Siamo al tempo degli Scurati e degli Ovadia. È l’età del ferro (ferro borghese e molle) in cui la storia si ritira
di fronte al dilettantismo pseudo letterario o attorale. E quando i liquami
post-moderni incontrano l’altro, diverso e incompatibile non possono che fare
una sola cosa: sporcare. Perché non c’è una questione storica, un problema,
qualcosa da capire e da comprendere: già tutto è dato nelle sicurezze
oclocratiche di guitti e buffoni, i veri padroni del nostro tempo. Dunque,
bisogna diffondere odori di fogna. Lo scopo di bassa cucina politica?
Proteggere e occultare le puzze del presente.
C’è chi viceversa vuole respirare e cerca aria migliore. Fuor di
metafora c’è chi ha sempre creduto nella necessità di una storicizzazione
autentica del fascismo, non in quella dei “mai più” che lo fanno sopravvivere
in eterno come fantoccio dei voodoo costituzionali. C’è qualcuno per il quale
vale ancora il precetto weberiano dell’avalutatività e la chiamata della
razionalità e del metodo storico. L’unico mezzo per superare le
contrapposizioni violente di una guerra civile interminabile, e
interminabilmente rinfocolata da istituzioni politiche e culturali moralmente e
civilmente vuote, risiede proprio lì, nella sfida della ricerca e di una verità
che non è mai un possesso definitivo e che difficilmente, nella sua complessa
articolazione, si fa strumentalizzare. Oggi a cento anni dal fattaccio, andando
un po’ controcorrente, mi piacerebbe dissotterrare l’ascia della scienza,
andando a riprendere il capitolo iniziale di un testo fondamentale, Nascita
dell’ideologia fascista di Zeev Sternhell (tr. it. Baldini &Castoldi, Milano
1989, pp. 9-52). Lo faccio in modo
divulgativo e didattico, rispolverando gli appunti di una mia lezione, che al
testo aggiunge liberamente notazioni personali e spiegazioni, mentre cerca
una sintesi da offrire allo sforzo dei miei ragazzi, e di tutti gli
interessati, di conoscere e di crescere. Buona lettura!
Il concetto di fascismo
“Di tutte le grandi ideologia del
Novecento, l’ideologia fascista è la sola che nasca con il secolo. Terza via
tra liberalismo e socialismo marxista, il fascismo propone una soluzione
alternativa ai problemi posti, nell’Europa a cavallo tra i due secoli, dalla
rivoluzione tecnologica e da quella intellettuale”. Tale movimento non può
essere ridotto a parentesi o anomalia, ma è parte integrante della storia del
Novecento. Pur provenendo in certa misura da un dibattito all’interno del
marxismo, non può esserne considerato un sottoprodotto, né può essere letto, al
contrario, come una semplice reazione antiproletaria di fronte all’avanzare del
movimento operaio, come vuole la storiografia terzinternazionalista. Esso
piuttosto appare un’autonoma “forza di rottura capace di partire all’assalto
dell’ordine costituito e di porsi in diretta concorrenza con il marxismo nel
tentativo di procacciarsi il favore tanto degli intellettuali quanto delle
masse”. Qui si prende in considerazione il suo pensiero, nella genesi e nello
sviluppo che si determina tra Francia e Italia e che ne rappresenta una radice differente
e autonoma rispetto a quella del nazismo. Quest’ultimo infatti trae la sua originale
ispirazione da una tradizione deterministica e biologistica che sorregge le sue
più radicali propensioni razziste. Al contrario i motivi ideologici
fondamentali del fascismo vanno rintracciati in una forma di revisionismo
rivoluzionario, antirazionalista e antimaterialista, del marxismo che incontra il
nazionalismo e il futurismo e promuove una sintesi. La pars destruens si
rivolge alla filosofia dell’illuminismo, alla teoria dei diritti naturali, all’internazionalismo
e al pacifismo e, con esso, all’egoismo di classe borghese, nonché a quello proletario.
Quella construens ad una presa di coscienza dell’identità nazionale che va a sostituirsi alla coscienza
di classe come fattore rivoluzionario; al permanere della questione sociale,
risolta non con un’internazionalizzazione delle masse, ma con una loro
nazionalizzane interclassista e organicista (secondo la quale la società si
sviluppa un’interazione gerarchica di parti che collaborano al tutto, non
essendo da quest’ultimo separabili né senza quest’ultimo concepibili), come
processo che offre una diversa via alla partecipazione delle stesse masse alla
vita sociale, inaugurata dalla modernità rivoluzionaria. Attorno a questi
nuclei si sviluppano i temi che via via si aggregano quali conseguenze deduttive
dell’ideologia fascista e/o integrazioni dovute a motivi storici o
strategico-politici. Tutto nasce in ogni caso con un processo di revisione del
marxismo.
Il dibattito di fine Ottocento
nel contesto del marxismo: Bernstein, Kautsky, Lenin
La revisione del marxismo operata
dagli intellettuali che avrebbero contribuito alla nascita del fascismo si
produce sulla scia di un grande dibattito a fine Ottocento, dal quale sarebbero
sorti da un lato il revisionismo socialdemocratico e riformista di Bernstein,
dall’altro la prospettiva democratico-rivoluzionaria di Kautsky. Eduard
Bernstein (1850-1932) è teorico del revisionismo che, constatando la vitalità
del capitalismo, giunge alla conclusione che la previsione della sua
inevitabile crisi, sviluppata da Marx, sia erronea e che dunque sia necessario
cambiare strategia, promuovendo gli interessi dei lavoratori con una politica
riformista nel quadro del sistema capitalistico borghese. Karl Kautsky
(1854-1938) è un importante teorico del marxismo, collaboratore di Engels e
curatore dell'edizione del quarto volume (postumo) del Capitale di
Marx. Entra in polemica con Bernstein,
accusandolo di riformismo piccolo borghese e di favorire un'accettazione del sistema
di oppressione capitalista, fondamentalmente contrario agli interessi del
proletariato. Inoltre, egli contrasta Bernstein quando costui sostiene l’idea
di una neutralità del sindacato rispetto al partito dei lavoratori. L'opera del
sindacato deve, al contrario, essere rivoluzionaria e non può limitarsi a
rivendicazioni economiche, poiché è chiamata a determinare il processo eversivo
con cui il proletariato è destinato a soppiantare la borghesia e a prendere il
potere. Dopo la Rivoluzione d'ottobre, entra in conflitto ideologico con Lenin,
affermando che la dittatura del proletariato non poteva essere sganciata
dall'effettivo consenso popolare che i bolscevichi, nel momento in cui avevano
sciolto l'assemblea costituente del 1917-18, avevano deciso di considerare
ininfluente. Per Lenin tali posizioni risultano essere di fatto un sostegno
alla controrivoluzione: Kautsky, nell’opinione del capo bolscevico, diventa un
esecrabile “rinnegato”.
Se dunque Bernstein accetta una
prospettiva di riforme a favore del mondo operaio, anche dentro il quadro della
monarchia costituzionale, Kautsky ritiene che non si possa dissociare il
socialismo da una forma di governo democratico-radicale e repubblicana.
Entrambi, tuttavia, si trovano d'accordo sulla situazione tedesca: bisogna
lottare per una progressiva democratizzazione dello Stato (per Bernstein nel
quadro monarchico, per Kautsky fuori di esso).
Kautsky a Erfurt
Secondo Kautsky le tappe di tale
sviluppo dovevano essere le seguenti: a) il movimento socialista prende il
potere in modo rivoluzionario; b) Dopo aver instaurato un regime democratico,
tutti gli ulteriori progressi dovrebbero essere lasciati al libero corso della
democrazia verso modalità di gestione dell'economia e convivenza civile sempre
più giuste. Non bisogna dimenticare che Kautsky era stato il protagonista del
congresso di Erfurt (1891) del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD, che
riuniva tutti i socialisti tedeschi). In tale congresso era stata stabilita la necessaria
convivenza, entro il progetto politico del partito, di un programma massimo,
rivoluzione sociale e ribaltamento repentino dei rapporti di classe, come aveva
indicato Marx, e di un programma minimo, le lotte economiche per il
miglioramento delle concrete condizioni operaie nel presente.
Ciò aveva generato una peculiare
contraddizione tra un partito che in campo dottrinale/teorico si dimostrava
fedelissimo a Marx (programma massimo), e che di fatto, nella pratica, con la
fine delle leggi antisocialiste di Bismarck, veniva accolto nella legalità e si
disponeva a diversi compromessi col regime esistente, pur nell'intento di
democratizzarlo (programma minimo). Si trattava di una evidente dissociazione
tra teoria e pratica (una teoria rivoluzionaria e una pratica riformista).
Riformisti e rivoluzionari tra
teoria e prassi
A tale dissociazione reagiscono i
revisionisti di Bernstein che vogliono renderla coerente dal lato della
pratica, modificando la teoria in senso riformista ("Se la pratica è
riformista bisogna rendere riformista anche la teoria"); dal canto loro, i
marxisti ortodossi vogliono risolverla dal lato della teoria, rendendo pratica
coerente con la teoria e puntando a che l'azione diventi rivoluzionaria (“Se la
teoria è rivoluzionaria, bisogna rendere rivoluzionaria anche la
pratica").
Kautsky e Rosa Luxemburg
Ma c'è dibattito anche nel gruppo
dei marxisti ortodossi in cui si oppongono
1) la prospettiva di Kautsky secondo
cui la lotta di classe non deve introdurre una dittatura del proletariato, ma
un regime completamente democratico (tutto va demandato alle assemblee elette
che rappresentano le esigenze e gli interessi popolari, e non alla dittatura di
un partito rivoluzionario e del suo gruppo dirigente). Dalla progressiva
democratizzazione della vita sociale ed economica, in modo automatico e quasi
fatale, sorgerà il socialismo;
2) la prospettiva di Rosa
Luxemburg e degli altri rivoluzionari dell'est europeo, come Lenin, che, pur
con diverse sfumature, ritengono che la rivoluzione debba distruggere
completamente e dalle fondamenta il capitalismo anche nella sua versione
democratica (che rimane pur sempre gestita e guidata dalla borghesia). Kautsky,
aspettando il socialismo dagli sviluppi della democratizzazione del regime
capitalistico, pecca di fatalismo. Al contrario i marxisti come la Luxemburg e
altri non perdono mai di vista il fine del movimento operaio, la rivoluzione
anticapitalista, il suo protagonista, il proletariato industriale, e la sua
strategia rivoluzionaria.
Tutti, malgrado queste
differenze, in ogni caso rimarranno fedeli, sotto il profilo filosofico, al
contenuto materialistico, razionalistico ed hegeliano del marxismo.
I latini e Sorel: un terzo
incomodo
Nel medesimo ambito marxista, si svilupperà
tuttavia un nuovo disomogeneo gruppo, che potremmo chiamare “i rivoluzionari
latini”, cioè di nazionalità francese e italiana, il cui rappresentante più
famoso diventerà Georges Sorel. Dopo aver intrapreso la carriera di ingegnere
civile, ritiratosi dalla professione nel 1892, egli comincia a occuparsi di
filosofia, storia, scienze sociali e politica. Tra il 1893 e il 1897 il suo
orientamento marxista lo induce a partecipare al dibattito sulla revisione
della dottrina di Marx ed Engels, offrendo un’interpretazione volontaristica e
antipositivistica del socialismo, secondo la quale alla rivoluzione proletaria
avrebbero condotto la volontà e la capacità di azione del proletariato, e non una
più o meno rigida necessità storica. Sempre più critico verso i partiti
socialisti e le loro tendenze parlamentari e riformistiche, Sorel compie tra il
1905-08 il tentativo di recuperare la sostanza rivoluzionaria del socialismo,
fuori della cultura positivistica della socialdemocrazia europea, quella che
mischiava speranze di palingenesi sociale e fiducia nel progresso tecnologico
secondo un andamento lineare della storia dal peggio al meglio, quasi affidando
ai processi immanenti della storia la possibilità di emancipazione delle masse
operaie. Fedele al suo attivismo rivoluzionario e all’idea marxiana della
violenza come levatrice della storia, egli finisce per individuare nella guerra
di classe il nucleo vitale del socialismo e diviene sostenitore di una
prospettiva sindacalista rivoluzionaria. Il sindacato è considerato il
principale soggetto rivoluzionario perché organizza le energie proletarie che si
manifestano nella concreta prassi di ribellione allo sfruttamento delle
fabbriche e del lavoro. A muovere e a incanalare la rabbia proletaria devono
esserci dei miti, cioè delle narrazioni che strappano l’uomo a se stesso e lo
inducono ad agire. Al vertice dei miti rivoluzionari vi è quello dello
«sciopero generale», inteso come strumento di educazione e di lotta (Réflexions
sur la violence, 1908). L’idea di un dinamismo energetico ed aggressivo, al
quale sottomettere la ragione e la prudenza, comporta una nuova concezione
della politica in cui l’agire è considerato primario e indispensabile: una
mistica dell’azione che non dispiacerà ai futuristi. Ormai estraniatosi dal
socialismo ufficiale, Sorel si impegna a percorrere nuove vie di azione rivoluzionaria,
accostandosi all’Action Française e collaborando alla rivista nazionalista
L’indépendance (1911-13), cui lo avvicinavano le comuni convinzioni
antiliberali, avverse alla democrazia parlamentare, ai suoi fondamenti
filosofici ed etici. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si ritira dalla
vita politica per dedicarsi agli studi filosofici, rivolgendo nuovamente le sue
speranze verso la rivoluzione bolscevica e mostrando un curioso interesse verso
il fascismo nascente.
Un’altra revisione di Marx
Complessivamente si può dire che
con Sorel e gli altri socialisti “latini” si determinerà una revisione del
marxismo in grado di andare oltre le posizioni in campo fino all’inizio del
Novecento. Infatti, mentre i marxisti tedeschi e orientali fanno il possibile
per non rinunciare alle dottrine economiche di Marx sullo sviluppo del
capitalismo e sulle sue contraddizioni, così come al suo impianto
deterministico, legato cioè allo sviluppo necessario della storia secondo
ferree leggi dialettiche verso la rivoluzione e la società senza classi, i
“latini” vogliono rivedere il marxismo, anzitutto riconoscendo gli errori
economici di Marx e i difetti del suo materialismo.
In questo campo risulta
importante la critica della teoria del plusvalore portata dall'economista
austriaco Eugen Ritter von Böhm-Bawerk (1851-1914) nel suo volume Capitale e
interesse sul capitale (1884). Tale critica prosegue in Zum Abschluss
des Marxschen Systems (La fine del sistema marxiano, 1896) mediante
la sottolineatura di alcune contraddizioni all’interno della maggiore opera
marxiana, Il Capitale, su temi economici rilevanti come valore,
profitto, prezzo. Quanto a tale ultimo argomento, esiziale è agli occhi di
Böhm-Bawerk la sottovalutazione del processo di domanda e offerta nella
determinazione del prezzo, tema fondamentale per comprendere i processi
economici propri del capitalismo. A questa critica si associa nel socialismo
“latino” il peso del grande studioso italiano Vilfredo Pareto che, pur non
avendo aderito al marxismo, è ricercatore ascoltato anche in ambienti
socialisti. Costui si dedica a ricerche di economia matematica (Corso di
economia politica - 1897-98) e in sociologia è noto per la teoria della
circolazione delle élites, secondo cui in ogni società le minoranze al
potere si rinnovano continuamente a causa della degenerazione di coloro che vi
appartengono e dell'ascesa di elementi superiori ed eccellenti formatisi
all'interno delle classi sociali subordinate (Trattato di sociologia
generale - 1920). Ebbene, Pareto difende la libera concorrenza come fattore
di sviluppo, ritiene che si debba limitare l'intervento dello Stato nel campo
economico e considera erronea la visione marxista della storia.Sono suggestioni
critiche importanti che si associano a quelle di un altro attento studioso del
marxismo, di scuola liberale, come Benedetto Croce, filosofo idealista e protagonista
di primissimo piano della prima metà del Novecento filosofico e culturale
italiano, che parimenti insiste sull'inconsistenza della teoria del plusvalore,
pur riconoscendo la pregnanza dell’interpretazione economica della storia
proposta dal filosofo di Treviri.
Un liberalismo di classe
Tali piste di approfondimento
ricche di spunti critici originali e provocatorii costituiscono un milieu
importante per il socialismo soreliano che rifiuta Marx come economista e ne fa
un sociologo della violenza cioè un teorico della rivolta violenta e della
conquista violenta dello Stato da parte della classe lavoratrice oppressa. Di
qui viene il sindacalismo rivoluzionario che ambisce a restituire ai lavoratori
la guida della società, espropriandone la borghesia e dando vita a una sorta di
liberalismo di classe: la classe operaia conquista il potere, mantenendo, tuttavia,
il sistema del libero mercato. Tutto ciò affonda le sue radici nella
constatazione, già formatasi, come si è visto, negli ambienti revisionisti e
riformisti di Bernstein, che le previsioni economiche di Marx non si sono
avverate e il capitalismo non produce da sé i germi della sua distruzione. Segue
una siffatta consapevolezza, però, non l’adeguamento quietista alle condizioni
del capitalismo “vittorioso” nella speranza di renderlo meno pesante per la
classe operaia, bensì l’idea secondo la quale è necessario promuovere artificialmente
la rivoluzione, portando alla massima esasperazione il conflitto di classe e
rifiutando ogni compromesso in nome dei bisogni immediati del proletariato
(come avevano fatto i riformisti che ai bisogni immediati del proletariato
avevano sacrificato la stessa rivoluzione proletaria).
Il mito, non la struttura
Così nasce il peculiare
revisionismo rivoluzionario di Sorel. Esso si connota per l’accento posto sulla
radicalità del conflitto di classe: la cui esasperazione non è il prodotto di
condizioni strutturali, che di per sé sono cieche e mute, ma su miti sociali e
cesure psicologiche e morali. Bisogna lavorare sulle convinzioni delle masse
fornendo miti, immagini e parole d'ordine che, mostrando la malvagità del
sistema di oppressione capitalista, spronino alla lotta e alla battaglia. La
lotta di classe diventa allora un’etichetta che esprime diversi contenuti:
vitalismo (esaltazione delle energie vitali e della forza espansiva dell’esistenza
che si afferma e domina il suo ambiente); intuizionismo (rifiuto dei processi
razionali ed esaltazione delle intuizioni immediate che colgono la verità in
modo non discorsivo e predispongono verso l'azione); pessimismo (la storia non
va verso il meglio, ma tende a produrre
decadenza se l'uomo non si oppone con le sue forze); volontarismo (non
l'intelligenza governa i destini dell'uomo e cambia la storia, ma la sua
volontà); culto dell'energia e del gesto eroico. Qui parte importante hanno i filosofi
francesi Henry Bergson - teorico dello slancio vitale e del valore
conoscitivo ed esistenziale dell’intuizione – e Gustave Le Bon studioso di psicologia delle masse – secondo cui le folle sono mosse dalle emozioni e non
dalla ragione e le emozioni sono evocate da miti e sistemi di immagini
piuttosto che da discorsi coerenti e razionali.
Ma per Sorel e il sindacalismo
francese, che presto fa capolino anche in Italia, essere rivoluzionari
significa anche non rifiutare le leggi del mercato che ovunque sono cogenti se
si vuole emanciparsi dal bisogno, bensì liberarsi dalla sovrastruttura
democratico-liberale vera e propria radice di ogni oppressione e di ogni
decadenza morale e civile.
Dal sindacalismo
rivoluzionario al fascismo
I principi testé delineati
portano alla costruzione dell’edificio dottrinale fascista in due tappe: 1) la
nascita di una nuova teoria rivoluzionaria che considera la rivoluzione
l’effetto di una mobilitazione di massa fondata su miti trainanti e non su leggi
economiche; 2) la sostituzione del primato del proletariato con quello della nazione:
non una classe, ma la nazione intera, mobilitata dai miti della sua grandezza e
della sua potenza, potrà distruggere gli involucri istituzionali del passato e
dare vita a nuove forme di Stato e convivenza civile. Tale visione possiede un
singolare rapporto con il revisionismo riformista. Da un lato vi si accorda nel
ritenere che il capitalismo (=libero mercato e libera impresa) sia un fattore
di progresso sociale, dall’altro vi si allontana perché ritiene che la
socializzazione della proprietà con la progressiva cancellazione o limitazione
di quella privata non sia l'obiettivo dell'azione politica e che il liberalismo
politico, anche se democratico, vada rifiutato nettamente. Infine, per quanto
attiene alla prassi, un'élite organizzata proveniente dal proletariato
urbano sarà l'unico agente del cambiamento, organizzato mediante il sindacato e
non mediante un partito di politici professionisti, in attesa del successivo passaggio
nazionalista.
Dalla classe alla nazione
Infatti, all’inizio, il sorelismo investe su
strutture sindacali pre-esistenti, poi dà luogo a un suo specifico modello di
organizzazione sindacale. Tuttavia, se in Italia e in Francia alla fine degli
anni Dieci c'è un quadro teorico e un’organizzazione sindacale (i sindacalisti
rivoluzionari), la rivoluzione nondimeno non arriva. Ciò conduce a rilevare i
limiti della fiducia nel proletariato come classe rivoluzionaria. Infatti,
sulla scorta di Le Bon ci si rende conto che il proletariato è una folla e la
folla è per sua natura conservatrice, tanto che non è lecito aspettarsi dal
proletariato l'auspicata rivoluzione antiborghese. Pertanto, in mancanza di
ipotesi ad hoc per difendere la teoria di Marx di fronte alla sua
falsificazione storica, risulta necessario individuare un nuovo agente
rivoluzionario. Tale agente è da identificarsi nella grande forza in ascesa del
mondo moderno: la nazione. Ciò viene compreso già prima della Grande Guerra e
porta i soreliani a cavallo del conflitto verso il fascismo. Ma ciò avverrà
grazie all'incontro col nazionalismo che sarà aiutato ad acquisire la
consapevolezza secondo la quale nazione avrebbe ritrovato la sua integrità solo
inglobando il proletariato, e quindi mettendo al centro del proprio progetto
non solo gli ideali patriottici e di appartenenza comunitaria ma anche la
questione sociale. Così da una parte si avrà un socialismo non classista e
aperto a tutta la collettività, dall'altra avremo un nazionalismo che, rescissi
i legami con gli ambienti conservatori, si presenta come sostenitore e fautore
dell'unità e dell'unanimità. Tutto ciò alla fine rende più efficace la lotta
contro la democrazia borghese in vista dell’avvento di una nuova aristocrazia
di produttori, alleata di una gioventù ansiosa di agire, avente come criteri la
virilità, l'eroismo, il sacrificio. Questa nuova élite farà propria la
forza mobilitatrice di immagini e simboli e riterrà la violenza fonte di una
sublime distruzione delle forme decrepite del passato ed energia di
edificazione di nuove istituzioni.
Il ruolo della guerra
La Grande Guerra svolge un ruolo
determinante nella cristallizzazione dell'ideologia fascista. Essa darà prova
della capacità di mobilitazione del nazionalismo e aprirà nuovi orizzonti sulle
potenzialità dell'economia di mercato posta al servizio della nazione stessa
mediante una contemporanea pianificazione generale, diretta con mano ferma e
finalizzata alla mobilitazione totale di tutte le energie produttive. Dalle
dinamiche del conflitto emergerà la potenza dello Stato, fondata sull'unanimità
spirituale delle masse che chiederanno un capo all'altezza, la loro permanente
mobilitazione e la loro completa nazionalizzazione. Al tempo stesso la guerra
fa risaltare la debolezza intrinseca di ogni internazionalismo, spazzato via
non appena le patrie faranno appella alla sacralità della loro vita e della
loro identità.
Insomma, la guerra offre la
conferma empirica delle teorie che già prima del suo scoppio circolavano in
pubblicazioni soreliano-nazionaliste (in Italia La lupa, o in Francia i Cahiers
du Circle Proudhon). Sin dall’inizio del secolo in Italia si era formato un
primo nucleo concettuale del fascismo in costante riferimento a Georges Sorel
di cui Agostino Lanzillo pubblica una prima biografia intellettuale. Nel 1905
idee soreliane sono propagandate da Enrico Leone e Paolo Mantica nella rivista "Il
divenire sociale". Dal 1906 la rivista Pagine libere di Angelo
Oliviero Olivetti difende posizioni sindacaliste rivoluzionarie con accenti già
nazionalistici. Nel 1908 dopo l'espulsione dei sindacalisti rivoluzionari dal
PSI, l'incontro con i nazionalisti diviene quasi obbligato e avverrà proprio
grazie alla rivista "La lupa" che riunisce per la prima volta i
nazionalisti legati a Enrico Corradini e i teorici del sindacalismo
rivoluzionario ivi compreso Roberto Michels, sociologo esperto studioso dei
partiti politici che con Pareto e Mosca porterà al fascismo l'avallo delle
scienze sociali. Durante la guerra di Libia (1911) già si elabora la visione
interventista della guerra come occasione rivoluzionaria di rinnovamento morale
e spirituale (cui non è estraneo lo straordinario intervento del socialista
Pascoli con il discorso “La grande proletaria s’è mossa”). Dalla fine del 1912
su L'Avanguardia socialista Arturo Labriola accoglie la dottrina della
violenza proletaria di Sorel e diventa faro ideologico del sindacalismo
rivoluzionario.
Dopo la guerra mondiale il
sindacalismo rivoluzionario si evolve in sindacalismo nazionale e
interclassista (Sergio Panunzio, 1921), ma già del 1904-5 Mussolini è in
contatto con Olivetti, Panunzio, Alceste De Ambris, Filippo Corridoni. Con
questi teorici e militanti il direttore de "L'Avanti" (quotidiano del
PSI) polemizza, però su questioni di tattica rivoluzionaria, non su tematiche
ideologiche, riconciliandosi nel 1912 e ospitandoli sulla sua rivista
"Utopia". In quello stesso periodo matura la crisi spirituale del
capo romagnolo che, in occasione del conflitto mondiale, verrà riportato dalla
stessa parte della barricata dei sindacalisti rivoluzionari. In tale occasione
egli potrà apprezzare la potenza di mobilitazione del nazionalismo, una novità
nell'asfittico ambiente del socialismo italiano, addomesticato e addormentato
dall'opera di istituzionalizzazione messa in atto da Giolitti. I sindacalisti
rivoluzionari e i teorici transalpini, tra cui Sorel e anche il socialista
cattolico Peguy, lanciano invettive contro il socialismo riformista di Jaurés e
il suo decadente parlamentarismo e costituiscono per Mussolini provocazioni estremamente
significative e formative.
Sin qui la riflessione di
Sternhell nel testo che abbiamo preso in considerazione.
Poi, mi viene da aggiungere,
ci saranno Nietzsche, D’Annunzio e Fiume a completare il quadro, e poi Gentile
e Volpe, nottole di Minerva che ricollocheranno questa storia particolare in
quella generale dell’Italia e del Risorgimento. Qui si intreccia la storia
dell’antifascismo serio e in taluni casi anche eroico. La Resistenza, da scrivere con la maiuscola, è
la contestazione radicale della legittimità risorgimentale del Fascismo, e la
rivendicazione di un altro Risorgimento. Il conflitto che ne nasce, dunque, va
visto sullo sfondo dell’unità di un solo problema, il problema dell’unità
d’Italia e del destino che, unendosi, la nostra patria si è voluto dare. Ciò che ha
diviso la nostra nazione è la stessa cosa che la unisce. Forse qui c’è una
speranza per il futuro.
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.
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