Giobbe:
un testo e una vicenda “irritanti”
“19 L'uomo
è anche ammonito sul suo letto, dal dolore,
dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quando egli ha in avversione il pane
e lo ripugnano i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma e sparisce,
mentre le ossa, prima invisibili,
gli escon fuori;
22 egli si avvicina alla fossa,
e la sua vita a quelli che infliggono la morte” (Gb 33,19-22):
durezza
della pedagogia divina.
1 Allora il SIGNORE rispose a
Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i
miei disegni
con parole prive di senno?
3 Cingiti i fianchi come un
prode;
io ti farò delle domande e tu insegnami!
4 Dov'eri tu quando io fondavo
la terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza.
5 Chi ne fissò le dimensioni,
se lo sai,
o chi tirò sopra di essa la corda da misurare?
6 Su che furono poggiate le sue
fondamenta,
o chi ne pose la pietra angolare,
7 quando le stelle del mattino
cantavano tutte assieme
e tutti i figli di Dio alzavano grida di gioia?
8 Chi chiuse con porte il mare
balzante fuori dal grembo materno,
9 quando gli diedi le nubi come
rivestimento
e per fasce l'oscurità,
10 quando gli tracciai dei
confini,
gli misi sbarre e porte?
11 Allora gli dissi: "Fin
qui tu verrai,
e non oltre;
qui si fermerà l'orgoglio dei tuoi flutti".
12 Hai tu mai, in vita tua,
comandato al mattino,
o insegnato il suo luogo all'aurora,
13 perché essa afferri i lembi
della terra,
e ne scuota via i malvagi?
14 La terra si trasfigura come
creta sotto il sigillo
e appare come vestita di un ricco manto;
15 i malfattori sono privati
della luce loro,
e il braccio, alzato già, è spezzato.
16 Sei tu penetrato fino alle
sorgenti del mare?
Hai tu passeggiato in fondo all'abisso?
17 Le porte della morte sono
state da te scoperte?
Hai tu veduto le porte dell'ombra di morte?
18 Hai tu abbracciato con lo
sguardo l'ampiezza della terra?
Parla, se la conosci tutta!
19 Dov'è la via che guida al
soggiorno della luce?
Le tenebre dove hanno la loro sede?
20 Le puoi tu guidare verso i
loro domini
e conosci i sentieri per ricondurle a casa?»” (Gb 38,1-20):
chi può mettere in discussione Dio? Nemmeno la sofferenza
del giusto! Il quale da sofferente si ricrede e abiura le sue precedenti
proteste:
“1 Allora
Giobbe rispose al SIGNORE e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi
tutto
e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza
intelligenza offusca il tuo disegno?
Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo;
sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco.
4 Ti prego, ascoltami, e io
parlerò;
ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito
parlare di te
ma ora l'occhio mio ti ha visto.
6 Perciò mi ravvedo, mi pento
sulla polvere e sulla cenere»”(Gb 42,1-6).
Allora
Dio, il potente, lo reintegra e lo premia:
“12 Il SIGNORE benedisse gli ultimi
anni di Giobbe più dei primi; ed egli ebbe quattordicimila pecore, seimila
cammelli, mille paia di buoi e mille asine. 13 Ebbe pure sette figli e tre figlie; 14 e chiamò la prima, Colomba; la
seconda, Cassia; la terza, Cornustibia. 15 In tutto il paese non c'erano donne così belle come le
figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un'eredità tra i loro fratelli.16 Giobbe, dopo questo, visse
centoquarant'anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla
quarta generazione. 17 Poi
Giobbe morì vecchio e sazio di giorni” (Gb 42,12-17).
Ma il finale tende a far dimenticare che era tutto un gioco
privato tra Dio e Satana:
“6 Un giorno i figli di Dio vennero
a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a
loro. 7 Il SIGNORE disse a
Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e
dal passeggiare per essa». 8 Il
SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro
sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male». 9 Satana rispose al SIGNORE: «È
forse per nulla che Giobbe teme Dio? 10 Non
l'hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che
possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre
tutto il paese. 11 Ma
stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti
rinnega in faccia». 12 Il
SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere;
soltanto, non stender la mano sulla sua persona»”. E Satana si ritirò dalla
presenza del SIGNORE” (Gb 1,6-12): prima si tratta di colpire i beni del servo
di Dio.
“1 Un giorno i figli di Dio vennero
a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a
presentarsi davanti al SIGNORE. 2 Il
SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal
percorrere la terra e dal passeggiare per essa». Il SIGNORE disse a
Satana: 3 «Hai notato il
mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro,
retto, tema Dio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità,
benché tu mi abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun
motivo». 4 Satana rispose
al SIGNORE: «Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua
vita; 5 ma stendi un po'
la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in
faccia». 6 Il SIGNORE
disse a Satana: «Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita”
(Gb 2, 1-6): poi si tratta di colpire la sua persona il suo corpo.
Dio scommette con Satana, benché molti altri innocenti
vengano coinvolti: la servitù incolpevole, i figli e le figlie di Giobbe,
altrettanto incolpevoli. E poi mancavano solo i cosiddetti amici, Elifaz,
Bildad e Sofar, che intervengono a dire che no, Giobbe non può essere giusto,
perché Dio non punisce che i malvagi e il male è sempre conseguenza del
peccato. Ultimo amico è quello che suggerisce, in modo più comprensivo e
caritatevole, verso Giobbe e anche, direi, verso Dio, che forse si tratta una
sofferenza pedagogica: per mezzo del dolore Dio insegna e purifica,
dimenticando ancora che in realtà è tutta una scommessa. A tale dimenticanza fa
da contraltare l’ira di Dio contro Giobbe che ha protestato non conoscendo la
terribile profondità e imperscrutabilità dei disegni divini.
Nulla da dire: il libro di Giobbe rimane un testo
irritante. La sua è una profondità irritante, perché sviluppa un’apologetica
che vuole essere al tempo stesso critica, e mai si risolve sul versante
critico, né su quello apologetico.
Critica
e apologia di Dio
Critica
è la protesta del protagonista:
“11Ma io
non terrò chiusa la mia bocca,
parlerò
nell'angoscia del mio spirito,
mi
lamenterò nell'amarezza del mio cuore!
12Sono
io forse il mare oppure un mostro marino,
perché
tu metta sopra di me una guardia?
13Quando
io dico: «Il mio giaciglio mi darà sollievo,
il mio
letto allevierà il mio lamento»,
14tu
allora mi spaventi con sogni
e con
fantasmi tu mi atterrisci.
15Preferirei
morire soffocato,
la morte
piuttosto che vivere in queste mie ossa.
16Mi sto
consumando, non vivrò più a lungo.
Lasciami,
perché un soffio sono i miei giorni.
17Che
cosa è l'uomo perché tu lo consideri grande
e a lui
rivolga la tua attenzione
18e lo
scruti ogni mattina
e ad
ogni istante lo metta alla prova?
19Fino a
quando da me non toglierai lo sguardo
e non mi
lascerai inghiottire la saliva?
20Se ho
peccato, che cosa ho fatto a te,
o
custode dell'uomo?
Perché
mi hai preso a bersaglio
e sono
diventato un peso per me?
21Perché
non cancelli il mio peccato
e non
dimentichi la mia colpa?
Ben
presto giacerò nella polvere
e, se mi
cercherai, io non ci sarò!»” (Gb 7, 11-21).
Apologetica è la risposta di Dio, sebbene di un tono non tradizionale:
i puri “apologisti” sono solo gli amici di Giobbe. L’ultimo, Eliu, è, potremmo
dire, di una corrente più liberale. Ma Dio fornisce una risposta che non è una
risposta: “Che ne sai tu di quello che ho in testa io!”. E ciò potrebbe essere
compatibile con l’atteggiamento di tutti i precedenti amici di Giobbe, sia i
tradizionalisti, sia i progressisti. Nel “Che ne sai tu”, potrebbe essere allo
stesso modo compresa la reprimenda di un peccato, per quanto inconsapevole, di
Giobbe, di cui viene comunque condannata una forma di orgoglio, oppure si
potrebbe contemplare l’atteggiamento dell’insegnante che zittisce l’alunno
ribelle, accampando superiori ragioni pedagogiche, che quest’ultimo non può
capire. La cosa consolante è che la teologia tradizionalista viene alla fine
sconfessata: i primi tre amici di Giobbe sono aspramente rimproverati quando
Dio si rivolge finalmente a Elifaz: “«La mia ira si è accesa contro di te e
contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio
servo Giobbe. 8 Prendete dunque sette giovenchi e sette montoni e andate dal
mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi. Il mio servo Giobbe pregherà
per voi e io, per riguardo a lui, non punirò la vostra stoltezza, perché non
avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb 42, 7-8).
Rimangono in piedi
solo la prospettiva di Eliu, benché non direttamente avallata, e quella apofatica
(“tu non sai e non puoi sapere”). Anche Giobbe dovrebbe aver detto con san
Paolo: “O profondità della ricchezza e della sapienza e della conoscenza di
Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi, e incomprensibili le sue vie!”
(Rm 11,33). Ma San Paolo celebra e Giobbe soffre. Mi pare ragionevole che non
esploda in quest’ultimo un grido di esultanza, ma deve essere Dio a ricordargli
la sua differenza ontologica. E a quale livello di radicalità appare tale
differenza! Perché, se vogliamo, Dio, inalberandosi, occulta le vere ragioni
della sofferenza del suo servo, che attengono unicamente al suo gioco con
Satana. Ed è qui che si determina fino ad un esito parodistico e canzonatorio
lo stacco Dio-uomo. Il senso non è evidentemente quello di sottolineare l’idea
che Dio sia un Dio ostile e che, alla maniera degli dèi greci, tenda tranelli
alla malcapitata creatura mortale. Mi sembra al contrario sottolineare
implicitamente un fatto: i pensieri di Dio sono così inconoscibili che persino
le cose più tragiche potrebbero in linea di principio essere la manifestazione
fenomenica di un noumeno assolutamente banale. Il che significa che non vi è
alcuna analogia di proporzione tra fenomeno e noumeno. E dunque è inutile
immaginare chissà che cosa quando cerchiamo la ragione della nostra sofferenza:
lassù ci potrebbe essere, per quanto ne sappiamo, un grande torneo di
rubamazzetto, di cui noi poi scontiamo gli esiti. Ciò che è importante è
tuttavia non fare domande tendenziose, che presuppongano, cioè, una chiamata di
Dio sul banco degli imputati, perché sarebbe come voler giudicare qualcosa la
cui ragione è avvolta nel più impenetrabile dei misteri, tanto che i metri di
giudizio fenomenici, ai quali noi siamo costitutivamente consegnati, appaiono per
loro natura intima irrispettosi dell’oggetto totalmente trascendente cui
vorrebbero applicarsi. Eccoci qui: tutto risolto allora? Va bene infine il
pentimento di Giobbe, giustamente premiato, e reintegrato con la piccola
soddisfazione di poter dire ai suoi primi tre amici: “Eravate nel torto,
chiedete perdono!”. Anche Gesù lo conferma: il cieco nato non è così per colpa
dei suoi peccati (Gv 9,3).
Due cose continuano a non piacermi nella risposta divina a Giobbe (lo dico evidentemente sotto il
profilo letterario e ideologico, e relativamente a un’interpretazione a prima
vista): la mancanza di analogia – ovvero l’assenza di qualsiasi traccia e indizio
nel nostro mondo che nel suo minuscolo non sia in grado di rimandare all’infinita
grandezza di Dio - e l’affermazione di
un’onnipotenza assoluta di Dio, che ne è il correlato. Non voglio
inoltrarmi nella raffinatissima questione gnoseologico-metafisica dell’analogia,
non avendo gli strumenti sottomano. Solo rilevo che un rapporto assolutamente
libero tra Dio e il mondo, tanto che Dio potrebbe in ogni momento cambiare le
regole del gioco, dato che tutte le relazioni, comprese quelle logiche, non
coinciderebbero con Dio stesso, bensì sarebbero nella sua arbitraria disponibilità,
così che potrebbero da Lui essere ovunque e in qualsiasi momento rivoluzionate;
questo rapporto che veramente ci indurrebbe a tacere perché la sproporzione tra
noi e Lui non permetterebbe alcuna
parola; questo rapporto tirannico tra Dio e la creazione, che renderebbe
occamisticamente nullo ogni esercizio di intelligenza della fede; ebbene tutto
questo non lo posso ammettere. Perché? Nulla di che, semplicemente non è
cattolico e Dio lo è (non scherzo: si tratta per me di un argomento serissimo e
ineccepibile, forse il più solido e razionale di tutti gli argomenti
immaginabili!). Quindi bisogna cercare altrove, rischiando la Geenna riservata,
come diceva Agostino, per chi scruta i misteri profondi[1].
Mi si potrebbe ribattere che qui, più che la Geenna, si
rischia il ridicolo nel voler affrontare in quattro e quattr’otto problemi che
hanno una dimensione enorme e superano i due millenni di vita senza che nessuno
abbia offerto una soluzione decente. Ma la dignità del tentativo non è data
dalla sua scarsa qualità, che indurrebbe subito a sospenderlo e a ritirarsi in
buon ordine, ma dal permanere in ogni uomo e in ogni istante dell’esperienza
del dolore innocente, o di quello, il che è lo stesso, percepito come tale.
Anzi, direi di più, ogni dolore che l’uomo subisce lo rende innocente, non solo
come espiazione – il dolore proporzionato al male compiuto appare essere
l’unica retribuzione in grado di riabilitare il reo - , bensì come prodotto di
una totale, impotente esposizione all’arbitrio di una forza estranea che
violenta e umilia. Pure Jack lo Squartatore è innocente di fronte al boia e al
torturatore, anche se poi, ma solo poi, noi potremmo dire: “Ben gli sta”. Prima
di quel poi tutti gli uomini normalmente empatizzano con la vittima, perché
essa è sempre tale di fronte all’irrompere dell’energia maligna che ferisce e
uccide.
Mettere
alla prova?
Nel frattempo, il Dio che respinge il lamento critico di
Giobbe, manda suo Figlio in croce, offrendo la prova provata che la sua
trascendenza quasi risentita era in realtà da interpretare benevolmente. Quello
che accade a Gesù, corrobora Giobbe, perché dimostra che esiste agli occhi Dio
un dolore assolutamente innocente, il suo stesso dolore, e che tale dolore
grida dal Figlio al Padre: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”. Unica
risposta del Padre: il suo infinito silenzio, già presupposto nella risposta
non tenera di Jahvè a Giobbe, e definitivamente manifestatosi nel silenzio del
Padre nei confronti dell’innocentissimo dolore di Gesù sul patibolo.
È ben questa esperienza del Padre che rimane in silenzio
nei riguardi sofferenza del Figlio, così come Dio lo rimane nella nostra
personale croce, questa esperienza ultima eppure comunissima, questa esperienza
travolgente, disperante ma inevitabile, rende legittima una teodicea
democratica, comune, da uomo della strada, da quiz e da Facebook. E qui i
destini del Cristo sofferente e dell’uomo sofferente si dividono. Cristo soffre
come pecora muta portata al macello, caricandosi dei nostri peccati ed
espiandoli vicariamente per liberarcene e riaprirci le porte del Regno. Per
l’uomo vale appunto la nostra teodicea popolare.
Questa teodicea, che qui non si disprezza affatto, ma al
contrario si considera del tutto legittima, per salvare Dio dall’intenzione
manifesta di procurare il male della sua creatura, elabora l’apologetica della
“messa alla prova”, con la stessa espressione del drammatico lamento di Giobbe
nel cap. 7:
“Che
cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande
e a lui rivolga la tua attenzione
18e lo scruti ogni
mattina
e ad ogni istante lo metta alla prova?” (Gb 7, 17-18).
Quindi il dolore può essere innocente nel caso sia una messa
alla prova. Ma giustamente la cosa a Giobbe non piace. Si può perfettamente
concordare con lui: che senso ha dire che noi soffriamo perché “Dio ci mette
alla prova”? Nel silenzio di Dio, che oggi in particolare è più che un episodio
rapsodico della relazione divino-umana, il fedele sofferente, con la sua buona
fede, escogita la via d’uscita della messa
alla prova: un modo per sollevare Dio da ogni responsabilità e per
giustificare in modo “agonistico” la lotta dell’uomo contro il male che lo ha
investito. Ma tutto ciò, fatta salva
ovviamente la suddetta buona fede, è
palesemente un espediente ideologico fallimentare. Un Dio buono e onnipotente
non ha alcun bisogno di mettere alla prova nessuno, neppure la sua creatura,
perché conosce la profondità del suo cuore, ha contato i suoi capelli, e sa
anticipatamente dove e quando resisterà e dove e quando cadrà: il dolore è
dunque un orpello perfettamente inutile (piuttosto il diavolo, seguendo Ap
1,10, mette alla prova: “Il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere
per mettervi alla prova”). L’unica cosa che può essere provata è la
libertà dell’uomo, non la sua resistenza al dolore. Dall’uso della sua libertà,
infatti, si deduce se è degno di entrare per la porta stretta, dalla sua caduta
di fronte al dolore, viceversa, non si deduce in via di principio nulla, perché
se a Dio piace colpirci con fulmini e saette, nulla può resistere alla sua
forza. Di fronte al dolore, oltre una certa soglia, diventiamo necessariamente
passivi: la nostra libertà è provata solo con l’accettazione volontaria di
soffrire in nome di un valore più alto, ma il dolore che capita e che sovrasta
non tocca minimamente la nostra libertà perché ci piega a prescindere.
Siamo
peccatori e dunque non abbiamo diritto di lamentarci?
Se non siamo messi alla prova, abbiamo allora il diritto di
lamentarci? No, Dio rimprovera Giobbe in modo assai aspro per i suoi lamenti,
perché essi persino al di là delle sue intenzioni, tendono a portare Dio sul
banco degli imputati, benché lui si affretti e sconfessare tale possibilità.
Suor Canopi
fa giustamente notare che Dio ama e l’amore non fa sorgere un diritto
nell’amato. Dunque, non si ha diritto
di pretendere alcunché dal Dio-amore. Giusto, non si può dire a nessuno, e
tantomeno a Dio: “Se mi ami, allora…”. Ma l’amore ha delle implicazioni: Giobbe
non rivendica diritti nei riguardi di Dio, ma riconosce un’insopportabile
incoerenza: amor est bene velle, e se
l’amore non vuole il bene, non è più tale. Il sofferente innocente, colpito da
mali indicibili, può pertanto notare la difformità logica ed etica tra l’amore
con cui Dio lo dovrebbe trattare e il suo destino contrario, terribilmente
contrario. È colpevole tale notazione, tale consapevolezza? È forse una pretesa
connessa alla rivendicazione sindacale di un diritto solo presuntivamente
violato? È lesa maestà divina? O forse è il semplice e inevitabile esercizio
della ragione in buona coscienza? O forse è un semplice sillogismo etico in cui
la premessa maggiore è l’amore onnipotente di Dio, la minore è la condizione di
sofferenza innocente dell’uomo e la conclusione…
Un convitato di pietra: il peccato originale
Potrebbe a questo punto essere fatta valere la teologia del
peccato originale? Noi soffriamo perché siamo una massa damnata, e dunque la sofferenza è giusta per tutti. Chi non
soffre, cosa che dovrebbe essere la normalità, data l’enormità dell’atto di
ribellione compiuto dai protoparenti e ricaduto su tutta la creazione, è
semplicemente oggetto di una speciale e imperscrutabile misericordia. Il
peccato originale è cosa serissima e costituisce la radice del realismo
inossidabile dell’antropologia cristiana: l’uomo è un animale pericoloso,
benché sia stato fatto poco meno degli angeli. Non se ne esce. O si ricade nel
più nero pessimismo: l’uomo è cattivo, violento e assassino per natura. O si
ricade nel più ingenuo angelismo: l’uomo in fondo è buono, corrotto solo nella
storia e per accidens. Ma, rimanendo
saldi nella luminosa dogmatica del peccato originale, il problema, per quel che
ci riguarda, è solo spostato. Il Dio di Giobbe rivendica l’imperscrutabilità
dei decreti per i quali permette il male, il Dio di Agostino afferma
l’imperscrutabilità dei decreti per i quali salva dal male. In entrambi i casi
si deve accettare un dato perché è dato: ex
auctoritate. Ma la fede non per questo smette di chiedere l’intelletto.
Il
male
Allora bisogna innanzitutto capire, con i giganti alle cui
spalle ci aggrappiamo, qual è il male che ci colpisce e per il quale possiamo
chiamare in causa Qualcuno.
Può essere il male metafisico, fisico e cosmico per il
quale noi soccombiamo travolti da una slavina o annegati in un’alluvione o
sfiniti da una tempesta? No, almeno ex
parte objecti. Gli stoici invitavano gli uomini a elevare il proprio metro
di giudizio al livello del logos
universale e a constatare di conseguenza che quanto ci appare frutto di una
perversione ingiusta del caso ha una ragione nel tutto e nelle dinamiche
sovrastanti ma conoscibili che lo sorreggono. Quindi se noi non compiamo
l’esercizio spirituale di porci dal punto di vista dell’intero, non
comprendiamo una semplice verità: che non c’è nulla di male oggettivamente
in ciò che noi soggettivamente temiamo come una calamità distruttiva e
annichilatrice.
Può essere, detto male, il male morale, cioè quello
liberamente commesso da un nostro simile che ci odia? Chi possiamo chiamare a
rispondere di quel male se non chi lo ha liberamente voluto? C’è qui un autore,
un colpevole, una causa manifesta.
Ma Dio nella sua onnipotenza non potrebbe impedire tutte
queste forme del maligno? “Nulla è impossibile a Dio”. Beh, che ci vuole a
fermare la volontà umana e costringerla ad astenersi da un’azione violenta,
prevaricatrice, assassina? La Bibbia è piena di episodi simili che esprimono la
superiore condizione di Dio rispetto alle creature e l’intervento a favore o
contro di questa o di quella. Ma se l’intervento diventasse sistematico, si
perderebbe l’autonomia dell’agire umano e con essa la libertà della creatura,
il grande abisso di fronte al quale Dio esercita il suo autoabbassamento, la
sua kenosi, la sua autolimitazione, la sua rinuncia ad agire e a
intervenire. L’uomo non è il burattino di Dio. Sarebbe un male peggiore farne
un pupazzetto telecomandato, che non ammettere nel suo cuore la libera adesione
all’iniquità.
Se volessimo viceversa eliminare il male nella sua
dimensione fisico-cosmica saremmo costretti a desiderare la più completa
uniformità. Dovremmo chiedere a Dio di organizzare un mondo privo di ombre, di
gradi, di varietà, di articolazione. Perché dentro l’articolazione c’è lo
spazio per il bene e per il meglio, laddove però, ci insegna il vescovo di
Ippona, a confronto del meglio il bene di per sé diventa male. Ma, ribadisce il
santo africano, un mondo vario e diverso è in sé migliore e più bello, quindi
più vero e giusto, di un modo omogeneo e uniforme, dove il bene creato ha un
solo tono e una sola dimensione. È, mutatis mutandis, anche questo un
appello al logos universale. Accettare il male vuol dire accettare il
più e il meno nel mondo, e il più e il meno sono sufficienti a generare le
maggiori disgrazie per la particolare vita del singolo.
Se consideriamo questi assunti, i due tipi di mali dal
punto di vista di chi li subisce vengono a sovrapporsi. Quella che noi
chiamiamo fatalità, infatti, ci mette
in mezzo a una bufera così come al cospetto di un brigante incontrato per la
strada.
Fatalità è qui un termine chiave, in quanto sinonimo di
impersonale necessità. La strategia argomentativa obbligatoria per giustificare
Dio onnipotente-benevolente è sempre, per quanto difficile sia, sollevarlo
dalla responsabilità connessa a una volizione libera e diretta del male per la
sua creatura.
Leibniz
e il migliore dei mondi possibili
Il vituperato argomento leibniziano rimane sotto questo
profilo insuperabile:
“La ragione sufficiente che ha fatto esistere le cose da
Lui, inoltre, le fa ancora dipendere da Lui, sia nell’esistere che
nell’operare: in effetti è da Dio che le cose ricevono in modo continuo ciò che
consente loro di avere qualche perfezione mentre le imperfezioni derivano dalla
limitazione essenziale e originaria della creatura”
. C’è uno stacco necessario tra Creatore e creatura, perché il Creatore non può
in nessun modo creare qualcosa che sia di dignità pari a Sé perché farebbe
venire immediatamente meno la sua natura divina che non ammette pari. Quindi la
necessità logica – non quella che lo domina, ma quella che coincide con Lui -
gli impedisce di esprimere una potenza che contraddica se stesso (la sua è
appunta una potentia ordinata Dèi).
Ma lo stacco implica la deficienza incolmabile della creatura, la sua
imperfezione ineliminabile. “Ora, prosegue Leibniz, dalla Perfezione suprema di
Dio segue che nel creare l’universo, Egli ha scelto il miglior piano possibile,
in cui c’è la massima varietà con il massimo ordine, il terreno, il luogo e il
tempo più adeguati, la massima quantità di effetti prodotti nei modi più
semplici; le creature inoltre sono state dotate del massimo di potenza, di
conoscenza, di felicità e di bontà, possibili nell’universo. Infatti, poiché
tutti i Possibili pretendono l’Esistenza nell’intelletto divino in proporzione
al loro grado di perfezione, il risultato di tutte queste pretese non può non
essere il mondo attuale come il più perfetto possibile. Senza ciò non si
potrebbe rendere ragione del perché le cose sono andate così e non altrimenti”.
Il più perfetto possibile significa ovviamente, “non del tutto perfetto” … e in
tale mancata perfezione, si insinua l’errore e il male, ancora prima del
peccato come atto deliberato, ancora prima della sua forma cosmica che è il
peccato originale. Prima di esso non solo è logicamente possibile, anzi
obbligatorio, pensare una qualche forma di errore e di erranza, connessa al
necessario allontanamento della creatura dal Creatore e alle sue successive
conseguenze. Il peccato originale si innesta e lavora su questa differenza,
aprendo ulteriormente il varco fino all’abisso dell’iniquità, che tuttavia non
è esattamente l’origine del male in tutti i sensi in cui lo possiamo pensare, e
parimenti non può funzionare come passepartout
della teodicea. È vero che deve esistere una creaturalità massimamente buona,
esattamente come l’ha voluta e pensata il Dio buono, ma in essa la possibilità
remota della caduta non è esclusa né escludibile, perché appunto è connessa
alla differenza creaturale, dimodoché l’albero dal quale è proibito mangiare
costituisce una presenza avente un preciso simbolismo ontologico, prima ancora che
l’errore umano si traducesse in disgraziata realtà.
Dunque, ribadisco, anche in Leibniz la teodicea percorre la
strada della necessità: solo una necessità può sollevare Dio dalla
responsabilità del dolore innocente e del male. Ma il guaio è che essa pure
contraddice l’onnipotenza della divinità che non può inchinarsi a nessun fato.
Non sembra esserci alternativa: o la necessità o la
responsabilità. Leibniz è colui che più si è avvicinato a pensare una loro
sintesi, sviluppando fino al limite massimo consentito il già citato concetto
di potentia ordinata Dei - cioè di una potenza che segue rigorosi canoni
razionali e financo deterministici, in base all’assunto che Dio e la ragione
coincidono - ma forse fino a un punto in cui non riesce più ad essere
convincente.
Su un tema, però, bisogna riflettere: il filosofo tedesco
afferma che questo mondo in cui è pur presente il male è il migliore dei mondi
possibili perché Dio è buono e non può che scegliere il meglio, cioè la
quantità minima di male per esso, benché a noi tale quantità appaia
abbondantemente superata (e qui vale la tesi del peccato originale). La vicenda
di Giobbe sembra suggerire che la quantità minima,
quella assegnata al nostro mondo, sia già esagerata, a meno che non si ammetta
che la sofferenza innocente non esiste e in tal caso tutto è leggibile
attraverso le lenti del concetto di “giusta punizione”. Ma qui torneremmo alla
teologia degli amici di Giobbe che Dio stesso nella conclusione del testo
mostra di sconfessare. Siamo su un crinale difficile, ancora presi in un
dilemma: bisogna mantenere la teologia del peccato originale, senza la quale
non ci sarebbe alcuna immagine autentica della condizione umana attuale, ma
anche dobbiamo ammettere la possibilità dell’innocenza, senza la quale ogni
male destinato all’uomo sarebbe giusto a prescindere (ma poi, come abbiamo già
notato, difficilmente si spiegherebbero, in quest’ultimo caso, la misericordia
e il perdono, riservati solo ad alcuni, che pure non sembrano immuni dalla tara
di un’originaria colpevolezza).
Dio
sceglie il meglio, ma prima ancora ama
In fondo l’idea che Dio abbia scelto il meglio è ancora una
volta inevitabile, perché altrimenti non c’è nessuna teo-dicea e cadono tutti i
problemi (se non quello di spiegare il bene: se un Dio buono non esiste, unde bonum?). Dio sceglie il meglio
perché è buono, il che vale a dire perché ama, in coerenza assoluta con
l’essere Egli stesso Amore in senso eminente e senza residui. Ecco su questo mi
soffermerei, riconsiderando questo “meglio” sub
specie amoris. È chiaro che qui si va a tentoni e si naviga a vista, e se
il ragionamento a un certo punto crolla, non ci sarebbe nulla di che
sorprendersi. Allo stesso modo nulla questio se apparisse saldo e poi
crollasse in un secondo momento, magari dopo una sana e più autorevole lettura.
Sarebbe invece ben strano se tenesse. Guai invece se risultasse originale,
pessimo difetto dal quale fuggo come dalla peste.
Bene, allora proseguiamo con l’inutile ausilio di qualche
faro antinebbia. Sub specie amoris
significa vedere la creazione dal punto di vista del vincolo, il vincolo di
tutte le cose con Dio e tra loro. Il vincolo che è immagine del vincolo trinitario, che vuole anzitutto l’essere
dell’altro, la sua pienezza e la sua realizzazione, ma non senza il proprio che
si realizza nell’essere dell’altro amandolo. Certo Dio non ha bisogno della
creazione per amare, perché il vincolo d’amore già si esprime nella perfezione
della relazione trinitaria. Ma la creazione è un sovrappiù, voluto da Dio con
volontà libera e dunque coerente con l’essere di Dio ma non da esso
necessitata, se non per il fatto che l’essere stesso di Dio è amore (un paradosso
tipico, come cioè ve ne sono moltissimi lì in attesa - anzi in agguato - del
povero dilettante che si incammina nei tortuosi sentieri dell’assoluto). Come
sovrappiù l’amore per sua natura esce persino dai confini della sua perfezione,
comprendendo il superfluo che, amato, diventa essenziale. La creazione,
compenetrata tutta dallo Spirito di Dio, è vincolata in sé dall’amore con cui
la Parola l’ha stabilita e il Padre l’ha pensata e dalla tensione verso
l’alterità assoluta nelle due direzioni: dal Creatore alla creatura e dalla
creatura al Creatore. Nel vincolo ad intra e ad extra essa è
essenzialmente dia-logica, nel senso che il logos di ogni sua parte
interagisce con il logos dell’altra e con la trascendenza del Logos
divino, che attua il parossismo del dialogo nell’Incarnazione-kenosi e nella
Passione. Alla dialogica dell’Incarnazione e della Passione l’uomo risponde con
la dialogica dell’Eucarestia. Ma qui il pane spezzato fonda anche una dialogica
orizzontale, quella della Chiesa-popolo di Dio e di tutta l’umanità alla quale
la Chiesa si rivolge in quanto cattolica.
Dialogica e dialettica
Ora, la dialogica dell’amore, che ha una schietta identità
teologica, è suscettibile di essere interpretata a partire da un punto di vista
ontologico. Tra i cinque generi sommi che ci preparano al salto nella
trascendenza dell’Uno, che per noi è Unitrino, quello più simpaticamente
dialogico e dialettico è il Diverso. Un’idea pensata e capita solo e unicamente
perché affiora sotto il pungolo di una fondamentale questione ontologica. Non
ci sarebbe stato geneticamente alcun Diverso se non fosse stata proposta l’idea
di un Essere assolutamente omogeneo, come ben rotonda sfera. La genealogia
intellettuale del Diverso deve terminare nel suo capostipite, l’Essere. Così
pure come, a prima vista lo deve la sua genealogia ontologica. Ma, in un
secondo momento, lo possiamo vedere anche come vincolo che anticipa l’Essere,
costituendone l’originaria articolazione che precede le parti e le determina
come parti di un sistema-tutto. Il diverso dall’Essere è diverso da sé e quindi uguale all’Essere e
all’Identico, da cui però differisce diversificandosi e rimanendo prima in
Quiete, quando si differenzia dalla sua diversità e piega all’Identico e poi in
Movimento quando dall’Identico e dall’Essere prende congedo. Ma quando prende
congedo dall’Essere, seguendo la lezione del Sofista, non sprofonda nel
nulla, bensì articola l’altro, cioè se stesso in quanto Diverso, che è altro
dall’Essere senza essere nulla, cioè è lo stesso-essere-diverso. Chi non vede
la luminosità dialogica di questa dialettica? Vero amore è questo dia-logo,
perché è una relazione che non finisce e se è vero che si avvita su se stessa,
lo fa in modo fecondo, perché produce infinitamente la realtà che esso vincola
e attorciglia a sé. Vera scienza è questa dialettica che, una volta prodotto il
suo mondo, ne attraversa i gradi dell’opposizione polare e della
differenza, soffermandosi pazientemente sulla misura di ognuno – la misura come
il quanto dialettico del Filebo -, senza disdegnare l’esattezza e le
regole del discorso, e sa passare dalla sfumatissima alterità fino alla più
violenta contraddizione. Vero cammino è questo passaggio vivente e vitale
attraverso la verità che si dipana dall’unità contratta dell’Unitrino alla
molteplicità dispersa dell’infinito universo e mondi, e da questo vuole tornare
a quello per la scala di tutte le creature e di tutte le bellezze.
Un sistema dell’amore: l’essere è diviso da ciò che lo
unisce
Ma questo dialogare e dialettizzarsi del mondo non è nel
mondo senza residui, bensì porta con sé al tempo stesso lo stigma della
Differenza, che è l’ombra della sua luce. Il Diverso nel cammino della realtà
assume sempre la forma del bivio e la tragica dimensione dell’alternativa.
La dialogica mediante cui la ragione passa dall’uno all’altro, tenendoli uniti,
è sempre a un certo punto sospesa a un abisso, perché messa di fronte alla pura
alterità indifferente, essa cerca il proprio altro, la giusta
relazione, che è al tempo stesso esclusiva di tutte le altre. La dialettica,
come scienza e come struttura ontologica è radicalmente monogama, perché
altrimenti sarebbe in-differente. Se un altro valesse l’altro, per ogni cosa
non ci sarebbe più un giusto legame, un legame che è quello e nessun’altro, un
legame vero, cioè un amore per l’unicità insostituibile di quell’alterità che
non è semplicemente altra ma è quell’altra. L’essere può essere
copulativo se è monogamo, e conosce, se è vero che conosce, solo il coniuge a
sé indissolubilmente unito: non osi separare ciò che Dio ha creato molteplice e
dal Diverso e nel Diverso della sua creazione ha voluto unire. Tutti gli altri,
che pure sono realmente altri, non sono per ogni cosa il suo altro, ma sono altri indifferenti, che negano, cioè, la verità
del Diverso. Perciò vanno negati ed esclusi. Devono rimanere nell’ombra, perché
ogni cosa segua il suo cammino di luce. E ogni volta che un bivio si presenta,
in cui due diversi lottano per guadagnarsi il privilegio della vera diversità,
l’altro va escluso come l’ombra della luce che è stata scelta. Questo negativo
che accompagna l’amore, senza il quale l’amore non è amore, non è esattamente
un male, ma è la sua remota possibilità che pure, se la strada giusta viene
imboccata, si getta nella luce, perché la sua esclusione è funzionale alla
luce. Da questa tragica condizione per cui nell’amore l’essere è diviso da
quello stesso amore che lo ha voluto e unito, nasce un dolore, che, essendo
connesso all’amore come il suo necessario residuo laterale, è innocente, si
determina nell’innocenza e dall’innocenza scaturisce. Si tratta di un dolore
perché dolorosa è la condizione scissa, di chi deve camminare sul crinale, nel
timore e nel tremore che la possibilità di fallire divenga una realtà. È il
dolore inevitabile del vivente in statu
viatoris, preso dentro il legame amoroso infinito delle cose, che è
intricato fino all’oscurità e all’angoscia. Tale dolore si riflette nella
passione di Dio, che il Figlio porta nella stessa vita Trinitaria, l’unica
possibile, che la Trinità vive nella sua differenza perfettamente unificata e
nell’unità perfettamente dialettizzata dei Tre amanti, dove la perfezione
dell’unità risiede proprio nella perfezione della differenza che si è
manifestata nell’abbandono del Figlio da parte del Padre nella croce. Anche qui
vi è una dialogica estrema nella separazione e nell’unione, che vince
l’abbandono e lo strazio – il negativo e il male come possibilità estrema
sull’orlo di un’estrema realizzazione - proprio perché lo porta dentro, seppure
vinto per sempre e in eterno.
Ombre nelle tenebre e nella luce
Non è nuova l’eresia secondo cui Dio porterebbe in sé la
presenza vinta e soppressa del male. Forse il residuo di un antico dualismo che
intende giustificare il male mediante una forma pur timida di divinizzazione.
Quindi andiamo con i piedi di piombo. La volontà di Dio non vuole il male, e
non lo concepisce, né lo pensa, né lo ospita. Dove si annida, allora, non la
sua radice, ma, la sua possibilità? La sua possibilità, ancora lontana dalla
realtà, risiede nella logica amorosa del Diverso, che si stira, ancora
possibilmente ma non realmente fino alla negazione e alla contraddizione.
Nondimeno quelle divine sono una contraddizione e una negazione che rimangono un’ombra che si getta nella luce. Cioè
l’effetto di una dinamica chiaroscurale dell’amore che non ne pregiudica la
forza unitiva, la ricchezza creativa, la sovrabbondanza redentiva. E allora
l’ombra del diverso è perfettamente conciliata nella pace dell’unità, come dice
Gregorio Nazianzieno nell’orazione 6:
“Non c’è infatti divisione nella divinità, perché non c’è
nemmeno rottura (la rottura infatti è figlia della divisione), ma così
importante è la concordia della divinità con se stessa e con le creature che
occupano subito il secondo posto dopo Dio, che fra gli altri e più degli altri
nomi con i quali Dio si rallegra di essere chiamato, proprio questo nome di
‘concordia’ occupa il posto di privilegio: ‘Pace’, infatti, e ‘Amore’ ed altri
di tal genere sono gli appellativi con cui Dio viene chiamato e si offre a noi
attraverso la mediazione dei nomi affinché condividiamo almeno in parte queste
virtù che appartengono a Dio”[5].
Quando invece l’ombra
si getta nelle tenebre? Quando nella differenza della creatura si
concretizza l’estrema possibilità di un’interruzione della circolazione
dell’amore: l’amore non circola più, ossia la dialettica circolare del Diverso
che si differenzia da se stesso per amare l’alterità assoluta dell’identico e
dell’Uno, si interrompe e l’ombra della luce si allunga in una lontananza
irrecuperabile, in cui la sua ombrosità più non si distingue dall’oscurità. Il
Diverso diventa lontano, centrifugo, centrifobo e la circolarità virtuosa del
pensiero e dell’essere, fatta di pròodos e
di epistrophé, di inspirazione ed
espirazione, di sistole e diastole si interrompe. L’essere si dis-socia,
l’inimicizia fa la sua comparsa nemmeno come relazione conflittuale in cui i
due, se sono in una lotta, sono in una lotta radicalmente reciproca, ma come lotta contro
la relazione che conduce i due a non potersi più riconoscere nemmeno come
nemici, cioè nemmeno in quel residuo fecondo di fratellanza che è lo scontro
irrefrenabile e irrisolvibile e perciò indissolubile.
Credo che sia sufficientemente determinata questa
lontananza tra l’ombra nella luce e quella nelle tenebre, e al tempo stesso la
dipendenza dialettica dell’una dall’altra, quando si rifletta sul fatto che la
logica dell’amore tutto vincola a sé, anche l’estraneo, anche il terribilmente
e disperatamente estraneo. Di qui la speranza eretica, in epoche differenti, di
Origene e di Papini, di una redenzione escatologica persino di Lucifero,
eretica non perché sia impossibile che accada, ma perché è impossibile che sia
voluta da colui che dovrebbe riconoscere Dio per essere ricondotto nella
relazione luminosa con lui, tornando ad essere il portatore umile di luce
piuttosto che l’orgoglioso millantatore di una luce propria. Ma in linea di
principio il sistema dell’amore comprende anche lui, se egli non volesse
trasformare la dipendenza propria della dialettica dell’amore
nell’autoreferenzialità di una dialettica dell’invidia, che considera l’altro
primariamente ed esclusivamente come pretesto per l’evacuazione del sé, come
termine senza ritorno di un’ira sterilizzatrice, opaca, priva di riflessi e
sorda alle risposte…e dunque a-dialogica e a-dialettica.
Il dolore e l’amore
Che ne è allora del dolore innocente di Giobbe? Come uomo
non smetto di sentire la sua eco, mentre il grazie della creatura al Dio
onnipotente fatica a mantenersi sereno e diventa il grazie rabbioso di chi si
ostina a volere bene senza riuscirvi. Un grazie come un debito restituito per
dovere, per obbligo inestinguibile, ma senza il sorriso tranquillo della
gratitudine dolce e bonaria. Un grazie
che si deve all’autorità anche quando le si imputa un’ingiustizia, e che si
offre con enorme fatica in restituzione
solo perché ci si rende conto, con l’intelletto e non ancora con il cuore, che
tale ingiustizia non può aver commesso se non amando. Perché è proprio questo
ciò che appare quando al libro di Giobbe affianchiamo il Vangelo, e sostiamo
sulla questione della sconcertante scommessa con Satana, giungendo alla
conclusione che essa serve a nascondere più che a rivelare. È certamente un
espediente narrativo, ma, come detto, trova il suo senso nel celare in un
tragicomico ludus l’imperscrutabilità di Dio, che il Padre violentemente
rivendica contro la sua creatura, ma che altrettanto violentemente (di quella
violenza che rapisce il Regno) ripaga sottoponendosi all’infinito dolore
della croce di suo Figlio, per il quale ci si perdoni l’ardire se osiamo
pensare che pure Lui non abbia avuto parole. Proprio a questo aveva aperto
l’amore: l’amore non ha determinato la Passione, che è piuttosto l’effetto
dell’odio e del peccato, ma l’ha resa possibile. L’ombra amorevole della kenosi del Verbo, come sublime atto
trinitario, ha reso possibile l’oscurità del calvario. È questa dialogica di
tutte le cose nel sistema dell’amore - delle cose che assorbono il chiarore del
sole e perciò disegnano forme nerastre sulla terra e addosso agli altri - che
rende possibile, volenti o nolenti – anche nolenti – il nostro as-sociarci con
la nostra sporchevole innocenza all’innocenza più bianca della neve di Cristo
sulla croce, e soprattutto con il nostro lamento balbettato al lamento perfetto
di Cristo abbandonato.
Questo tuttavia rivela, a posteriori, che Dio, anche mentre
giochicchiava con Satana sulla nostra pelle incolpevole e pur destinata a
essere piagata, ci stava amando. Forse non stava propriamente scegliendo il
meglio del migliore tra i mondi possibili, ma stava confermando, mediante
il dramma del Figlio, che il mondo si mantiene il migliore proprio e solo
perché l’Amore, rendendo possibile l’abisso, senza volerlo, non smette di
accompagnare in esso, fino alla profondità più estrema per vincere la sua battaglia
di redenzione e di consolazione fin dove la disperazione crede di aver chiuso
la partita.
[1] Agostino, Confessioni, 11
[5] Gregorio di Nazianzo, Orazione 6 in Idem, Tutte le
orazioni, tr. it di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2000, pp. 237-239