, cioè un semplice rappresentate di una classe sociale svantaggiata e capace di ribellarsi (come aveva teorizzato il socialcomunismo marxiano), ma colui che “opera” cioè governa gli strumenti attraverso cui si mobilitano le energie del mondo. È una sorta di sacerdote della tecnica che sa evocare e tenere a bada la potenza “infera” dei materiali e la loro forza esplosiva. Ciò richiede qualità umane peculiari e una diversa organizzazione sociale che assimila il mondo a un esercito dove ciascuno assume un ruolo determinato in funzione delle sue qualità specifiche: la fredda tranquillità della conoscenza, la capacità di trasfigurare le emozioni e i sentimenti in una sfera di superiore coraggio e abnegazione, lo sprezzo della morale dei mercanti e dell’utilità borghese, la ricerca di un contatto più intimo con le forze profonde che legano il destino dell’uomo alla fisicità e alle dinamiche elementari della natura. Sono questi elementi che attualizzano e, per così dire, incarnano quella trasvalutazione di tutti i valori che il filosofo Nietzsche aveva preconizzato qualche decina di anni prima. Non si tratta però di un’esaltazione acritica del combattimento, anzi della guerra non vengono taciuti gli aspetti più crudeli, disumani e inquietanti, e al contrario se ne inquadrano con un nuovo e affascinante realismo aspetti fino a quel momento non visti, non saputi e non vissuti dalle generazioni abituate al clima della Belle Époque guglielmina (il periodo di crescita e splendore del Reich tedesco seguito all’unificazione bismarkiana e all’ascesa al trono dell’imperatore Guglielmo II).

 Successivamente alla sconfitta del 1918, verrà elaborata da Jünger una vera e propria filosofia dell’operaio, intesa a rendere consapevoli le giovani generazioni tedesche delle nuove prospettive filosofiche e politiche del secolo XX, aperte dall’evento rivoluzionario della guerra mondiale, la cui coscienza sarebbe servita a una rinascita della nazione prostrata dalla “vergogna di Versailles”. Nonostante le cose in seguito non fossero andate nella direzione auspicata dal nostro autore, egli non rinunciò ad impegnarsi nella cultura collaborando con le avanguardie più coraggiose dell’intellettualità tedesca, per esempio con il gruppo nazionalbolscevico di E. Niekisch che si sarebbe opposto, a partire da un originale “conservatorismo di sinistra”, alla politica del Terzo Reich.

Dopo la seconda tragica disfatta tedesca del 1945, Jünger delineò i contorni di nuove figure antropologiche adatte al mutato contesto storico ed epocale. In esse egli riuscì a individuare efficaci antidoti alla drammatica incapacità della cultura nell’affrontare il brusco risveglio dalle illusioni di redenzione dei popoli affidate alle ideologie del Novecento (comunismo, liberalismo, fascismo). Si tratta delle figure dell’anarca - colui che coltiva una libertà interiore, inafferrabile per gli strumenti d'oppressione dello Stato totalitario moderno -  e del ribelle - colui che "passa al bosco" cioè nei luoghi che la civilizzazione e l'omologazione tecnica, economica e politica non hanno raggiunto per organizzare la sua opposizione a tutte moderne forme di oppressione, recuperando un rapporto intimo con la propria natura selvaggia e indomita.  Qui il singolo, attingendo alla sua originaria libertà, si sottrae alla civiltà delle masse anonime, del mercato totale e della tecnica senza controllo, grazie alle sorgenti di senso che trova nell’arte, nell’amore erotico, nell’amicizia, nel recupero di un sentimento eroico della morte, ma anche nella rivalutazione di un “giusto senso del sacro” e di un rapporto oginario con la natura (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani, cit., p. 98). Ma il bello di questi tipi umani — l’anarca e il ribelle — è che non sorgono da una descrizione fredda e concettuale, ma prendono vita da storie, vicende e trame che, benché parti di una fantasia vivacissima e piena di risorse, hanno un legame interno con la vivida concretezza del mondo, quasi a confermare l’idea di un’altra grande, seppur diversissima scrittrice, F. O’ Connor, secondo la quale la vera letteratura è più realistica di qualsiasi disciplina puramente descrittiva. In questi paradigmi personali s’intravede ancora l’uomo Jünger, il soldato-poeta, il romantico che fugge nella Legione Straniera, l’eroe tragico della Germania sofferente e sconfitta, l’esule in patria del dopoguerra, ma anche colui che sa emozionarsi e commuoversi al pensiero di essere uno dei pochi cui il destino ha concesso di vedere due volte la cometa di Halley (Due volte la cometa – 1987). Un individuo differente, insomma,  il cui carattere cordiale e la cui penetrante intelligenza sono intrecciati a una sostanza umana, a uno spessore etico-valoriale, a una potenza interna del temperamento che hanno impressionato tutti coloro che sono venuti a contatto con lui: da Berthold Brecht ad Adolf Hitler, da Pierre Drieu la Rochelle ad Alfred Kubin e Pablo Picasso, da François Mitterand ad Helmut Kohl per finire con tutti gli intellettuali, anche italiani come Alberto Moravia, che da lui hanno sempre ricavato il senso di una grande autorevolezza e di una straordinaria acutezza di sguardo. Ma, direi anche, un utopista disincantato, che si pone in modo critico nei riguardi del suo tempo, senza indulgere a resoconti accomodanti e consolatori ma, al tempo stesso, senza mai rinunciare alla ricerca dei semi di un futuro diverso, gettati per terra nelle periferie della realtà, in attesa che lo spirito, la forza e la volontà del singolo li facciano germogliare.


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martedì 29 novembre 2022

Tutte le anime di Javier Marías. Una quarta di copertina

 


“Tutto ciò che si fa, tutto ciò che si pensa, tutto il resto che si pensa e si escogita è un mezzo per pensare a loro. Perfino le guerre si scatenano per poter tornare a pensare, per rinnovare quel pensiero fisso sui nostri uomini e sulle nostre donne, su quelli che sono già stati nostri o lo potranno essere, su quelli che conosciamo già e su quelli che non conosceremo mai, su quelli che furono giovani e su quelli che lo saranno, su quelli che sono già stati nei nostri letti e su quelli che mai ci entreranno […] So che quando sarò vecchio, quando sarò in pensione e non potrò dedicarmi ad altro che a ricevere insinceri onori e a prendermi cura del mio giardino, continuerò a pensare a loro e a fermarmi in strada per ammirare persone che oggi non sono ancora nate”. Tutte le anime è il nome di un collegio di Oxford, dove un professore madrileno si reca per tenervi lezioni. Il suo è un soggiorno a termine, relativamente breve, ma sufficiente per coltivare questo interesse per gli uomini e le loro vicende. La vita scorre attraverso le relazioni e i loro intrecci: i colleghi, gli amanti propri e altrui, i loro figli e padri, i viaggiatori di un treno, i venditori di fiori, i librai, i mendicanti della cittadina e le anime infinite che passano attraverso i libri, che li popolano e li scrivono. Sono tutte le anime di questo libro che affiorano alla luce di una sola, il narratore e la sua biografia raccontata sul filo della malinconia e dell’ironia. Ognuna è occasione per capire di più, per desiderare, per amare e odiare, penetrando più a fondo nella conoscenza di sé e delle cose. Il tempo scandisce l’inesorabile destino del passaggio di ciascuno nella scena del mondo ed è sempre un tempo finito, come quello fugace dell'amore in scadenza di Claire, o dell’amore impossibile di sua madre, come il poco che resta da vivere al disincantato professor Cromer Blake, o il tempo di discesa di Eric, il bambino che da subito avverte il precipitare del tempo. Loro e altri sono anime prese dentro la tragedia del tempo che il portiere Will disconosce, o più profondamente patisce, viaggiando psicoticamente in tutti i tempi. La dilazione è vietata e forse ciò dà valore a ogni istante, ma ogni istante chiede il successivo e gli attori non ci stanno a uscire di scena: “Sapere che si dovrà rinunciare a tutto è insopportabile per tutti quanti, quale che sia ciò che costituisce quel tutto, la sola cosa che conosciamo, la sola cosa cui siamo abituati. Io capisco bene chi rimpiange di morire solo perché non potrà leggere il prossimo libro del suo autore favorito, o vedere il prossimo film dell’attrice che ammira, o bere ancora la birra, o fare le parole crociate del nuovo giorno, o seguire la serie televisiva che segue, o perché non saprà quale squadra ha vinto il campionato di calcio dell’anno in corso”. Insopportabile è dunque la morte che mette fine a un tempo, la sua nera schiena, il cui ritornello è tuttavia il pittoresco non senso delle cose che accadono, delle anime che vivono per noi e in noi in questo gioco a somma zero. Si può riderne e si può piangere al tempo stesso, come fa Javier Marías. Ma questo è tutto ciò che abbiamo ed è tutto ciò che siamo: una conversazione leggera, amabile, malinconica in un giorno che tramonta.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

lunedì 14 novembre 2022

Luci di Isfahān. L'Iran dagli occhi delle donne

 


Bisogna amare l'Iran per capirlo. Bisogna amare questo avamposto di civiltà e di tradizione in una parte di mondo ferita dalle incursioni dei fanatici d'Occidente e d'Oriente. In una regione dove da Carter in poi ogni presidente americano ha sparso odio e morte, dove il truce wahabismo ha trovato il suo punto di diffusione, dove gli eserciti di molteplici piccoli Satana hanno preteso di cancellare la vita e la cultura, l'Iran conduce la sua coraggiosa vita politica, cercando la propria via alla giustizia. Nessuno è esente dai rischi e ogni potere sconta la fallibilità delle imprese umane. Ma il popolo iraniano ha elaborato lo stile originale e antico di un modello di sviluppo civile e sociale inteso a plasmare una nazione indipendente e sovrana dove la religione si assume il compito di legare e connettere il cielo e la terra...di offrire luci vere ai ciechi illuminati e illuministi che giudicano senza sapere e parlano senza pensare. Tutto questo abbiamo voluto illustrare attraverso la testimonanza appassionata e sapiente della dott.sa Hanieh Tarkian, che ringraziamo per la sua cortesia e disponibilità *

1- Gent.ma dott.sa Tarkian inizierei questa nostra conversazione chiedendole di parlarci di sé. Sappiamo che è donna e che è iraniana, e questo è sufficiente per dare alle sue parole il carattere e il tono di una testimonianza. Tuttavia, ci piacerebbe sapere di più sul rapporto con la sua patria e sul suo cammino culturale.

Prima di tutto ci tengo a ringraziarLa per questa intervista, in un mondo globalizzato dove dovrebbe esserci l’opportunità di sentire tante voci, sembra che l’informazione sia invece diventata monopolio di pochi, quindi grazie per l’opportunità di presentare un’opinione diversa sull’Iran. Sono italo-iraniana per la precisione, mia madre è italiana e mio padre iraniano. Sono nata in Iran e lì ho vissuto con la mia famiglia fino all’età di cinque anni. Erano i primi anni ’80, quindi c’era stata da poco la Rivoluzione islamica in Iran, che aveva influenzato in modo positivo i valori religiosi e spirituali della mia famiglia, e subito dopo era iniziata la guerra imposta dall’Iraq - quest’ultimo sostenuto da tutte le superpotenze del tempo - all’Iran. Abitavamo a Teheran, che veniva bombardata regolarmente, quindi, anche se per un breve periodo, ho fatto anch’io l’esperienza delle “bombe democratiche e delle guerre giuste” sostenute dall’Occidente. Ho vissuto quindi in Italia fino al conseguimento del diploma di maturità, e in seguito mi sono trasferita in Iran perché sentivo il bisogno di approfondire le mie conoscenze sull’Islam, che comunque già praticavo, e per questo mi iscrissi e frequentai la hawza fino a conseguire il dottorato in Scienze Islamiche. La hawza è la scuola in cui si studiano gli argomenti legati all’Islam, dalla teologia all’esegesi coranica, dalla filosofia al sistema economico islamico, dalla storia dell’Islam alla lingua araba. In tutto ho vissuto in Iran quindici anni, là mi sono sposata e ho avuto tre figli. Sette anni fa abbiamo deciso di venire a vivere in Italia per dedicarci ad attività accademiche e culturali. In Iran ho avuto l’opportunità non solo di studiare, ma anche di lavorare, dico questo perché al contrario dell’idea che i media mainstream danno dell’Iran, esso è uno Stato dove le donne sono coinvolte nella vita accademica, sociale e politica.

2- L’Iran è una nazione islamica: quali sono le caratteristiche religiose e culturali che la differenziano dal resto della Umma? Qual è cioè la specificità dell’approccio degli iraniani alla loro tradizione religiosa?

L’Iran è una Repubblica islamica, è una repubblica perché il popolo ha un ruolo importante e fondamentale nella vita politica. La stessa Rivoluzione islamica dell’Iran è stata prima di tutto un movimento identitario di riscoperta della propria tradizione religiosa e culturale e di opposizione all’imperialismo e all’arroganza di alcuni Stati, i quali vogliono imporre i propri interessi a tutto il mondo. L’istituzione della Repubblica islamica non sarebbe stata possibile senza il popolo, infatti essa è avvenuta dopo un referendum in cui il 98% dei votanti ha detto “sì” alla Repubblica islamica. Inoltre si sono svolte e si svolgono elezioni regolari per eleggere i membri del Parlamento, il Presidente della Repubblica e i membri dell’Assemblea degli Esperti, che sono coloro i quali affidano l’incarico di Guida Suprema a una persona che possieda i requisiti necessari, vigilando altresì sul suo operato. È islamica perché le sue leggi si fondano sui valori religiosi, valori basati su un’interpretazione specifica degli insegnamenti islamici, ossia quelli dell’Islam sciita, e sulla visione politica della wilayat al-faqih, in altre parole l’autorità del giurisperito (la Guida Suprema), un dotto in scienze islamiche, nonché esperto di politica, geopolitica e in grado di amministrare e guidare la società promuovendo gli interessi di quest’ultima. Questa teoria politica fu elaborata (non inventata) dall’Imam Khomeini in base agli insegnamenti dei Dodici Imam. Infatti, più del 90% per cento degli iraniani segue l’Islam sciita. L’Islam sciita si differenzia da quello sunnita sotto vari aspetti, ma quello principale è il seguente: la guida politica e religiosa della società (della Umma) dev’essere un individuo scelto da Dio, questo individuo è l’Imam, talvolta l’Imam è anche profeta (come Muhammad), talvolta non lo è. Secondo la tradizione sciita, dopo la morte del Profeta, il vero successore e guida della società sarebbe dovuto essere Alì, non in quanto suo genero e/o cugino, ma perché prescelto da Dio. Infatti la guida della società deve possedere delle caratteristiche come l’infallibilità che solo Iddio può riconoscere. E, dopo Alì, si sono succeduti undici Imam, l’ultimo dei quali, il Mahdi, è in stato di occultazione e si rivelerà alla Fine dei Tempi insieme a Gesù Cristo per stabilire la giustizia nel mondo. Nel periodo di occultazione dell’Imam Mahdi, poiché la società non può rimanere senza una guida religiosa e politica, questo ruolo viene affidato a un dotto in scienze islamiche, nonché esperto di politica, geopolitica e in grado di amministrare e guidare la società promuovendo gli interessi di quest’ultima, questa è in sintesi la teoria politica della wilayat al-faqih.

3- Il punto di snodo della storia iraniana recente è la rivoluzione che ha condotto nel 1979 alla nascita della Repubblica islamica sulle spoglie dell’Ancien Régime dello Scià. In sintesi, come e perché è avvenuto tutto ciò?

Come ho accennato in precedenza, la Rivoluzione islamica dell’Iran è stata prima di tutto un movimento identitario di riscoperta della propria tradizione religiosa e culturale e di opposizione all’imperialismo e all’arroganza di quegli Stati che vogliono imporre i propri interessi a tutto il mondo. Lo Scià, infatti, aveva tentato di “occidentalizzare” i costumi e le tradizioni iraniane. Per esempio, vi è stato un periodo in cui era vietato coprirsi il capo e il velo veniva strappato alle donne per strada, quando invece il velo ha sempre fatto parte della tradizione iraniana, anche prima dell’avvento dell’Islam. Quindi possiamo dire che due sono stati gli aspetti fondamentali che hanno portato il popolo iraniano ad opporsi allo Scià: il primo il fatto che lo Scià fosse un burattino delle superpotenze, Gran Bretagna e Stati Uniti in particolare, e quindi non facesse gli interessi della sua nazione, e il secondo la necessità di preservare i valori religiosi culturali e di opporsi allo Scià che voleva distruggere l’eredità spirituale dell’Iran.

Il periodo dal 1963 al 1979 sono gli anni in cui l’Imam Khomeini fu molto attivo nel denunciare i soprusi dello Scià e con i suoi discorsi riuscì a dare consapevolezza alla nazione iraniana sul degrado sociale e politico a cui sarebbe andata incontro qualora non si fosse opposta alle politiche corrotte dello Scià. Per questo motivo l’Imam Khomeini fu esiliato, ma questo non interruppe il suo legame con il popolo.

Gli anni ‘77 e ‘78 furono quelli più difficili per la Rivoluzione. Il regime dello Scià venne rafforzato e sradicava i gruppi che si ribellavano, tuttavia l’Imam Khomeini guidò il processo della Rivoluzione passo dopo passo attraverso i discorsi che ripetutamente teneva, anche negli anni in cui si trovava in esilio, incoraggiando il popolo a scioperare e invitando i soldati ad abbandonare le caserme. È interessante sapere che all’inizio i suoi discorsi venivano diffusi sotto forma di ciclostilati, mentre durante l’ultimo periodo della Rivoluzione venivano incisi su audiocassette. Dopo molti anni di lotta, l’aereo che riportava in patria l’Imam Khomeini dalla Francia, l’ultimo Stato in cui fu esiliato, atterrò all’aeroporto di Teheran la mattina del 1 Febbraio 1979; il giuramento di alleanza con l’Imam, pronunciato dagli ufficiali militari l’8 febbraio, segnò la caduta del governo dello Scià. L’11 febbraio fu annunciata la vittoria della Rivoluzione islamica.

 

4- Chi è l’ Āyatollāh Ruḥollāh Moṣṭafāvī Mōsavī Khomeinī?

L’Imam Khomeini nacque nel 1902, orfano di padre, frequentò la hawza e completò rapidamente i vari corsi di scienze islamiche. Insieme alla giurisprudenza islamica e ai principi di giurisprudenza, che erano due delle materie principali studiate presso la hawza, egli approfondì anche la filosofia e la gnosi, e come spiegato elaborò la teoria politica della wilayat al-faqih. L’Imam denunciò i crimini dello Scià e incitò tutti i sapienti musulmani e la popolazione iraniana a ribellarsi contro l’oppressione del suo regime.

L’Imam si occupò pertanto di varie tematiche, dalla teologia alla filosofia, dalla gnosi alla politica, ci vorrebbe un’enciclopedia per presentare degnamente la sua visione. Mi preme tuttavia evidenziare quella che era la sua prospettiva politica.

Secondo il pensiero dell’Imam Khomeini, la politica è un concetto chiave che ha un legame inscindibile con la religione, infatti la considera la via per portare l’essere umano verso la realizzazione della società, prendendo in considerazione gli interessi reali e ostacolando ciò che la danneggia, pertanto la scienza della politica è la scienza del perfezionamento, dell’educazione e della formazione dell’essere umano. Essa rimuove i veli e gli ostacoli che impediscono la vera realizzazione e beatitudine dell’individuo e della società.

L’Imam Khomeini affermava che esistono tre tipi di politica:

1- Politica corrotta - È la politica fondata su comportamenti quali la menzogna, l’inganno, favorire gli interessi individuali a scapito di quelli sociali, quelli materiali a scapito di quelli spirituali, saccheggiare i beni dei cittadini e manipolare la loro mente. L’Imam Khomeini asseriva che nell’Islam la politica non ha niente a che fare con la visione corrotta della politica.

2- Politica mondana - Potrebbe essere corretta nei principi, nei criteri e nei fini, anteponendo l’interesse sociale a quello privato, tuttavia essendo di natura materialistica non prende in considerazione la dimensione e la realizzazione spirituale degli individui, quindi nemmeno questa politica è compatibile con la visione islamica.

3- Politica divina - È quel tipo di politica che aspira a realizzare sia la felicità in questo mondo che nell’aldilà, favorendo una società giusta in questo mondo e la beatitudine nell’aldilà, pertanto prende in considerazione entrambe le dimensioni - materiale e spirituale - dell’essere umano. Questo tipo di politica per l’Imam Khomeini corrisponde alla Retta Via, tuttavia non tutti sono in grado di attuarla, solo i Profeti, i Messaggeri, gli Imam e i sapienti che conoscono bene gli insegnamenti islamici sono in grado di farlo.

Per questo motivo egli completò e portò alla sua realizzazione la teoria politica del governo del giurisperito che possiede le caratteristiche necessarie per implementare la politica divina.

 

5- Come funziona la Repubblica islamica sotto il profilo istituzionale? Qual è il rapporto tra politica e religione?

Come già accennato, la Repubblica islamica dell’Iran è una repubblica fondata sugli insegnamenti islamici della scuola sciita. Il popolo ha avuto un ruolo fondamentale nella vittoria della Rivoluzione e nell’istituzione della Repubblica, e, non essendo una dittatura, tutt’ora non potrebbe esistere una Repubblica islamica dell’Iran senza il sostegno del popolo. Questo appoggio viene ribadito ogni anno in varie occasioni importanti, come quando si celebra l’anniversario della Rivoluzione, in cui milioni di iraniani scendono in piazza in sostegno all’ordinamento.

Essendo la Repubblica islamica dell’Iran basata sulla teoria politica della wilayat al-faqih, vi è uno stretto legame tra politica e religione, in realtà ciò è dovuto a un motivo molto logico: qualsiasi sistema politico, ma anche giuridico, dev’essere fondato su una base ideologica, su determinati valori e criteri con cui gestire la politica e le leggi. Più del 98% degli iraniani è musulmano, quindi non è poi strano che abbia scelto come base ideologica della Repubblica gli insegnamenti islamici.

 

6- Come vivono le minoranze religiose cristiane, ebree e zoroastriane in Iran?

Le minoranze cristiane, ebree e zoroastriane sono riconosciute e tutelate dalla legge, e hanno un numero fisso di rappresentanti nel Parlamento iraniano. Per altro ci sono stati vari martiri appartenenti alle minoranze religiose caduti nella guerra imposta Iraq-Iran.

Credo che per capire meglio lo spirito dei seguaci delle minoranze religiose in Iran possa essere utile leggere queste parole del vescovo iraniano Narsai Benyamin, vescovo della Chiesa Assira d’Oriente, in occasione del 40° anniversario della vittoria della Rivoluzione islamica dell’Iran: “Onore ai martiri che hanno sacrificato il loro sangue puro per la gloria dell’Iran. Lo sviluppo e la crescita dell’Iran sono lo sviluppo e la crescita di tutti gli iraniani, per questo preghiamo per l’onore della Guida Suprema e porgo i miei auguri in occasione del 40° anniversario della vittoria della Rivoluzione islamica […] Si narra che un allievo andò dal suo maestro e gli chiese in merito alla Santa Trinità. Il maestro portò l’allievo vicino al mare e gli chiese di scavare una buca, e in seguito di riempire la buca con l’acqua dell’oceano con un cucchiaio fino a quando non fosse finita. Allora il maestro disse al suo allievo che se fosse stato in grado di fare ciò, anche lui sarebbe stato in grado di spiegargli il concetto della Santa Trinità […] Ora anche il tempo che io ho a disposizione per spiegare i benefici della Rivoluzione islamica sono come quella buca da riempire con l’acqua dell’oceano con un cucchiaio. I benefici e i risultati della Rivoluzione islamica sono talmente numerosi che è impossibile citarli in così poco tempo […] Il primo beneficio di cui la comunità assira godette, per merito della Rivoluzione islamica, fu l’influenza della religione e della spiritualità nella vita. La Rivoluzione islamica portò la religione nella società e anche i cristiani assiri ne furono influenzati. Grazie alla Rivoluzione islamica, oggi, tutte le chiese assire sono aperte e attive e i cristiani assiri possono liberamente assistere alle proprie funzioni religiose in lingua assira e secondo il proprio rito […] La ristrutturazione delle chiese antiche, dopo la Rivoluzione islamica, è un altro dei benefici della Repubblica islamica dell’Iran, il costo di tutta o la maggior parte della ristrutturazione è stata sovvenzionata da fondi statali […] Un altro beneficio della Rivoluzione è stato la fondazione di Consigli per risolvere le controversie specifiche dei cristiani assiri [dove le controversie vengono risolte seguendo le loro norme specifiche] […] inoltre i cristiani assiri possono godere delle festività religiose cristiane senza dover lavorare in tali giorni […] in tutte le città, dove sono presenti dei cristiani assiri o altre minoranze religiose, sono state create associazioni registrate presso il Ministero degli Interni, e infatti la prima associazione ad essere stata registrata dopo la Rivoluzione islamica con il numero di registrazione “1” appartiene ai cristiani assiri di Urmia […] La presenza di cinque rappresentanti delle minoranze religiose in Parlamento (ebreo, assiro, armeno ...) è un onore per l’ordinamento e per la Repubblica islamica dell’Iran […] un po’ di tempo fa venne un rappresentante dell’Onu in Iran, il quale incontrò alcuni membri della comunità cristiana assira. Il rappresentante ci chiese di illustrargli i nostri problemi in Iran e noi in risposta spiegammo per due ore i risultati e i benefici. Il rappresentante ci disse che sembrava non avessimo problemi in Iran, gli rispondemmo che i nostri problemi in Iran sono come i problemi all’interno di una famiglia, e se ci sono problemi li comunichiamo ai responsabili statali e non a voi, i nostri problemi non vi riguardano. Noi sappiamo di essere iraniani, sempre saremo iraniani e iraniani saremo sepolti in questa terra sacra”.

 

7- Qual è il ruolo attuale dell’Iran rivoluzionario nel quadro della politica mediorientale?

La Rivoluzione islamica dell’Iran è stata d’esempio per i popoli in Medioriente (ma non solo) e infatti ispirandosi agli slogan della Rivoluzione, quali “Libertà, Indipendenza, né Occidente né Oriente”, sono nati movimenti di liberazione come Hezbollah in Libano e Ansarullah nello Yemen.

È dalla vittoria della Rivoluzione islamica - avvenuta nel 1979 - quindi da più di quarant’anni, che le potenze arroganti, le élites mondialiste e guerrafondaie, con a capo gli Stati Uniti, stanno cercando di distruggere i cambiamenti positivi avvenuti grazie alla Rivoluzione, creando conflitti interni, tentativi di colpi di stato, imponendo guerre dall’esterno come il conflitto Iraq-Iran, con l’invasione culturale, la guerra economica e mediatica e infine con rivoluzioni colorate e proteste di strada.

Il motivo di tanta ostilità da parte dei poteri arroganti scaturisce dal fatto che l’Iran non ha mai accettato il sistema che lor signori vogliono imporre, un sistema in cui gli oppressori governano sugli oppressi. Fin dall’inizio della Rivoluzione islamica è stato chiaro che questo sistema non sarebbe stato accettato, che l’Iran non avrebbe accettato di essere dalla parte degli oppressori né di farsi opprimere. In base agli articoli contenuti nella Costituzione iraniana, ai principi islamici e allo spirito del popolo iraniano, lo Stato iraniano non solo non avrebbe oppresso né si sarebbe lasciato opprimere, ma avrebbe anche combattuto l’oppressore e non sarebbe rimasto imparziale nei confronti dell’oppressione rivolta ad altri.

In particolare, sappiamo che l’Iran, guidando l’Asse della Resistenza, ossia l’alleanza tra i gruppi di resistenza presenti in Iran, Iraq, Siria, Palestina, Yemen e Libano, ha ottenuto grandi successi in quelle che sono state delle vere e proprie guerre per procura volte a indebolire l’Asse stesso attraverso la destabilizzazione della regione, destabilizzazione attuata attraverso il sostegno a vari gruppi terroristici, primo fra tutti l’Isis. Ma l’Asse della Resistenza è riuscito a sconfiggere le strategie pianificate dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nella regione per la creazione di un “Nuovo Medioriente”.

 

8- Veniamo all’attualità più scottante. Le donne in Iran e le attuali manifestazioni/disordini sociali. Ci potrebbe dare un quadro generale della situazione?

Le potreste sono iniziate dopo che una giovane di nome Mahsa Amini è svenuta in una stazione di polizia e, dopo essere stata portata in ospedale, è morta. I media mainstream hanno subito accusato la polizia iraniana di aver picchiato la ragazza, la quale, secondo loro, sarebbe morta a causa delle percosse. Tuttavia non ci sono prove al riguardo, anzi, le telecamere a circuito chiuso mostrano che la ragazza sviene e viene soccorsa dagli agenti di polizia e poi dai paramedici. Il referto medico pubblicato dai funzionari iraniani documenta che Mahsa Amini subì un intervento chirurgico al cervello al Milad Hospital di Teheran nel 2007, quando aveva otto anni. Dopo l'operazione, iniziò ad avere problemi all’ipotalamo. Il referto riporta che il 13 settembre 2022, alle 19:56, ha perso conoscenza ed è caduta a terra e, a causa della sua precedente malattia, aveva la pressione bassa e, nonostante le avessero eseguito la respirazione artificiale nei primi minuti, le è mancato l’ossigeno e ha subito danni cerebrali. Nonostante il ritorno dell'attività cardiaca e nonostante il suo trasferimento in ospedale e gli sforzi profusi dal personale medico dell'ospedale "Kosra", le conseguenze della mancanza di ossigeno hanno portato alla morte della signora Amini il 16 settembre 2022.

Secondo i documenti medici rilasciati dall'ospedale, i risultati delle TAC e degli esami e dell'autopsia, la signora Mahsa Amini non è morta a causa di lesioni alla testa o a qualsiasi altra parte del suo corpo. Questa, quindi, è la versione ufficiale dell’Iran. Ovviamente qualcuno potrebbe mettere in dubbio questa versione, anche se l’Iran, essendo sotto forte pressione mediatica, non ha alcun motivo per mentire. E in ogni caso non si capisce perché dovremmo invece fidarci della propaganda mediatica globalista, considerato che abbiamo già sperimentato l’inganno dei canali mainstream con la Libia e la Siria e, da pochi mesi a questa parte, con la Russia.

Quindi abbiamo prima di tutto un problema di propaganda mediatica, si può accusare uno Stato o un’istituzione di qualcosa senza fornire delle prove: pseudo associazioni per i diritti umani con il sostegno di canali come il canale saudita Iran International o la BBC in persiano (non proprio quindi canali di informazione imparziali per quanto concerne l’Iran) accusano la polizia iraniana di aver picchiato una ragazza causandone la morte. Ribadiamo: niente prove, anzi ci sono filmati che dimostrano il contrario, eppure tutti i media mainstream riprendono la notizia come se fosse rivelazione divina.

Come dicevo all’inizio, la morte della giovane Amini e le false accuse della propaganda mediatica hanno portato alle proteste, all’inizio pacifiche, ma poi sempre più violente e incoraggiate dai canali “dissidenti”. Tra coloro che hanno partecipato alle proteste sono stati indentificati individui affiliati all’Isis o a gruppi terroristici curdi o al famigerato Mek, i Mojahedin-e khalq, quel gruppo terroristico che l’Europa e gli Stati Uniti avevano in un primo momento inserito nella lista delle associazioni terroristiche per poi toglierlo circa una decina di anni fa, un gruppo terroristico che dalla Rivoluzione islamica dell’Iran ha assassinato 12.000 iraniani. I Mojahedin-e khalq sono una vera e propria setta che si è macchiata di crimini terribili; esistono nel web video che mostrano le torture che infliggevano a coloro che essi consideravano traditori (ovvero chi sosteneva la Repubblica islamica dell’Iran). Purtroppo ci sono stati molti casi di violenza e vandalismo: agenti ai quali è stato dato fuoco o letteralmente sgozzati, le ambulanze sono state prese di mira dai manifestanti e sono state vandalizzate moschee e luoghi religiosi, ma anche banche, e ci sono stati anche dei morti in circostanze sospette. I rivoltosi vengono incoraggiati alla violenza e alla profanazione di luoghi o oggetti sacri, e la propaganda mediatica li sostiene senza possibilità di contradditorio.

Quello che dico è molto semplice: considerate le menzogne dei media mainstream negli ultimi, come minimo, vent’anni riguardo all’Afghanistan, alla Libia, all’Iraq e alla Siria, non sarebbe il caso di mettere in dubbio la loro versione dei fatti in merito a ciò che sta succedendo in Iran e sentire anche l’altra campana?

 

9- È vero che giovani adolescenti iraniane vengono picchiate a morte dalla polizia per non aver voluto indossare il velo o per non aver voluto omaggiare la Guida Suprema Alī Ḥoseynī Khāmeneī? Quali sono le fonti di simili notizie?

Non è assolutamente vero, queste notizie sono false, anche nel caso di soprusi da parte delle forze dell’ordine, si tratta di casi singoli e non sistematici, su cui l’autorità giudiziaria ha poi il dovere di indagare. La maggior parte di queste notizie, come ho accennato in precedenza, vengono diffuse da canali come la BBC in persiano o il saudita Iran International che non sono chiaramente fonti imparziali sull’Iran. Spesso i video e le immagini sono manipolate o decontestualizzate, altre fonti sono i profili Twitter di dissidenti, molto spesso profili i cui followers sono per metà account fake.

Vorrei ribadire questo concetto: il lettore non è obbligato ad accettare la versione fornita dall’Iran sui fatti accaduti, tuttavia il minimo sarebbe mantenere un approccio critico nei confronti di fonti d’informazione di imparzialità discutibile e che già in passato hanno mentito sulla situazione in Medioriente (e non solo).

10- Che cosa direbbe a una donna occidentale, non prevenuta, per far capire che cosa vuol dire essere oggi donna e mussulmana nella Repubblica?

Per rispondere a questa domanda riporterò alcuni estratti di una lettera che un gruppo di dottoresse iraniane ha scritto alla dott.ssa Antonella Vezzani, presidente dell’Associazione Italiana Donne Medico[1]:

“Qualche tempo fa è stata pubblicata sui media una lettera da Lei firmata, chiaro indice della Sua scarsa conoscenza della situazione e delle condizioni che governano il nostro Paese, ovvero l'Iran, la qual cosa ci ha spinte, come rappresentanti delle donne medico dell’Iran, a metterla al corrente sulla condizione femminile nel nostro Paese negli ultimi anni. Prima di tutto, menzioneremo alcuni dati che saranno per Lei di sicuro interesse. È al corrente, ad esempio, che la percentuale di ragazze tra gli studenti iraniani è passata da circa il 25%, negli anni antecedenti la Rivoluzione Islamica, a più del 50%? Probabilmente non sa che prima della Rivoluzione Islamica dell'Iran del 1979 il tasso di analfabetismo tra le donne si aggirava intorno al 50-60%, e che ora è sceso a meno del 10%. Dottoressa, i media le hanno forse permesso di sapere che il numero delle donne medico specialiste in Iran è aumentato di ben dodici volte dalla Rivoluzione Islamica, mentre per i loro colleghi uomini la percentuale è pari a tre? Come fa a parlare di ingiustizia quando, solo a titolo di esempio, secondo il rapporto del “World Economic Forum” (WEF), l'Iran è al primo posto in termini di pari diritti all'istruzione tra ragazze e ragazzi? Come si possono affermare simili falsità sulla salute delle donne iraniane quando, secondo il rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l'indice di aspettativa di vita delle medesime negli ultimi quaranta anni è aumentato da una media di 57 anni a una di più di 77 anni? […] Occorre sapere che negli anni successivi alla Rivoluzione Islamica l'aumento del numero dei campi sportivi femminili è passato da 7 a 38, quello delle Federazioni sportive femminili attive da 1 a 49, degli arbitri donna da 7 a 16.000 e delle allenatrici sportive da 9 a 35.000, e questa è solo una minima parte dei progressi propri della condizione femminile in Iran, emerse nel virtuoso contesto di giustizia e legalità implementato da detto sistema islamico. […] Secondo la nobile tradizione dell'ospitalità iraniana, La invitiamo a visitare la nostra grande nazione e le sue donne medico per poter così testimoniare la sicurezza, la libertà, la vitalità, la dinamicità ed i progressi scientifici propri dell’Iran, giacché non è affatto degno di esponenti della comunità scientifica degni di questo nome il rilasciare commenti apodittici, senza una scrupolosa verifica dei fatti, sotto l'esclusiva influenza di notizie false e infondate”.

Da questa lettera secondo me emerge prima di tutto l’orgoglio di un popolo, composto da uomini e donne, che ha versato sangue per una Rivoluzione identitaria, sociale, politica e spirituale ed è pronto a difendere e preservare la propria indipendenza e sovranità, nonostante i problemi che comunque esistono, anche a causa della pesante pressione mediatica, politica ed economica esercitata sull’Iran.

 

11- Allargando ancora il fuoco del discorso: che cosa pensa dell’immigrazione islamica in Europa. In alcuni quartieri di città dell’Europa settentrionale (ho in mente il Belgio, ma non solo) il locale partito islamico avrebbe i numeri per governare, imponendo, dicono i più preoccupati, la shar’ia. Lo ritiene giusto o auspicabile?

Io credo che a livello globale vi sia una lotta ideologica che coinvolge tutti i popoli: nemici ideologicamente oscurantisti, ossia i gruppi terroristici ed estremisti, appoggiati tuttavia da un Occidente ideologicamente progressista, in realtà oscurantismo e progressismo sono due facce della stessa medaglia, per questo si appoggiano a vicenda. L’ideologia progressista è caratterizzata da un modernismo radicale, un mondialismo che vede nell’amalgamarsi di culture e costumi la sua realizzazione, senza più lasciar spazio ai singoli popoli di manifestarsi; culture e religioni devono adattarsi al nuovo culto del dirittoumanismo, il progressismo vede nel capitalismo e nella liberal-democrazia la sua realizzazione economica e politica, l’ultralaicismo è la sua religione che va a sostituire le altre religioni, le quali purtroppo in alcuni casi perdono la loro identità e si mondializzano (anche molte comunità musulmane ne sono purtroppo influenzate). La famiglia naturale perde d’importanza e viene sostituita da nuovi modelli, contemporaneamente anche l’individuo perde la sua identità, prima quella culturale e quella religiosa, arrivando poi a quella sessuale come sta succedendo adesso; un modello di società progressista è quella statunitense che purtroppo è stata importata anche in Europa. L’oscurantismo è la visione estrema opposta, di cui possiamo considerare fautori i movimenti estremisti che si ispirano al wahabismo, un’ideologia deviata che si dichiara fondata sugli insegnamenti islamici ma in realtà li ha completamente distorti, e sia sunniti che sciiti si sono dissociati dal wahabismo.

Per questo io credo fermamente che ogni popolo abbia la responsabilità di preservare la propria identità e di lottare contro queste ideologie, proprio come hanno fatto i popoli mediorientali in Siria e in Iran per esempio, e non solo, i popoli devono anche allearsi in questa lotta. Nella stessa Europa musulmani e cristiani possono essere alleati contro l’ideologia progressista e mondialista.

 

12- Quale dovrebbe essere secondo lei il criterio di convivenza tra cristiani, atei, credenti in altre religioni e mussulmani in Europa?

Rispetto reciproco, ma anche alleanza nel creare una società giusta e, come dicevo nella risposta alla precedente domanda, unirsi nella lotta contro l’ideologia progressista, nonché contro pericolose derive estremiste che creano conflitti all’interno della società, conflitti di cui poi approfittano i soliti noti. In particolare credo che tutti i membri consapevoli della società debbano sforzarsi nel sostenere la famiglia quale nucleo principale della società. Una società dove la famiglia perde il suo ruolo, è una società morta.

È diritto di ogni popolo preservare la propria identità. C’è una minoranza che non è d’accordo? Ci sono sempre delle minoranze che non sono d’accordo. Cosa succede quando queste minoranze sono sostenute dalla propaganda mainstream e dalle élites mondialiste? Succede quello che sta succedendo in Europa, un’identità pian piano muore.

 

13- Qual è secondo il migliore tra gli artisti iraniani di oggi? E qual è il filosofo di maggior prestigio (lo chiedo per deformazione e curiosità professionale).

Tra gli artisti vorrei segnalare Hassan Ruh al-Amin, giovane artista iraniano, e Mahmoud Farshchian, maestro nell’arte delle miniature persiane. Per quanto riguarda la filosofia, sicuramente l’ayatollah Mesbah Yazdi è stato il più grande filosofo contemporaneo dell’Iran (è deceduto due anni fa).  Egli fu anche esperto di gnosi, etica, teologia e politica. Nella visione dell’ayatollah Mesbah Yazdi, la conoscenza di tipo mentale e la visione filosofica dell’universo sono i fondamenti da cui partire per dare delle risposte ai tre interrogativi principali che ogni essere umano si pone – da dove proviene? qual è la sua meta? come raggiungerla? – tuttavia questo non significa che si debba dare una risposta a tutte le questioni che compongono la visione dell’universo (in specifico la visione religiosa) in modo filosofico, ma semplicemente che prima di tutto è necessario dimostrare in modo razionale temi quali l’esistenza di Dio, la necessità di una guida che possa indicare all’essere umano la retta via e così via. Ciò non esclude l’avvalersi di altre conoscenze per risolvere alcuni temi: infatti l’ayatollah Mesbah Yazdi nelle sue argomentazioni teologiche utilizza come premesse anche conoscenze di tipo diretto e presenziale oppure empirico e, solo una volta dimostrati i temi principali, fa riferimento agli insegnamenti del Corano e delle tradizioni tramandate dal Profeta e dagli Imam. Questo tipo di elaborazione permetterà in seguito di intraprendere un sentiero di tipo spirituale e gnostico, che porterà il viaggiatore spirituale ad essere testimone in modo presenziale di ciò che prima conosceva solo come concetti e argomentazioni.


[1] https://islamshia.org/dottoresse-iraniane-scrivono-allassociazione-italiana-donne-medico/.

* Il cartello della foto dice: "La polizia degna di onore si è sacrificata per la nazione", e intende opporsi a coloro che durante le proteste, fomentate dai gruppi eversivi violenti, foraggiati e sostenuti dall'Occidente, offendevano e picchiavano gli agenti. Noi siamo rimasti colpiti dalla sua bellezza calligrafica, oltre che dall'intensità dello sguardo della ragazza che orgogliosamente lo innalza, icona di una femmilità degna, integra, consapevole e militante. 


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

giovedì 27 ottobre 2022

Zeev Sternhell e la nascita dell’ideologia fascista. Una sintesi.

 


Siamo al tempo degli Scurati e degli Ovadia. È l’età del ferro (ferro borghese e molle) in cui la storia si ritira di fronte al dilettantismo pseudo letterario o attorale. E quando i liquami post-moderni incontrano l’altro, diverso e incompatibile non possono che fare una sola cosa: sporcare. Perché non c’è una questione storica, un problema, qualcosa da capire e da comprendere: già tutto è dato nelle sicurezze oclocratiche di guitti e buffoni, i veri padroni del nostro tempo. Dunque, bisogna diffondere odori di fogna. Lo scopo di bassa cucina politica? Proteggere e occultare le puzze del presente.  C’è chi viceversa vuole respirare e cerca aria migliore. Fuor di metafora c’è chi ha sempre creduto nella necessità di una storicizzazione autentica del fascismo, non in quella dei “mai più” che lo fanno sopravvivere in eterno come fantoccio dei voodoo costituzionali. C’è qualcuno per il quale vale ancora il precetto weberiano dell’avalutatività e la chiamata della razionalità e del metodo storico. L’unico mezzo per superare le contrapposizioni violente di una guerra civile interminabile, e interminabilmente rinfocolata da istituzioni politiche e culturali moralmente e civilmente vuote, risiede proprio lì, nella sfida della ricerca e di una verità che non è mai un possesso definitivo e che difficilmente, nella sua complessa articolazione, si fa strumentalizzare. Oggi a cento anni dal fattaccio, andando un po’ controcorrente, mi piacerebbe dissotterrare l’ascia della scienza, andando a riprendere il capitolo iniziale di un testo fondamentale, Nascita dell’ideologia fascista di Zeev Sternhell (tr. it. Baldini &Castoldi, Milano 1989, pp. 9-52).  Lo faccio in modo divulgativo e didattico, rispolverando gli appunti di una mia lezione, che al testo aggiunge liberamente notazioni personali e spiegazioni,  mentre cerca una sintesi da offrire allo sforzo dei miei ragazzi, e di tutti gli interessati, di conoscere e di crescere. Buona lettura!

Il concetto di fascismo

“Di tutte le grandi ideologia del Novecento, l’ideologia fascista è la sola che nasca con il secolo. Terza via tra liberalismo e socialismo marxista, il fascismo propone una soluzione alternativa ai problemi posti, nell’Europa a cavallo tra i due secoli, dalla rivoluzione tecnologica e da quella intellettuale”. Tale movimento non può essere ridotto a parentesi o anomalia, ma è parte integrante della storia del Novecento. Pur provenendo in certa misura da un dibattito all’interno del marxismo, non può esserne considerato un sottoprodotto, né può essere letto, al contrario, come una semplice reazione antiproletaria di fronte all’avanzare del movimento operaio, come vuole la storiografia terzinternazionalista. Esso piuttosto appare un’autonoma “forza di rottura capace di partire all’assalto dell’ordine costituito e di porsi in diretta concorrenza con il marxismo nel tentativo di procacciarsi il favore tanto degli intellettuali quanto delle masse”. Qui si prende in considerazione il suo pensiero, nella genesi e nello sviluppo che si determina tra Francia e Italia e che ne rappresenta una radice differente e autonoma rispetto a quella del nazismo. Quest’ultimo infatti trae la sua originale ispirazione da una tradizione deterministica e biologistica che sorregge le sue più radicali propensioni razziste. Al contrario i motivi ideologici fondamentali del fascismo vanno rintracciati in una forma di revisionismo rivoluzionario, antirazionalista e antimaterialista, del marxismo che incontra il nazionalismo e il futurismo e promuove una sintesi. La pars destruens si rivolge alla filosofia dell’illuminismo, alla teoria dei diritti naturali, all’internazionalismo e al pacifismo e, con esso, all’egoismo di classe borghese, nonché a quello proletario. Quella construens ad una presa di coscienza dell’identità  nazionale che va a sostituirsi alla coscienza di classe come fattore rivoluzionario; al permanere della questione sociale, risolta non con un’internazionalizzazione delle masse, ma con una loro nazionalizzane interclassista e organicista (secondo la quale la società si sviluppa un’interazione gerarchica di parti che collaborano al tutto, non essendo da quest’ultimo separabili né senza quest’ultimo concepibili), come processo che offre una diversa via alla partecipazione delle stesse masse alla vita sociale, inaugurata dalla modernità rivoluzionaria. Attorno a questi nuclei si sviluppano i temi che via via si aggregano quali conseguenze deduttive dell’ideologia fascista e/o integrazioni dovute a motivi storici o strategico-politici. Tutto nasce in ogni caso con un processo di revisione del marxismo.

Il dibattito di fine Ottocento nel contesto del marxismo: Bernstein, Kautsky, Lenin

La revisione del marxismo operata dagli intellettuali che avrebbero contribuito alla nascita del fascismo si produce sulla scia di un grande dibattito a fine Ottocento, dal quale sarebbero sorti da un lato il revisionismo socialdemocratico e riformista di Bernstein, dall’altro la prospettiva democratico-rivoluzionaria di Kautsky. Eduard Bernstein (1850-1932) è teorico del revisionismo che, constatando la vitalità del capitalismo, giunge alla conclusione che la previsione della sua inevitabile crisi, sviluppata da Marx, sia erronea e che dunque sia necessario cambiare strategia, promuovendo gli interessi dei lavoratori con una politica riformista nel quadro del sistema capitalistico borghese. Karl Kautsky (1854-1938) è un importante teorico del marxismo, collaboratore di Engels e curatore dell'edizione del quarto volume (postumo) del Capitale di Marx.  Entra in polemica con Bernstein, accusandolo di riformismo piccolo borghese e di favorire un'accettazione del sistema di oppressione capitalista, fondamentalmente contrario agli interessi del proletariato. Inoltre, egli contrasta Bernstein quando costui sostiene l’idea di una neutralità del sindacato rispetto al partito dei lavoratori. L'opera del sindacato deve, al contrario, essere rivoluzionaria e non può limitarsi a rivendicazioni economiche, poiché è chiamata a determinare il processo eversivo con cui il proletariato è destinato a soppiantare la borghesia e a prendere il potere. Dopo la Rivoluzione d'ottobre, entra in conflitto ideologico con Lenin, affermando che la dittatura del proletariato non poteva essere sganciata dall'effettivo consenso popolare che i bolscevichi, nel momento in cui avevano sciolto l'assemblea costituente del 1917-18, avevano deciso di considerare ininfluente. Per Lenin tali posizioni risultano essere di fatto un sostegno alla controrivoluzione: Kautsky, nell’opinione del capo bolscevico, diventa un esecrabile “rinnegato”.

Se dunque Bernstein accetta una prospettiva di riforme a favore del mondo operaio, anche dentro il quadro della monarchia costituzionale, Kautsky ritiene che non si possa dissociare il socialismo da una forma di governo democratico-radicale e repubblicana. Entrambi, tuttavia, si trovano d'accordo sulla situazione tedesca: bisogna lottare per una progressiva democratizzazione dello Stato (per Bernstein nel quadro monarchico, per Kautsky fuori di esso).

Kautsky a Erfurt

Secondo Kautsky le tappe di tale sviluppo dovevano essere le seguenti: a) il movimento socialista prende il potere in modo rivoluzionario; b) Dopo aver instaurato un regime democratico, tutti gli ulteriori progressi dovrebbero essere lasciati al libero corso della democrazia verso modalità di gestione dell'economia e convivenza civile sempre più giuste. Non bisogna dimenticare che Kautsky era stato il protagonista del congresso di Erfurt (1891) del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD, che riuniva tutti i socialisti tedeschi). In tale congresso era stata stabilita la necessaria convivenza, entro il progetto politico del partito, di un programma massimo, rivoluzione sociale e ribaltamento repentino dei rapporti di classe, come aveva indicato Marx, e di un programma minimo, le lotte economiche per il miglioramento delle concrete condizioni operaie nel presente.

Ciò aveva generato una peculiare contraddizione tra un partito che in campo dottrinale/teorico si dimostrava fedelissimo a Marx (programma massimo), e che di fatto, nella pratica, con la fine delle leggi antisocialiste di Bismarck, veniva accolto nella legalità e si disponeva a diversi compromessi col regime esistente, pur nell'intento di democratizzarlo (programma minimo). Si trattava di una evidente dissociazione tra teoria e pratica (una teoria rivoluzionaria e una pratica riformista).

Riformisti e rivoluzionari tra teoria e prassi

A tale dissociazione reagiscono i revisionisti di Bernstein che vogliono renderla coerente dal lato della pratica, modificando la teoria in senso riformista ("Se la pratica è riformista bisogna rendere riformista anche la teoria"); dal canto loro, i marxisti ortodossi vogliono risolverla dal lato della teoria, rendendo pratica coerente con la teoria e puntando a che l'azione diventi rivoluzionaria (“Se la teoria è rivoluzionaria, bisogna rendere rivoluzionaria anche la pratica").

Kautsky e Rosa Luxemburg

Ma c'è dibattito anche nel gruppo dei marxisti ortodossi in cui si oppongono

1) la prospettiva di Kautsky secondo cui la lotta di classe non deve introdurre una dittatura del proletariato, ma un regime completamente democratico (tutto va demandato alle assemblee elette che rappresentano le esigenze e gli interessi popolari, e non alla dittatura di un partito rivoluzionario e del suo gruppo dirigente). Dalla progressiva democratizzazione della vita sociale ed economica, in modo automatico e quasi fatale, sorgerà il socialismo;

2) la prospettiva di Rosa Luxemburg e degli altri rivoluzionari dell'est europeo, come Lenin, che, pur con diverse sfumature, ritengono che la rivoluzione debba distruggere completamente e dalle fondamenta il capitalismo anche nella sua versione democratica (che rimane pur sempre gestita e guidata dalla borghesia). Kautsky, aspettando il socialismo dagli sviluppi della democratizzazione del regime capitalistico, pecca di fatalismo. Al contrario i marxisti come la Luxemburg e altri non perdono mai di vista il fine del movimento operaio, la rivoluzione anticapitalista, il suo protagonista, il proletariato industriale, e la sua strategia rivoluzionaria.

Tutti, malgrado queste differenze, in ogni caso rimarranno fedeli, sotto il profilo filosofico, al contenuto materialistico, razionalistico ed hegeliano del marxismo.

I latini e Sorel: un terzo incomodo

 Nel medesimo ambito marxista, si svilupperà tuttavia un nuovo disomogeneo gruppo, che potremmo chiamare “i rivoluzionari latini”, cioè di nazionalità francese e italiana, il cui rappresentante più famoso diventerà Georges Sorel. Dopo aver intrapreso la carriera di ingegnere civile, ritiratosi dalla professione nel 1892, egli comincia a occuparsi di filosofia, storia, scienze sociali e politica. Tra il 1893 e il 1897 il suo orientamento marxista lo induce a partecipare al dibattito sulla revisione della dottrina di Marx ed Engels, offrendo un’interpretazione volontaristica e antipositivistica del socialismo, secondo la quale alla rivoluzione proletaria avrebbero condotto la volontà e la capacità di azione del proletariato, e non una più o meno rigida necessità storica. Sempre più critico verso i partiti socialisti e le loro tendenze parlamentari e riformistiche, Sorel compie tra il 1905-08 il tentativo di recuperare la sostanza rivoluzionaria del socialismo, fuori della cultura positivistica della socialdemocrazia europea, quella che mischiava speranze di palingenesi sociale e fiducia nel progresso tecnologico secondo un andamento lineare della storia dal peggio al meglio, quasi affidando ai processi immanenti della storia la possibilità di emancipazione delle masse operaie. Fedele al suo attivismo rivoluzionario e all’idea marxiana della violenza come levatrice della storia, egli finisce per individuare nella guerra di classe il nucleo vitale del socialismo e diviene sostenitore di una prospettiva sindacalista rivoluzionaria. Il sindacato è considerato il principale soggetto rivoluzionario perché organizza le energie proletarie che si manifestano nella concreta prassi di ribellione allo sfruttamento delle fabbriche e del lavoro. A muovere e a incanalare la rabbia proletaria devono esserci dei miti, cioè delle narrazioni che strappano l’uomo a se stesso e lo inducono ad agire. Al vertice dei miti rivoluzionari vi è quello dello «sciopero generale», inteso come strumento di educazione e di lotta (Réflexions sur la violence, 1908). L’idea di un dinamismo energetico ed aggressivo, al quale sottomettere la ragione e la prudenza, comporta una nuova concezione della politica in cui l’agire è considerato primario e indispensabile: una mistica dell’azione che non dispiacerà ai futuristi. Ormai estraniatosi dal socialismo ufficiale, Sorel si impegna a percorrere nuove vie di azione rivoluzionaria, accostandosi all’Action Française e collaborando alla rivista nazionalista L’indépendance (1911-13), cui lo avvicinavano le comuni convinzioni antiliberali, avverse alla democrazia parlamentare, ai suoi fondamenti filosofici ed etici. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si ritira dalla vita politica per dedicarsi agli studi filosofici, rivolgendo nuovamente le sue speranze verso la rivoluzione bolscevica e mostrando un curioso interesse verso il fascismo nascente.

Un’altra revisione di Marx

Complessivamente si può dire che con Sorel e gli altri socialisti “latini” si determinerà una revisione del marxismo in grado di andare oltre le posizioni in campo fino all’inizio del Novecento. Infatti, mentre i marxisti tedeschi e orientali fanno il possibile per non rinunciare alle dottrine economiche di Marx sullo sviluppo del capitalismo e sulle sue contraddizioni, così come al suo impianto deterministico, legato cioè allo sviluppo necessario della storia secondo ferree leggi dialettiche verso la rivoluzione e la società senza classi, i “latini” vogliono rivedere il marxismo, anzitutto riconoscendo gli errori economici di Marx e i difetti del suo materialismo.

In questo campo risulta importante la critica della teoria del plusvalore portata dall'economista austriaco Eugen Ritter von Böhm-Bawerk (1851-1914) nel suo volume Capitale e interesse sul capitale (1884). Tale critica prosegue in Zum Abschluss des Marxschen Systems (La fine del sistema marxiano, 1896) mediante la sottolineatura di alcune contraddizioni all’interno della maggiore opera marxiana, Il Capitale, su temi economici rilevanti come valore, profitto, prezzo. Quanto a tale ultimo argomento, esiziale è agli occhi di Böhm-Bawerk la sottovalutazione del processo di domanda e offerta nella determinazione del prezzo, tema fondamentale per comprendere i processi economici propri del capitalismo. A questa critica si associa nel socialismo “latino” il peso del grande studioso italiano Vilfredo Pareto che, pur non avendo aderito al marxismo, è ricercatore ascoltato anche in ambienti socialisti. Costui si dedica a ricerche di economia matematica (Corso di economia politica - 1897-98) e in sociologia è noto per la teoria della circolazione delle élites, secondo cui in ogni società le minoranze al potere si rinnovano continuamente a causa della degenerazione di coloro che vi appartengono e dell'ascesa di elementi superiori ed eccellenti formatisi all'interno delle classi sociali subordinate (Trattato di sociologia generale - 1920). Ebbene, Pareto difende la libera concorrenza come fattore di sviluppo, ritiene che si debba limitare l'intervento dello Stato nel campo economico e considera erronea la visione marxista della storia.Sono suggestioni critiche importanti che si associano a quelle di un altro attento studioso del marxismo, di scuola liberale, come Benedetto Croce, filosofo idealista e protagonista di primissimo piano della prima metà del Novecento filosofico e culturale italiano, che parimenti insiste sull'inconsistenza della teoria del plusvalore, pur riconoscendo la pregnanza dell’interpretazione economica della storia proposta dal filosofo di Treviri.

Un liberalismo di classe

Tali piste di approfondimento ricche di spunti critici originali e provocatorii costituiscono un milieu importante per il socialismo soreliano che rifiuta Marx come economista e ne fa un sociologo della violenza cioè un teorico della rivolta violenta e della conquista violenta dello Stato da parte della classe lavoratrice oppressa. Di qui viene il sindacalismo rivoluzionario che ambisce a restituire ai lavoratori la guida della società, espropriandone la borghesia e dando vita a una sorta di liberalismo di classe: la classe operaia conquista il potere, mantenendo, tuttavia, il sistema del libero mercato. Tutto ciò affonda le sue radici nella constatazione, già formatasi, come si è visto, negli ambienti revisionisti e riformisti di Bernstein, che le previsioni economiche di Marx non si sono avverate e il capitalismo non produce da sé i germi della sua distruzione. Segue una siffatta consapevolezza, però, non l’adeguamento quietista alle condizioni del capitalismo “vittorioso” nella speranza di renderlo meno pesante per la classe operaia, bensì l’idea secondo la quale è necessario promuovere artificialmente la rivoluzione, portando alla massima esasperazione il conflitto di classe e rifiutando ogni compromesso in nome dei bisogni immediati del proletariato (come avevano fatto i riformisti che ai bisogni immediati del proletariato avevano sacrificato la stessa rivoluzione proletaria).

 

Il mito, non la struttura

Così nasce il peculiare revisionismo rivoluzionario di Sorel. Esso si connota per l’accento posto sulla radicalità del conflitto di classe: la cui esasperazione non è il prodotto di condizioni strutturali, che di per sé sono cieche e mute, ma su miti sociali e cesure psicologiche e morali. Bisogna lavorare sulle convinzioni delle masse fornendo miti, immagini e parole d'ordine che, mostrando la malvagità del sistema di oppressione capitalista, spronino alla lotta e alla battaglia. La lotta di classe diventa allora un’etichetta che esprime diversi contenuti: vitalismo (esaltazione delle energie vitali e della forza espansiva dell’esistenza che si afferma e domina il suo ambiente); intuizionismo (rifiuto dei processi razionali ed esaltazione delle intuizioni immediate che colgono la verità in modo non discorsivo e predispongono verso l'azione); pessimismo (la storia non va verso il meglio, ma  tende a produrre decadenza se l'uomo non si oppone con le sue forze); volontarismo (non l'intelligenza governa i destini dell'uomo e cambia la storia, ma la sua volontà); culto dell'energia e del gesto eroico.  Qui parte importante hanno i filosofi francesi Henry Bergson - teorico dello slancio vitale e del valore conoscitivo ed esistenziale dell’intuizione – e Gustave Le Bon studioso di psicologia delle masse – secondo cui le folle sono mosse dalle emozioni e non dalla ragione e le emozioni sono evocate da miti e sistemi di immagini piuttosto che da discorsi coerenti e razionali.

Ma per Sorel e il sindacalismo francese, che presto fa capolino anche in Italia, essere rivoluzionari significa anche non rifiutare le leggi del mercato che ovunque sono cogenti se si vuole emanciparsi dal bisogno, bensì liberarsi dalla sovrastruttura democratico-liberale vera e propria radice di ogni oppressione e di ogni decadenza morale e civile.

Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo

I principi testé delineati portano alla costruzione dell’edificio dottrinale fascista in due tappe: 1) la nascita di una nuova teoria rivoluzionaria che considera la rivoluzione l’effetto di una mobilitazione di massa fondata su miti trainanti e non su leggi economiche; 2) la sostituzione del primato del proletariato con quello della nazione: non una classe, ma la nazione intera, mobilitata dai miti della sua grandezza e della sua potenza, potrà distruggere gli involucri istituzionali del passato e dare vita a nuove forme di Stato e convivenza civile. Tale visione possiede un singolare rapporto con il revisionismo riformista. Da un lato vi si accorda nel ritenere che il capitalismo (=libero mercato e libera impresa) sia un fattore di progresso sociale, dall’altro vi si allontana perché ritiene che la socializzazione della proprietà con la progressiva cancellazione o limitazione di quella privata non sia l'obiettivo dell'azione politica e che il liberalismo politico, anche se democratico, vada rifiutato nettamente. Infine, per quanto attiene alla prassi, un'élite organizzata proveniente dal proletariato urbano sarà l'unico agente del cambiamento, organizzato mediante il sindacato e non mediante un partito di politici professionisti, in attesa del successivo passaggio nazionalista.

Dalla classe alla nazione

 Infatti, all’inizio, il sorelismo investe su strutture sindacali pre-esistenti, poi dà luogo a un suo specifico modello di organizzazione sindacale. Tuttavia, se in Italia e in Francia alla fine degli anni Dieci c'è un quadro teorico e un’organizzazione sindacale (i sindacalisti rivoluzionari), la rivoluzione nondimeno non arriva. Ciò conduce a rilevare i limiti della fiducia nel proletariato come classe rivoluzionaria. Infatti, sulla scorta di Le Bon ci si rende conto che il proletariato è una folla e la folla è per sua natura conservatrice, tanto che non è lecito aspettarsi dal proletariato l'auspicata rivoluzione antiborghese. Pertanto, in mancanza di ipotesi ad hoc per difendere la teoria di Marx di fronte alla sua falsificazione storica, risulta necessario individuare un nuovo agente rivoluzionario. Tale agente è da identificarsi nella grande forza in ascesa del mondo moderno: la nazione. Ciò viene compreso già prima della Grande Guerra e porta i soreliani a cavallo del conflitto verso il fascismo. Ma ciò avverrà grazie all'incontro col nazionalismo che sarà aiutato ad acquisire la consapevolezza secondo la quale nazione avrebbe ritrovato la sua integrità solo inglobando il proletariato, e quindi mettendo al centro del proprio progetto non solo gli ideali patriottici e di appartenenza comunitaria ma anche la questione sociale. Così da una parte si avrà un socialismo non classista e aperto a tutta la collettività, dall'altra avremo un nazionalismo che, rescissi i legami con gli ambienti conservatori, si presenta come sostenitore e fautore dell'unità e dell'unanimità. Tutto ciò alla fine rende più efficace la lotta contro la democrazia borghese in vista dell’avvento di una nuova aristocrazia di produttori, alleata di una gioventù ansiosa di agire, avente come criteri la virilità, l'eroismo, il sacrificio. Questa nuova élite farà propria la forza mobilitatrice di immagini e simboli e riterrà la violenza fonte di una sublime distruzione delle forme decrepite del passato ed energia di edificazione di nuove istituzioni.

Il ruolo della guerra

La Grande Guerra svolge un ruolo determinante nella cristallizzazione dell'ideologia fascista. Essa darà prova della capacità di mobilitazione del nazionalismo e aprirà nuovi orizzonti sulle potenzialità dell'economia di mercato posta al servizio della nazione stessa mediante una contemporanea pianificazione generale, diretta con mano ferma e finalizzata alla mobilitazione totale di tutte le energie produttive. Dalle dinamiche del conflitto emergerà la potenza dello Stato, fondata sull'unanimità spirituale delle masse che chiederanno un capo all'altezza, la loro permanente mobilitazione e la loro completa nazionalizzazione. Al tempo stesso la guerra fa risaltare la debolezza intrinseca di ogni internazionalismo, spazzato via non appena le patrie faranno appella alla sacralità della loro vita e della loro identità.

Insomma, la guerra offre la conferma empirica delle teorie che già prima del suo scoppio circolavano in pubblicazioni soreliano-nazionaliste (in Italia La lupa, o in Francia i Cahiers du Circle Proudhon). Sin dall’inizio del secolo in Italia si era formato un primo nucleo concettuale del fascismo in costante riferimento a Georges Sorel di cui Agostino Lanzillo pubblica una prima biografia intellettuale. Nel 1905 idee soreliane sono propagandate da Enrico Leone e Paolo Mantica nella rivista "Il divenire sociale". Dal 1906 la rivista Pagine libere di Angelo Oliviero Olivetti difende posizioni sindacaliste rivoluzionarie con accenti già nazionalistici. Nel 1908 dopo l'espulsione dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI, l'incontro con i nazionalisti diviene quasi obbligato e avverrà proprio grazie alla rivista "La lupa" che riunisce per la prima volta i nazionalisti legati a Enrico Corradini e i teorici del sindacalismo rivoluzionario ivi compreso Roberto Michels, sociologo esperto studioso dei partiti politici che con Pareto e Mosca porterà al fascismo l'avallo delle scienze sociali. Durante la guerra di Libia (1911) già si elabora la visione interventista della guerra come occasione rivoluzionaria di rinnovamento morale e spirituale (cui non è estraneo lo straordinario intervento del socialista Pascoli con il discorso “La grande proletaria s’è mossa”). Dalla fine del 1912 su L'Avanguardia socialista Arturo Labriola accoglie la dottrina della violenza proletaria di Sorel e diventa faro ideologico del sindacalismo rivoluzionario.

Dopo la guerra mondiale il sindacalismo rivoluzionario si evolve in sindacalismo nazionale e interclassista (Sergio Panunzio, 1921), ma già del 1904-5 Mussolini è in contatto con Olivetti, Panunzio, Alceste De Ambris, Filippo Corridoni. Con questi teorici e militanti il direttore de "L'Avanti" (quotidiano del PSI) polemizza, però su questioni di tattica rivoluzionaria, non su tematiche ideologiche, riconciliandosi nel 1912 e ospitandoli sulla sua rivista "Utopia". In quello stesso periodo matura la crisi spirituale del capo romagnolo che, in occasione del conflitto mondiale, verrà riportato dalla stessa parte della barricata dei sindacalisti rivoluzionari. In tale occasione egli potrà apprezzare la potenza di mobilitazione del nazionalismo, una novità nell'asfittico ambiente del socialismo italiano, addomesticato e addormentato dall'opera di istituzionalizzazione messa in atto da Giolitti. I sindacalisti rivoluzionari e i teorici transalpini, tra cui Sorel e anche il socialista cattolico Peguy, lanciano invettive contro il socialismo riformista di Jaurés e il suo decadente parlamentarismo e costituiscono per Mussolini provocazioni estremamente significative e formative.

Sin qui la riflessione di Sternhell nel testo che abbiamo preso in considerazione.

Poi, mi viene da aggiungere, ci saranno Nietzsche, D’Annunzio e Fiume a completare il quadro, e poi Gentile e Volpe, nottole di Minerva che ricollocheranno questa storia particolare in quella generale dell’Italia e del Risorgimento. Qui si intreccia la storia dell’antifascismo serio e in taluni casi anche eroico.  La Resistenza, da scrivere con la maiuscola, è la contestazione radicale della legittimità risorgimentale del Fascismo, e la rivendicazione di un altro Risorgimento. Il conflitto che ne nasce, dunque, va visto sullo sfondo dell’unità di un solo problema, il problema dell’unità d’Italia e del destino che, unendosi, la nostra patria si è voluto dare. Ciò che ha diviso la nostra nazione è la stessa cosa che la unisce. Forse qui c’è una speranza per il futuro.


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.