martedì 5 agosto 2025

Il sex appeal dell'indistinto. Un romanzo di J .J. Saer



Juan José Saer, Il testimone, La Nuova Frontiera, Roma 2023, pp.186, E. 16,90

 Un quindicenne, imbarcato in una nave spagnola come mozzo, approda al Nuovo Mondo. Arrivato alla foce di un fiume, sbarca insieme ad alcuni compagni, mentre il resto dell’equipaggio si mantiene prudentemente all’ancora, e viene attaccato da una tribù di cannibali. Le frecce avvelenate degli indios sterminano rapidamente il gruppetto, ma lui misteriosamente viene mantenuto in vita. Diventa ospite fisso del villaggio e piano piano giunge a capire lo stile di vita degli indigeni, non senza assistere al rito cannibalico, che scopre avere cadenza annuale, dapprima con i suoi compagni di viaggio, poi, nel prosieguo della sua permanenza con diversi soggetti, appartenenti alle tribù confinanti. Esso coincide sempre con il pasto di carne umana arrostita, seguito da un abbondante libagione di distillato alcolico e poi dallo scatenamento degli istinti sessuali, con accoppiamenti singoli e di gruppo, segnati da violenza distruttiva ed autodistruttiva, che sovente portano i protagonisti a subire conseguenze fisiche permanenti oppure a morire. Dopo tale evento, fatto di ingordigia alimentare e sessuale, di ubriachezza e di sfrenatezza, la tribù torna a una quotidianità seria, monotona, fatta di compiti da svolgere e di attività lavorative di ogni tipo, portate a termine con attenzione e acribia particolare … L’ospite europeo si trattiene per un decennio come  osservato e, al tempo stesso, osservatore, imparando poco a poco lingua, usanze e soprattutto, diremmo, la spirito e il carattere collettivo della strana società presso la quale si trova a vivere. Tutto ciò fino al momento viene rispedito su una canoa verso una nave spagnola che nuovamente si affaccia alla foce del fiume. Tornato in patria, l’esperienza segnerà il resto della vita del giovane, che farà una discreta fortuna e potrà incontrare persone che lo istruiranno e gli permetteranno di adornare i suoi ricordi con una coscienza e una riflessione sempre più matura. La sua vicenda sudamericana lo seguirà con dolcezza ossessiva e disincantata: in vecchiaia deciderà di metterla per iscritto, maturando la sua interpretazione della filosofia implicita e di una ipotetica costellazione dei significati della vita degli indios. Così il Nostro giunge alla conclusione che essi concepiscono il mondo come una precarietà incombente, che solo il lavoro umano può puntellare, così come reciprocamente solo il mondo può sostenere la precarietà della vita umana. Pertanto vivere non può significare che sostenere, riparare, ristrutturare l’ambiente circostante, destinato altrimenti a un’irrimediabile entropia. Il disordine di un divenire oscuro e senza senso minaccia costantemente. Dunque bisogna lavorare con la massima serietà, sia al proprio sostentamento sia al mantenimento delle cose, degli utensili, dele capanne, e di tutto quanto l’umano ingegno avesse per un attimo strappato alla natura. Il lavoro diviene un compito diffuso in una comunità che vi si dedica in modo consapevole ed egualitario, seguendo procedure consolidate per prendere le poche decisioni necessarie a organizzare la vita quotidiana, in un contesto dove non si determina alcuna gerarchia sociale. Nessuna particolare credenza religiosa segna la vita della tribù, se non un’ossessione del permanere, un culto dell’essere di fronte al divenire, di cui il protagonista ospite, deve diventare testimone privilegiato. Perciò ognuno vuole consegnare alla sua memoria un tratto di sé, una evidenza, un che di incrollabile, benché a volte banalissimo, che riassuma nella memoria del testimone stesso il proprio essere o essere stato in un mondo altrimenti destinato alla consunzione nell’indistinto, nell’irrazionale scorrere di tutto verso la notte, diremmo con Hegel,  in cui tutte le vacche sono nere. Come se gli sforzi prolungati per mantenere in ordine le cose avessero bisogno di essere raccontati e attestati da qualcuno, per non scomparire nella corrente del fiume. Che tale forza della notte incomba , peraltro, con il suo tragico portato nichilistico, tanto da bussare con insistenza alle porte della vita, fatta altrimenti di seria, costante e monotona dedizione al proprio compito, lo conferma il rito annuale e l’annuale scatenamento delle forze infere del piacere incontrollato, e dell’istinto naturale-bestiale fino a quel momento tenute a freno con grande profusione di energie sublimatrici. Il testimone non può far altro che assistere, assolvendo al suo compito di spettatore ricettacolo, anch’egli provvisorio ed effimero, dell’essere, mentre la tribù finalmente sconfitta dal divenire torna nella routine a vivere la sua diuturna e impari lotta.

Noi partecipiamo del viaggio, noi viviamo questo mistero tremendo di un non senso fondamentale che aleggia sulla vita degli indios e sulla nostra, fidando solo nel racconto che fissa più i dubbi e le domande che non l’essere agognato e perduto della tribù. Un racconto di cui l’autore Juan José Saer ci rende partecipi, forse sovrapponendo alla vita dei protagonisti, la vita contemporanea, e al loro mondo la direzione entropica e nichilistica del nostro, fatto di cannibalismo simbolici e di sfrenatezza dei sensi, cui si contrappone la serietà irresistibile del sistema del lavoro e della produzione. Solo che noi non abbiamo un testimone cui consegnare la nostra vita, dandoci l’illusione di qualcosa che possa sfuggire al mortifero sex appeal dell’indistinto che il nostro ordine civile, così come quello degli indios immaginati da Saer, è alla fine incapace di contenere, rappresentando il lato oscuro di una dialettica di luce-oscurità senza sbocchi, senza fine e senza direzione.

lunedì 21 luglio 2025

Blossio di Cuma, filosofo e politico

 


Fernando La Greca, Tiberio Gracco e Blossio di Cuma. Filosofia e politica a Roma nel secolo degli Scipioni, Licosia edizioni, Ogliastro Cilento 2016, pp. 145, E. 18

 

Tiberio Gracco fu tribuno della plebe nella Roma repubblicana della prima metà del secondo secolo a. C. Il suo destino politico è legato alla Lex sempronia con cui redistribuiva le terre di pubblico dominio (ager publicus) espropriando coloro che se ne erano accaparrati una porzione maggiore di  500 iugeri, la cui parte eccedente sarebbe stata divisa tra i cittadini più poveri, e al contempo confermando nella proprietà coloro che ne possedevano un’estensione minore. Si tratta di una misura rivolta a ingraziarsi la plebe romana ma anche gli italici che avevano servito Roma senza avere ufficialmente ricevuto una ricompensa idonea, rimanendo solo ufficiosamente detentori di una porzione di terra sufficiente al sostentamento loro e della famiglia. In generale erano pochi in Italia coloro che possedevano più di 500 iugeri, così che la legge sembrava destinata principalmente  a rendere fedeli a Roma quei membri della piccola borghesia rurale, i cosiddetti possessores,  assai importanti sotto il profilo politico-militare, ma oggetto di disinteresse da parte delle élites dell’Urbe. Così Tiberio con la sua legge avrebbe ottenuto un duplice effetto: “Da una parte si proponeva alla plebe romana una redistribuzione dell’ager publicus, lasciando che si immaginassero chissà quali eccedenze, dall’altra [...], prima di queste redistribuzioni,  si sistemavano come piena proprietà molte situazioni di possesso precario, forse migliaia, includendo e regolarizzando anche possessores latini e italici, e rendendoli così cittadini a pieno titolo”. In questo modo si sarebbe potuto “attenuare il divario tra le classi sociali [...] rafforzare la classe media con un redistribuzione delle risorse,  assicurando un lavoro dignitoso, possibilità di crescita e pari diritti alle masse popolari romane e italiche”. Tutto ciò è spiegato con documentatissima precisione da Fernando La Greca, nella prima parte del suo testo. Qui emerge un Tiberio certamente “popolare”, ma incline anche a valorizzare la piccola proprietà e gli alleati italici senza per questo poter evitare la furia degli optimates che temevano non solo le conseguenze a lungo termine della legge, ma anche il consolidamento e forse l’ulteriore espansione del potere dei Gracchi e del loro “partito”,  sostenuto dall’importante famiglia degli Scaevolae, e poi da un vasto consenso “di popolo” in tutta la Penisola. Dunque, come si può cogliere in un Sallustio ritradotto e rivisto, “la nobiltà colpevole e perciò atterrita proprio dagli alleati, dai Latini e dai cavalieri,  si scaglia contro i Gracchi”, e ordisce la congiura che nel giugno del 133 metterà fine alla vita del tribuno. L’immagine di Tiberio che si delinea dalla disanima di La Greca lo conferma perciò come politico accorto, innovatore, consapevole delle esigenze della Repubblica di allargare il bacino della cittadinanza per mantenere la pace sociale a Roma e in Italia e garantirsi nuove prospettive di espansione e di potenza. Insomma, di là dalla conclusione infelice della sua vicenda, si tratterebbe di una figura di rivoluzionario “realista” o di un ardito riformista, perfettamente a suo agio, tuttavia, nei meccanismi e nella cultura del potere romano.

Non estranea alle scelte del politico è la costante presenza al suo fianco di due figure interessanti: il retore Diofane di Mitilene e il filosofo Blossio di Cuma. Quest’ultimo, su cui si concentra l’Autore,  sembra offrire a Tiberio un quadro di giustificazioni etico-metafisiche alla sua prassi, rimanendovi legato ostinatamente anche al declinare improvviso e violento delle fortune del Gracco. Disgraziatamente del nostro filosofo non ci è stato trasmesso niente eccetto le testimonianze di Plutarco, Valerio Massimo e Cicerone. Da loro risulta che “Blossio, filosofo originario di Cuma fu discepolo ad Atene dello stoico Antipatro di Tarso, di cui conquistò l’amicizia e la stima; a Roma fu hospes degli Scaevolae ed ebbe una parte importante nei piani di riforma di Tiberio Gracco di cui fu probabilmente maestro e sicuramente amico fedele; dopo la tragica fine di Tiberio si recò in Asia minore presso Aristonico, il quale, aspirando al trono di Pergamo, aveva suscitato una rivolta contro Roma; allorché Aristonico fu fatto prigioniero dei Romani, Blossio si uccise”.

La Greca anzitutto fa parlare le fonti dirette, aggiungendovi qualche ulteriore testimonianza che potrebbe alludere a Blossio. Ma più o meno non si esce dalle notizie che abbiamo testé riassunto. Allora lo studioso campano opta per una strategia, diremmo, di accerchiamento, passando in rassegna tutti i contesti che possono gettare una qualche luce sul testo-Blossio. Si parte da un excursus sulle sue origini familiari  nella città di Cuma. Poi si affronta il rapporto generale tra lo stoicismo e la politica per vedere come esso trova una particolare declinazione nella riflessione del suo maestro Antipatro di Tarso. Di seguito si analizza lo stoicismo romano, contrapponendo la sua ala conservatrice che fa riferimento a Panezio, a quella rivoluzionaria del gruppo di Tiberio. Infine si affronta l’utopia eliopolita che probabilmente orienta ideologicamente il ribelle Aristonico che Blossio finisce per sostenere con un impegno diretto e definitivo.

Tale strategia di avvicinamento progressivo al nostro protagonista cumano, mediante tutto ciò che più o meno direttamente lo riguarda, parte dall’ unico dato teorico assodato: il valore assoluto dato da Blossio all’amicizia e la conseguente venerazione per l’amico Tiberio, assieme ovviamente al ruolo esistenziale e filosofico dell’impegno politico evidente dai dati biografici. Che cosa dunque aggiungere? Un’analisi dei retaggi familiari della gens Blossia, conduce a ipotizzare un preciso orientamento ideologico. I Blossii erano una famiglia proveniente da Capua, città tradizionalmente ribelle a Roma. Essi non solo condividevano tale orientamento ma lo promuovevano attivamente, distinguendosi nel 210  come guide di un fallito attacco al presidio romano della città, riconquistata da appena un anno, dopo la sua alleanza con Annibale del 215. Appartenenti alla fazione democratica e antiromana, i Blossii, si disperdono dopo la caduta della città e alcuni di loro si stabiliscono a Cuma, senza perdere una virgola delle loro convinzioni politiche. È interessante notare come i democratici potessero farsi portatori di una fierezza indipendentistica e nazionalistica, a fronte degli aristocratici che cedono ben presto a una solidarietà di casta e preferiscono passare dalla parte di Roma collegandosi con le élites dirigenti dell’Urbe. Nondimeno, di là da questo orientamento generale dei membri della gens, Cuma, a differenza di Capua, è fedele a Roma - e i suoi abitanti, quali membri di una civitas sine suffragio, a Roma non sono stranieri ma cittadini (municipes). Ciò consente al discendente Blossio di inserirsi nella clientela di Tiberio e di fare, diremmo oggi, politica attiva, portandosi dietro quel retaggio popolare che era appartenuto alla sua stirpe. A Roma egli giunge come filosofo già formato e forse con una certa fama. Già, infatti, aveva compiuto il suo cursus studiorum presso Antipatro ad Atene. La stima del maestro nei confronti dell’allievo è indubbia e ciò lascia supporre che il primo vedesse nel secondo un continuatore legittimo delle proprie dottrine e del proprio stile filosofico. In particolare nell’ambito di quella che oggi chiameremmo filosofia politica, se la tradizione stoica aveva evidenziato l’idea di un cosmopolitismo universale fondato sulla comune appartenenza degli uomini al Logos divino, ciò non esimeva il saggio dal prodigarsi anche in un presente ancora ordinato secondo una suddivisione dell’umanità in popoli e Stati. In questo quadro poteva essere superata l’apparente contraddizione della chiamata del saggio a servire lo Stato, mettendo a sua disposizione la conoscenza e la pratica della verità e della giustizia. Quindi, contrariamente ad ogni forma di “ritiro dal mondo”, per il filosofo stoico se è necessario passare a forme di convivenza sempre più razionali, è pure indispensabile partire dal dato di realtà di una pluralità di differenti organizzazioni politiche, per compenetrarlo di ragione in modo sempre più marcato. Di qui, sin dall’allievo di Zenone, Perseo di Cizio, e dal successivo Sfero di Boristene, l’invito all’impegno presso i re e le autorità per influenzarne la politica secondo principio etico-razionali.

Non estraneo a tale impostazione era Antipatro, il cui pensiero si connota di accenti particolarmente realistici quando associa al perseguimento del sommo bene, quello di beni intermedi che in qualche misura lo preparino e lo annuncino. In tale senso è significativa la distinzione tra due sostantivi che riguardano la sfera semantica del concetto di “fine o scopo”: skopos, cioè l’obiettivo esterno e diremmo oggettivo di un’azione e telos, l’azione morale che insiste sull’impegno personale nel realizzare l’obiettivo sottolineando il ruolo del coinvolgimento soggettivo nell’agire. Se bisogna colpire un bersaglio, le circostanze esterne “possono fare sì che il bersaglio sia colpito oppure no; ciò, tuttavia, non solleva il soggetto dal dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per colpirlo”. Blossio deve aver recepito tale prospettiva nel momento in cui tende sempre “a raggiungere anche obiettivi minimi in vista dell’ideale stoico di una comunità di eguali, a cominciare dalla redistribuzione delle terre nel progetto agrario di Tiberio e dall’eliminazione della schiavitù nella Eliopoli di Aristonico”, realizzando al contempo uno skopos reale e sociale, e il telos della quella concreta militanza politica che non teme sconfitte provvisorie e che nella quotidianità dell’impegno non perde di vista il fatto che il bene da conseguire non è solo squisitamente politico ma eminentemente etico e interiore. Su questo doppio binario non stupisce che Blossio abbia potuto non sentire lo stacco tra la ricerca filosofica e la dimensione dell’agorà. Qui Antipatro sosteneva particolarmente il valore della famiglia e del matrimonio per il bene e la continuità della patria, tema sul quale insiste Tiberio confortato non solo dalla tradizione romana, ma anche evidentemente dalla mediazione filosofica di Blossio, attento ad un bene intermedio assai rilevante per il complessivo miglioramento della vita comunitaria.

Recependo infine il dibattito tra Antipatro e Diogene di Babilonia sul rapporto tra l’utile e l'onesto, cioè tra una condotta strategica e spregiudicata e una consapevole di un valore intrinseco, universale e perciò obbligante dell’azione, Blossio deve aver su questo fondato quella sua peculiare intransigenza rivoluzionaria che qualcuno in secoli recenti avrebbe indicato con l’impegnativa parola “virtù”.

 Di qui anche  la radicale opposizione che lo stile di Blossio avrebbe incontrato presso i circoli conservatori degli Scipioni, legati allo stoicismo reazionario di Panezio, tutto potere e  proprietà privata. Al contrario il filosofo cumano potrebbe, senza alcuna forzatura, essere indicato come l’ispiratore di Tiberio, il maggior innovatore della politica romana, colui che aveva potuto retoricamente chiedere “se non fosse giusto che i beni comuni fossero divisi in comune, se un cittadino non fosse più autentico di uno schiavo, e se un soldato più utile di un non combattente, e se uno che avesse parte nei beni pubblici non fosse meglio disposto verso gli interessi dello Stato”. Il legame fra i due, cementato dalla comune passione popolare,  appare una sorta di destino che attraversa anche le altalenanti sorti della politica. Si può ben comprendere allora il resoconto di Cicerone, del tutto simile a quello di Plutarco: “[Blossio sostenne] di avere tanta stima di Tiberio Gracco da fare qualunque cosa egli volesse. Allora gli dissi ‘Anche se avesse voluto che tu dessi fuoco con le fiaccole al Campidoglio?’ ‘ Non avrebbe mai ordinato una cosa del genere - disse - ma se lo avesse fatto avrei ubbidito”.

Ebbene, conservando nel cuore quest’intimità fiduciosa e fedele, nel 133, alla fine dell’avventura del tribunato, Blossio fugge da Roma e si reca a Pergamo, altro luogo di rivolta e sperimentazione politica. Aristonico, pretendente al trono del regno ellenistico dopo la morte di Attalo III Filometore, che aveva nel testamento lasciato i suoi domini al popolo romano, si fa banditore nel medesimo territorio della costruzione di una nuova compagine politica, lo Stato utopico di Eliopoli. Qui sotto la sua sovranità caratterizzata da un’intensa devozione al Sole, dio benvolente ed egualitario, tutti, anche gli schiavi, avrebbero vissuto in una condizione di libertà, indipendenza, uguaglianza e prosperità.

 L’utopia eliopolita ha origini letterarie lontane, provenendo dal resoconto su una mitica “isola del sole”,  steso dal viaggiatore Giambulo (forse anch’egli invenzione poetica) e tramandato in forma di riassunto da Diodoro Siculo (90-30 a. C. circa) nella sua Biblioteca storica: “Gli abitanti di quest’isola utopica sono distribuiti in piccole comunità  che vivono in pace e armonia ; la loro massima divinità è il sole. L’isola abbonda per natura di frutti e animali, tuttavia tutti sono tenuti a lavorare, eseguendo a turno vari tipi di lavoro, per soddisfare le esigenze essenziali della comunità. Si dedicano anche ad attività culturali, specialmente all’astronomia. Le donne e i bambini sono in comune;  il più anziano è il capo della comunità; altre magistrature sono assunte da ciascuno a rotazione. Vivono fin oltre 150 anni e muoiono volontariamente addormentandosi sotto piante velenose. La caratteristica principale di questa ‘isola del sole’ è la completa uguaglianza fra gli abitanti: tutti lavorano [...], a turno assumono cariche civili e religiose [...] e infine non vi sono schiavi. Si tratta di un'utopia filosofico-letteraria, una descrizione di un paese immaginario, ma che pure presenta un’ ideale di organizzazione sociale e politica”. Non mancavano nel mondo greco elaborazioni simili e soprattutto la visione di Giambulo sembrava adattarsi benissimo alle prospettive politicamente egualitarie elaborate dall’antico stoicismo zenoniano. Non è poi da tralasciare il fatto che in Cleante, secondo scolarca stoico, esiste un’esaltazione del sole quale “principio fisico e spirituale del mondo, sovrano dispensatore di giustizia a tutti in parti uguali”. Quanto a Blossio, a tali tradizioni letterarie e filosofiche si aggiunga la diffusione del culto di Apollo a Cuma, ricco di simboli solari e componente fondamentale dell’orgoglio identitario della città.

È del tutto plausibile allora che Blossio, trasferendosi a Pergamo, abbia trovato terreno favorevole a una sorta di missione emancipatrice collegata con le riflessioni stoiche più politicamente ardite e con la letteratura utopica di cui si è detto. Di qui l’ulteriore spinta che può aver dato al progetto rivoluzionario di Aristonico, al tempo stesso egualitario e antiromano, diremmo oggi radicalmente democratico e nazionale.

Ecco dunque delinearsi l’immagine di un Blossio eroe dei due mondi, capace di spendersi ovunque si presenti un' occasione propizia e promotore di un' ideologia di rivolta sociale che è al tempo stesso una filosofia e una teologia politica. Qui gli aspetti egualitari giungono a fondersi con una dimensione di rivalsa popolare e indipendentistica, perché sia nel caso del passato capuano dei Blossii, sia nel caso dell’opposizione aristocratica a Tiberio, sia infine nella vicenda di Pergamo, una caratteristica mi sembra emergere dal preciso approfondimento di La Greca: le aristocrazie sono tendenzialmente internazionalistiche, cioè mostrano indifferenza all’eventualità che la comunità di appartenenza possa essere assorbita da una potenza straniera o non vedono, nel caso di Roma, l’utilità di una solidarietà interclassista dove l’appartenenza comune e una missione politica vissuta come ideologia mobilitante possa alimentare un ulteriore incremento della propria potenza. L’importante appare l'immutabilità del quadro e delle gerarchie sociali. Viceversa laddove vi sia una proposta di mutamento o financo rovesciamento delle suddette gerarchie, lì si diffonde anche una peculiare sensibilità per un destino comune, dove un certo orgoglio nazionale non manca di associarsi a percorsi di militanza politica di risveglio utopico connotati da grande afflato religioso e, nei circoli più consapevoli, filosofico-razionale.

 Caio Blossio di Cuma - filosofo dell’amicizia, promotore ovunque di una coscienza politica elevata, in cui il servizio alla comunità diventava un dovere assoluto delle élites e un principio etico che poteva ricondurre la convivenza sociale a una superiore e divina razionalità - sembra dall’ indagine preziosa di La Greca essere il crocevia di queste tensioni e tendenze. Pertanto, confortati  dall’idea crociana ed ermeneutica che ogni storia è storia del presente, corriamo volentieri il rischio dell'anacronismo dicendo che egli può dire molto alla nostra contemporaneità che ha irresponsabilmente cacciato le utopie sociali e nazionali nella spazzatura della storia, accontentandosi del grigiore di un presente monocratico e globalista sotto l’impero, certo a suo modo egualitario, ma innaturale,  violento, straccione e criminale, del denaro.

mercoledì 11 giugno 2025

Sotto portici dipinti. Una presentazione

 


"Sotto portici dipinti”: il titolo del libro fa riferimento alla stoà poikilè, il portico dipinto eretto all’inizio del V sec. a.C. nella parte settentrionale dell’agorà ateniese, al riparo del quale Zenone di Cizio (336/35-264/63), il fondatore di quella che per questo motivo sarebbe stata chiamata “scuola stoica”, amava discutere di filosofia e scambiare le sue acquisizioni con i compagni di avventura del suo itinerario teoretico. L’idea è che ovunque si incontrino persone che desiderano approfondire seriamente e dialogicamente la filosofia e i suoi problemi, lì vi sia un portico dipinto, un luogo dove le pressanti necessità della vita e le tempeste che essa produce vengono per un attimo messe a tacere per rivolgere loro lo sguardo riflessivo del logos.

La consulenza filosofica è una disciplina che propriamente va alla ricerca di questi luoghi, li prepara, li inventa, li allestisce, nella convinzione che in essi la vita umana trovi la sua cifra autentica. La filosofia è sempre una richiesta di sapere su ciò che veramente conta, che incontra una qualche proposta di approfondimento da parte di chi, su tale via del sapere si trova già in cammino. Per questo ha la natura di una consultazione. Non si tratta tuttavia di una semplice relazione domanda-riposta, ma di una dialettica, dove chi porta in comune un certo problema non si accontenta finché non accede a una dimensione di verità che può condividere sinceramente e senza riserve, pur dentro i ragionevoli dubbi alla quale la nostra condizione umana ci condanna. Ma tale dimensione ha una profondità tale che, a partire dalla discussione, mette in gioco pure colui che appariva più esperto e si trovava per così dire in una posizione “avanzata” … lo mette in questione, lo trasforma, lo sottopone a nuovi rigori della ragione e della conoscenza. Ciò fa sì che non esista un rigido rapporto gerarchico tra i dialoganti, ma che ognuno riconosca e omaggi quella verità sulle cose, sul mondo e sulla vita che è posta alla fine, quale scopo e meta del camminare assieme.

Per questo la consulenza filosofica è protesa in avanti verso il suo inarrivabile compimento, verso il suo ideale obiettivo di pienezza del sapere: un’utopia stimolante e mobilitante. Ma è vero che anche il passato conta. Essere nani sulle spalle di giganti e comprendere il carattere ineludibilmente e intrinsecamente storico del pensare è fondamentale. Anzitutto consente di non crescere nell’orgoglio, la fine di ogni ricerca e il veleno di ogni verità. Poi mette in moto quel carattere intersoggettivo dell’indagine filosofica che non è solo sincronicamente legato al dialogo che avviene qui ed ora, ma ha un carattere diacronico e si rivolge alle pietre miliari della filosofia che, pensando, hanno messo in circolo problemi e soluzioni fondamentali, dai quali non si può rifuggire se non si vuole cadere in pessime banalità autoreferenziali.

 Ecco allora che la filosofia-consulenza filosofica invita a uscire da sé, a instaurare dialoghi coi vivi e coi morti, a cogliere la dimensione infinita della ricerca ma anche la stabilità e irreversibilità di alcune conquiste, pur nella loro continua revisione e  nel loro incessante approfondimento. Seguendo tale prospettiva, in questo libro ci si è sforzati di dare conto di un reale itinerario di consulenza filosofica, che si è appoggiato alla personalità e alla biografia dei soggetti coinvolti, ma che ha anche puntato coinvolgere i grandi della storia del pensiero, in vista di quel superiore rigore e di quell’apertura alle più diverse e sorprendenti suggestioni che essi procurano allo sguardo del lettore attento e curioso. Di qui l’incontro coi presocratici e con Platone, dai quali è venuta a noi europei la nozione stessa di verità e quella corrispondente di menzogna, cioè è nato sostanzialmente l’oggetto interno della filosofia, quello senza il quale la disciplina perderebbe immediatamente il suo significato sia tecnico sia esistenziale. Un passaggio attraverso i loro scritti e le loro opere ci ha confermati nella visione di questa centralità della verità e della menzogna e ci ha spronati a coglierne per loro mezzo il carattere dialettico-dialogico. Abbiamo capito che il metodo della filosofia è anche il suo contenuto: la verità filosofica dentro il dialogo si sviluppa come verità dialogante e dialettica in cui gli opposti si confrontano e vengono messi alla prova, in modo tale che ogni verità è oggetto di una visione di insieme che via via si articola escludendo ciò che solo appare vero, ma portandolo con sé quando è necessario definire un campo e stabilire dei confini.

Qui è l’opera del logos: assumere un punto di vista dall’alto, vedere l’insieme delle cose assolutamente, in quell’universalità sciolta dalle catene delle relazioni abituali,  e poi, però, procedere verso l’interno, dimodoché la verità generale trovi specificazione e determinazione nelle sue componenti particolari e singolari che nel tutto si trovano articolate e coimplicate. La dialettica-dialogica di Platone, che si trova a compimento di una storia presocratica e socratica, si propone come metodo-contenuto della filosofia che ha una forza conoscitiva ma anche etica: è la via per capire metafisicamente il mondo , ma anche per evitare le derive illusionistiche di chi scopre nell’arte di argomentare una disciplina utilitaristica e, aggrappandosi a quella, individua una strumentalità carrieristica estremamente umiliante per la natura stessa del logos. Se questo è, infatti, la natura umana, ogni sua strumentalizzazione coincide, come capirà Kant, con una strumentalizzazione dell’uomo che va sostanzialmente a scapito della sua dignità. Nella lotta antisofistica, Platone aveva già intuito l’enorme posta in gioco, sotto  tale preciso profilo etico, e al tempo stesso l’occasione per dare una nuova identità più matura e vasta alla sua filosofia. Noi vi ritroviamo la percezione del valore degli assoluti metafisici e morali, ma anche la necessità di non cadere nelle semplificazioni che sovrappongono l’assoluto al complesso come reciproci nemici.

Così pare abbia fatto, con la genialità che lo contraddistingue, Carlo Michelstaedter, proprio sviluppando una specifica interpretazione di Platone e insistendo sull’enorme fascino degli aut aut, contrapposto a tutte le retoriche sociali e culturali della dilazione e del compromesso che, a partire dalla prospettiva alta della Grecia classica si sono venute via via volgarizzando nella storia, per diventare il senso comune di una morale dell’utile, del comodo e della sistematica elusione del vero e del bene. Ci è sembrato quindi obbligatorio, al di là dei nostri personali gusti – che tuttavia hanno avuto un ruolo – affrontare lo scoglio del filosofo di Gorizia dopo aver attraversato in parte quelli di Atene.

 Il risultato non lo anticipiamo. Ma la pretesa possiamo dirlo fin da adesso, è quella di aver detto qualcosa a noi stessi e di noi stessi, senza tuttavia fermarci qui. La filosofia è cura di sé e racconto di sé, ma non può non essere al tempo stesso cura e racconto degli altri e del mondo. Nel nostro specifico: cura e racconto dei filosofi che ci hanno accompagnato, da un lato, e dei problemi che attanagliano la nostra post-modernità, dall’altro. Se l’obiettivo è stato raggiunto almeno in parte spetta al lettore dirlo… se così non fosse, il percorso presentato in questa cronaca potrà almeno divenire la testimonianza di un tentativo che di per sé ha valore a prescindere dai risultati.

mercoledì 4 dicembre 2024

Il Silenzio. Recensione a Maria Ignazia Angelini, Un silenzio pieno di sguardo, EDB, Bologna 2017(4)


La fede è femmina, essa si determina nella sighé (σιγή), parola che dobbiamo mantenere al femminile e tradurre con silenziosità (anche se poi, per comodità, adotteremo la forma più comune ed eufonica “silenzio”). Questa è la prima considerazione che madre Maria Ignazia Angelini nel suo difficile e affascinante testo, Un silenzio pieno di sguardo, mi induce a compiere. Ecco: a far giustizia delle tante vuote retoriche neofemministe sulla Chiesa maschile ecc. ecc., un testo radicalmente femminile, in radicale consonanza con la femminilità della fede cristiana. Direi che tutto qui è donna, anche la forma, anche il logos, anche lo stile dell’argomentare che cerca di costruire un tessuto di evocazioni e di suggestioni, dentro il quale il lettore maschio fatica a entrare, se non cercando in esso una perduta complementarietà, dopo aver passato troppo tempo a contemplare l’ombelico dei propri sillogismi, onfaloscopia, come la chiamavano i polemisti antichi, per certi versi inevitabile.

Per me, dunque, un esempio straordinario, quello di madre Maria Ignazia, di pensiero al femminile che nemmeno ho trovato nel tutto sommato facile procedere di una grande e seria femminista come Adriana Cavarero che, criticando il freddo razionalismo platonico, se ne fa nondimeno irretire, almeno quanto al procedere lineare e consequenziale dell’argomento filosofico. Al contrario il testo della monaca milanese è un tessuto, come detto, e  fa apparire trame e orditi di esperienza, di autenticità pratica – la pratica della preghiera costante nell’abbazia di Viboldone –, di impegno riflessivo dell’anima, laddove la sighé, dopo essere stata condizione antropologica, giunge come sigillo e compimento teologico del vissuto di fede.

Ma a che proposito e perché parlo di femminilità. Non è solo una questione di stile, ma anche e soprattutto di contenuti. La sighé non è semplicemente il “silenzio tranquillo del raccoglimento”, né ha il carattere di condizione del fedele nel suo intinerarium mentis in Deum quando viene tratto dentro la vita pleromatica e lì si annulla, come in un abisso infinito. Neppure si può descrivere come un’ascesi che disciplina la lingua e la parola evitando la loro dispersione nella chiacchiera mondana. No, è qualcosa di più e d’altro, avverte madre Maria Ignazia. Esso mantiene un carattere dialogico e ha forse il suo modello nel perfetto e silenzioso dialogo intratriinitario, manifestandosi solo successivamente nel rapporto Creatore -creatura grazie all’immagine di sé che il primo lascia nella seconda. In questo dialogo si determina la peculiarità intenzionale del silenzio cioè di apertura della coscienza rivolta-a e quindi disponibile a ricevere ciò a cui si rivolge. Questa ricezione è ascolto e al tempo stesso interrogazione e implica il Mistero come suo oggetto intenzionale, cioè “la realtà intuita come abitata da una trascendenza”.  La Parola è detta una volta per tutte nella creazione di un mondo meraviglioso che si dà alla nostra meravigliata contemplazione. Lì c’è silenzio e stupore. Ma la Parola venuta al mondo prende una carne che viene ferita e corrosa sulla croce fino al compimento finale. Anche ciò avviene nel silenzio. È l’abisso di una sofferenza silenziosa che cambia la matrice di peccato insediatasi nel mondo e la rovescia nello splendore di una gloria eterna. Ma ciò, appunto, avviene nel silenzio, silenzio che è massimamente sonoro come la sofferenza è massimamente gloriosa. La dimensione contemplativa del silenzio è lo sforzo più intenso di accoglienza e di conformazione al silenzio glorioso del Verbum consummatum, per aprire la coscienza credente alla capacità di essere affetti da Cristo, colpiti in pieno perché pienamente esposti all’onda d’urto della redenzione mediante la croce. Il silenzio consente di volgere lo sguardo a colui che hanno, abbiamo, trafitto e tramite questo sguardo agli altri, al mondo in una diversa luce di verità. Il silenzio è quindi pieno di sguardo. Mi sembra di capire questo nell’espressione così evocativa di madre Maria Ignazia: lo sguardo è lo sguardo ricevuto dall’assoluto trafitto ed esaltato nell’agonia della croce, che emette lo spirito nel silenzio della creazione e la cui misericordia trasformatrice colpisce gli occhi e l’anima di chi guarda in silenzio attonito e stupefatto. Questi dispone la sua persona, così affetta, ad una contemplazione che cambia radicalmente il segno della sua vita dalla miseria alla gloria, ridestando una nuova capacità di guardare che riempie il mondo: lo sguardo di chi porta una buona notizia, lo sguardo dell’evangelo, lo sguardo annunziante di una nuova parola nata da quei silenzi.

È evidente che qui il maschile e il femminile sono categorie molto riduttive. Ma è altrettanto vero che la capacità di contemplazione ricettiva, stupefatta e silenziosa è un tratto fondamentale della femminilità. madre Maria Ignazia arriva a citare un commento di Kierkegaard a un passo di san Paolo, 1Tm 2, 11-12 oggi ritenuto un po’ imbarazzante da molti esegeti e anche da qualcuno che troppo spesso sente di doversi scusare per essere cristiano: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo”. Ecco che cosa dice il filosofo danese: “E tu donna, a te è riservato di essere l’immagine dell’uditore e del lettore della Parola che non dimentica. Tu osserva nel modo giusto l’ammonizione dell’Apostolo: ‘La donna taccia nell’assemblea’, stia in silenzio e il suo silenzio esprima quanto profondamente ella fa tesoro della Parola. Non credi al silenzio? Io sì. Permettimi di descriverti la donna uditrice della Parola che non dimentica la Parola; e non dimentica, dopo questa descrizione, di diventare anche tu così. Ella tace, ma tu domandati: che significa questo silenzio? Riflettiamo che proprio questo silenzio è ciò di cui c’è bisogno perché la Parola possa avere presa sugli uomini. L’umanità attuale, infatti, è malata. E se uno chiedesse: ‘ Che si deve fare’, risponderei: ‘Anzitutto procura silenzio! Tutto, infatti, oggi è rumore’ […]. Promuovi il silenzio!’ E questo oggi lo può la donna. Il silenzio è come un’atmosfera, l’atmosfera fondamentale in cui ci si immerge: perciò si dice ‘fondamentale’, perché sta a fondamento. Ebbene la donna, che si specchia nello specchio della Parola, ella diventa veramente silenziosa”.

Il suo silenzio, nato all’ombra della Parola, è veramente eloquente e in grado di insegnare più di quelle parole nate da un professionismo retorico, abile nel gestire questo strumento piccolissimo, la parola, con cui fare cose grandissime (Gorgia). Se oggi c’è un “cultus” da condannare, un cultus né maschile né femminile, ma proprio di quell’umanità indifferenziata che vive al livello delle dinamiche ripetitive del desiderio e del consumo, è proprio la retorica. La retorica, ci insegna Carlo Michelstaedter, è l’attitudine utilitarista a chiedere alle cose di poter continuare a protrarre se stessi nel tempo, senza mai sfiorare la questione del senso, perché esso risiede nella dilazione continua della fine, che nondimeno verrà a troncare il processo di metastasi viziosa della loquacità pubblicitaria (perché promuove sé illudendosi di guadagnare a sé il consenso del mondo) nel silenzio malato della disperazione. Il silenzio sano della contemplazione ne è il grande antidoto, perché insegna a distruggere l’essenza autocentrata e autoreferenziale della retorica. Madre Maria Ignazia, che propone una silloge commentata e ragionata della sapienza dei padri del deserto di ambito ellenistico e siriaco sul silenzio, coglie nel segno quando riporta questo apoftegma: “Un fratello che viveva con altri fratelli chiese a padre Bessarione: ‘Che cosa debbo fare?’. Dice a lui l’anziano: ‘Taci e non misurare te stesso’”. Quanto diventiamo stranieri al mondo della misura, non quella metafisica, ma quella statistica ed economica, applicando questa continenza della comunicazione retorica, che esalta sé come centro mentre misura con i propri criteri l’altro per dominarlo e assoggettarlo? Il silenzio realizza esattamente nella contemplazione affettiva del Mistero di un’alterità smisurata questa estraneità al mondo della mathesis immanente, circolare, nutrita di parole funzionali che non dicono ma se-ducono. La proposta del silenzio anti retorico è anche una proposta di xeniteia, di estraneità, dell’essere straniero mediante una forma discreta ma radicale di anachoresis, di allontanamento dalla città e dalla responsabilità civile. La vita monastica, dal mondo del cristianesimo primitivo dei padri del deserto, attraverso la grande esplosione dell’epoca medievale, continua a parlarci, benché con la discrezione umile che si addice non più alla gloria dei trionfi e dello splendore dell’epoca delle cattedrali, ma all’umiltà di una fede crocifissa nel mondo moderno. Continua a parlarci di come exire de saeculo, pure dentro la vita nel mondo, di una disciplina ferrea che diventa intensamente mariana quando invoca l’umiltà dei servi che silenziosamente operano nel loro essere-risposta a un dono, nel loro essere dipendenti da una grazia. La forza potente dell’ascolto produce in loro una differenza ontologica che è l’alterità da questo mondo e dalle sue logiche. Il ritiro agonico dal mondo, nella lotta incessante contro il profluvio di cose e di parole, è condizione per tornare a fecondarlo mediante il silenzio eloquente dello spirito, che parla ogni lingua ma procede dal silenzio del Padre e del Figlio, nel dialogo dell’abbandono di Cristo sulla croce come ultimo atto della sua relazione terrena con il Padre: per Isacco di Ninive, sottolinea madre Maria Ignazia, la funzione generativa del silenzio è dominante, è come il grembo del senso, il principio di scioglimento della durezza del vivere e del cuore, è il “mistero del secolo futuro”, mentre “le parole sono l’organo di questo mondo”.

Lasciarsi coinvolgere in questa dinamica di rifondazione del mondo a partire dalla croce, significa rispondere sì a quel Dio “che non si compiace della veemenza del tuono, né dell’ardore del fuoco”, ma si è manifestato “nella dolcezza di un sottile silenzio”. “Dio - dice Efrem il Siro commentando l’episodio di Elia sull’Oreb (1Re 19,12) - prima rivela la sua forza trascendente” e spaventa Elia perché il suo cuore “si allargasse così da poter contenere lo Spirito, la forza e la profezia […] . E dopo tutto questo “Elia intese il mormorio di un silenzio leggero” e Dio “cominciò a rivelarsi amichevolmente, dolcemente a Elia”. La dolcezza di Dio sull’Oreb trova il massimo compimento nella croce con la quale il Dio misericordioso muore nel silenzio cui vengono condannati i servi, per offrire l’eterna compagnia della sua dolcezza a chiunque ascolti e riceva la grazia che sgorga dal suo sacrificio. Siamo molto al di là dello zelo per la giustizia che aveva caratterizzato l’azione del profeta Elia nei confronti del re idolatra Acab e della regina Gezabele (1Re 17-18): “Perché non imiti dunque la dolcezza del tuo Signore, commenta Efrem, non addolcisci lo zelo che urge per punire i figli del tuo popolo. Così da diventare un intercessore per loro, invece che il loro accusatore?”. Veramente è figura della croce questa improvvisa inversione della lotta nella dolcezza, che ribalta il senso comune e ambisce ad agire su un altro piano, non il grido forte della battaglia, ma il silenzio sottile che lascia esterrefatti, stupefatti, senza parole per come si esprime l’onnipotenza amica, la violenza amante, la forza benevolente di Dio, che distrugge il nemico salvandolo, e lo salva sacrificando se stesso. E quale insegnamento continua a fornire a noi oggi questo modello del profeta e del Figlio, in un’epoca in cui coloro che conducono guerre fanno fuoco sempre in nome della giustizia, sentendosi come strumenti di Dio, prima di portare nei suoi confronti l’enorme responsabilità della fede e dell’obbedienza.

Fino ad ora mi era parso che il silenzio di Dio fosse da leggere nel modo di Sergio Quinzio: quasi un ritirarsi di Dio, le cui promesse di redenzione appaiono continuamente contraddette da una storia che nega nei fatti ciò che la fede afferma, cioè che Egli ne è il signore. Dio rimane silente certo di fronte al dolore e al male, ma in particolare a un male che lo riguarda da vicino: l’apostasia, il nichilismo, la disfatta esteriore e interiore dei cristiani, che non perdono per la normale e financo prevedibile incoerenza degli uomini, ma per l’abbandono orgoglioso della fiducia e del timore nei riguardi dello stesso nome di Dio.

Invece madre Maria Ignazia mi suggerisce qualcosa di diverso: dal silenzio dell’ Oreb a quello del Verbum consummatum, fino al silenzio dell’eterno colloquio tra le persone della santissima Trinità, tutto conduce ad altri silenzi e ad altre parole: “L’uomo è troppo piccolo per comprendere tutti i linguaggi. Se potesse comprendere il linguaggio dei Vigilanti (angeli, n.d.r.), allora potrebbe elevarsi fino alla comprensione del linguaggio originario che tra loro parlano il Padre e il Figlio. Ma il nostro linguaggio è straniero alla voce degli animali e il linguaggio dei Vigilanti è straniero a ogni altro linguaggio. Il linguaggio con il quale il Padre parla al Figlio è straniero anche ai Vigilanti. Ma quale bontà, la sua. Come ha rivestito tutte le forme per consentirci di vedere, così ha adottato tutte le voci per trasmetterci il suo insegnamento. La sua natura è unica, ma così può essere vista. Il suo silenzio è unico, ma può così venir inteso”.

E tale silenzio, che porta con sé la radice teologica di ogni bellezza, cioè la purissima gratuità – che bella definizione! più radicale di quelle semplicemente filosofiche che alludono a  integritas, proportio e claritas – promuove il silenzio dell’ascolto e della meraviglia che, poi, effonde nel canto e nel giubilo. Madre Maria Ignazia fa più volte riferimento ad Agostino. Io mi permetto di aggiungere Jacopone da Todi, il cui Iubelo del core mi sembra si attagli eccezionalmente bene a questo contesto, cantando quello che potremmo dire il momento effusivo del silenzio accogliente della fede, proprio di un cuore ferito da Dio, cioè affetto fino alla lacerazione da un amore senza misura:

O iubelo de core,

che fai cantar d’amore!

 

Quanno iubel se scalda,

sì fa l’omo cantare,

e la lengua barbaglia

e non sa que se parlare;

drento no ‘l pò celare,

(tant’è granne!) el dolzore.

 

Quanno iubel è acceso,

sì fa l’omo clamare;

lo cor d’amor è appreso,

che nol pò comportare:

stridenno el fa gridare,

e non virgogna allore.

 

Quanno iubelo ha preso

lo core ennamorato,

la gente l’a ’n deriso,

pensanno el suo parlato,

parlanno esmesurato

de que sente calore.

 

O iubel, dolce gaudio

ch’è’ drento ne la mente!

Lo cor deventa savio

celar so convenente;

non pò esser soffrente

che non faccia clamore.

 

Chi non à costumanza

te reputa empazzito,

vedenno esvalïanza

com’om ch’è desvanito.

Dentr’a lo cor firito,

non se sente de fore.

mercoledì 23 ottobre 2024

Mettere alla prova? Saggetto presuntuoso di teodicea

 

 

Giobbe: un testo e una vicenda “irritanti”

 

“19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore,
dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quando egli ha in avversione il pane
e lo ripugnano i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma e sparisce,
mentre le ossa, prima invisibili,
gli escon fuori;
22 egli si avvicina alla fossa,
e la sua vita a quelli che infliggono la morte” (Gb 33,19-22):

 

durezza della pedagogia divina.

 

1 Allora il SIGNORE rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni
con parole prive di senno?
3 Cingiti i fianchi come un prode;
io ti farò delle domande e tu insegnami!
4 Dov'eri tu quando io fondavo la terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza.
5 Chi ne fissò le dimensioni, se lo sai,
o chi tirò sopra di essa la corda da misurare?
6 Su che furono poggiate le sue fondamenta,
o chi ne pose la pietra angolare,
7 quando le stelle del mattino cantavano tutte assieme
e tutti i figli di Dio alzavano grida di gioia?
8 Chi chiuse con porte il mare
balzante fuori dal grembo materno,
9 quando gli diedi le nubi come rivestimento
e per fasce l'oscurità,
10 quando gli tracciai dei confini,
gli misi sbarre e porte?
11 Allora gli dissi: "Fin qui tu verrai,
e non oltre;
qui si fermerà l'orgoglio dei tuoi flutti".
12 Hai tu mai, in vita tua, comandato al mattino,
o insegnato il suo luogo all'aurora,
13 perché essa afferri i lembi della terra,
e ne scuota via i malvagi?
14 La terra si trasfigura come creta sotto il sigillo
e appare come vestita di un ricco manto;
15 i malfattori sono privati della luce loro,
e il braccio, alzato già, è spezzato.
16 Sei tu penetrato fino alle sorgenti del mare?
Hai tu passeggiato in fondo all'abisso?
17 Le porte della morte sono state da te scoperte?
Hai tu veduto le porte dell'ombra di morte?
18 Hai tu abbracciato con lo sguardo l'ampiezza della terra?
Parla, se la conosci tutta!
19 Dov'è la via che guida al soggiorno della luce?
Le tenebre dove hanno la loro sede?
20 Le puoi tu guidare verso i loro domini
e conosci i sentieri per ricondurle a casa?»” (Gb 38,1-20):

 

chi può mettere in discussione Dio? Nemmeno la sofferenza del giusto! Il quale da sofferente si ricrede e abiura le sue precedenti proteste:

 

1 Allora Giobbe rispose al SIGNORE e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto
e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno?
Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo;
sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco.
4 Ti prego, ascoltami, e io parlerò;
ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te
ma ora l'occhio mio ti ha visto.
6 Perciò mi ravvedo, mi pento
sulla polvere e sulla cenere»”(Gb 42,1-6).

 

Allora Dio, il potente, lo reintegra e lo premia:

12 Il SIGNORE benedisse gli ultimi anni di Giobbe più dei primi; ed egli ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. 13 Ebbe pure sette figli e tre figlie; 14 e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia. 15 In tutto il paese non c'erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un'eredità tra i loro fratelli.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione. 17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni” (Gb 42,12-17).

 

Ma il finale tende a far dimenticare che era tutto un gioco privato tra Dio e Satana:

6 Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro. 7 Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa». 8 Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male». 9 Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? 10 Non l'hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia». 12 Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona»”. E Satana si ritirò dalla presenza del SIGNORE” (Gb 1,6-12): prima si tratta di colpire i beni del servo di Dio.

 

1 Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a presentarsi davanti al SIGNORE. 2 Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa». Il SIGNORE disse a Satana: 3 «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità, benché tu mi abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo». 4 Satana rispose al SIGNORE: «Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita; 5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia». 6 Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita” (Gb 2, 1-6): poi si tratta di colpire la sua persona il suo corpo.

 

Dio scommette con Satana, benché molti altri innocenti vengano coinvolti: la servitù incolpevole, i figli e le figlie di Giobbe, altrettanto incolpevoli. E poi mancavano solo i cosiddetti amici, Elifaz, Bildad e Sofar, che intervengono a dire che no, Giobbe non può essere giusto, perché Dio non punisce che i malvagi e il male è sempre conseguenza del peccato. Ultimo amico è quello che suggerisce, in modo più comprensivo e caritatevole, verso Giobbe e anche, direi, verso Dio, che forse si tratta una sofferenza pedagogica: per mezzo del dolore Dio insegna e purifica, dimenticando ancora che in realtà è tutta una scommessa. A tale dimenticanza fa da contraltare l’ira di Dio contro Giobbe che ha protestato non conoscendo la terribile profondità e imperscrutabilità dei disegni divini.

Nulla da dire: il libro di Giobbe rimane un testo irritante. La sua è una profondità irritante, perché sviluppa un’apologetica che vuole essere al tempo stesso critica, e mai si risolve sul versante critico, né su quello apologetico.

 

Critica e apologia di Dio

 

Critica è la protesta del protagonista:

 

“11Ma io non terrò chiusa la mia bocca,

parlerò nell'angoscia del mio spirito,

mi lamenterò nell'amarezza del mio cuore!

12Sono io forse il mare oppure un mostro marino,

perché tu metta sopra di me una guardia?

13Quando io dico: «Il mio giaciglio mi darà sollievo,

il mio letto allevierà il mio lamento»,

14tu allora mi spaventi con sogni

e con fantasmi tu mi atterrisci.

15Preferirei morire soffocato,

la morte piuttosto che vivere in queste mie ossa.

16Mi sto consumando, non vivrò più a lungo.

Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni.

17Che cosa è l'uomo perché tu lo consideri grande

e a lui rivolga la tua attenzione

18e lo scruti ogni mattina

e ad ogni istante lo metta alla prova?

19Fino a quando da me non toglierai lo sguardo

e non mi lascerai inghiottire la saliva?

20Se ho peccato, che cosa ho fatto a te,

o custode dell'uomo?

Perché mi hai preso a bersaglio

e sono diventato un peso per me?

21Perché non cancelli il mio peccato

e non dimentichi la mia colpa?

Ben presto giacerò nella polvere

e, se mi cercherai, io non ci sarò!»” (Gb 7, 11-21).

 

Apologetica è la risposta di Dio, sebbene di un tono non tradizionale: i puri “apologisti” sono solo gli amici di Giobbe. L’ultimo, Eliu, è, potremmo dire, di una corrente più liberale. Ma Dio fornisce una risposta che non è una risposta: “Che ne sai tu di quello che ho in testa io!”. E ciò potrebbe essere compatibile con l’atteggiamento di tutti i precedenti amici di Giobbe, sia i tradizionalisti, sia i progressisti. Nel “Che ne sai tu”, potrebbe essere allo stesso modo compresa la reprimenda di un peccato, per quanto inconsapevole, di Giobbe, di cui viene comunque condannata una forma di orgoglio, oppure si potrebbe contemplare l’atteggiamento dell’insegnante che zittisce l’alunno ribelle, accampando superiori ragioni pedagogiche, che quest’ultimo non può capire. La cosa consolante è che la teologia tradizionalista viene alla fine sconfessata: i primi tre amici di Giobbe sono aspramente rimproverati quando Dio si rivolge finalmente a Elifaz: “«La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. 8 Prendete dunque sette giovenchi e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi e io, per riguardo a lui, non punirò la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb 42, 7-8).

 Rimangono in piedi solo la prospettiva di Eliu, benché non direttamente avallata, e quella apofatica (“tu non sai e non puoi sapere”). Anche Giobbe dovrebbe aver detto con san Paolo: “O profondità della ricchezza e della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi, e incomprensibili le sue vie!” (Rm 11,33). Ma San Paolo celebra e Giobbe soffre. Mi pare ragionevole che non esploda in quest’ultimo un grido di esultanza, ma deve essere Dio a ricordargli la sua differenza ontologica. E a quale livello di radicalità appare tale differenza! Perché, se vogliamo, Dio, inalberandosi, occulta le vere ragioni della sofferenza del suo servo, che attengono unicamente al suo gioco con Satana. Ed è qui che si determina fino ad un esito parodistico e canzonatorio lo stacco Dio-uomo. Il senso non è evidentemente quello di sottolineare l’idea che Dio sia un Dio ostile e che, alla maniera degli dèi greci, tenda tranelli alla malcapitata creatura mortale. Mi sembra al contrario sottolineare implicitamente un fatto: i pensieri di Dio sono così inconoscibili che persino le cose più tragiche potrebbero in linea di principio essere la manifestazione fenomenica di un noumeno assolutamente banale. Il che significa che non vi è alcuna analogia di proporzione tra fenomeno e noumeno. E dunque è inutile immaginare chissà che cosa quando cerchiamo la ragione della nostra sofferenza: lassù ci potrebbe essere, per quanto ne sappiamo, un grande torneo di rubamazzetto, di cui noi poi scontiamo gli esiti. Ciò che è importante è tuttavia non fare domande tendenziose, che presuppongano, cioè, una chiamata di Dio sul banco degli imputati, perché sarebbe come voler giudicare qualcosa la cui ragione è avvolta nel più impenetrabile dei misteri, tanto che i metri di giudizio fenomenici, ai quali noi siamo costitutivamente consegnati, appaiono per loro natura intima irrispettosi dell’oggetto totalmente trascendente cui vorrebbero applicarsi. Eccoci qui: tutto risolto allora? Va bene infine il pentimento di Giobbe, giustamente premiato, e reintegrato con la piccola soddisfazione di poter dire ai suoi primi tre amici: “Eravate nel torto, chiedete perdono!”. Anche Gesù lo conferma: il cieco nato non è così per colpa dei suoi peccati (Gv 9,3).

Due cose continuano a non piacermi nella risposta divina a  Giobbe (lo dico evidentemente sotto il profilo letterario e ideologico, e relativamente a un’interpretazione a prima vista): la mancanza di analogia – ovvero l’assenza di qualsiasi traccia e indizio nel nostro mondo che nel suo minuscolo non sia in grado di rimandare all’infinita grandezza di Dio -  e l’affermazione di un’onnipotenza assoluta di Dio, che ne è il correlato. Non voglio inoltrarmi nella raffinatissima questione gnoseologico-metafisica dell’analogia, non avendo gli strumenti sottomano. Solo rilevo che un rapporto assolutamente libero tra Dio e il mondo, tanto che Dio potrebbe in ogni momento cambiare le regole del gioco, dato che tutte le relazioni, comprese quelle logiche, non coinciderebbero con Dio stesso, bensì sarebbero nella sua arbitraria disponibilità, così che potrebbero da Lui essere ovunque e in qualsiasi momento rivoluzionate; questo rapporto che veramente ci indurrebbe a tacere perché la sproporzione tra noi  e Lui non permetterebbe alcuna parola; questo rapporto tirannico tra Dio e la creazione, che renderebbe occamisticamente nullo ogni esercizio di intelligenza della fede; ebbene tutto questo non lo posso ammettere. Perché? Nulla di che, semplicemente non è cattolico e Dio lo è (non scherzo: si tratta per me di un argomento serissimo e ineccepibile, forse il più solido e razionale di tutti gli argomenti immaginabili!). Quindi bisogna cercare altrove, rischiando la Geenna riservata, come diceva Agostino, per chi scruta i misteri profondi[1].

Mi si potrebbe ribattere che qui, più che la Geenna, si rischia il ridicolo nel voler affrontare in quattro e quattr’otto problemi che hanno una dimensione enorme e superano i due millenni di vita senza che nessuno abbia offerto una soluzione decente. Ma la dignità del tentativo non è data dalla sua scarsa qualità, che indurrebbe subito a sospenderlo e a ritirarsi in buon ordine, ma dal permanere in ogni uomo e in ogni istante dell’esperienza del dolore innocente, o di quello, il che è lo stesso, percepito come tale. Anzi, direi di più, ogni dolore che l’uomo subisce lo rende innocente, non solo come espiazione – il dolore proporzionato al male compiuto appare essere l’unica retribuzione in grado di riabilitare il reo - , bensì come prodotto di una totale, impotente esposizione all’arbitrio di una forza estranea che violenta e umilia. Pure Jack lo Squartatore è innocente di fronte al boia e al torturatore, anche se poi, ma solo poi, noi potremmo dire: “Ben gli sta”. Prima di quel poi tutti gli uomini normalmente empatizzano con la vittima, perché essa è sempre tale di fronte all’irrompere dell’energia maligna che ferisce e uccide.

 

Mettere alla prova?

 

Nel frattempo, il Dio che respinge il lamento critico di Giobbe, manda suo Figlio in croce, offrendo la prova provata che la sua trascendenza quasi risentita era in realtà da interpretare benevolmente. Quello che accade a Gesù, corrobora Giobbe, perché dimostra che esiste agli occhi Dio un dolore assolutamente innocente, il suo stesso dolore, e che tale dolore grida dal Figlio al Padre: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”. Unica risposta del Padre: il suo infinito silenzio, già presupposto nella risposta non tenera di Jahvè a Giobbe, e definitivamente manifestatosi nel silenzio del Padre nei confronti dell’innocentissimo dolore di Gesù sul patibolo.

È ben questa esperienza del Padre che rimane in silenzio nei riguardi sofferenza del Figlio, così come Dio lo rimane nella nostra personale croce, questa esperienza ultima eppure comunissima, questa esperienza travolgente, disperante ma inevitabile, rende legittima una teodicea democratica, comune, da uomo della strada, da quiz e da Facebook. E qui i destini del Cristo sofferente e dell’uomo sofferente si dividono. Cristo soffre come pecora muta portata al macello, caricandosi dei nostri peccati ed espiandoli vicariamente per liberarcene e riaprirci le porte del Regno. Per l’uomo vale appunto la nostra teodicea popolare.

Questa teodicea, che qui non si disprezza affatto, ma al contrario si considera del tutto legittima, per salvare Dio dall’intenzione manifesta di procurare il male della sua creatura, elabora l’apologetica della “messa alla prova”, con la stessa espressione del drammatico lamento di Giobbe nel cap. 7:

 

“Che cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande
e a lui rivolga la tua attenzione
18e lo scruti ogni mattina
e ad ogni istante lo metta alla prova?” (Gb 7, 17-18).

 

Quindi il dolore può essere innocente nel caso sia una messa alla prova. Ma giustamente la cosa a Giobbe non piace. Si può perfettamente concordare con lui: che senso ha dire che noi soffriamo perché “Dio ci mette alla prova”? Nel silenzio di Dio, che oggi in particolare è più che un episodio rapsodico della relazione divino-umana, il fedele sofferente, con la sua buona fede, escogita la via d’uscita della messa alla prova: un modo per sollevare Dio da ogni responsabilità e per giustificare in modo “agonistico” la lotta dell’uomo contro il male che lo ha investito.  Ma tutto ciò, fatta salva ovviamente la suddetta buona fede, è palesemente un espediente ideologico fallimentare. Un Dio buono e onnipotente non ha alcun bisogno di mettere alla prova nessuno, neppure la sua creatura, perché conosce la profondità del suo cuore, ha contato i suoi capelli, e sa anticipatamente dove e quando resisterà e dove e quando cadrà: il dolore è dunque un orpello perfettamente inutile (piuttosto il diavolo, seguendo Ap 1,10, mette alla prova: “Il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere per mettervi alla prova”). L’unica cosa che può essere provata è la libertà dell’uomo, non la sua resistenza al dolore. Dall’uso della sua libertà, infatti, si deduce se è degno di entrare per la porta stretta, dalla sua caduta di fronte al dolore, viceversa, non si deduce in via di principio nulla, perché se a Dio piace colpirci con fulmini e saette, nulla può resistere alla sua forza. Di fronte al dolore, oltre una certa soglia, diventiamo necessariamente passivi: la nostra libertà è provata solo con l’accettazione volontaria di soffrire in nome di un valore più alto, ma il dolore che capita e che sovrasta non tocca minimamente la nostra libertà perché ci piega a prescindere.

 

Siamo peccatori e dunque non abbiamo diritto di lamentarci?

 

Se non siamo messi alla prova, abbiamo allora il diritto di lamentarci? No, Dio rimprovera Giobbe in modo assai aspro per i suoi lamenti, perché essi persino al di là delle sue intenzioni, tendono a portare Dio sul banco degli imputati, benché lui si affretti e sconfessare tale possibilità. Suor Canopi[2] fa giustamente notare che Dio ama e l’amore non fa sorgere un diritto nell’amato. Dunque, non si ha diritto di pretendere alcunché dal Dio-amore. Giusto, non si può dire a nessuno, e tantomeno a Dio: “Se mi ami, allora…”. Ma l’amore ha delle implicazioni: Giobbe non rivendica diritti nei riguardi di Dio, ma riconosce un’insopportabile incoerenza: amor est bene velle, e se l’amore non vuole il bene, non è più tale. Il sofferente innocente, colpito da mali indicibili, può pertanto notare la difformità logica ed etica tra l’amore con cui Dio lo dovrebbe trattare e il suo destino contrario, terribilmente contrario. È colpevole tale notazione, tale consapevolezza? È forse una pretesa connessa alla rivendicazione sindacale di un diritto solo presuntivamente violato? È lesa maestà divina? O forse è il semplice e inevitabile esercizio della ragione in buona coscienza? O forse è un semplice sillogismo etico in cui la premessa maggiore è l’amore onnipotente di Dio, la minore è la condizione di sofferenza innocente dell’uomo e la conclusione…

 

Un convitato di pietra: il peccato originale

 

Potrebbe a questo punto essere fatta valere la teologia del peccato originale? Noi soffriamo perché siamo una massa damnata, e dunque la sofferenza è giusta per tutti. Chi non soffre, cosa che dovrebbe essere la normalità, data l’enormità dell’atto di ribellione compiuto dai protoparenti e ricaduto su tutta la creazione, è semplicemente oggetto di una speciale e imperscrutabile misericordia. Il peccato originale è cosa serissima e costituisce la radice del realismo inossidabile dell’antropologia cristiana: l’uomo è un animale pericoloso, benché sia stato fatto poco meno degli angeli. Non se ne esce. O si ricade nel più nero pessimismo: l’uomo è cattivo, violento e assassino per natura. O si ricade nel più ingenuo angelismo: l’uomo in fondo è buono, corrotto solo nella storia e per accidens. Ma, rimanendo saldi nella luminosa dogmatica del peccato originale, il problema, per quel che ci riguarda, è solo spostato. Il Dio di Giobbe rivendica l’imperscrutabilità dei decreti per i quali permette il male, il Dio di Agostino afferma l’imperscrutabilità dei decreti per i quali salva dal male. In entrambi i casi si deve accettare un dato perché è dato: ex auctoritate. Ma la fede non per questo smette di chiedere l’intelletto.

 

Il male

 

Allora bisogna innanzitutto capire, con i giganti alle cui spalle ci aggrappiamo, qual è il male che ci colpisce e per il quale possiamo chiamare in causa Qualcuno.

Può essere il male metafisico, fisico e cosmico per il quale noi soccombiamo travolti da una slavina o annegati in un’alluvione o sfiniti da una tempesta? No, almeno ex parte objecti. Gli stoici invitavano gli uomini a elevare il proprio metro di giudizio al livello del logos universale e a constatare di conseguenza che quanto ci appare frutto di una perversione ingiusta del caso ha una ragione nel tutto e nelle dinamiche sovrastanti ma conoscibili che lo sorreggono. Quindi se noi non compiamo l’esercizio spirituale di porci dal punto di vista dell’intero, non comprendiamo una semplice verità: che non c’è nulla di male oggettivamente in ciò che noi soggettivamente temiamo come una calamità distruttiva e annichilatrice.

Può essere, detto male, il male morale, cioè quello liberamente commesso da un nostro simile che ci odia? Chi possiamo chiamare a rispondere di quel male se non chi lo ha liberamente voluto? C’è qui un autore, un colpevole, una causa manifesta.

Ma Dio nella sua onnipotenza non potrebbe impedire tutte queste forme del maligno? “Nulla è impossibile a Dio”. Beh, che ci vuole a fermare la volontà umana e costringerla ad astenersi da un’azione violenta, prevaricatrice, assassina? La Bibbia è piena di episodi simili che esprimono la superiore condizione di Dio rispetto alle creature e l’intervento a favore o contro di questa o di quella. Ma se l’intervento diventasse sistematico, si perderebbe l’autonomia dell’agire umano e con essa la libertà della creatura, il grande abisso di fronte al quale Dio esercita il suo autoabbassamento, la sua kenosi, la sua autolimitazione, la sua rinuncia ad agire e a intervenire. L’uomo non è il burattino di Dio. Sarebbe un male peggiore farne un pupazzetto telecomandato, che non ammettere nel suo cuore la libera adesione all’iniquità.

Se volessimo viceversa eliminare il male nella sua dimensione fisico-cosmica saremmo costretti a desiderare la più completa uniformità. Dovremmo chiedere a Dio di organizzare un mondo privo di ombre, di gradi, di varietà, di articolazione. Perché dentro l’articolazione c’è lo spazio per il bene e per il meglio, laddove però, ci insegna il vescovo di Ippona, a confronto del meglio il bene di per sé diventa male. Ma, ribadisce il santo africano, un mondo vario e diverso è in sé migliore e più bello, quindi più vero e giusto, di un modo omogeneo e uniforme, dove il bene creato ha un solo tono e una sola dimensione. È, mutatis mutandis, anche questo un appello al logos universale. Accettare il male vuol dire accettare il più e il meno nel mondo, e il più e il meno sono sufficienti a generare le maggiori disgrazie per la particolare vita del singolo.

Se consideriamo questi assunti, i due tipi di mali dal punto di vista di chi li subisce vengono a sovrapporsi. Quella che noi chiamiamo fatalità, infatti, ci mette in mezzo a una bufera così come al cospetto di un brigante incontrato per la strada.

Fatalità è qui un termine chiave, in quanto sinonimo di impersonale necessità. La strategia argomentativa obbligatoria per giustificare Dio onnipotente-benevolente è sempre, per quanto difficile sia, sollevarlo dalla responsabilità connessa a una volizione libera e diretta del male per la sua creatura.

 

Leibniz e il migliore dei mondi possibili

 

Il vituperato argomento leibniziano rimane sotto questo profilo insuperabile:

“La ragione sufficiente che ha fatto esistere le cose da Lui, inoltre, le fa ancora dipendere da Lui, sia nell’esistere che nell’operare: in effetti è da Dio che le cose ricevono in modo continuo ciò che consente loro di avere qualche perfezione mentre le imperfezioni derivano dalla limitazione essenziale e originaria della creatura”[3] . C’è uno stacco necessario tra Creatore e creatura, perché il Creatore non può in nessun modo creare qualcosa che sia di dignità pari a Sé perché farebbe venire immediatamente meno la sua natura divina che non ammette pari. Quindi la necessità logica – non quella che lo domina, ma quella che coincide con Lui - gli impedisce di esprimere una potenza che contraddica se stesso (la sua è appunta una potentia ordinata Dèi). Ma lo stacco implica la deficienza incolmabile della creatura, la sua imperfezione ineliminabile. “Ora, prosegue Leibniz, dalla Perfezione suprema di Dio segue che nel creare l’universo, Egli ha scelto il miglior piano possibile, in cui c’è la massima varietà con il massimo ordine, il terreno, il luogo e il tempo più adeguati, la massima quantità di effetti prodotti nei modi più semplici; le creature inoltre sono state dotate del massimo di potenza, di conoscenza, di felicità e di bontà, possibili nell’universo. Infatti, poiché tutti i Possibili pretendono l’Esistenza nell’intelletto divino in proporzione al loro grado di perfezione, il risultato di tutte queste pretese non può non essere il mondo attuale come il più perfetto possibile. Senza ciò non si potrebbe rendere ragione del perché le cose sono andate così e non altrimenti”[4]. Il più perfetto possibile significa ovviamente, “non del tutto perfetto” … e in tale mancata perfezione, si insinua l’errore e il male, ancora prima del peccato come atto deliberato, ancora prima della sua forma cosmica che è il peccato originale. Prima di esso non solo è logicamente possibile, anzi obbligatorio, pensare una qualche forma di errore e di erranza, connessa al necessario allontanamento della creatura dal Creatore e alle sue successive conseguenze. Il peccato originale si innesta e lavora su questa differenza, aprendo ulteriormente il varco fino all’abisso dell’iniquità, che tuttavia non è esattamente l’origine del male in tutti i sensi in cui lo possiamo pensare, e parimenti non può funzionare come passepartout della teodicea. È vero che deve esistere una creaturalità massimamente buona, esattamente come l’ha voluta e pensata il Dio buono, ma in essa la possibilità remota della caduta non è esclusa né escludibile, perché appunto è connessa alla differenza creaturale, dimodoché l’albero dal quale è proibito mangiare costituisce una presenza avente un preciso simbolismo ontologico, prima ancora che l’errore umano si traducesse in disgraziata realtà.

Dunque, ribadisco, anche in Leibniz la teodicea percorre la strada della necessità: solo una necessità può sollevare Dio dalla responsabilità del dolore innocente e del male. Ma il guaio è che essa pure contraddice l’onnipotenza della divinità che non può inchinarsi a nessun fato.

Non sembra esserci alternativa: o la necessità o la responsabilità. Leibniz è colui che più si è avvicinato a pensare una loro sintesi, sviluppando fino al limite massimo consentito il già citato concetto di potentia ordinata Dei - cioè di una potenza che segue rigorosi canoni razionali e financo deterministici, in base all’assunto che Dio e la ragione coincidono - ma forse fino a un punto in cui non riesce più ad essere convincente.

Su un tema, però, bisogna riflettere: il filosofo tedesco afferma che questo mondo in cui è pur presente il male è il migliore dei mondi possibili perché Dio è buono e non può che scegliere il meglio, cioè la quantità minima di male per esso, benché a noi tale quantità appaia abbondantemente superata (e qui vale la tesi del peccato originale). La vicenda di Giobbe sembra suggerire che la quantità minima, quella assegnata al nostro mondo, sia già esagerata, a meno che non si ammetta che la sofferenza innocente non esiste e in tal caso tutto è leggibile attraverso le lenti del concetto di “giusta punizione”. Ma qui torneremmo alla teologia degli amici di Giobbe che Dio stesso nella conclusione del testo mostra di sconfessare. Siamo su un crinale difficile, ancora presi in un dilemma: bisogna mantenere la teologia del peccato originale, senza la quale non ci sarebbe alcuna immagine autentica della condizione umana attuale, ma anche dobbiamo ammettere la possibilità dell’innocenza, senza la quale ogni male destinato all’uomo sarebbe giusto a prescindere (ma poi, come abbiamo già notato, difficilmente si spiegherebbero, in quest’ultimo caso, la misericordia e il perdono, riservati solo ad alcuni, che pure non sembrano immuni dalla tara di un’originaria colpevolezza).

 

Dio sceglie il meglio, ma prima ancora ama

 

In fondo l’idea che Dio abbia scelto il meglio è ancora una volta inevitabile, perché altrimenti non c’è nessuna teo-dicea e cadono tutti i problemi (se non quello di spiegare il bene: se un Dio buono non esiste, unde bonum?). Dio sceglie il meglio perché è buono, il che vale a dire perché ama, in coerenza assoluta con l’essere Egli stesso Amore in senso eminente e senza residui. Ecco su questo mi soffermerei, riconsiderando questo “meglio” sub specie amoris. È chiaro che qui si va a tentoni e si naviga a vista, e se il ragionamento a un certo punto crolla, non ci sarebbe nulla di che sorprendersi. Allo stesso modo nulla questio se apparisse saldo e poi crollasse in un secondo momento, magari dopo una sana e più autorevole lettura. Sarebbe invece ben strano se tenesse. Guai invece se risultasse originale, pessimo difetto dal quale fuggo come dalla peste.

Bene, allora proseguiamo con l’inutile ausilio di qualche faro antinebbia. Sub specie amoris significa vedere la creazione dal punto di vista del vincolo, il vincolo di tutte le cose con Dio e tra loro. Il vincolo che è immagine del vincolo trinitario, che vuole anzitutto l’essere dell’altro, la sua pienezza e la sua realizzazione, ma non senza il proprio che si realizza nell’essere dell’altro amandolo. Certo Dio non ha bisogno della creazione per amare, perché il vincolo d’amore già si esprime nella perfezione della relazione trinitaria. Ma la creazione è un sovrappiù, voluto da Dio con volontà libera e dunque coerente con l’essere di Dio ma non da esso necessitata, se non per il fatto che l’essere stesso di Dio è amore (un paradosso tipico, come cioè ve ne sono moltissimi lì in attesa - anzi in agguato - del povero dilettante che si incammina nei tortuosi sentieri dell’assoluto). Come sovrappiù l’amore per sua natura esce persino dai confini della sua perfezione, comprendendo il superfluo che, amato, diventa essenziale. La creazione, compenetrata tutta dallo Spirito di Dio, è vincolata in sé dall’amore con cui la Parola l’ha stabilita e il Padre l’ha pensata e dalla tensione verso l’alterità assoluta nelle due direzioni: dal Creatore alla creatura e dalla creatura al Creatore. Nel vincolo ad intra e ad extra essa è essenzialmente dia-logica, nel senso che il logos di ogni sua parte interagisce con il logos dell’altra e con la trascendenza del Logos divino, che attua il parossismo del dialogo nell’Incarnazione-kenosi e nella Passione. Alla dialogica dell’Incarnazione e della Passione l’uomo risponde con la dialogica dell’Eucarestia. Ma qui il pane spezzato fonda anche una dialogica orizzontale, quella della Chiesa-popolo di Dio e di tutta l’umanità alla quale la Chiesa si rivolge in quanto cattolica.

 

Dialogica e dialettica

 

Ora, la dialogica dell’amore, che ha una schietta identità teologica, è suscettibile di essere interpretata a partire da un punto di vista ontologico. Tra i cinque generi sommi che ci preparano al salto nella trascendenza dell’Uno, che per noi è Unitrino, quello più simpaticamente dialogico e dialettico è il Diverso. Un’idea pensata e capita solo e unicamente perché affiora sotto il pungolo di una fondamentale questione ontologica. Non ci sarebbe stato geneticamente alcun Diverso se non fosse stata proposta l’idea di un Essere assolutamente omogeneo, come ben rotonda sfera. La genealogia intellettuale del Diverso deve terminare nel suo capostipite, l’Essere. Così pure come, a prima vista lo deve la sua genealogia ontologica. Ma, in un secondo momento, lo possiamo vedere anche come vincolo che anticipa l’Essere, costituendone l’originaria articolazione che precede le parti e le determina come parti di un sistema-tutto. Il diverso dall’Essere  è diverso da sé e quindi uguale all’Essere e all’Identico, da cui però differisce diversificandosi e rimanendo prima in Quiete, quando si differenzia dalla sua diversità e piega all’Identico e poi in Movimento quando dall’Identico e dall’Essere prende congedo. Ma quando prende congedo dall’Essere, seguendo la lezione del Sofista, non sprofonda nel nulla, bensì articola l’altro, cioè se stesso in quanto Diverso, che è altro dall’Essere senza essere nulla, cioè è lo stesso-essere-diverso. Chi non vede la luminosità dialogica di questa dialettica? Vero amore è questo dia-logo, perché è una relazione che non finisce e se è vero che si avvita su se stessa, lo fa in modo fecondo, perché produce infinitamente la realtà che esso vincola e attorciglia a sé. Vera scienza è questa dialettica che, una volta prodotto il suo mondo, ne attraversa i gradi dell’opposizione polare e della differenza, soffermandosi pazientemente sulla misura di ognuno – la misura come il quanto dialettico del Filebo -, senza disdegnare l’esattezza e le regole del discorso, e sa passare dalla sfumatissima alterità fino alla più violenta contraddizione. Vero cammino è questo passaggio vivente e vitale attraverso la verità che si dipana dall’unità contratta dell’Unitrino alla molteplicità dispersa dell’infinito universo e mondi, e da questo vuole tornare a quello per la scala di tutte le creature e di tutte le bellezze.

 

Un sistema dell’amore: l’essere è diviso da ciò che lo unisce

 

Ma questo dialogare e dialettizzarsi del mondo non è nel mondo senza residui, bensì porta con sé al tempo stesso lo stigma della Differenza, che è l’ombra della sua luce. Il Diverso nel cammino della realtà assume sempre la forma del bivio e la tragica dimensione dell’alternativa. La dialogica mediante cui la ragione passa dall’uno all’altro, tenendoli uniti, è sempre a un certo punto sospesa a un abisso, perché messa di fronte alla pura alterità indifferente, essa cerca il proprio altro, la giusta relazione, che è al tempo stesso esclusiva di tutte le altre. La dialettica, come scienza e come struttura ontologica è radicalmente monogama, perché altrimenti sarebbe in-differente. Se un altro valesse l’altro, per ogni cosa non ci sarebbe più un giusto legame, un legame che è quello e nessun’altro, un legame vero, cioè un amore per l’unicità insostituibile di quell’alterità che non è semplicemente altra ma è quell’altra. L’essere può essere copulativo se è monogamo, e conosce, se è vero che conosce, solo il coniuge a sé indissolubilmente unito: non osi separare ciò che Dio ha creato molteplice e dal Diverso e nel Diverso della sua creazione ha voluto unire. Tutti gli altri, che pure sono realmente altri, non sono per ogni cosa il suo altro, ma sono altri indifferenti, che negano, cioè, la verità del Diverso. Perciò vanno negati ed esclusi. Devono rimanere nell’ombra, perché ogni cosa segua il suo cammino di luce. E ogni volta che un bivio si presenta, in cui due diversi lottano per guadagnarsi il privilegio della vera diversità, l’altro va escluso come l’ombra della luce che è stata scelta. Questo negativo che accompagna l’amore, senza il quale l’amore non è amore, non è esattamente un male, ma è la sua remota possibilità che pure, se la strada giusta viene imboccata, si getta nella luce, perché la sua esclusione è funzionale alla luce. Da questa tragica condizione per cui nell’amore l’essere è diviso da quello stesso amore che lo ha voluto e unito, nasce un dolore, che, essendo connesso all’amore come il suo necessario residuo laterale, è innocente, si determina nell’innocenza e dall’innocenza scaturisce. Si tratta di un dolore perché dolorosa è la condizione scissa, di chi deve camminare sul crinale, nel timore e nel tremore che la possibilità di fallire divenga una realtà. È il dolore inevitabile del vivente in statu viatoris, preso dentro il legame amoroso infinito delle cose, che è intricato fino all’oscurità e all’angoscia. Tale dolore si riflette nella passione di Dio, che il Figlio porta nella stessa vita Trinitaria, l’unica possibile, che la Trinità vive nella sua differenza perfettamente unificata e nell’unità perfettamente dialettizzata dei Tre amanti, dove la perfezione dell’unità risiede proprio nella perfezione della differenza che si è manifestata nell’abbandono del Figlio da parte del Padre nella croce. Anche qui vi è una dialogica estrema nella separazione e nell’unione, che vince l’abbandono e lo strazio – il negativo e il male come possibilità estrema sull’orlo di un’estrema realizzazione - proprio perché lo porta dentro, seppure vinto per sempre e in eterno.

 

Ombre nelle tenebre e nella luce

 

Non è nuova l’eresia secondo cui Dio porterebbe in sé la presenza vinta e soppressa del male. Forse il residuo di un antico dualismo che intende giustificare il male mediante una forma pur timida di divinizzazione. Quindi andiamo con i piedi di piombo. La volontà di Dio non vuole il male, e non lo concepisce, né lo pensa, né lo ospita. Dove si annida, allora, non la sua radice, ma, la sua possibilità? La sua possibilità, ancora lontana dalla realtà, risiede nella logica amorosa del Diverso, che si stira, ancora possibilmente ma non realmente fino alla negazione e alla contraddizione. Nondimeno quelle divine sono una contraddizione e una negazione che rimangono un’ombra che si getta nella luce. Cioè l’effetto di una dinamica chiaroscurale dell’amore che non ne pregiudica la forza unitiva, la ricchezza creativa, la sovrabbondanza redentiva. E allora l’ombra del diverso è perfettamente conciliata nella pace dell’unità, come dice Gregorio Nazianzieno nell’orazione 6:

 

“Non c’è infatti divisione nella divinità, perché non c’è nemmeno rottura (la rottura infatti è figlia della divisione), ma così importante è la concordia della divinità con se stessa e con le creature che occupano subito il secondo posto dopo Dio, che fra gli altri e più degli altri nomi con i quali Dio si rallegra di essere chiamato, proprio questo nome di ‘concordia’ occupa il posto di privilegio: ‘Pace’, infatti, e ‘Amore’ ed altri di tal genere sono gli appellativi con cui Dio viene chiamato e si offre a noi attraverso la mediazione dei nomi affinché condividiamo almeno in parte queste virtù che appartengono a Dio”[5].

 

Quando invece l’ombra si getta nelle tenebre? Quando nella differenza della creatura si concretizza l’estrema possibilità di un’interruzione della circolazione dell’amore: l’amore non circola più, ossia la dialettica circolare del Diverso che si differenzia da se stesso per amare l’alterità assoluta dell’identico e dell’Uno, si interrompe e l’ombra della luce si allunga in una lontananza irrecuperabile, in cui la sua ombrosità più non si distingue dall’oscurità. Il Diverso diventa lontano, centrifugo, centrifobo e la circolarità virtuosa del pensiero e dell’essere, fatta di pròodos e di epistrophé, di inspirazione ed espirazione, di sistole e diastole si interrompe. L’essere si dis-socia, l’inimicizia fa la sua comparsa nemmeno come relazione conflittuale in cui i due, se sono in una lotta, sono in una lotta radicalmente reciproca, ma come lotta contro la relazione che conduce i due a non potersi più riconoscere nemmeno come nemici, cioè nemmeno in quel residuo fecondo di fratellanza che è lo scontro irrefrenabile e irrisolvibile e perciò indissolubile.

Credo che sia sufficientemente determinata questa lontananza tra l’ombra nella luce e quella nelle tenebre, e al tempo stesso la dipendenza dialettica dell’una dall’altra, quando si rifletta sul fatto che la logica dell’amore tutto vincola a sé, anche l’estraneo, anche il terribilmente e disperatamente estraneo. Di qui la speranza eretica, in epoche differenti, di Origene e di Papini, di una redenzione escatologica persino di Lucifero, eretica non perché sia impossibile che accada, ma perché è impossibile che sia voluta da colui che dovrebbe riconoscere Dio per essere ricondotto nella relazione luminosa con lui, tornando ad essere il portatore umile di luce piuttosto che l’orgoglioso millantatore di una luce propria. Ma in linea di principio il sistema dell’amore comprende anche lui, se egli non volesse trasformare la dipendenza propria della dialettica dell’amore nell’autoreferenzialità di una dialettica dell’invidia, che considera l’altro primariamente ed esclusivamente come pretesto per l’evacuazione del sé, come termine senza ritorno di un’ira sterilizzatrice, opaca, priva di riflessi e sorda alle risposte…e dunque a-dialogica e a-dialettica.

 

Il dolore e l’amore

 

Che ne è allora del dolore innocente di Giobbe? Come uomo non smetto di sentire la sua eco, mentre il grazie della creatura al Dio onnipotente fatica a mantenersi sereno e diventa il grazie rabbioso di chi si ostina a volere bene senza riuscirvi. Un grazie come un debito restituito per dovere, per obbligo inestinguibile, ma senza il sorriso tranquillo della gratitudine dolce e bonaria.  Un grazie che si deve all’autorità anche quando le si imputa un’ingiustizia, e che si offre con enorme fatica in restituzione solo perché ci si rende conto, con l’intelletto e non ancora con il cuore, che tale ingiustizia non può aver commesso se non amando. Perché è proprio questo ciò che appare quando al libro di Giobbe affianchiamo il Vangelo, e sostiamo sulla questione della sconcertante scommessa con Satana, giungendo alla conclusione che essa serve a nascondere più che a rivelare. È certamente un espediente narrativo, ma, come detto, trova il suo senso nel celare in un tragicomico ludus l’imperscrutabilità di Dio, che il Padre violentemente rivendica contro la sua creatura, ma che altrettanto violentemente (di quella violenza che rapisce il Regno) ripaga sottoponendosi all’infinito dolore della croce di suo Figlio, per il quale ci si perdoni l’ardire se osiamo pensare che pure Lui non abbia avuto parole. Proprio a questo aveva aperto l’amore: l’amore non ha determinato la Passione, che è piuttosto l’effetto dell’odio e del peccato, ma l’ha resa possibile. L’ombra amorevole della kenosi del Verbo, come sublime atto trinitario, ha reso possibile l’oscurità del calvario. È questa dialogica di tutte le cose nel sistema dell’amore - delle cose che assorbono il chiarore del sole e perciò disegnano forme nerastre sulla terra e addosso agli altri - che rende possibile, volenti o nolenti – anche nolenti – il nostro as-sociarci con la nostra sporchevole innocenza all’innocenza più bianca della neve di Cristo sulla croce, e soprattutto con il nostro lamento balbettato al lamento perfetto di Cristo abbandonato.

Questo tuttavia rivela, a posteriori, che Dio, anche mentre giochicchiava con Satana sulla nostra pelle incolpevole e pur destinata a essere piagata, ci stava amando. Forse non stava propriamente scegliendo il meglio del migliore tra i mondi possibili, ma stava confermando, mediante il dramma del Figlio, che il mondo si mantiene il migliore proprio e solo perché l’Amore, rendendo possibile l’abisso, senza volerlo, non smette di accompagnare in esso, fino alla profondità più estrema per vincere la sua battaglia di redenzione e di consolazione fin dove la disperazione crede di aver chiuso la partita.



[1] Agostino, Confessioni, 11

[2] s. A. M. Canopi, Fammi sapere perché...: Il tema del dolore. Lectio divina sul libro di Giobbe, EDB, Bologna 2017.

 

[3] G. W. Leibniz, Principi razionali della natura e della grazia, in Idem, Principi della filosofia o Monadologia. Principi razionali della natura e della grazia, tr. it. di S. Cariati, Bompiani Milano 2001, p. 49.

[4] Ibidem.

[5] Gregorio di Nazianzo, Orazione 6 in Idem, Tutte le orazioni, tr. it di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2000, pp. 237-239