La sovranità, secondo la classica
definizione di Jean Bodin, è “il potere assoluto e perpetuo di una Repubblica”
che a sua volta è “un governo giusto di più nuclei familiari e di ciò che è
loro comune”. La ragione democratica non toglie la definizione del monarchico Bodin, ma la
arricchisce con la dottrina del potere per natura illimitato del popolo quando
costituisce lo Stato, appunto il pouvoir constituant. Questo
cortocircuito tutto francese tra una prospettiva monarchica e una popolare è il
cuore tra Ottocento e Novecento del nazionalismo. Al centro v'è anzitutto l’idea di una sovranità che o
è propria o è altrui. Non si condivide, non si spartisce, perché dove non
comandi tu, comanda un altro, tertium non datur: è la grande intuizione del pensatore dei Six Livres de la République (e di Hobbes). Poi fa capolino anche la consapevolezza che il potere scaturisce da una volontà comune, che
è un’essenza che si esprime immediatamente dal e nel popolo riunito,
materialmente o idealmente. Le istituzioni devono a tale essenza la loro
vita: questo è il contributo schiettamente democratico. Non temo qui di citare Rousseau…il
grande avversario di tutti i dispotismi che non fossero razionali, nazionali e
popolari, cioè che non fossero la forma dispotica che un popolo dà a se stesso,
contro le sue stesse mollezze e i suoi stessi limiti.
Il nazionalismo respira
costantemente con questi due polmoni. E oggi si esprime, correttamente come sovranismo.
Il sovranismo è al tempo stesso la cura del Sé popolare e l’affermazione della
volontà ab-soluta del popolo medesimo. Quindi lotta contro due derive, quella
élitistico-tecnocratica e quella liberale- rinunciataria; cioè, per un verso,
non vuole che la sovranità sia tolta al popolo, perché in ciò ne andrebbe della
sua stessa identità storica e spirituale e, per l’altro, rifiuta la logica
della condivisione, della compartecipazione, della collegialità e della
rinuncia, perché questi non sono altro che nomi diversi per il comando altrui.
Mi sono permesso di anticipare una piccola premessa al tema della mia breve recensione all’ottimo testo di Leonardo Giordano, Sovranità italiana. Il
cammino di un’idea da Virgilio ai giorni nostri, Giubilei Regnani, Roma
2021, perché credo sia questo il tema fondamentale dello scritto: la sovranità
come identità popolare e l’identità popolare come sovranità, due elementi in costante
azione reciproca, oggi inseparabili e impensabili fuori dalla loro intima
relazione. Giordano ha il merito di evidenziarla, ma anche di situare tale
dinamica sovrano-identitaria nella storia della nostra nazione. “Situare”:
questo senso della particolarità situazionale della politica la mantiene
lontano dai rischi giacobini di costruire una teoria astratta del potere e del
governo. Non c’è una sovranità di cui si possa parlare a priori. Uno dei meriti
dell’Autore è che la sua costruzione è rigorosamente politica, cioè a
posteriori, cioè dentro la vita, dentro la concretezza storico-spirituale di
una nazione, l’Italia.
L’Italia ne emerge come un’esperienza:
fondamentale e irrinunciabile insegnamento. Hanno in certo modo ragione i
detrattori dell’idea di nazione quando dicono che la nazione non esiste ma è
una selezione di ciò che conviene alla sua stessa idea. L’Italia non
esisterebbe nella storia. Sarebbe un’invenzione degli italiani che avrebbero
cercato a ritroso le testimonianze che confermassero il loro pregiudizio ... nazionale.
Cioè sarebbe appunto il premere di un’esperienza, la vita stessa che pone la
domanda sulla propria arché, un quesito che, però, non si può ricacciare nell’oblio,
che si deve svelare e financo inventare. Ma tale inventio non può che
essere un ri-trovamento. L’operazione intellettuale di Giordano è un’opera
squisitamente risorgimentale di ri-trovamento. Gli autori, profeti,
anticipatori, precursori, erano lì, anche loro nel medesimo gesto di ri-trovare
una patria italiana. Tutti uniti in un grande anelito. E cos’è la patria se non
“una bambina dalla voce e dai piedi nudi/un germoglio d’infanzia nel sud
ventoso/nella sua mano destra riposa quella dell’angelo e nella sua sinistra la
mano tentatrice del vento”? (Leopoldo Marechal, Scoperta della patria,
tr. it. di M .Maraviglia, https://www.destra.it/home/la-patria-e-un-dolore-non-ancora-battezzato-i-versi-di-leopoldo-marechal-il-cantore-del-peronismo/).
Tutti siamo nella condizione dei nascituri quando andiamo alla ricerca di noi
stessi, tutti, si parva licet, vogliamo rinascere dall’alto delle
nostre radici che sono nella terra angelica del nostro futuro, tutti ci porta il
vento di una rivoluzione “radicale” sempre a venire, sempre da immaginare e da
sperare.
Il libro di Giordano ci presenta
altrettanti luoghi in cui ritrovarci, in cui re-inventarci, in cui ri-nascere e
ri-sorgere: Virgilio e Dante: Italia di terra e di cielo, delle radici latine e
dell’endecasillabo volgare, nuovo e definitivo orizzonte linguistico comune. Non
possono che essere loro ad aprire le danze che vedranno protagonisti nomi
obbligatori e ineludibili come Manzoni, e imprevedibili intrusi come Lomonaco
(la storia del patriottismo lucano è tutta da scrivere, anzi da divulgare: un
oscuro professore di Potenza, Giovanni Boccia, ne ha redatto alcuni capitoli con
l’acribia del matematico e l’encomiabile passione di un mazziniano del
Novecento). Poi ci sono i personaggi di un secolo tormentato che ha visto la
patria trionfare e morire: il grande giurista Costamagna, lo storico Gioacchino
Volpe, il filosofo Giovanni Gentile. Interessante è la presenza nella
carrellata dedicata alle pietre miliari del sovranismo italiano, di una serie
di figure straniere. Il sovranismo patriottico e nazionale è tutt’altro che un
occhiuto provincialismo. Nessuno può capire un patriota se non un altro
patriota, e ai patrioti italiani serve moltissimo il patriottismo altrui. Non
si tratta evidentemente di tifare per lo straniero, per l’amico-alleato-padrone
di turno. Chi vende la patria all’Impero degli altri è solo servo. Si tratta
invece di dialogare con la passione altrui, in un confronto che dà vita a una
comunità di innamorati. L’insieme dei patrioti, infine, come diceva Mazzini,
attraverso l’appartenenza di ciascuno salva l’umanità intera, trasformandola da
piatto dominio dell’indifferenziato a moltitudine di colori sgargianti che si
incontrano e si scontrano e, incontrandosi e scontrandosi, si esaltano e
fecondano a vicenda. Quindi non stonano tra Vincenzo Cuoco ed Enrico Mattei
(grande martire della sovranità economica), un De Gaulle (perdonato per il
brutto affaire Brasillach – il tuo paese a volte ti fa male) e un Wojitila,
teologo delle nazioni che significativamente lamenta: “Accade spesso che una Nazione
viene privata della sua soggettività, cioè della “sovranità” che le compete nel
significato economico e anche politico-sociale e in un certo qual modo
culturale, perché in una comunità nazionale tutte queste dimensioni della vita
sono collegate tra di loro”. Infine, tra gli altri, tra coloro che amano la patria finendo
a volte per amare la tua patria, trova posto anche uno studioso spagnolo a
sottolineare la speciale fratellanza che vi è tra Italia e Spagna, già
espressasi nel ruolo speciale che Carlo V, Filippo II e Filippo III avrebbero
affidato alla Penisola dentro l’universo dell’impero cattolico spagnolo. Si
tratta di questioni a me molto care. Credo che una via spagnola, o ispanico-italiana, alla modernità avrebbe rappresentato una validissima alternativa alla tragica
opzione anglosassone che poi si è realizzata: l’excursus di Giordano sull’opera
dell’insigne storico spagnolo Francisco Elìas De Tejada, lo dimostra ad
abundantiam.
Ma accanto ai personaggi vi sono
anche i temi: sovranità e patriottismo culturale, educativo, economico,
energetico, e financo ludico e dell’intrattenimento. Insomma: una carrellata importante
fatta di ritratti originali e profondi e di trattati altrettanto in grado di
aprire squarci nuovi e nuove visioni sulla nostra identità nazionale e
popolare. È l’opera di un uomo di solidissimi basi e vasti orizzonti culturali,
dove, meritoriamente, non si fa dell’ideologia, non si difendono tesi precostituite,
ma si mettono insieme in un ordine plausibile, benché in divenire, mattoni di
disparata provenienza, ma di grande solidità.
“Non è la patria/ il comodo
giaciglio/per la cura e la noia e la stanchezza;/ ma nel suo petto, ma pel suo
periglio/ chi ne voglia parlar/ deve crearla”. Così si esprimeva l’amato Carlo
Michelstaedter, pure citato e giustamente valorizzato da Giordano. E la creazione
della patria è l’opera grande dei suoi uomini, che offrono alla propria
comunità la speranza di radice profonde intoccabili dai ghiacci, di una libertà
sovrana che distrugge ogni catena, di un amore definitivo che sulla terra già
ci fa appartenere al cielo.
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Grazie, Massimo. Molto belli
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