mercoledì 4 dicembre 2024

Il Silenzio. Recensione a Maria Ignazia Angelini, Un silenzio pieno di sguardo, EDB, Bologna 2017(4)


La fede è femmina, essa si determina nella sighé (σιγή), parola che dobbiamo mantenere al femminile e tradurre con silenziosità (anche se poi, per comodità, adotteremo la forma più comune ed eufonica “silenzio”). Questa è la prima considerazione che madre Maria Ignazia Angelini nel suo difficile e affascinante testo, Un silenzio pieno di sguardo, mi induce a compiere. Ecco: a far giustizia delle tante vuote retoriche neofemministe sulla Chiesa maschile ecc. ecc., un testo radicalmente femminile, in radicale consonanza con la femminilità della fede cristiana. Direi che tutto qui è donna, anche la forma, anche il logos, anche lo stile dell’argomentare che cerca di costruire un tessuto di evocazioni e di suggestioni, dentro il quale il lettore maschio fatica a entrare, se non cercando in esso una perduta complementarietà, dopo aver passato troppo tempo a contemplare l’ombelico dei propri sillogismi, onfaloscopia, come la chiamavano i polemisti antichi, per certi versi inevitabile.

Per me, dunque, un esempio straordinario, quello di madre Maria Ignazia, di pensiero al femminile che nemmeno ho trovato nel tutto sommato facile procedere di una grande e seria femminista come Adriana Cavarero che, criticando il freddo razionalismo platonico, se ne fa nondimeno irretire, almeno quanto al procedere lineare e consequenziale dell’argomento filosofico. Al contrario il testo della monaca milanese è un tessuto, come detto, e  fa apparire trame e orditi di esperienza, di autenticità pratica – la pratica della preghiera costante nell’abbazia di Viboldone –, di impegno riflessivo dell’anima, laddove la sighé, dopo essere stata condizione antropologica, giunge come sigillo e compimento teologico del vissuto di fede.

Ma a che proposito e perché parlo di femminilità. Non è solo una questione di stile, ma anche e soprattutto di contenuti. La sighé non è semplicemente il “silenzio tranquillo del raccoglimento”, né ha il carattere di condizione del fedele nel suo intinerarium mentis in Deum quando viene tratto dentro la vita pleromatica e lì si annulla, come in un abisso infinito. Neppure si può descrivere come un’ascesi che disciplina la lingua e la parola evitando la loro dispersione nella chiacchiera mondana. No, è qualcosa di più e d’altro, avverte madre Maria Ignazia. Esso mantiene un carattere dialogico e ha forse il suo modello nel perfetto e silenzioso dialogo intratriinitario, manifestandosi solo successivamente nel rapporto Creatore -creatura grazie all’immagine di sé che il primo lascia nella seconda. In questo dialogo si determina la peculiarità intenzionale del silenzio cioè di apertura della coscienza rivolta-a e quindi disponibile a ricevere ciò a cui si rivolge. Questa ricezione è ascolto e al tempo stesso interrogazione e implica il Mistero come suo oggetto intenzionale, cioè “la realtà intuita come abitata da una trascendenza”.  La Parola è detta una volta per tutte nella creazione di un mondo meraviglioso che si dà alla nostra meravigliata contemplazione. Lì c’è silenzio e stupore. Ma la Parola venuta al mondo prende una carne che viene ferita e corrosa sulla croce fino al compimento finale. Anche ciò avviene nel silenzio. È l’abisso di una sofferenza silenziosa che cambia la matrice di peccato insediatasi nel mondo e la rovescia nello splendore di una gloria eterna. Ma ciò, appunto, avviene nel silenzio, silenzio che è massimamente sonoro come la sofferenza è massimamente gloriosa. La dimensione contemplativa del silenzio è lo sforzo più intenso di accoglienza e di conformazione al silenzio glorioso del Verbum consummatum, per aprire la coscienza credente alla capacità di essere affetti da Cristo, colpiti in pieno perché pienamente esposti all’onda d’urto della redenzione mediante la croce. Il silenzio consente di volgere lo sguardo a colui che hanno, abbiamo, trafitto e tramite questo sguardo agli altri, al mondo in una diversa luce di verità. Il silenzio è quindi pieno di sguardo. Mi sembra di capire questo nell’espressione così evocativa di madre Maria Ignazia: lo sguardo è lo sguardo ricevuto dall’assoluto trafitto ed esaltato nell’agonia della croce, che emette lo spirito nel silenzio della creazione e la cui misericordia trasformatrice colpisce gli occhi e l’anima di chi guarda in silenzio attonito e stupefatto. Questi dispone la sua persona, così affetta, ad una contemplazione che cambia radicalmente il segno della sua vita dalla miseria alla gloria, ridestando una nuova capacità di guardare che riempie il mondo: lo sguardo di chi porta una buona notizia, lo sguardo dell’evangelo, lo sguardo annunziante di una nuova parola nata da quei silenzi.

È evidente che qui il maschile e il femminile sono categorie molto riduttive. Ma è altrettanto vero che la capacità di contemplazione ricettiva, stupefatta e silenziosa è un tratto fondamentale della femminilità. madre Maria Ignazia arriva a citare un commento di Kierkegaard a un passo di san Paolo, 1Tm 2, 11-12 oggi ritenuto un po’ imbarazzante da molti esegeti e anche da qualcuno che troppo spesso sente di doversi scusare per essere cristiano: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo”. Ecco che cosa dice il filosofo danese: “E tu donna, a te è riservato di essere l’immagine dell’uditore e del lettore della Parola che non dimentica. Tu osserva nel modo giusto l’ammonizione dell’Apostolo: ‘La donna taccia nell’assemblea’, stia in silenzio e il suo silenzio esprima quanto profondamente ella fa tesoro della Parola. Non credi al silenzio? Io sì. Permettimi di descriverti la donna uditrice della Parola che non dimentica la Parola; e non dimentica, dopo questa descrizione, di diventare anche tu così. Ella tace, ma tu domandati: che significa questo silenzio? Riflettiamo che proprio questo silenzio è ciò di cui c’è bisogno perché la Parola possa avere presa sugli uomini. L’umanità attuale, infatti, è malata. E se uno chiedesse: ‘ Che si deve fare’, risponderei: ‘Anzitutto procura silenzio! Tutto, infatti, oggi è rumore’ […]. Promuovi il silenzio!’ E questo oggi lo può la donna. Il silenzio è come un’atmosfera, l’atmosfera fondamentale in cui ci si immerge: perciò si dice ‘fondamentale’, perché sta a fondamento. Ebbene la donna, che si specchia nello specchio della Parola, ella diventa veramente silenziosa”.

Il suo silenzio, nato all’ombra della Parola, è veramente eloquente e in grado di insegnare più di quelle parole nate da un professionismo retorico, abile nel gestire questo strumento piccolissimo, la parola, con cui fare cose grandissime (Gorgia). Se oggi c’è un “cultus” da condannare, un cultus né maschile né femminile, ma proprio di quell’umanità indifferenziata che vive al livello delle dinamiche ripetitive del desiderio e del consumo, è proprio la retorica. La retorica, ci insegna Carlo Michelstaedter, è l’attitudine utilitarista a chiedere alle cose di poter continuare a protrarre se stessi nel tempo, senza mai sfiorare la questione del senso, perché esso risiede nella dilazione continua della fine, che nondimeno verrà a troncare il processo di metastasi viziosa della loquacità pubblicitaria (perché promuove sé illudendosi di guadagnare a sé il consenso del mondo) nel silenzio malato della disperazione. Il silenzio sano della contemplazione ne è il grande antidoto, perché insegna a distruggere l’essenza autocentrata e autoreferenziale della retorica. Madre Maria Ignazia, che propone una silloge commentata e ragionata della sapienza dei padri del deserto di ambito ellenistico e siriaco sul silenzio, coglie nel segno quando riporta questo apoftegma: “Un fratello che viveva con altri fratelli chiese a padre Bessarione: ‘Che cosa debbo fare?’. Dice a lui l’anziano: ‘Taci e non misurare te stesso’”. Quanto diventiamo stranieri al mondo della misura, non quella metafisica, ma quella statistica ed economica, applicando questa continenza della comunicazione retorica, che esalta sé come centro mentre misura con i propri criteri l’altro per dominarlo e assoggettarlo? Il silenzio realizza esattamente nella contemplazione affettiva del Mistero di un’alterità smisurata questa estraneità al mondo della mathesis immanente, circolare, nutrita di parole funzionali che non dicono ma se-ducono. La proposta del silenzio anti retorico è anche una proposta di xeniteia, di estraneità, dell’essere straniero mediante una forma discreta ma radicale di anachoresis, di allontanamento dalla città e dalla responsabilità civile. La vita monastica, dal mondo del cristianesimo primitivo dei padri del deserto, attraverso la grande esplosione dell’epoca medievale, continua a parlarci, benché con la discrezione umile che si addice non più alla gloria dei trionfi e dello splendore dell’epoca delle cattedrali, ma all’umiltà di una fede crocifissa nel mondo moderno. Continua a parlarci di come exire de saeculo, pure dentro la vita nel mondo, di una disciplina ferrea che diventa intensamente mariana quando invoca l’umiltà dei servi che silenziosamente operano nel loro essere-risposta a un dono, nel loro essere dipendenti da una grazia. La forza potente dell’ascolto produce in loro una differenza ontologica che è l’alterità da questo mondo e dalle sue logiche. Il ritiro agonico dal mondo, nella lotta incessante contro il profluvio di cose e di parole, è condizione per tornare a fecondarlo mediante il silenzio eloquente dello spirito, che parla ogni lingua ma procede dal silenzio del Padre e del Figlio, nel dialogo dell’abbandono di Cristo sulla croce come ultimo atto della sua relazione terrena con il Padre: per Isacco di Ninive, sottolinea madre Maria Ignazia, la funzione generativa del silenzio è dominante, è come il grembo del senso, il principio di scioglimento della durezza del vivere e del cuore, è il “mistero del secolo futuro”, mentre “le parole sono l’organo di questo mondo”.

Lasciarsi coinvolgere in questa dinamica di rifondazione del mondo a partire dalla croce, significa rispondere sì a quel Dio “che non si compiace della veemenza del tuono, né dell’ardore del fuoco”, ma si è manifestato “nella dolcezza di un sottile silenzio”. “Dio - dice Efrem il Siro commentando l’episodio di Elia sull’Oreb (1Re 19,12) - prima rivela la sua forza trascendente” e spaventa Elia perché il suo cuore “si allargasse così da poter contenere lo Spirito, la forza e la profezia […] . E dopo tutto questo “Elia intese il mormorio di un silenzio leggero” e Dio “cominciò a rivelarsi amichevolmente, dolcemente a Elia”. La dolcezza di Dio sull’Oreb trova il massimo compimento nella croce con la quale il Dio misericordioso muore nel silenzio cui vengono condannati i servi, per offrire l’eterna compagnia della sua dolcezza a chiunque ascolti e riceva la grazia che sgorga dal suo sacrificio. Siamo molto al di là dello zelo per la giustizia che aveva caratterizzato l’azione del profeta Elia nei confronti del re idolatra Acab e della regina Gezabele (1Re 17-18): “Perché non imiti dunque la dolcezza del tuo Signore, commenta Efrem, non addolcisci lo zelo che urge per punire i figli del tuo popolo. Così da diventare un intercessore per loro, invece che il loro accusatore?”. Veramente è figura della croce questa improvvisa inversione della lotta nella dolcezza, che ribalta il senso comune e ambisce ad agire su un altro piano, non il grido forte della battaglia, ma il silenzio sottile che lascia esterrefatti, stupefatti, senza parole per come si esprime l’onnipotenza amica, la violenza amante, la forza benevolente di Dio, che distrugge il nemico salvandolo, e lo salva sacrificando se stesso. E quale insegnamento continua a fornire a noi oggi questo modello del profeta e del Figlio, in un’epoca in cui coloro che conducono guerre fanno fuoco sempre in nome della giustizia, sentendosi come strumenti di Dio, prima di portare nei suoi confronti l’enorme responsabilità della fede e dell’obbedienza.

Fino ad ora mi era parso che il silenzio di Dio fosse da leggere nel modo di Sergio Quinzio: quasi un ritirarsi di Dio, le cui promesse di redenzione appaiono continuamente contraddette da una storia che nega nei fatti ciò che la fede afferma, cioè che Egli ne è il signore. Dio rimane silente certo di fronte al dolore e al male, ma in particolare a un male che lo riguarda da vicino: l’apostasia, il nichilismo, la disfatta esteriore e interiore dei cristiani, che non perdono per la normale e financo prevedibile incoerenza degli uomini, ma per l’abbandono orgoglioso della fiducia e del timore nei riguardi dello stesso nome di Dio.

Invece madre Maria Ignazia mi suggerisce qualcosa di diverso: dal silenzio dell’ Oreb a quello del Verbum consummatum, fino al silenzio dell’eterno colloquio tra le persone della santissima Trinità, tutto conduce ad altri silenzi e ad altre parole: “L’uomo è troppo piccolo per comprendere tutti i linguaggi. Se potesse comprendere il linguaggio dei Vigilanti (angeli, n.d.r.), allora potrebbe elevarsi fino alla comprensione del linguaggio originario che tra loro parlano il Padre e il Figlio. Ma il nostro linguaggio è straniero alla voce degli animali e il linguaggio dei Vigilanti è straniero a ogni altro linguaggio. Il linguaggio con il quale il Padre parla al Figlio è straniero anche ai Vigilanti. Ma quale bontà, la sua. Come ha rivestito tutte le forme per consentirci di vedere, così ha adottato tutte le voci per trasmetterci il suo insegnamento. La sua natura è unica, ma così può essere vista. Il suo silenzio è unico, ma può così venir inteso”.

E tale silenzio, che porta con sé la radice teologica di ogni bellezza, cioè la purissima gratuità – che bella definizione! più radicale di quelle semplicemente filosofiche che alludono a  integritas, proportio e claritas – promuove il silenzio dell’ascolto e della meraviglia che, poi, effonde nel canto e nel giubilo. Madre Maria Ignazia fa più volte riferimento ad Agostino. Io mi permetto di aggiungere Jacopone da Todi, il cui Iubelo del core mi sembra si attagli eccezionalmente bene a questo contesto, cantando quello che potremmo dire il momento effusivo del silenzio accogliente della fede, proprio di un cuore ferito da Dio, cioè affetto fino alla lacerazione da un amore senza misura:

O iubelo de core,

che fai cantar d’amore!

 

Quanno iubel se scalda,

sì fa l’omo cantare,

e la lengua barbaglia

e non sa que se parlare;

drento no ‘l pò celare,

(tant’è granne!) el dolzore.

 

Quanno iubel è acceso,

sì fa l’omo clamare;

lo cor d’amor è appreso,

che nol pò comportare:

stridenno el fa gridare,

e non virgogna allore.

 

Quanno iubelo ha preso

lo core ennamorato,

la gente l’a ’n deriso,

pensanno el suo parlato,

parlanno esmesurato

de que sente calore.

 

O iubel, dolce gaudio

ch’è’ drento ne la mente!

Lo cor deventa savio

celar so convenente;

non pò esser soffrente

che non faccia clamore.

 

Chi non à costumanza

te reputa empazzito,

vedenno esvalïanza

com’om ch’è desvanito.

Dentr’a lo cor firito,

non se sente de fore.

mercoledì 23 ottobre 2024

Mettere alla prova? Saggetto presuntuoso di teodicea

 

 

Giobbe: un testo e una vicenda “irritanti”

 

“19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore,
dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quando egli ha in avversione il pane
e lo ripugnano i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma e sparisce,
mentre le ossa, prima invisibili,
gli escon fuori;
22 egli si avvicina alla fossa,
e la sua vita a quelli che infliggono la morte” (Gb 33,19-22):

 

durezza della pedagogia divina.

 

1 Allora il SIGNORE rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni
con parole prive di senno?
3 Cingiti i fianchi come un prode;
io ti farò delle domande e tu insegnami!
4 Dov'eri tu quando io fondavo la terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza.
5 Chi ne fissò le dimensioni, se lo sai,
o chi tirò sopra di essa la corda da misurare?
6 Su che furono poggiate le sue fondamenta,
o chi ne pose la pietra angolare,
7 quando le stelle del mattino cantavano tutte assieme
e tutti i figli di Dio alzavano grida di gioia?
8 Chi chiuse con porte il mare
balzante fuori dal grembo materno,
9 quando gli diedi le nubi come rivestimento
e per fasce l'oscurità,
10 quando gli tracciai dei confini,
gli misi sbarre e porte?
11 Allora gli dissi: "Fin qui tu verrai,
e non oltre;
qui si fermerà l'orgoglio dei tuoi flutti".
12 Hai tu mai, in vita tua, comandato al mattino,
o insegnato il suo luogo all'aurora,
13 perché essa afferri i lembi della terra,
e ne scuota via i malvagi?
14 La terra si trasfigura come creta sotto il sigillo
e appare come vestita di un ricco manto;
15 i malfattori sono privati della luce loro,
e il braccio, alzato già, è spezzato.
16 Sei tu penetrato fino alle sorgenti del mare?
Hai tu passeggiato in fondo all'abisso?
17 Le porte della morte sono state da te scoperte?
Hai tu veduto le porte dell'ombra di morte?
18 Hai tu abbracciato con lo sguardo l'ampiezza della terra?
Parla, se la conosci tutta!
19 Dov'è la via che guida al soggiorno della luce?
Le tenebre dove hanno la loro sede?
20 Le puoi tu guidare verso i loro domini
e conosci i sentieri per ricondurle a casa?»” (Gb 38,1-20):

 

chi può mettere in discussione Dio? Nemmeno la sofferenza del giusto! Il quale da sofferente si ricrede e abiura le sue precedenti proteste:

 

1 Allora Giobbe rispose al SIGNORE e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto
e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno?
Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo;
sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco.
4 Ti prego, ascoltami, e io parlerò;
ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te
ma ora l'occhio mio ti ha visto.
6 Perciò mi ravvedo, mi pento
sulla polvere e sulla cenere»”(Gb 42,1-6).

 

Allora Dio, il potente, lo reintegra e lo premia:

12 Il SIGNORE benedisse gli ultimi anni di Giobbe più dei primi; ed egli ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. 13 Ebbe pure sette figli e tre figlie; 14 e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia. 15 In tutto il paese non c'erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un'eredità tra i loro fratelli.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione. 17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni” (Gb 42,12-17).

 

Ma il finale tende a far dimenticare che era tutto un gioco privato tra Dio e Satana:

6 Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro. 7 Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa». 8 Il SIGNORE disse a Satana: «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male». 9 Satana rispose al SIGNORE: «È forse per nulla che Giobbe teme Dio? 10 Non l'hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia». 12 Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona»”. E Satana si ritirò dalla presenza del SIGNORE” (Gb 1,6-12): prima si tratta di colpire i beni del servo di Dio.

 

1 Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al SIGNORE, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a presentarsi davanti al SIGNORE. 2 Il SIGNORE disse a Satana: «Da dove vieni?» Satana rispose al SIGNORE: «Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa». Il SIGNORE disse a Satana: 3 «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità, benché tu mi abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo». 4 Satana rispose al SIGNORE: «Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita; 5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia». 6 Il SIGNORE disse a Satana: «Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita” (Gb 2, 1-6): poi si tratta di colpire la sua persona il suo corpo.

 

Dio scommette con Satana, benché molti altri innocenti vengano coinvolti: la servitù incolpevole, i figli e le figlie di Giobbe, altrettanto incolpevoli. E poi mancavano solo i cosiddetti amici, Elifaz, Bildad e Sofar, che intervengono a dire che no, Giobbe non può essere giusto, perché Dio non punisce che i malvagi e il male è sempre conseguenza del peccato. Ultimo amico è quello che suggerisce, in modo più comprensivo e caritatevole, verso Giobbe e anche, direi, verso Dio, che forse si tratta una sofferenza pedagogica: per mezzo del dolore Dio insegna e purifica, dimenticando ancora che in realtà è tutta una scommessa. A tale dimenticanza fa da contraltare l’ira di Dio contro Giobbe che ha protestato non conoscendo la terribile profondità e imperscrutabilità dei disegni divini.

Nulla da dire: il libro di Giobbe rimane un testo irritante. La sua è una profondità irritante, perché sviluppa un’apologetica che vuole essere al tempo stesso critica, e mai si risolve sul versante critico, né su quello apologetico.

 

Critica e apologia di Dio

 

Critica è la protesta del protagonista:

 

“11Ma io non terrò chiusa la mia bocca,

parlerò nell'angoscia del mio spirito,

mi lamenterò nell'amarezza del mio cuore!

12Sono io forse il mare oppure un mostro marino,

perché tu metta sopra di me una guardia?

13Quando io dico: «Il mio giaciglio mi darà sollievo,

il mio letto allevierà il mio lamento»,

14tu allora mi spaventi con sogni

e con fantasmi tu mi atterrisci.

15Preferirei morire soffocato,

la morte piuttosto che vivere in queste mie ossa.

16Mi sto consumando, non vivrò più a lungo.

Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni.

17Che cosa è l'uomo perché tu lo consideri grande

e a lui rivolga la tua attenzione

18e lo scruti ogni mattina

e ad ogni istante lo metta alla prova?

19Fino a quando da me non toglierai lo sguardo

e non mi lascerai inghiottire la saliva?

20Se ho peccato, che cosa ho fatto a te,

o custode dell'uomo?

Perché mi hai preso a bersaglio

e sono diventato un peso per me?

21Perché non cancelli il mio peccato

e non dimentichi la mia colpa?

Ben presto giacerò nella polvere

e, se mi cercherai, io non ci sarò!»” (Gb 7, 11-21).

 

Apologetica è la risposta di Dio, sebbene di un tono non tradizionale: i puri “apologisti” sono solo gli amici di Giobbe. L’ultimo, Eliu, è, potremmo dire, di una corrente più liberale. Ma Dio fornisce una risposta che non è una risposta: “Che ne sai tu di quello che ho in testa io!”. E ciò potrebbe essere compatibile con l’atteggiamento di tutti i precedenti amici di Giobbe, sia i tradizionalisti, sia i progressisti. Nel “Che ne sai tu”, potrebbe essere allo stesso modo compresa la reprimenda di un peccato, per quanto inconsapevole, di Giobbe, di cui viene comunque condannata una forma di orgoglio, oppure si potrebbe contemplare l’atteggiamento dell’insegnante che zittisce l’alunno ribelle, accampando superiori ragioni pedagogiche, che quest’ultimo non può capire. La cosa consolante è che la teologia tradizionalista viene alla fine sconfessata: i primi tre amici di Giobbe sono aspramente rimproverati quando Dio si rivolge finalmente a Elifaz: “«La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. 8 Prendete dunque sette giovenchi e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi e io, per riguardo a lui, non punirò la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb 42, 7-8).

 Rimangono in piedi solo la prospettiva di Eliu, benché non direttamente avallata, e quella apofatica (“tu non sai e non puoi sapere”). Anche Giobbe dovrebbe aver detto con san Paolo: “O profondità della ricchezza e della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi, e incomprensibili le sue vie!” (Rm 11,33). Ma San Paolo celebra e Giobbe soffre. Mi pare ragionevole che non esploda in quest’ultimo un grido di esultanza, ma deve essere Dio a ricordargli la sua differenza ontologica. E a quale livello di radicalità appare tale differenza! Perché, se vogliamo, Dio, inalberandosi, occulta le vere ragioni della sofferenza del suo servo, che attengono unicamente al suo gioco con Satana. Ed è qui che si determina fino ad un esito parodistico e canzonatorio lo stacco Dio-uomo. Il senso non è evidentemente quello di sottolineare l’idea che Dio sia un Dio ostile e che, alla maniera degli dèi greci, tenda tranelli alla malcapitata creatura mortale. Mi sembra al contrario sottolineare implicitamente un fatto: i pensieri di Dio sono così inconoscibili che persino le cose più tragiche potrebbero in linea di principio essere la manifestazione fenomenica di un noumeno assolutamente banale. Il che significa che non vi è alcuna analogia di proporzione tra fenomeno e noumeno. E dunque è inutile immaginare chissà che cosa quando cerchiamo la ragione della nostra sofferenza: lassù ci potrebbe essere, per quanto ne sappiamo, un grande torneo di rubamazzetto, di cui noi poi scontiamo gli esiti. Ciò che è importante è tuttavia non fare domande tendenziose, che presuppongano, cioè, una chiamata di Dio sul banco degli imputati, perché sarebbe come voler giudicare qualcosa la cui ragione è avvolta nel più impenetrabile dei misteri, tanto che i metri di giudizio fenomenici, ai quali noi siamo costitutivamente consegnati, appaiono per loro natura intima irrispettosi dell’oggetto totalmente trascendente cui vorrebbero applicarsi. Eccoci qui: tutto risolto allora? Va bene infine il pentimento di Giobbe, giustamente premiato, e reintegrato con la piccola soddisfazione di poter dire ai suoi primi tre amici: “Eravate nel torto, chiedete perdono!”. Anche Gesù lo conferma: il cieco nato non è così per colpa dei suoi peccati (Gv 9,3).

Due cose continuano a non piacermi nella risposta divina a  Giobbe (lo dico evidentemente sotto il profilo letterario e ideologico, e relativamente a un’interpretazione a prima vista): la mancanza di analogia – ovvero l’assenza di qualsiasi traccia e indizio nel nostro mondo che nel suo minuscolo non sia in grado di rimandare all’infinita grandezza di Dio -  e l’affermazione di un’onnipotenza assoluta di Dio, che ne è il correlato. Non voglio inoltrarmi nella raffinatissima questione gnoseologico-metafisica dell’analogia, non avendo gli strumenti sottomano. Solo rilevo che un rapporto assolutamente libero tra Dio e il mondo, tanto che Dio potrebbe in ogni momento cambiare le regole del gioco, dato che tutte le relazioni, comprese quelle logiche, non coinciderebbero con Dio stesso, bensì sarebbero nella sua arbitraria disponibilità, così che potrebbero da Lui essere ovunque e in qualsiasi momento rivoluzionate; questo rapporto che veramente ci indurrebbe a tacere perché la sproporzione tra noi  e Lui non permetterebbe alcuna parola; questo rapporto tirannico tra Dio e la creazione, che renderebbe occamisticamente nullo ogni esercizio di intelligenza della fede; ebbene tutto questo non lo posso ammettere. Perché? Nulla di che, semplicemente non è cattolico e Dio lo è (non scherzo: si tratta per me di un argomento serissimo e ineccepibile, forse il più solido e razionale di tutti gli argomenti immaginabili!). Quindi bisogna cercare altrove, rischiando la Geenna riservata, come diceva Agostino, per chi scruta i misteri profondi[1].

Mi si potrebbe ribattere che qui, più che la Geenna, si rischia il ridicolo nel voler affrontare in quattro e quattr’otto problemi che hanno una dimensione enorme e superano i due millenni di vita senza che nessuno abbia offerto una soluzione decente. Ma la dignità del tentativo non è data dalla sua scarsa qualità, che indurrebbe subito a sospenderlo e a ritirarsi in buon ordine, ma dal permanere in ogni uomo e in ogni istante dell’esperienza del dolore innocente, o di quello, il che è lo stesso, percepito come tale. Anzi, direi di più, ogni dolore che l’uomo subisce lo rende innocente, non solo come espiazione – il dolore proporzionato al male compiuto appare essere l’unica retribuzione in grado di riabilitare il reo - , bensì come prodotto di una totale, impotente esposizione all’arbitrio di una forza estranea che violenta e umilia. Pure Jack lo Squartatore è innocente di fronte al boia e al torturatore, anche se poi, ma solo poi, noi potremmo dire: “Ben gli sta”. Prima di quel poi tutti gli uomini normalmente empatizzano con la vittima, perché essa è sempre tale di fronte all’irrompere dell’energia maligna che ferisce e uccide.

 

Mettere alla prova?

 

Nel frattempo, il Dio che respinge il lamento critico di Giobbe, manda suo Figlio in croce, offrendo la prova provata che la sua trascendenza quasi risentita era in realtà da interpretare benevolmente. Quello che accade a Gesù, corrobora Giobbe, perché dimostra che esiste agli occhi Dio un dolore assolutamente innocente, il suo stesso dolore, e che tale dolore grida dal Figlio al Padre: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”. Unica risposta del Padre: il suo infinito silenzio, già presupposto nella risposta non tenera di Jahvè a Giobbe, e definitivamente manifestatosi nel silenzio del Padre nei confronti dell’innocentissimo dolore di Gesù sul patibolo.

È ben questa esperienza del Padre che rimane in silenzio nei riguardi sofferenza del Figlio, così come Dio lo rimane nella nostra personale croce, questa esperienza ultima eppure comunissima, questa esperienza travolgente, disperante ma inevitabile, rende legittima una teodicea democratica, comune, da uomo della strada, da quiz e da Facebook. E qui i destini del Cristo sofferente e dell’uomo sofferente si dividono. Cristo soffre come pecora muta portata al macello, caricandosi dei nostri peccati ed espiandoli vicariamente per liberarcene e riaprirci le porte del Regno. Per l’uomo vale appunto la nostra teodicea popolare.

Questa teodicea, che qui non si disprezza affatto, ma al contrario si considera del tutto legittima, per salvare Dio dall’intenzione manifesta di procurare il male della sua creatura, elabora l’apologetica della “messa alla prova”, con la stessa espressione del drammatico lamento di Giobbe nel cap. 7:

 

“Che cosa è l’uomo perché tu lo consideri grande
e a lui rivolga la tua attenzione
18e lo scruti ogni mattina
e ad ogni istante lo metta alla prova?” (Gb 7, 17-18).

 

Quindi il dolore può essere innocente nel caso sia una messa alla prova. Ma giustamente la cosa a Giobbe non piace. Si può perfettamente concordare con lui: che senso ha dire che noi soffriamo perché “Dio ci mette alla prova”? Nel silenzio di Dio, che oggi in particolare è più che un episodio rapsodico della relazione divino-umana, il fedele sofferente, con la sua buona fede, escogita la via d’uscita della messa alla prova: un modo per sollevare Dio da ogni responsabilità e per giustificare in modo “agonistico” la lotta dell’uomo contro il male che lo ha investito.  Ma tutto ciò, fatta salva ovviamente la suddetta buona fede, è palesemente un espediente ideologico fallimentare. Un Dio buono e onnipotente non ha alcun bisogno di mettere alla prova nessuno, neppure la sua creatura, perché conosce la profondità del suo cuore, ha contato i suoi capelli, e sa anticipatamente dove e quando resisterà e dove e quando cadrà: il dolore è dunque un orpello perfettamente inutile (piuttosto il diavolo, seguendo Ap 1,10, mette alla prova: “Il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere per mettervi alla prova”). L’unica cosa che può essere provata è la libertà dell’uomo, non la sua resistenza al dolore. Dall’uso della sua libertà, infatti, si deduce se è degno di entrare per la porta stretta, dalla sua caduta di fronte al dolore, viceversa, non si deduce in via di principio nulla, perché se a Dio piace colpirci con fulmini e saette, nulla può resistere alla sua forza. Di fronte al dolore, oltre una certa soglia, diventiamo necessariamente passivi: la nostra libertà è provata solo con l’accettazione volontaria di soffrire in nome di un valore più alto, ma il dolore che capita e che sovrasta non tocca minimamente la nostra libertà perché ci piega a prescindere.

 

Siamo peccatori e dunque non abbiamo diritto di lamentarci?

 

Se non siamo messi alla prova, abbiamo allora il diritto di lamentarci? No, Dio rimprovera Giobbe in modo assai aspro per i suoi lamenti, perché essi persino al di là delle sue intenzioni, tendono a portare Dio sul banco degli imputati, benché lui si affretti e sconfessare tale possibilità. Suor Canopi[2] fa giustamente notare che Dio ama e l’amore non fa sorgere un diritto nell’amato. Dunque, non si ha diritto di pretendere alcunché dal Dio-amore. Giusto, non si può dire a nessuno, e tantomeno a Dio: “Se mi ami, allora…”. Ma l’amore ha delle implicazioni: Giobbe non rivendica diritti nei riguardi di Dio, ma riconosce un’insopportabile incoerenza: amor est bene velle, e se l’amore non vuole il bene, non è più tale. Il sofferente innocente, colpito da mali indicibili, può pertanto notare la difformità logica ed etica tra l’amore con cui Dio lo dovrebbe trattare e il suo destino contrario, terribilmente contrario. È colpevole tale notazione, tale consapevolezza? È forse una pretesa connessa alla rivendicazione sindacale di un diritto solo presuntivamente violato? È lesa maestà divina? O forse è il semplice e inevitabile esercizio della ragione in buona coscienza? O forse è un semplice sillogismo etico in cui la premessa maggiore è l’amore onnipotente di Dio, la minore è la condizione di sofferenza innocente dell’uomo e la conclusione…

 

Un convitato di pietra: il peccato originale

 

Potrebbe a questo punto essere fatta valere la teologia del peccato originale? Noi soffriamo perché siamo una massa damnata, e dunque la sofferenza è giusta per tutti. Chi non soffre, cosa che dovrebbe essere la normalità, data l’enormità dell’atto di ribellione compiuto dai protoparenti e ricaduto su tutta la creazione, è semplicemente oggetto di una speciale e imperscrutabile misericordia. Il peccato originale è cosa serissima e costituisce la radice del realismo inossidabile dell’antropologia cristiana: l’uomo è un animale pericoloso, benché sia stato fatto poco meno degli angeli. Non se ne esce. O si ricade nel più nero pessimismo: l’uomo è cattivo, violento e assassino per natura. O si ricade nel più ingenuo angelismo: l’uomo in fondo è buono, corrotto solo nella storia e per accidens. Ma, rimanendo saldi nella luminosa dogmatica del peccato originale, il problema, per quel che ci riguarda, è solo spostato. Il Dio di Giobbe rivendica l’imperscrutabilità dei decreti per i quali permette il male, il Dio di Agostino afferma l’imperscrutabilità dei decreti per i quali salva dal male. In entrambi i casi si deve accettare un dato perché è dato: ex auctoritate. Ma la fede non per questo smette di chiedere l’intelletto.

 

Il male

 

Allora bisogna innanzitutto capire, con i giganti alle cui spalle ci aggrappiamo, qual è il male che ci colpisce e per il quale possiamo chiamare in causa Qualcuno.

Può essere il male metafisico, fisico e cosmico per il quale noi soccombiamo travolti da una slavina o annegati in un’alluvione o sfiniti da una tempesta? No, almeno ex parte objecti. Gli stoici invitavano gli uomini a elevare il proprio metro di giudizio al livello del logos universale e a constatare di conseguenza che quanto ci appare frutto di una perversione ingiusta del caso ha una ragione nel tutto e nelle dinamiche sovrastanti ma conoscibili che lo sorreggono. Quindi se noi non compiamo l’esercizio spirituale di porci dal punto di vista dell’intero, non comprendiamo una semplice verità: che non c’è nulla di male oggettivamente in ciò che noi soggettivamente temiamo come una calamità distruttiva e annichilatrice.

Può essere, detto male, il male morale, cioè quello liberamente commesso da un nostro simile che ci odia? Chi possiamo chiamare a rispondere di quel male se non chi lo ha liberamente voluto? C’è qui un autore, un colpevole, una causa manifesta.

Ma Dio nella sua onnipotenza non potrebbe impedire tutte queste forme del maligno? “Nulla è impossibile a Dio”. Beh, che ci vuole a fermare la volontà umana e costringerla ad astenersi da un’azione violenta, prevaricatrice, assassina? La Bibbia è piena di episodi simili che esprimono la superiore condizione di Dio rispetto alle creature e l’intervento a favore o contro di questa o di quella. Ma se l’intervento diventasse sistematico, si perderebbe l’autonomia dell’agire umano e con essa la libertà della creatura, il grande abisso di fronte al quale Dio esercita il suo autoabbassamento, la sua kenosi, la sua autolimitazione, la sua rinuncia ad agire e a intervenire. L’uomo non è il burattino di Dio. Sarebbe un male peggiore farne un pupazzetto telecomandato, che non ammettere nel suo cuore la libera adesione all’iniquità.

Se volessimo viceversa eliminare il male nella sua dimensione fisico-cosmica saremmo costretti a desiderare la più completa uniformità. Dovremmo chiedere a Dio di organizzare un mondo privo di ombre, di gradi, di varietà, di articolazione. Perché dentro l’articolazione c’è lo spazio per il bene e per il meglio, laddove però, ci insegna il vescovo di Ippona, a confronto del meglio il bene di per sé diventa male. Ma, ribadisce il santo africano, un mondo vario e diverso è in sé migliore e più bello, quindi più vero e giusto, di un modo omogeneo e uniforme, dove il bene creato ha un solo tono e una sola dimensione. È, mutatis mutandis, anche questo un appello al logos universale. Accettare il male vuol dire accettare il più e il meno nel mondo, e il più e il meno sono sufficienti a generare le maggiori disgrazie per la particolare vita del singolo.

Se consideriamo questi assunti, i due tipi di mali dal punto di vista di chi li subisce vengono a sovrapporsi. Quella che noi chiamiamo fatalità, infatti, ci mette in mezzo a una bufera così come al cospetto di un brigante incontrato per la strada.

Fatalità è qui un termine chiave, in quanto sinonimo di impersonale necessità. La strategia argomentativa obbligatoria per giustificare Dio onnipotente-benevolente è sempre, per quanto difficile sia, sollevarlo dalla responsabilità connessa a una volizione libera e diretta del male per la sua creatura.

 

Leibniz e il migliore dei mondi possibili

 

Il vituperato argomento leibniziano rimane sotto questo profilo insuperabile:

“La ragione sufficiente che ha fatto esistere le cose da Lui, inoltre, le fa ancora dipendere da Lui, sia nell’esistere che nell’operare: in effetti è da Dio che le cose ricevono in modo continuo ciò che consente loro di avere qualche perfezione mentre le imperfezioni derivano dalla limitazione essenziale e originaria della creatura”[3] . C’è uno stacco necessario tra Creatore e creatura, perché il Creatore non può in nessun modo creare qualcosa che sia di dignità pari a Sé perché farebbe venire immediatamente meno la sua natura divina che non ammette pari. Quindi la necessità logica – non quella che lo domina, ma quella che coincide con Lui - gli impedisce di esprimere una potenza che contraddica se stesso (la sua è appunta una potentia ordinata Dèi). Ma lo stacco implica la deficienza incolmabile della creatura, la sua imperfezione ineliminabile. “Ora, prosegue Leibniz, dalla Perfezione suprema di Dio segue che nel creare l’universo, Egli ha scelto il miglior piano possibile, in cui c’è la massima varietà con il massimo ordine, il terreno, il luogo e il tempo più adeguati, la massima quantità di effetti prodotti nei modi più semplici; le creature inoltre sono state dotate del massimo di potenza, di conoscenza, di felicità e di bontà, possibili nell’universo. Infatti, poiché tutti i Possibili pretendono l’Esistenza nell’intelletto divino in proporzione al loro grado di perfezione, il risultato di tutte queste pretese non può non essere il mondo attuale come il più perfetto possibile. Senza ciò non si potrebbe rendere ragione del perché le cose sono andate così e non altrimenti”[4]. Il più perfetto possibile significa ovviamente, “non del tutto perfetto” … e in tale mancata perfezione, si insinua l’errore e il male, ancora prima del peccato come atto deliberato, ancora prima della sua forma cosmica che è il peccato originale. Prima di esso non solo è logicamente possibile, anzi obbligatorio, pensare una qualche forma di errore e di erranza, connessa al necessario allontanamento della creatura dal Creatore e alle sue successive conseguenze. Il peccato originale si innesta e lavora su questa differenza, aprendo ulteriormente il varco fino all’abisso dell’iniquità, che tuttavia non è esattamente l’origine del male in tutti i sensi in cui lo possiamo pensare, e parimenti non può funzionare come passepartout della teodicea. È vero che deve esistere una creaturalità massimamente buona, esattamente come l’ha voluta e pensata il Dio buono, ma in essa la possibilità remota della caduta non è esclusa né escludibile, perché appunto è connessa alla differenza creaturale, dimodoché l’albero dal quale è proibito mangiare costituisce una presenza avente un preciso simbolismo ontologico, prima ancora che l’errore umano si traducesse in disgraziata realtà.

Dunque, ribadisco, anche in Leibniz la teodicea percorre la strada della necessità: solo una necessità può sollevare Dio dalla responsabilità del dolore innocente e del male. Ma il guaio è che essa pure contraddice l’onnipotenza della divinità che non può inchinarsi a nessun fato.

Non sembra esserci alternativa: o la necessità o la responsabilità. Leibniz è colui che più si è avvicinato a pensare una loro sintesi, sviluppando fino al limite massimo consentito il già citato concetto di potentia ordinata Dei - cioè di una potenza che segue rigorosi canoni razionali e financo deterministici, in base all’assunto che Dio e la ragione coincidono - ma forse fino a un punto in cui non riesce più ad essere convincente.

Su un tema, però, bisogna riflettere: il filosofo tedesco afferma che questo mondo in cui è pur presente il male è il migliore dei mondi possibili perché Dio è buono e non può che scegliere il meglio, cioè la quantità minima di male per esso, benché a noi tale quantità appaia abbondantemente superata (e qui vale la tesi del peccato originale). La vicenda di Giobbe sembra suggerire che la quantità minima, quella assegnata al nostro mondo, sia già esagerata, a meno che non si ammetta che la sofferenza innocente non esiste e in tal caso tutto è leggibile attraverso le lenti del concetto di “giusta punizione”. Ma qui torneremmo alla teologia degli amici di Giobbe che Dio stesso nella conclusione del testo mostra di sconfessare. Siamo su un crinale difficile, ancora presi in un dilemma: bisogna mantenere la teologia del peccato originale, senza la quale non ci sarebbe alcuna immagine autentica della condizione umana attuale, ma anche dobbiamo ammettere la possibilità dell’innocenza, senza la quale ogni male destinato all’uomo sarebbe giusto a prescindere (ma poi, come abbiamo già notato, difficilmente si spiegherebbero, in quest’ultimo caso, la misericordia e il perdono, riservati solo ad alcuni, che pure non sembrano immuni dalla tara di un’originaria colpevolezza).

 

Dio sceglie il meglio, ma prima ancora ama

 

In fondo l’idea che Dio abbia scelto il meglio è ancora una volta inevitabile, perché altrimenti non c’è nessuna teo-dicea e cadono tutti i problemi (se non quello di spiegare il bene: se un Dio buono non esiste, unde bonum?). Dio sceglie il meglio perché è buono, il che vale a dire perché ama, in coerenza assoluta con l’essere Egli stesso Amore in senso eminente e senza residui. Ecco su questo mi soffermerei, riconsiderando questo “meglio” sub specie amoris. È chiaro che qui si va a tentoni e si naviga a vista, e se il ragionamento a un certo punto crolla, non ci sarebbe nulla di che sorprendersi. Allo stesso modo nulla questio se apparisse saldo e poi crollasse in un secondo momento, magari dopo una sana e più autorevole lettura. Sarebbe invece ben strano se tenesse. Guai invece se risultasse originale, pessimo difetto dal quale fuggo come dalla peste.

Bene, allora proseguiamo con l’inutile ausilio di qualche faro antinebbia. Sub specie amoris significa vedere la creazione dal punto di vista del vincolo, il vincolo di tutte le cose con Dio e tra loro. Il vincolo che è immagine del vincolo trinitario, che vuole anzitutto l’essere dell’altro, la sua pienezza e la sua realizzazione, ma non senza il proprio che si realizza nell’essere dell’altro amandolo. Certo Dio non ha bisogno della creazione per amare, perché il vincolo d’amore già si esprime nella perfezione della relazione trinitaria. Ma la creazione è un sovrappiù, voluto da Dio con volontà libera e dunque coerente con l’essere di Dio ma non da esso necessitata, se non per il fatto che l’essere stesso di Dio è amore (un paradosso tipico, come cioè ve ne sono moltissimi lì in attesa - anzi in agguato - del povero dilettante che si incammina nei tortuosi sentieri dell’assoluto). Come sovrappiù l’amore per sua natura esce persino dai confini della sua perfezione, comprendendo il superfluo che, amato, diventa essenziale. La creazione, compenetrata tutta dallo Spirito di Dio, è vincolata in sé dall’amore con cui la Parola l’ha stabilita e il Padre l’ha pensata e dalla tensione verso l’alterità assoluta nelle due direzioni: dal Creatore alla creatura e dalla creatura al Creatore. Nel vincolo ad intra e ad extra essa è essenzialmente dia-logica, nel senso che il logos di ogni sua parte interagisce con il logos dell’altra e con la trascendenza del Logos divino, che attua il parossismo del dialogo nell’Incarnazione-kenosi e nella Passione. Alla dialogica dell’Incarnazione e della Passione l’uomo risponde con la dialogica dell’Eucarestia. Ma qui il pane spezzato fonda anche una dialogica orizzontale, quella della Chiesa-popolo di Dio e di tutta l’umanità alla quale la Chiesa si rivolge in quanto cattolica.

 

Dialogica e dialettica

 

Ora, la dialogica dell’amore, che ha una schietta identità teologica, è suscettibile di essere interpretata a partire da un punto di vista ontologico. Tra i cinque generi sommi che ci preparano al salto nella trascendenza dell’Uno, che per noi è Unitrino, quello più simpaticamente dialogico e dialettico è il Diverso. Un’idea pensata e capita solo e unicamente perché affiora sotto il pungolo di una fondamentale questione ontologica. Non ci sarebbe stato geneticamente alcun Diverso se non fosse stata proposta l’idea di un Essere assolutamente omogeneo, come ben rotonda sfera. La genealogia intellettuale del Diverso deve terminare nel suo capostipite, l’Essere. Così pure come, a prima vista lo deve la sua genealogia ontologica. Ma, in un secondo momento, lo possiamo vedere anche come vincolo che anticipa l’Essere, costituendone l’originaria articolazione che precede le parti e le determina come parti di un sistema-tutto. Il diverso dall’Essere  è diverso da sé e quindi uguale all’Essere e all’Identico, da cui però differisce diversificandosi e rimanendo prima in Quiete, quando si differenzia dalla sua diversità e piega all’Identico e poi in Movimento quando dall’Identico e dall’Essere prende congedo. Ma quando prende congedo dall’Essere, seguendo la lezione del Sofista, non sprofonda nel nulla, bensì articola l’altro, cioè se stesso in quanto Diverso, che è altro dall’Essere senza essere nulla, cioè è lo stesso-essere-diverso. Chi non vede la luminosità dialogica di questa dialettica? Vero amore è questo dia-logo, perché è una relazione che non finisce e se è vero che si avvita su se stessa, lo fa in modo fecondo, perché produce infinitamente la realtà che esso vincola e attorciglia a sé. Vera scienza è questa dialettica che, una volta prodotto il suo mondo, ne attraversa i gradi dell’opposizione polare e della differenza, soffermandosi pazientemente sulla misura di ognuno – la misura come il quanto dialettico del Filebo -, senza disdegnare l’esattezza e le regole del discorso, e sa passare dalla sfumatissima alterità fino alla più violenta contraddizione. Vero cammino è questo passaggio vivente e vitale attraverso la verità che si dipana dall’unità contratta dell’Unitrino alla molteplicità dispersa dell’infinito universo e mondi, e da questo vuole tornare a quello per la scala di tutte le creature e di tutte le bellezze.

 

Un sistema dell’amore: l’essere è diviso da ciò che lo unisce

 

Ma questo dialogare e dialettizzarsi del mondo non è nel mondo senza residui, bensì porta con sé al tempo stesso lo stigma della Differenza, che è l’ombra della sua luce. Il Diverso nel cammino della realtà assume sempre la forma del bivio e la tragica dimensione dell’alternativa. La dialogica mediante cui la ragione passa dall’uno all’altro, tenendoli uniti, è sempre a un certo punto sospesa a un abisso, perché messa di fronte alla pura alterità indifferente, essa cerca il proprio altro, la giusta relazione, che è al tempo stesso esclusiva di tutte le altre. La dialettica, come scienza e come struttura ontologica è radicalmente monogama, perché altrimenti sarebbe in-differente. Se un altro valesse l’altro, per ogni cosa non ci sarebbe più un giusto legame, un legame che è quello e nessun’altro, un legame vero, cioè un amore per l’unicità insostituibile di quell’alterità che non è semplicemente altra ma è quell’altra. L’essere può essere copulativo se è monogamo, e conosce, se è vero che conosce, solo il coniuge a sé indissolubilmente unito: non osi separare ciò che Dio ha creato molteplice e dal Diverso e nel Diverso della sua creazione ha voluto unire. Tutti gli altri, che pure sono realmente altri, non sono per ogni cosa il suo altro, ma sono altri indifferenti, che negano, cioè, la verità del Diverso. Perciò vanno negati ed esclusi. Devono rimanere nell’ombra, perché ogni cosa segua il suo cammino di luce. E ogni volta che un bivio si presenta, in cui due diversi lottano per guadagnarsi il privilegio della vera diversità, l’altro va escluso come l’ombra della luce che è stata scelta. Questo negativo che accompagna l’amore, senza il quale l’amore non è amore, non è esattamente un male, ma è la sua remota possibilità che pure, se la strada giusta viene imboccata, si getta nella luce, perché la sua esclusione è funzionale alla luce. Da questa tragica condizione per cui nell’amore l’essere è diviso da quello stesso amore che lo ha voluto e unito, nasce un dolore, che, essendo connesso all’amore come il suo necessario residuo laterale, è innocente, si determina nell’innocenza e dall’innocenza scaturisce. Si tratta di un dolore perché dolorosa è la condizione scissa, di chi deve camminare sul crinale, nel timore e nel tremore che la possibilità di fallire divenga una realtà. È il dolore inevitabile del vivente in statu viatoris, preso dentro il legame amoroso infinito delle cose, che è intricato fino all’oscurità e all’angoscia. Tale dolore si riflette nella passione di Dio, che il Figlio porta nella stessa vita Trinitaria, l’unica possibile, che la Trinità vive nella sua differenza perfettamente unificata e nell’unità perfettamente dialettizzata dei Tre amanti, dove la perfezione dell’unità risiede proprio nella perfezione della differenza che si è manifestata nell’abbandono del Figlio da parte del Padre nella croce. Anche qui vi è una dialogica estrema nella separazione e nell’unione, che vince l’abbandono e lo strazio – il negativo e il male come possibilità estrema sull’orlo di un’estrema realizzazione - proprio perché lo porta dentro, seppure vinto per sempre e in eterno.

 

Ombre nelle tenebre e nella luce

 

Non è nuova l’eresia secondo cui Dio porterebbe in sé la presenza vinta e soppressa del male. Forse il residuo di un antico dualismo che intende giustificare il male mediante una forma pur timida di divinizzazione. Quindi andiamo con i piedi di piombo. La volontà di Dio non vuole il male, e non lo concepisce, né lo pensa, né lo ospita. Dove si annida, allora, non la sua radice, ma, la sua possibilità? La sua possibilità, ancora lontana dalla realtà, risiede nella logica amorosa del Diverso, che si stira, ancora possibilmente ma non realmente fino alla negazione e alla contraddizione. Nondimeno quelle divine sono una contraddizione e una negazione che rimangono un’ombra che si getta nella luce. Cioè l’effetto di una dinamica chiaroscurale dell’amore che non ne pregiudica la forza unitiva, la ricchezza creativa, la sovrabbondanza redentiva. E allora l’ombra del diverso è perfettamente conciliata nella pace dell’unità, come dice Gregorio Nazianzieno nell’orazione 6:

 

“Non c’è infatti divisione nella divinità, perché non c’è nemmeno rottura (la rottura infatti è figlia della divisione), ma così importante è la concordia della divinità con se stessa e con le creature che occupano subito il secondo posto dopo Dio, che fra gli altri e più degli altri nomi con i quali Dio si rallegra di essere chiamato, proprio questo nome di ‘concordia’ occupa il posto di privilegio: ‘Pace’, infatti, e ‘Amore’ ed altri di tal genere sono gli appellativi con cui Dio viene chiamato e si offre a noi attraverso la mediazione dei nomi affinché condividiamo almeno in parte queste virtù che appartengono a Dio”[5].

 

Quando invece l’ombra si getta nelle tenebre? Quando nella differenza della creatura si concretizza l’estrema possibilità di un’interruzione della circolazione dell’amore: l’amore non circola più, ossia la dialettica circolare del Diverso che si differenzia da se stesso per amare l’alterità assoluta dell’identico e dell’Uno, si interrompe e l’ombra della luce si allunga in una lontananza irrecuperabile, in cui la sua ombrosità più non si distingue dall’oscurità. Il Diverso diventa lontano, centrifugo, centrifobo e la circolarità virtuosa del pensiero e dell’essere, fatta di pròodos e di epistrophé, di inspirazione ed espirazione, di sistole e diastole si interrompe. L’essere si dis-socia, l’inimicizia fa la sua comparsa nemmeno come relazione conflittuale in cui i due, se sono in una lotta, sono in una lotta radicalmente reciproca, ma come lotta contro la relazione che conduce i due a non potersi più riconoscere nemmeno come nemici, cioè nemmeno in quel residuo fecondo di fratellanza che è lo scontro irrefrenabile e irrisolvibile e perciò indissolubile.

Credo che sia sufficientemente determinata questa lontananza tra l’ombra nella luce e quella nelle tenebre, e al tempo stesso la dipendenza dialettica dell’una dall’altra, quando si rifletta sul fatto che la logica dell’amore tutto vincola a sé, anche l’estraneo, anche il terribilmente e disperatamente estraneo. Di qui la speranza eretica, in epoche differenti, di Origene e di Papini, di una redenzione escatologica persino di Lucifero, eretica non perché sia impossibile che accada, ma perché è impossibile che sia voluta da colui che dovrebbe riconoscere Dio per essere ricondotto nella relazione luminosa con lui, tornando ad essere il portatore umile di luce piuttosto che l’orgoglioso millantatore di una luce propria. Ma in linea di principio il sistema dell’amore comprende anche lui, se egli non volesse trasformare la dipendenza propria della dialettica dell’amore nell’autoreferenzialità di una dialettica dell’invidia, che considera l’altro primariamente ed esclusivamente come pretesto per l’evacuazione del sé, come termine senza ritorno di un’ira sterilizzatrice, opaca, priva di riflessi e sorda alle risposte…e dunque a-dialogica e a-dialettica.

 

Il dolore e l’amore

 

Che ne è allora del dolore innocente di Giobbe? Come uomo non smetto di sentire la sua eco, mentre il grazie della creatura al Dio onnipotente fatica a mantenersi sereno e diventa il grazie rabbioso di chi si ostina a volere bene senza riuscirvi. Un grazie come un debito restituito per dovere, per obbligo inestinguibile, ma senza il sorriso tranquillo della gratitudine dolce e bonaria.  Un grazie che si deve all’autorità anche quando le si imputa un’ingiustizia, e che si offre con enorme fatica in restituzione solo perché ci si rende conto, con l’intelletto e non ancora con il cuore, che tale ingiustizia non può aver commesso se non amando. Perché è proprio questo ciò che appare quando al libro di Giobbe affianchiamo il Vangelo, e sostiamo sulla questione della sconcertante scommessa con Satana, giungendo alla conclusione che essa serve a nascondere più che a rivelare. È certamente un espediente narrativo, ma, come detto, trova il suo senso nel celare in un tragicomico ludus l’imperscrutabilità di Dio, che il Padre violentemente rivendica contro la sua creatura, ma che altrettanto violentemente (di quella violenza che rapisce il Regno) ripaga sottoponendosi all’infinito dolore della croce di suo Figlio, per il quale ci si perdoni l’ardire se osiamo pensare che pure Lui non abbia avuto parole. Proprio a questo aveva aperto l’amore: l’amore non ha determinato la Passione, che è piuttosto l’effetto dell’odio e del peccato, ma l’ha resa possibile. L’ombra amorevole della kenosi del Verbo, come sublime atto trinitario, ha reso possibile l’oscurità del calvario. È questa dialogica di tutte le cose nel sistema dell’amore - delle cose che assorbono il chiarore del sole e perciò disegnano forme nerastre sulla terra e addosso agli altri - che rende possibile, volenti o nolenti – anche nolenti – il nostro as-sociarci con la nostra sporchevole innocenza all’innocenza più bianca della neve di Cristo sulla croce, e soprattutto con il nostro lamento balbettato al lamento perfetto di Cristo abbandonato.

Questo tuttavia rivela, a posteriori, che Dio, anche mentre giochicchiava con Satana sulla nostra pelle incolpevole e pur destinata a essere piagata, ci stava amando. Forse non stava propriamente scegliendo il meglio del migliore tra i mondi possibili, ma stava confermando, mediante il dramma del Figlio, che il mondo si mantiene il migliore proprio e solo perché l’Amore, rendendo possibile l’abisso, senza volerlo, non smette di accompagnare in esso, fino alla profondità più estrema per vincere la sua battaglia di redenzione e di consolazione fin dove la disperazione crede di aver chiuso la partita.



[1] Agostino, Confessioni, 11

[2] s. A. M. Canopi, Fammi sapere perché...: Il tema del dolore. Lectio divina sul libro di Giobbe, EDB, Bologna 2017.

 

[3] G. W. Leibniz, Principi razionali della natura e della grazia, in Idem, Principi della filosofia o Monadologia. Principi razionali della natura e della grazia, tr. it. di S. Cariati, Bompiani Milano 2001, p. 49.

[4] Ibidem.

[5] Gregorio di Nazianzo, Orazione 6 in Idem, Tutte le orazioni, tr. it di C. Moreschini, Bompiani, Milano 2000, pp. 237-239


sabato 28 settembre 2024

Dio è amore

 

                                                                                        


 

Cristo della storia e Cristo della fede

Il tema teologico del rapporto Cristo della storia-Cristo della fede mi è sempre risultato ostico. Mi è sembrato un artificio ermeneutico subdolo. Contro l’assurda pretesa cristiana di un Dio che entra nella storia, lo studioso moderno lo risospinge ai margini buttandogli addosso gli abiti di una fede pura e lasciando al secolo solo l’immagine impallidita di un maestro arguto. Ho amici cattolici, della cui sincerità e profondità teologica non posso dubitare, che invece hanno ormai digerito l’intera questione e si sono anzi dedicati anima e corpo al Cristo storico. Al contrario per quanto mi concerne non mi convincerà mai tale visione schizofrenica e tendenzialmente nestoriana che separa le due nature del Figlio in due persone diverse, appunto il Cristo storico e il Cristo mistico. Non mi convince perché attribuisce ai primi cristiani un’ingenuità esagerata, quasi che la loro fede innocente e bambina – quindi vera, potente e intelligente - fosse prigioniera di un irrimediabile infantilismo nel credere che Lui era veramente risorto, che i suoi miracoli erano tali e quali i suoi discepoli e apostoli li avevano raccontati, che sarebbe infine tornato qui su questa terra a fondare il suo Regno dopo un tempo di indicibili tribolazioni. Oggi facciamo una gran fatica a credere evangelicamente come bambini (e non come adulti infantilizzati) perché il mondo ha perso il suo incanto. L’ermeneutica secolarizzante della teologia liberale è solo un sintomo. David Strauss, Ernst Renan e le loro vite di Gesù non hanno fondato niente, ma sono l’effetto di una svolta epocale impressa dall’illuminismo alla cultura della modernità. Questa diviene luogo di un tramonto nel quale si spezza definitivamente l’equilibrio tra mondanità e sacro che il cristianesimo aveva saputo mantenere per più di un millennio e mezzo. Perché se è vero che i cristiani sono atei rispetto ai pagani - e sia benedetto l’ateismo che desacralizza il cosmo restituendo allo spirito la sua purezza dalle contaminazioni naturalistiche, che si portano dietro uguali esiziali commistioni storico-politiche – essi pongono il mistero e la trascendenza non alla periferia, ma al centro della vita, perché la vita e il mondo – semplici creature - possano uscire dall’ombra della morte e sostare in eterno alla luce dell’Onnipotente. Il problema è oggi se questa centralità è ancora possibile. Soggettivamente possibile, si intende. Perché la modernità ha eroso propriamente l’innocenza della fede, costringendoci a essere cristiani adulti, vale a dire a non essere più cristiani.

 

Martini, Bultmann e la teologia liberale: demitizzazione e storicismi

Ho grande ammirazione per il cardinal Martini, uomo d’altri tempi, maestro di stile e di sapienza. Egli è a mio parere un combattente per la verità che ha optato per una ritirata strategica: fare proprio il metodo storico-critico nato per distruggere la fede umanizzando strutturalmente il Figlio, e con questo metodo preparare il contrattacco della verità stessa, nella fiducia che la verità storica non può mai diventare un argomento contro la fede nella Verità.

 Il guaio sono le miriadi di presupposti che tale metodo implica e che tutte convergono in un grande contenitore falso, la demitizzazione. Operare cioè una selezione sulle cosiddette “rappresentazioni” del Nuovo Testamento, perché possano “parlare direttamente e senza difficoltà agli uomini d’oggi”, come dice Bultmann, caratterizzati dal primato di un soggetto libero dal giogo delle forze cosmiche e responsabile di una salvezza ottenibile per via eminentemente morale. Tale propensione allo svilimento soggettivistico del Mistero implica di necessità un concetto di storia proprio della teologia liberale che, pur rifiutata dallo stesso Bultmann, analogamente esclude a priori e in modo radicale ogni comunicazione di dimensioni, ogni apertura, ogni via mistica, e lo fa prima di mettere in moto i processi di conoscenza del suo oggetto, indossando una sorta di occhiali che accecano selettivamente laddove il mondo offre le sue possibilità di re-ligarsi, cioè di riconnettersi alle sue origini mistiche… Queste ultime sono mito, un residuo di incanto del mondo, che la fede moderna deve escludere per accedere a un Totalmente altro che non può essere Cristo, il quale non volle propriamente essere il Totalmente altro.

Insomma bisogna demitizzare e storicizzare, il che significa anche recidere i legami tra Bibbia e liturgia - a meno che anche quest’ultima non diventi spettacolo profano per minoranze disperate – quindi tra teologia e prassi e quindi condannare l’esistenza cristiana ad una strutturale insignificanza, che è il preludio per il finale consegnarsi ad un’altra più radicale e finale forma di disperazione: la teologia politica, la teologia della liberazione, cioè un nuovo pelagianesimo sociologico che chiude definitivamente gli orizzonti di Dio e dello spirito. La scommessa di Martini, nobilissima e colta, ardita e consapevole, è destinata ad essere persa, nonostante un’ormai consolidata tradizione cattolica di matrice storico-critica possa offrire oggi una grande quantità di notizie erudite su Gesù, un’eraclitea multisapienza che non appare in grado di offrire alcuna corroborazione agli sforzi di chi dentro la modernità laica si arrabatta per continuare a credere

 

Credere di credere e di non credere

Malgrado si possa ben avvertire la gravità di queste derive, bisogna ammettere che ci siamo dentro fino al collo. Forse il processo ci ha coinvolti in modo tale da farci dubitare oramai della nostra capacità di credere autenticamente... perciò ci arrabattiamo e forse, come dice Vattimo, possiamo solo credere di credere.

Non so come i più affrontino tale situazione. Io spesso mi trovo a pensare, guardando quel residuo di popolo che assiste alla Santa Messa: “Ma chi di loro crede? E chi solo crede di credere? E chi invece non crede in nulla ma non sa rinunciare?” Confesso che talora mi sono sentito parte, di volta in volta, di una di queste categorie. A volte credente, a volte credente illuso altre infine credente disilluso.

La figura di San Manuel Bueno Martir mi è stata compagna nei momenti peggiori: il prete senza fede che annuncia la necessità morale della Chiesa e della fede perché è l’unica speranza di un’umanità perduta: non si può negare al popolo la consolazione di credere in un altro mondo, però a questa favola noi non crediamo più. Poi, come dice Unamuno, penso che Dio Nostro Signore, per non so quali sacri e imperscrutabili disegni, mi ha fatto credere incredulo. Penso che morirò credendo di non credere, o meglio temendolo e perciò credendo in una condizione di desolazione attiva e rassegnata. Colpito al cuore: tutto vero. Solo che questa idea della Chiesa come istituzione dell’inganno sistematico a buon fine non riesco a digerirla. No, quest’idea grand’inquisitoriale non mi attrae perché forse è il ruolo al quale lo spirito dei tempi  vuole condannare l’istituzione voluta da Gesù. Questi la fondò perché fosse un baluardo: non praevalebunt! (Mt 16,18). Non perché si adeguasse, anche con le più nobili intenzioni a beneficio (quale?) del popolo (quale?). E baluardo significa che se smetti di credere in Cristo ma credi nella Chiesa, allora stai ancora credendo in Cristo. Perché se credi nella Chiesa credi nella possibilità della presenza di Cristo nel mondo mediante il rito eucaristico. Perciò la sua conservazione è essenziale: non tocchi l’uomo ciò che Dio ha istituito.

 

Il baluardo liturgico

Con la Chiesa-baluardo rimane dunque la forma liturgica come unico vero ponte, e questa deve mantenersi incorrotta, cioè intoccata e inalterabile dalle mutevoli volontà umane (subito immagino l’obiezione: quante volte la liturgia si è modificata?! Sì, però lo ha fatto quasi per forza e sempre malgrado la giusta e naturale resistenza al cambiamento che costantemente si dà nelle cose che ambiscono all’eterno). Noi ci dobbiamo aggrappare a questa forma perché è l’unico modo per rintracciare il contenuto, solo nella prassi liturgica fatta di carne e di simboli rimane libero un corridoio metafisico che la teoria e i tempi hanno dimenticato. Solo lì c’è comunicazione tra il tempo e l’eterno, che nel tempo vi è chi vorrebbe eternamente interrotta.

 

L’inutile ragione

Non c’è alcuna salvezza, per il resto, nelle pratiche retoriche, talvolta neanche disdicevoli, che cercano di lavorare sul piano dottrinario, qualcuna per trovare compromessi, in cerca di un essenziale che sempre, inevitabilmente sfugge, qualcun’altra per rivendicare tradizioni che nella loro compiutezza immacolata diventano feticci morti. D’altro canto la via razionale, in epoca di dissoluzione e disseminazione del logos, pare sbarrata, non perché in sé malvagia, ma perché si è perso il gusto della ragione dirimente e del pensiero che obbliga in coscienza. Quello post moderno è per sua natura un logos disimpegnato, frivolo e liquido. Impossibile costruire le grandi cattedrali del pensiero, come in passato, con questo materiale di risulta. Soprattutto niente argomento ontologico, niente cinque vie: grandi salti mortali di un pensiero fortissimo che tuttavia presupponevano una sua dimensione già intimamente sovrannaturale (non intenderete se non crederete)… esso che pure qualche difetto lo aveva, per esempio dimostrare il Dio-essere ma non il Dio-amore, il Dio unitario del monoteismo e non quello trinitario di Nicea.

 

L’opinione dei mortali

Mancando la via che è, ossia quella del pensiero direttamente e orgogliosamente teo-logico, ed escludendo quella che non è (ossia quella del pensiero debolmente a-teo-logico, come abbiamo appena fatto), rimane quella delle opinioni dei mortali. Dialettiche che non si autofondano, ma che, in quanto ombre delle idee, possono gettarsi nelle tenebre o nella luce.

A maggior ragione non c’è salvezza in loro, lo ripeto, ma non bisogna disprezzare il tentativo di ricostruire sentieri che portano a soglie dalle quali si può decidere se spiccare un salto, con l’unica forza della grazia, oppure, in alternativa, senza grazia, fermarsi e tornare indietro. La fede è un salto che un pensiero, anche il migliore, non può produrre, che è possibile solo se è Dio a venire incontro. Però per giungere alla cima bisogna prima arrivare ai piedi della montagna o in un campo base dal quale attaccare la vetta. Per questo è necessaria una guida logica (Dio, a volte, come disse padre Sommavilla, è una sfida logica).

 

La via agapica

Ora, una prospettiva di ricerca, tra le tante, per pensare all’ombra della luce potrebbe dare per acquisite le tematiche ontologiche, e optare per indagare quelle agapiche. “Dio è amore” (1Gv 4,16); “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o come un cembalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità non sarei nulla…” (1Cor 13, 1-2). Del tutto consequenziali i passi di Giovanni e di Paolo: non avere l’amore significa non avere Dio, e quindi non poter essere niente.

Ma che cosa significa questa apodittica affermazione di Giovanni, così appassionatamente corroborata da Paolo? Che cosa è l’amore?

 

Uno schizzo fenomenologico

Domanda da un milione di dollari, si direbbe. Dunque è troppo ingenuamente presuntuoso rispondere. Però iniziare a pensare non è peccato … e allora potrei cominciare ipotizzando che l’amore allude a due dinamiche inspiegabili e misteriose: la creatività e il legame. Noi esistiamo per una forza generativa e siamo in questo esistere dei con-esseri, legati misteriosamente agli altri e al cosmo, che misteriosamente si coinvolgono con noi e ci tengono in saldi vincoli. No, non pensiamo a nessuna spiritualità new age, ultima e più bassa emanazione del panteismo spinoziano. È piuttosto una questione fenomenologica. Il residuo di una generale epoché sulla realtà e sui pregiudizi che girano sulla sua fondazione è proprio l’idea che essa deve pur essere scaturita da qualcosa che a sua volta non scaturisce e, proprio perché è possibile considerarla complessivamente, deve pur manifestare un’omogeneità e un’affinità interna. Il fattore fenomenologico è dato dal fatto che, rispetto alla realtà, la coscienza libera configura necessariamente la domanda circa l’origine e la struttura e ciò dobbiamo ritenerlo inevitabile effetto dell’incontro della nostra apertura coscienziale con la totalità del reale che ad essa viene si schiude, proprio nella forma della più radicale e originaria delle domande. Detto questo nulla, tuttavia, è stato ancora compreso realmente e tutto va lasciato ad un autentico approfondimento. Ma almeno le premesse del discorso sono state date e da tali premesse si può dedurre una conseguenza: la frase di Horkheimer: “Senza una base teologica, l’affermazione che l’amore è meglio che l’odio resta assolutamente immotivata e priva di senso” è falsa. Perché l’amore è il vero e unico centro da cui la radice delle cose e il loro intreccio possono essere pensati. L’amore sembra essere un vero e proprio vestigium Trinitatis lasciato nel mondo perché noi incontrassimo qui le tracce della sua forma più sublime e originaria. Esso è perfettamente accessibile all’esperienza comune e al pensiero naturale che attribuisce a Filia la stessa possibilità di una permanenza delle cose e a Neikos la loro fine.

 

L’amore compreso e frainteso

L’amore è lì a nostra disposizione. Lo vediamo, lo capiamo, lo sperimentiamo da soli, senza bisogno di alcun aiuto (senza una base teologica). Esso ci ha vincolati a sé: tra gli infiniti vincoli che determina, noi siamo compresi e avvinti. Lo dimostra e contrario il numero incomparabile di fraintendimenti cui è stato sottoposto, più alto, potremmo dire senza bisogno di alcun sondaggio statistico, di quello di qualsiasi altro concetto rilevante per la vita. Dalle canzonette alla pornografia, dai romanzi rosa alle telenovelas, dalle ideologie politiche allo spiritualismo new age… sembra proprio che abbia ragione il Céline del Voyage quando allude al fatto che con l’amore incomincia una grande impostura, innanzitutto politica, dice lui: “Quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia... È il segnale... È infallibile. È con l'amore che comincia”… ma a seguire, mi permetto di dire io, un'impostura generalmente umana, culturale e spirituale. Non c’è bassezza in questo mondo che non sia stata giustificata dall’amore. Questo mi ha sempre reso sospettoso. Sono uomo che anche quando possiede buoni sentimenti, li detesta perché teme l’immediato smarrimento della loro innocenza e la loro trasformazione in mostri di ipocrisia.

Ma tutto ciò è una dimostrazione. L’amore vanta il maggior numero di imitazioni. Dunque bisogna fidarsi del marchio originale. Esso è rivendicato dal Dio cristiano non perché la sua rivelazione sia arrivata per prima – eccettuando ovviamente il libro della vita – ma perché è Lui ad aver chiesto di essere totalmente identificato con l’amore, ben consapevole, possiamo immaginare, dei rischi.

 

Se esiste l’amore allora Dio esiste

Ancora un’ultima parola: “Se esiste l’amore allora Dio esiste”. Se esiste l’amore, esiste un mistero insondabile eppure vicino (ciò che è vicino è anche più difficile da comprendere) che non smette mai di alludere ad altro e di chiamare l’altro a sé. L’amore trabocca e al tempo stesso attira e lega. In questa dialettica vi sono tratti inevitabilmente metafisici. Altro che essere, l’amore è la prima fonte dell’essere; altro che essere, l’amore è la relazione originaria che genera le cose che sono e che poi unisce e distingue le cose che sono nella loro identità/differenza. Essere, identico, diverso, quiete e movimento: i generi sommi non promanano da un Uno indifferenziato, ma dall’Unitrina relazione amorosa, che solo l’amore spiega e intende nell’unità dei suoi vincoli e nella trinità della sua forza espansiva. Così l’Uno si dice amore infinitamente oblativo attraverso il Tre e il Tre nell’amore si stringe fino all’Uno. Così è, non diversamente da quello che hanno compreso per noi cristiani Agostino e Tommaso. Ciò basta a dimostrare Dio? O lo si dà per presupposto? Beh, se si cammina nell’amore ogni passo produce e attira l’altro; ogni passo è fatalmente più lungo e significativo dell’altro, per il principio che l’amore trasferisce potenza, generandola senza impoverirsi ma al contrario arricchendosi. A chi dà e si dà l’amore se non a ciò che sta oltre? E ciò che è oltre non è forse bene e quindi, rispetto all’aldiquà, meglio? Se non è bene non può essere degno d’amore e non può provenire da lui, ma, provenendo da lui, ciò che è bene prima è meglio dopo, non in senso temporale ma in senso metafisico. L’amore è diffusivum sui e cresce su se stesso, per poi donarsi fino a svuotare se stesso (Fil 2)… Ma svuotandosi genera mondi. L’amore, pertanto non solo risponde al valore, ma lo genera e da esso tutto procede. Sono queste – genera, procede -  parole della teologia, ma sono inevitabili. E qui mi fermo: nulla si può dire che già non sia stato detto dai santi di Dio. Noi possiamo solo ripetere e accentuare quello che si manifesta per noi come significativo e trainante. Ciò che mi appare tale in questo momento è che esiste una via agapica che dimostra Dio a partire dall’amore, non presupponendolo. E ciò fa senza dimostrare troppo, cioè senza fenomenologicamente negare la realtà di un male radicale come contraffazione dell’amore; e senza dimostrare troppo poco, cioè senza limitarsi all’Ente supremo (e neanche all’Essere barrato e ineffabile della tradizione heideggeriana).

 

L’azzardo di dire

Ora, se può esserci una fede querens intellectum nell’era della radicale secolarizzazione, essa non può che coincidere con la logica metafisica e teologica dell’amore e abbandonarvisi totalmente. Questo mi azzardo a dire.

Con ciò volevo solo indicare una possibilità che è balenata in me. Però mi accorgo che le parole sono di una banalità sconcertante. Non solo perché sono poche, e su questo argomento sono stati scritti migliaia di volumi, ma perché sono strutturalmente insufficienti. Solo la poesia, qui Heidegger aveva ragione, può azzardarsi a dire senza fare bruttissime figure. Ma la poesia ammette:

 

O amor d’Agno,

maiur che mar magno

e chi de te dir porria?

A chi c’è anegato

De sotto e de lato,

e non sa là ‘ve se sia

E la pazzia

Li par ritta via de gire empacito d’Amore.

(Jacopone da Todi, Oi dolze Amore)

 

A pochi è riservato questo destino del dire e di un annegare che fa della pazzia la ritta via. Però a volte dire è un conatus inevitabile che non si può fare a meno di assecondare e perciò, anche se affiora sulle labbra e nella penna di chi poeta non è, si fa perdonare.