mercoledì 4 dicembre 2024

Il Silenzio. Recensione a Maria Ignazia Angelini, Un silenzio pieno di sguardo, EDB, Bologna 2017(4)


La fede è femmina, essa si determina nella sighé (σιγή), parola che dobbiamo mantenere al femminile e tradurre con silenziosità (anche se poi, per comodità, adotteremo la forma più comune ed eufonica “silenzio”). Questa è la prima considerazione che madre Maria Ignazia Angelini nel suo difficile e affascinante testo, Un silenzio pieno di sguardo, mi induce a compiere. Ecco: a far giustizia delle tante vuote retoriche neofemministe sulla Chiesa maschile ecc. ecc., un testo radicalmente femminile, in radicale consonanza con la femminilità della fede cristiana. Direi che tutto qui è donna, anche la forma, anche il logos, anche lo stile dell’argomentare che cerca di costruire un tessuto di evocazioni e di suggestioni, dentro il quale il lettore maschio fatica a entrare, se non cercando in esso una perduta complementarietà, dopo aver passato troppo tempo a contemplare l’ombelico dei propri sillogismi, onfaloscopia, come la chiamavano i polemisti antichi, per certi versi inevitabile.

Per me, dunque, un esempio straordinario, quello di madre Maria Ignazia, di pensiero al femminile che nemmeno ho trovato nel tutto sommato facile procedere di una grande e seria femminista come Adriana Cavarero che, criticando il freddo razionalismo platonico, se ne fa nondimeno irretire, almeno quanto al procedere lineare e consequenziale dell’argomento filosofico. Al contrario il testo della monaca milanese è un tessuto, come detto, e  fa apparire trame e orditi di esperienza, di autenticità pratica – la pratica della preghiera costante nell’abbazia di Viboldone –, di impegno riflessivo dell’anima, laddove la sighé, dopo essere stata condizione antropologica, giunge come sigillo e compimento teologico del vissuto di fede.

Ma a che proposito e perché parlo di femminilità. Non è solo una questione di stile, ma anche e soprattutto di contenuti. La sighé non è semplicemente il “silenzio tranquillo del raccoglimento”, né ha il carattere di condizione del fedele nel suo intinerarium mentis in Deum quando viene tratto dentro la vita pleromatica e lì si annulla, come in un abisso infinito. Neppure si può descrivere come un’ascesi che disciplina la lingua e la parola evitando la loro dispersione nella chiacchiera mondana. No, è qualcosa di più e d’altro, avverte madre Maria Ignazia. Esso mantiene un carattere dialogico e ha forse il suo modello nel perfetto e silenzioso dialogo intratriinitario, manifestandosi solo successivamente nel rapporto Creatore -creatura grazie all’immagine di sé che il primo lascia nella seconda. In questo dialogo si determina la peculiarità intenzionale del silenzio cioè di apertura della coscienza rivolta-a e quindi disponibile a ricevere ciò a cui si rivolge. Questa ricezione è ascolto e al tempo stesso interrogazione e implica il Mistero come suo oggetto intenzionale, cioè “la realtà intuita come abitata da una trascendenza”.  La Parola è detta una volta per tutte nella creazione di un mondo meraviglioso che si dà alla nostra meravigliata contemplazione. Lì c’è silenzio e stupore. Ma la Parola venuta al mondo prende una carne che viene ferita e corrosa sulla croce fino al compimento finale. Anche ciò avviene nel silenzio. È l’abisso di una sofferenza silenziosa che cambia la matrice di peccato insediatasi nel mondo e la rovescia nello splendore di una gloria eterna. Ma ciò, appunto, avviene nel silenzio, silenzio che è massimamente sonoro come la sofferenza è massimamente gloriosa. La dimensione contemplativa del silenzio è lo sforzo più intenso di accoglienza e di conformazione al silenzio glorioso del Verbum consummatum, per aprire la coscienza credente alla capacità di essere affetti da Cristo, colpiti in pieno perché pienamente esposti all’onda d’urto della redenzione mediante la croce. Il silenzio consente di volgere lo sguardo a colui che hanno, abbiamo, trafitto e tramite questo sguardo agli altri, al mondo in una diversa luce di verità. Il silenzio è quindi pieno di sguardo. Mi sembra di capire questo nell’espressione così evocativa di madre Maria Ignazia: lo sguardo è lo sguardo ricevuto dall’assoluto trafitto ed esaltato nell’agonia della croce, che emette lo spirito nel silenzio della creazione e la cui misericordia trasformatrice colpisce gli occhi e l’anima di chi guarda in silenzio attonito e stupefatto. Questi dispone la sua persona, così affetta, ad una contemplazione che cambia radicalmente il segno della sua vita dalla miseria alla gloria, ridestando una nuova capacità di guardare che riempie il mondo: lo sguardo di chi porta una buona notizia, lo sguardo dell’evangelo, lo sguardo annunziante di una nuova parola nata da quei silenzi.

È evidente che qui il maschile e il femminile sono categorie molto riduttive. Ma è altrettanto vero che la capacità di contemplazione ricettiva, stupefatta e silenziosa è un tratto fondamentale della femminilità. madre Maria Ignazia arriva a citare un commento di Kierkegaard a un passo di san Paolo, 1Tm 2, 11-12 oggi ritenuto un po’ imbarazzante da molti esegeti e anche da qualcuno che troppo spesso sente di doversi scusare per essere cristiano: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo”. Ecco che cosa dice il filosofo danese: “E tu donna, a te è riservato di essere l’immagine dell’uditore e del lettore della Parola che non dimentica. Tu osserva nel modo giusto l’ammonizione dell’Apostolo: ‘La donna taccia nell’assemblea’, stia in silenzio e il suo silenzio esprima quanto profondamente ella fa tesoro della Parola. Non credi al silenzio? Io sì. Permettimi di descriverti la donna uditrice della Parola che non dimentica la Parola; e non dimentica, dopo questa descrizione, di diventare anche tu così. Ella tace, ma tu domandati: che significa questo silenzio? Riflettiamo che proprio questo silenzio è ciò di cui c’è bisogno perché la Parola possa avere presa sugli uomini. L’umanità attuale, infatti, è malata. E se uno chiedesse: ‘ Che si deve fare’, risponderei: ‘Anzitutto procura silenzio! Tutto, infatti, oggi è rumore’ […]. Promuovi il silenzio!’ E questo oggi lo può la donna. Il silenzio è come un’atmosfera, l’atmosfera fondamentale in cui ci si immerge: perciò si dice ‘fondamentale’, perché sta a fondamento. Ebbene la donna, che si specchia nello specchio della Parola, ella diventa veramente silenziosa”.

Il suo silenzio, nato all’ombra della Parola, è veramente eloquente e in grado di insegnare più di quelle parole nate da un professionismo retorico, abile nel gestire questo strumento piccolissimo, la parola, con cui fare cose grandissime (Gorgia). Se oggi c’è un “cultus” da condannare, un cultus né maschile né femminile, ma proprio di quell’umanità indifferenziata che vive al livello delle dinamiche ripetitive del desiderio e del consumo, è proprio la retorica. La retorica, ci insegna Carlo Michelstaedter, è l’attitudine utilitarista a chiedere alle cose di poter continuare a protrarre se stessi nel tempo, senza mai sfiorare la questione del senso, perché esso risiede nella dilazione continua della fine, che nondimeno verrà a troncare il processo di metastasi viziosa della loquacità pubblicitaria (perché promuove sé illudendosi di guadagnare a sé il consenso del mondo) nel silenzio malato della disperazione. Il silenzio sano della contemplazione ne è il grande antidoto, perché insegna a distruggere l’essenza autocentrata e autoreferenziale della retorica. Madre Maria Ignazia, che propone una silloge commentata e ragionata della sapienza dei padri del deserto di ambito ellenistico e siriaco sul silenzio, coglie nel segno quando riporta questo apoftegma: “Un fratello che viveva con altri fratelli chiese a padre Bessarione: ‘Che cosa debbo fare?’. Dice a lui l’anziano: ‘Taci e non misurare te stesso’”. Quanto diventiamo stranieri al mondo della misura, non quella metafisica, ma quella statistica ed economica, applicando questa continenza della comunicazione retorica, che esalta sé come centro mentre misura con i propri criteri l’altro per dominarlo e assoggettarlo? Il silenzio realizza esattamente nella contemplazione affettiva del Mistero di un’alterità smisurata questa estraneità al mondo della mathesis immanente, circolare, nutrita di parole funzionali che non dicono ma se-ducono. La proposta del silenzio anti retorico è anche una proposta di xeniteia, di estraneità, dell’essere straniero mediante una forma discreta ma radicale di anachoresis, di allontanamento dalla città e dalla responsabilità civile. La vita monastica, dal mondo del cristianesimo primitivo dei padri del deserto, attraverso la grande esplosione dell’epoca medievale, continua a parlarci, benché con la discrezione umile che si addice non più alla gloria dei trionfi e dello splendore dell’epoca delle cattedrali, ma all’umiltà di una fede crocifissa nel mondo moderno. Continua a parlarci di come exire de saeculo, pure dentro la vita nel mondo, di una disciplina ferrea che diventa intensamente mariana quando invoca l’umiltà dei servi che silenziosamente operano nel loro essere-risposta a un dono, nel loro essere dipendenti da una grazia. La forza potente dell’ascolto produce in loro una differenza ontologica che è l’alterità da questo mondo e dalle sue logiche. Il ritiro agonico dal mondo, nella lotta incessante contro il profluvio di cose e di parole, è condizione per tornare a fecondarlo mediante il silenzio eloquente dello spirito, che parla ogni lingua ma procede dal silenzio del Padre e del Figlio, nel dialogo dell’abbandono di Cristo sulla croce come ultimo atto della sua relazione terrena con il Padre: per Isacco di Ninive, sottolinea madre Maria Ignazia, la funzione generativa del silenzio è dominante, è come il grembo del senso, il principio di scioglimento della durezza del vivere e del cuore, è il “mistero del secolo futuro”, mentre “le parole sono l’organo di questo mondo”.

Lasciarsi coinvolgere in questa dinamica di rifondazione del mondo a partire dalla croce, significa rispondere sì a quel Dio “che non si compiace della veemenza del tuono, né dell’ardore del fuoco”, ma si è manifestato “nella dolcezza di un sottile silenzio”. “Dio - dice Efrem il Siro commentando l’episodio di Elia sull’Oreb (1Re 19,12) - prima rivela la sua forza trascendente” e spaventa Elia perché il suo cuore “si allargasse così da poter contenere lo Spirito, la forza e la profezia […] . E dopo tutto questo “Elia intese il mormorio di un silenzio leggero” e Dio “cominciò a rivelarsi amichevolmente, dolcemente a Elia”. La dolcezza di Dio sull’Oreb trova il massimo compimento nella croce con la quale il Dio misericordioso muore nel silenzio cui vengono condannati i servi, per offrire l’eterna compagnia della sua dolcezza a chiunque ascolti e riceva la grazia che sgorga dal suo sacrificio. Siamo molto al di là dello zelo per la giustizia che aveva caratterizzato l’azione del profeta Elia nei confronti del re idolatra Acab e della regina Gezabele (1Re 17-18): “Perché non imiti dunque la dolcezza del tuo Signore, commenta Efrem, non addolcisci lo zelo che urge per punire i figli del tuo popolo. Così da diventare un intercessore per loro, invece che il loro accusatore?”. Veramente è figura della croce questa improvvisa inversione della lotta nella dolcezza, che ribalta il senso comune e ambisce ad agire su un altro piano, non il grido forte della battaglia, ma il silenzio sottile che lascia esterrefatti, stupefatti, senza parole per come si esprime l’onnipotenza amica, la violenza amante, la forza benevolente di Dio, che distrugge il nemico salvandolo, e lo salva sacrificando se stesso. E quale insegnamento continua a fornire a noi oggi questo modello del profeta e del Figlio, in un’epoca in cui coloro che conducono guerre fanno fuoco sempre in nome della giustizia, sentendosi come strumenti di Dio, prima di portare nei suoi confronti l’enorme responsabilità della fede e dell’obbedienza.

Fino ad ora mi era parso che il silenzio di Dio fosse da leggere nel modo di Sergio Quinzio: quasi un ritirarsi di Dio, le cui promesse di redenzione appaiono continuamente contraddette da una storia che nega nei fatti ciò che la fede afferma, cioè che Egli ne è il signore. Dio rimane silente certo di fronte al dolore e al male, ma in particolare a un male che lo riguarda da vicino: l’apostasia, il nichilismo, la disfatta esteriore e interiore dei cristiani, che non perdono per la normale e financo prevedibile incoerenza degli uomini, ma per l’abbandono orgoglioso della fiducia e del timore nei riguardi dello stesso nome di Dio.

Invece madre Maria Ignazia mi suggerisce qualcosa di diverso: dal silenzio dell’ Oreb a quello del Verbum consummatum, fino al silenzio dell’eterno colloquio tra le persone della santissima Trinità, tutto conduce ad altri silenzi e ad altre parole: “L’uomo è troppo piccolo per comprendere tutti i linguaggi. Se potesse comprendere il linguaggio dei Vigilanti (angeli, n.d.r.), allora potrebbe elevarsi fino alla comprensione del linguaggio originario che tra loro parlano il Padre e il Figlio. Ma il nostro linguaggio è straniero alla voce degli animali e il linguaggio dei Vigilanti è straniero a ogni altro linguaggio. Il linguaggio con il quale il Padre parla al Figlio è straniero anche ai Vigilanti. Ma quale bontà, la sua. Come ha rivestito tutte le forme per consentirci di vedere, così ha adottato tutte le voci per trasmetterci il suo insegnamento. La sua natura è unica, ma così può essere vista. Il suo silenzio è unico, ma può così venir inteso”.

E tale silenzio, che porta con sé la radice teologica di ogni bellezza, cioè la purissima gratuità – che bella definizione! più radicale di quelle semplicemente filosofiche che alludono a  integritas, proportio e claritas – promuove il silenzio dell’ascolto e della meraviglia che, poi, effonde nel canto e nel giubilo. Madre Maria Ignazia fa più volte riferimento ad Agostino. Io mi permetto di aggiungere Jacopone da Todi, il cui Iubelo del core mi sembra si attagli eccezionalmente bene a questo contesto, cantando quello che potremmo dire il momento effusivo del silenzio accogliente della fede, proprio di un cuore ferito da Dio, cioè affetto fino alla lacerazione da un amore senza misura:

O iubelo de core,

che fai cantar d’amore!

 

Quanno iubel se scalda,

sì fa l’omo cantare,

e la lengua barbaglia

e non sa que se parlare;

drento no ‘l pò celare,

(tant’è granne!) el dolzore.

 

Quanno iubel è acceso,

sì fa l’omo clamare;

lo cor d’amor è appreso,

che nol pò comportare:

stridenno el fa gridare,

e non virgogna allore.

 

Quanno iubelo ha preso

lo core ennamorato,

la gente l’a ’n deriso,

pensanno el suo parlato,

parlanno esmesurato

de que sente calore.

 

O iubel, dolce gaudio

ch’è’ drento ne la mente!

Lo cor deventa savio

celar so convenente;

non pò esser soffrente

che non faccia clamore.

 

Chi non à costumanza

te reputa empazzito,

vedenno esvalïanza

com’om ch’è desvanito.

Dentr’a lo cor firito,

non se sente de fore.

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