Yoram Hazony, Le virtù del nazionalismo, tr. it. di V. R. Bendaud, Guerini e associati, Milano 2019, pp.328, E. 21,50
Il nazionalismo è il grande accusato della politica e della cultura contemporanea; non passa giorno che qualche “autorità” non ci ammonisca sul presunto oscurantismo degli atteggiamenti nazionalistici, spesso associati a razzismo, sessismo e chi più ne ha più ne metta. Il testo di Hazony fa giustizia di questo atteggiamento, mostrandone il non detto, il retropensiero: da un lato l’arroganza degli imperialisti di oggi, che promuovono il progetto globalista di un mondo unificato e dell’uomo a una dimensione; dall’altro la pusillanimità dei sottomessi, che dallo status quo cercano di ottenere una qualche misera rendita: le briciole che il padrone si degnerà di lasciar cadere dal tavolo - un padrone troppo umano a differenza di quello della parabola evangelica. Questo è l’indubbio pregio di un libro che coglie il crinale del conflitto politico contemporaneo propriamente nello scontro tra coloro che aspirano a uno Stato mondiale - i cui protagonisti sono, assieme alle organizzazioni internazionali, in modi diversi, gli Usa e l’Unione europea - e quelli che immaginano un ordinamento di Stati indipendenti e sovrani che negoziano le loro relazioni da soggetti liberi e morali, preservando ciascuno le proprie tradizioni, il proprio stile di vita e la propria Weltanschauung.
Il difetto di questo studio è invece nella sua filosofia della storia che, talora in modo bizzarro, attribuisce l’orientamento nazionalista alla tradizione protestante in opposizione a quella cattolica e riconduce a quest’ultima lo spirito dell’imperialismo. Il fondamento di tale opinione è nell’assunto che l’ordinamento interstatale europeo dell’età moderna sia un fatto derivante dallo spirito della Riforma, legato alla fine delle guerre di religione e alla pace di Westfalia. Qui sarebbero finite le aspirazioni del Sacro Romano Impero e sarebbe nato lo Stato nazionale con la sua Chiesa di Stato luterano-anglicano-calvinista, molto in sintonia con lo spirito dell’Antico Testamento, in cui, peraltro, si ritroverebbe una genuina concezione nazionalista.
È inutile dire che lo Stato nazionale e la crisi dell’universalismo medioevale hanno radici più antiche e profonde e che Westfalia si situa al termine di un processo e non all’inizio. Il processo è quello per il quale il sistema feudale, con le sue autonomie e i suoi privilegi, genera dal suo cuore il suo superamento nazionale. Tale cuore è appunto la concezione genuina dell’impero cristiano quale articolazione universale delle libertà locali, legate al loro signore, così come la Chiesa è l'articolazione universale delle comunità cristiane concrete, legate al loro vescovo. Hazony, che attinge evidentemente a una bibliografia di non eccelsa qualità, pensa al contrario l’Impero romano germanico sul modello giacobino e napoleonico che retrodata a Carlo V e poi ancora a Carlo Magno. L’impero secondo lui è l’universalismo al tempo stesso teologico e politico di un’autorità che ha come modello l’uniformità e la centralizzazione del potere e dell’ideologia. Qui la Chiesa è costituita dagli intellettuali, i philosophes, i chierici del regime che legittimano il potere dell’imperatore quali suoi funzionari. Nulla a che vedere, dunque, con il pluralismo dinamico del feudalesimo medievale e con la netta e feconda separazione tra auctoritas religiosa e potestas politica, anch’essa a garanzia di concrete libertà e autonomia, da ogni europeo gelosamente custodite.
In modo ancor più singolare, poi, Hazony, trasferisce il modello imperialistico che crede di rinvenire nell’Europa cattolica addirittura al Terzo Reich di cui si arriva a sostenere questa assoluta bizzarria: “I tedeschi, tuttavia, non coltivarono mai una concezione di loro stessi in quanto indipendente Stato nazionale, come invece fecero, mutuandola dalla Bibbia, inglesi, olandesi e americani. Il sogno cattolico-tedesco (sic, n.d.r.) secondo cui Austra est imperare orbi universo, ossia la brama nazista-tedesca di assurgere a ‘signore del mondo’, al pari del sogno dell’illuminismo tedesco di uno ‘Stato internazionale che deve necessariamente continuare a sempre più estendersi sino ad abbracciare tutti i popoli della terra’, non è altro che una trasformazione di un unico e specifico ideale e passione, quello degli imperatori e degli imperialisti”. Una simile confusione concettuale, che mette assieme l’Austria cattolica e il suo impero multinazionale con il Terzo Reich pagàno-protestante, che di Lutero prendeva anzitutto il “Los von Rom” non è qualcosa che si possa accettare in un saggio accademico. Nondimeno, se resistiamo a simili originalità, provenienti dalla cultura della destra americana e israeliana - l’autore è convinto sostenitore del conservatorismo sionista - si posson ritrovare in questa ricerca intuizioni di indubbia validità.
Oltre alle tematiche già menzionate all’inizio, va segnalata quella - genuinamente anti-liberale - della necessità di una revisione dei modelli contrattualistici di genesi dello Stato che tengano conto dell’unico vero fattore determinante nella stabilità, funzionalità, giustizia e prosperità di una compagine politica: il legame fra gli uomini. Definito come la capacità di sentire come propri sentimenti, progetti, stili di vita altrui, condividendone alla radice le motivazioni e lo spirito, esso viene indicato come l’architrave della struttura dello Stato nazionale e come un autentico “esistenziale” che si apprende nella vita concreta degli uomini, nella loro famiglia, nel loro clan allargato o nella loro tribù. Di qui viene a costituirsi l’alternativa: o l’imperialismo liberale dell’anonimo contratto, che ambirebbe all’universale Stato-azienda, o il nazionalismo vivente e concreto delle comunità che è posto alla base di un ordinamento pluralistico di liberi gruppi umani in grado di autogovernarsi e di promuovere costruttivamente il proprio destino.
Si tratta di un tema assolutamente attuale, magari da integrare con una teoria del grande spazio, che tuttavia in questa sede è difficile pretendere. Nel complesso Le virtù del nazionalismo appare un testo da leggere, da accogliere e da criticare, anche combattendo qualche pregiudizio sul sionismo del suo autore, le cui tematiche in definitiva mirano a tutt’altro che a quell’ideologia di morte che siamo abituati a condannare ogniqualvolta mostra il suo lato peggiore nella sistematica e ingiusta oppressione del popolo palestinese.
Introduzione. Un ritorno al nazionalismo
Negli ultimi anni in Inghilterra e negli Stati Uniti si assiste a un ritorno del nazionalismo, esecrato da molti intellettuali, giornalisti e accademici. In realtà il nazionalismo non è sempre stato considerato un male. Spesso, fino a qualche decennio fa, era associato a generosità d'animo e ad apertura mentale. Documenti di un nazionalismo di questo tipo possono essere considerati i 14 punti di Wilson , con la loro enfasi sull’ autodeterminazione dei popoli, e la Carta atlantica di Franklin Roosevelt e Winston Churchill. Altrove erano nazionalisti statisti come Gandhi e David ben Gurion. Che cosa ravvisarono i «buoni statisti» nel nazionalismo? E tra loro anche quelli che fondarono e governarono per lo più Israele? Vi ravvisarono una teoria politica familiare che parla di come il mondo politico dovrebbe essere strutturato. Il nazionalismo è in sostanza un punto prospettico sul mondo politico-sociale, imperniato su dei valori, che considera tale mondo governato al meglio quando le nazioni
sono in grado di pianificare autonomamente il proprio sviluppo;
di coltivare senza interferenze alcuna le proprie tradizioni;
come pure di liberamente perseguire i propri interessi.
Tutto ciò si oppone all’imperialismo che, nei suoi auspici, mira a portare la pace il benessere al mondo intero, unendo il più possibile l’intero genere umano sotto un singolo regime politico. Queste sono le due posizioni fondamentali in politica e non è possibile evitare di scegliere tra queste due posizioni: o un governo-regime internazionale che imponga il suo volere alle nazioni a esso asservite, o le nazioni, libere di procedere per il loro particolare cammino, in assenza di regime internazionale.
Dopo la caduta del muro di Berlino nel millenovecentottantanove emergono due grandi progetti imperialisti, quello dell’Unione europea e quello di un ordine mondiale americano fondato sul ricorso alla potenza militare che obbliga le nazioni che non si attengono al diritto internazionale a farlo. Entrambi sono progetti imperialistici nonostante i loro fautori non amino definirli tali. Ciò malgrado il regime americano addirittura si autocomprende come impero, così come sostiene Charles Krauthammer che parla della politica americana come tendente ad una pax internazionale, una pax che viene definita pax americana sul modello della pax imperiale romana. I progetti dell’Unione europea e dell’ordine mondiale americano si affermano in mancanza di critici, però anche gli europei non gradiscono una nuova forma di super stato che molto somiglia a un nuovo impero germanico sul loro territorio. Per evitare le critiche, spesso gli imperialisti nascondono la realtà della loro aspirazione unificatrice sotto una serie di eufemismi come “nuovo ordine mondiale”, “globalizzazione”, “Global governance”, “sovranità unita”, “transnazionalismo”, “mondo unipolare”, “la parte giusta della storia” e così via. Col procedere degli anni il significato di tali espressioni ha cominciato a manifestarsi e sempre più: oltre i discorsi vacui, emerge oggi l’alternativa più rilevante della nostra attualità o nazionalismo o imperialismo. Questo libro vuole esporre i motivi per essere nazionalisti e ambisce a contribuire ad una teoria anti-imperialista di un mondo di nazioni libere e indipendenti.
Nella prima parte del libro si delinea il contesto storico generale per comprendere lo scontro che si è svolto in seno alle nazioni occidentali tra nazionalismo e imperialismo. Questa distinzione è centrale nella Bibbia ebraica e, sotto l’impeto della riforma protestante, tesa a sostenere le ragioni di Nazioni come Inghilterra, Olanda e Francia contro l’autorità del Sacro Romano Impero, nella dottrina politica dell’Europa moderna. L’Europa moderna degli Stati è quindi una costruzione di matrice protestante che considera fondativi principi come l’indipendenza nazionale e l’autodeterminazione. Tale ideale della libertà nazionale è in grado di promuovere un ordine di nazioni indipendenti e fu considerato la soluzione per un mondo equo fino al ‘900 quando Hitler infangò il nazionalismo, rendendo oggi molto spesso moralmente sospetta l’intensa fedeltà personale verso lo Stato nazionale e la sua indipendenza. Dal rifiuto del nazionalismo nascono le teorie liberali sullo Stato di diritto, sul mercato economico e sui diritti individuali, considerate verità universali e fondamento per un regime internazionale che renda non più necessaria l’indipendenza dello Stato nazionale. Sarebbe questo il nuovo impero liberale, laddove per liberalismo si intende una teoria politica di impronta razionalista basato sull’assunto che gli esseri umani siano liberi e uguali per natura, come pure che gli obblighi verso lo Stato e altre istituzioni derivino dal consenso individuale. L’impronta razionalista fa del liberalismo una teoria universale ritenuta applicabile sempre e ovunque. L’impero, secondo i liberali, salverà dai mali del nazionalismo. Ma liberali e imperialisti hanno ragione nell’attribuire al nazionalismo i più grandi mali dell’ultimo secolo e a proporre l’imperialismo come soluzione?
Nella seconda parte del libro argomento a favore di un mondo organizzato in Stati nazionali indipendenti. Qui propongo una filosofia dell’ordinamento politico articolata sul confronto fra tre modalità di concorrenti organizzazioni del mondo politico: l’ordinamento della tribù e dei clan; l’ordinamento imperiale e l’ordinamento in stati nazionali indipendenti. Esiste un'argomentazione economica a favore dei vantaggi economici e di sicurezza derivanti da un sistema politico-giuridico unificato per il mondo intero. Ma l’argomento economico a volte è astratto perché in realtà ampia parte di ciò che avviene nella vita politica è motivato da preoccupazioni diverse, che originano dalla nostra appartenenza collettività quali le famiglie, le tribù e le nazioni. Esse sono considerate come parte integrante della nostra persona, e noi per converso le consideriamo parti di un sé più esteso, che appunto ingloba la nostra famiglia, tribù e nazione. Questo implica la cura della vita e dei beni dei membri della comunità a cui siamo fedeli. Insieme a ciò vi è anche la preoccupazione per beni non materiali, tra cui la coesione interna della famiglia, della tribù o della nazione, la difesa e preservazione del suo patrimonio culturale da trasmettere alle generazioni future. Insomma, ciascuno di noi vuole quella che chiamerei autodeterminazione collettiva: la libertà della famiglia, della tribù e della nazione: tutte cose che la tradizione politica liberale considera superflue e primitive affidandosi a concetti presunti universali come libertà individuale. Ma questi concetti sono anch'essi un’eredità culturale di certune specifiche tribù e nazioni. Inglesi e americani le hanno poi trasformate in uno strumento di espansione che vorrebbe vedere il proprio specifico patrimonio culturale fatto proprio dagli altri a costo della cancellazione dell’altrui patrimonio. Viceversa, l’organizzazione per Stati nazionali indipendenti implica la più grande possibilità di autodeterminazione collettiva, inculcando l’avversione per la conquista di nazioni straniere, permettendo al contrario l’accettazione di diversi stili di vita e sollecitando un eccezionale livello di competizione produttiva affinché ciascuno implementi al massimo i propri talenti. Infine i legami di mutua fedeltà nello Stato nazionale sono l’unico fondamento per lo sviluppo di libere istituzioni e anche delle libertà individuale. Ciò rimane vero anche se è impossibile offrire un riconoscimento statale a tutti gli innumerevoli popoli senza stato che vorranno ottenere l’indipendenza politica. Alla fine di questa parte del libro mi interrogo sull’ordinamento possibile degli Stati nazionali laddove non a tutti può essere applicato il principio di indipendenza politica.
Un argomento forte contro il nazionalismo è che esso ospita odio e fanatismo. C'è del vero qui. Ma nell’imperialismo e nell’avversione al nazionalismo pure è ospitata una notevole componente di odio. I grandi universalismi non sono alieni dall’odio come dimostra l’antisemitismo cristiano e le mozioni di aspra conflittualità presenti nell’Islam, nel marxismo e nel liberalismo. Bisogna riconoscere che ogni movimento politico porta con sé odio (e bisognerebbe notare che anche all’interno della visione del mondo biblica c'è odio, si veda il decreto di sterminio di Deuteronomio, n.d.r.).
Nella conclusione del libro mi diffondo brevemente sul rapporto tra nazionalismo e carattere personale. Il nazionalismo, secondo i suoi critici, corromperebbe gli esseri umani perché erigerebbe tra i popoli delle barriere che al contrario dovremmo abbattere. A questo argomento oppongo l’idea del nazionalismo come una virtù, anzi come la radice di alcune virtù impossibili da sviluppare in contesti imperialistici.
Nell’affrontare il tema del discrimine nazionalismo-imperialismo come discrimine fondamentale della politica odierna ricorrerò a concetti politici quali nazione, impero, indipendenza, libertà nazionale, autodeterminazione, fedeltà, tribù, tradizione e tolleranza. Tali concetti oggi sembrano perdere terreno a favore di quelli di Stato, eguaglianza, libertà individuali, diritti, consenso ed etnia. Nondimeno è necessario contribuire ad aprire il campo visivo della politica con strumenti concettuali che superino le linee di demarcazione liberali per uscire dalla confusione di cui oggi siamo vittime.
PARTE PRIMA: Il nazionalismo e la libertà in Occidente
I) Due visioni dell’ordine mondiale
Le politiche delle nazioni occidentali si sono per secoli divise su due visioni antitetiche dell'ordine mondiale: A) un ordine di libere e indipendenti nazioni, impegnate a perseguire il bene politico secondo le proprie tradizioni; B) un ordine che vede i vari popoli riuniti sotto un singolo sistema di leggi, promulgate da una singola autorità sovranazionale.
Dunque, da un lato abbiamo le nazioni, dall'altro l’impero che, per quanto riguarda la contemporaneità, è incarnato dalle grandi compagini dell'Unione europea e degli Stati Uniti d'America. La prima vuole uniformare i popoli europei con norme e moneta unica; i secondi aspirano ad un sistema legale mondiale da applicarsi a tutte le nazioni attraverso la loro forza politica.
L'indipendenza nazionale e l'idea dell'autonomia e autogoverno delle Nazioni è un'idea biblica. Il mondo della Bibbia, a partire dai profeti, sconta il dominio di una serie di potenze imperiali che vanno dall'Egitto, a Babilonia, all’Assiria e alla Persia, dove ognuna cede il passo alla successiva. Gli imperi, mettendo fine alle guerre in vaste regioni e impiegandone le popolazioni per lavori agricoli produttivi, riescono a procurare pace. La sottomissione garantisce pertanto la salvezza da possibili guerre, ma poi anche da epidemie e carestie. Tuttavia per i profeti impero significa schiavitù. Generalmente gli imperi impongono l'idolatria e si rendono colpevoli di spargimenti di sangue e crudeltà. Nel vicino Oriente era diffusa l'esperienza di comunità politiche locali sotto forma di città-Stato, ma esse avevano il difetto di rivelarsi impotenti davanti alle armate imperiali e all’ideologia che attraverso di loro si diffondeva. La Bibbia suggerisce un'altra prospettiva: quella dello Stato nazionale. È un’idea tipicamente pluralista in cui lo Stato ebraico, fondato sulla legge mosaica, convive con altri regni confinanti che mantengono la propria indipendenza. I profeti non vogliono un impero bensì una nazione libera e unificata che dimori in giustizia e pace tra altre libere nazioni. L'idea biblica è quella di uno Stato per ogni singola nazione, unita e autogovernata e non interessata ad annettersi nei suoi domini i vicini confinanti. Il re della nazione ebraica non fa le leggi, non ha il potere di nominare i sacerdoti, ha un potere limitato nella tassazione e non ha sogni d conquista universale. La nazione, inoltre, parte dalla condivisione di una storia, di una lingua e di una religione trasmessa di padre in figlio, senza una base biologica: anche gli stranieri potrebbero unirsi. Essi diventano ebrei se accettano la volontà di Dio e le norme che ne conseguono, cioè la visione del mondo e la legge del popolo ebraico.
II) La Chiesa di Roma e la sua visione dell’impero
Con l'eccezione degli armeni e degli ebrei sotto i Maccabei, due nazioni che si rivoltarono con successo contro l'impero ellenista dei Seleucidi, nella storia dei popoli d'occidente l'ideale dell’indipendenza nazionale rimase ampiamente senza concretizzazioni. Quando il cristianesimo si impose come religione di Stato a Roma, adottò il sogno romano dell'impero universale come pure il progetto della pax romana in tutte le nazioni. Così la cristianità non segui l'ideale dei profeti di Israele di liberare le nazioni, bensì lo stesso sogno dell'Egitto imperiale, dell’Assiria e di Babilonia, ossia un impero universale di pace prosperità. Nello stesso termine “cattolico” c'è l'idea dell'universalismo e la fondazione di un impero universale ha rappresentato un obiettivo dei sacri imperatori romano germanici. Analogamente a quello dei califfi islamici, o degli imperatori cinesi, si tratta di una forma di imperialismo anche per il pensiero cattolico-romano. Tuttavia il cristianesimo possedeva la Bibbia ebraica con la visione di una giustizia per un mondo di nazioni indipendenti. Il riferimento all’Antico testamento plasmò per esempio la storia del cattolicesimo francese che assunse un carattere nazionale, modellato sul regno davidico di biblica memoria. Così fu per inglesi, polacchi e cechi ben prima della Riforma.
Con il protestantesimo, sotto l'influenza dell'Antico testamento, Zwingli e Calvino saldarono la religione cristiana con le peculiari tradizioni nazionali dei vari popoli. Nel 1534 Enrico VIII nazionalizzò la religione cristiana con la nascita dell’anglicanesimo. Contro gli spagnoli, gli olandesi, rivoltatisi il nome del calvinismo, si opposero all’impero cattolico e dichiararono nel 1581 la loro indipendenza. Così le alleanze nazionali scozzesi furono modellate su quelle ebraiche, narrate dalla Bibbia. La Guerra dei trent'anni non fu del resto una guerra di religione ma una lotta di nazioni contro l'impero. Da questa guerra nacquero gli Stati nazionali di Francia, Olanda e Svezia, rispettivamente cattolico, calvinista e luterano, contro le armate di Germania e Spagna, consacrate all'ideale di un impero universale. Tale concetto dopo Westfalia perde definitivamente il suo aplomb nella politica europea.
III) L’edificazione protestante dell’Occidente
Nel XVII secolo Inghilterra, Olanda, Francia, Svizzera, Svezia e Danimarca costituirono assieme ciò che in seguito fu definito l'ordine politico di Westfalia, contro il quale non a caso si scagliò papa Innocenzo X. È questo nuovamente lo scontro tra l'idea di Stati nazionali e indipendenti, proprio del protestantesimo inglese e olandese, contro l’universalismo cattolico.
Tale idea contiene due principi fondamentali.
1) Il minimo etico richiesto per un governo legittimo. Il re deve proteggere il proprio popolo, la vita dei cittadini, le famiglie, le proprietà, la giustizia nei tribunali e, sulla base delle sue radici bibliche, l’osservanza della festività religiosa con il pubblico riconoscimento di un unico Dio. Tale somma di indicazioni si può sovrapporre alla normativa del decalogo indicata da Lutero e Calvino come legge naturale. Se un governo non si pone tali obiettivi e ne assicura il raggiungimento, fallisce nel suo compito.
2) Il diritto all'autodeterminazione nazionale. Le nazioni, sufficientemente coese e forti per assicurarsi la propria indipendenza politica, sono in possesso del diritto all'autodeterminazione, cioè all’autogoverno, con propria costituzione e chiese, senza interferenze esterne. Questa convinzione di matrice protestante non era nuova, ma già presente nella riflessione dei cattolici Onorio di Augusta e Giovanni di Salisbury, facenti riferimento al Deuteronomio, al libro di Samuele e a quello dei Re.
Il secondo principio - secondo cui la nazione è sovrana e decide anche che cosa sia Chiesa e quale caratteristiche deve avere un governo legittimo - rappresenta un riferimento alla prospettiva biblica di un ordinamento di nazioni indipendenti. Questo principio rese libero il mondo generando una diversità nazionale, di orientamenti di governo, di orientamenti religiosi e diversi gradi di libertà individuali all'interno delle nazioni dopo il trattato di Westfalia. In Europa grande diversità c'era tra le nazioni, per esempio tra Francia, Inghilterra e Germania: in Inghilterra vi era la peculiarità di una costituzione che toglieva al re il diritto di determinare le leggi, introducendo una separazione tra i poteri. Speciale fu anche la Repubblica olandese che garantì un eccezionale grado di libertà individuale, non in base a una lista di diritti universali, ma sulla base di antichi costumi e privilegi. Nella teoria politica protestante di John Selden c'è l'idea che la Scrittura ebraica promuova la nazione per mezzo degli ideali della fratellanza interna e della giustizia come caratteri fondamentali della longevità nazionale. Giustizia e fratellanza interna contraddicono l'orientamento secondo il quale il governo possa agire al di sopra di ogni legge. La legge di Dio e degli altri esseri umani sono fondamentali nella sopravvivenza del governo. Ogni nazione, secondo il principio nazionale, interpreta liberamente suo minimo etico, secondo le sue specifiche esperienze e prospettive di comprensione.
Il rapporto tra i due principi - del minimo etico e dell’autodeterminazione nazionale - attraversa con le sue tensioni la storia delle nazioni europee permettendo il costituirsi di una grande eterogeneità costituzionale e religiosa e la diversità europea in tutti i campi: dalla scienza alla filosofia alla vocazione politica. Certo questo sistema non è stato un idillio e fu funestato dalla costante tentazione delle nazioni di ricorrere alla guerra per accaparrarsi territori incrementare la propria potenza. L'Europa nazionale non fu esente, peraltro, dalle aspirazioni coloniali che si avvalsero di cultura, istituzioni e prassi di sopraffazione anche razziste. Cionondimeno il principio della libertà nazionale diede all’Europa un assetto politico-religioso che fece ottenere grandi benefici alle nazioni occidentali. In più a causa della sua osservanza gli stessi imperi coloniali europei si dissolsero sotto le rivendicazioni nazionali di quegli stessi popoli che erano stati da loro sottomessi.
IV) John Locke e il costrutto liberale
Nel 1941 Roosvelt e Churcill firmano la Carta Atlantica che contiene un principio nazionalista: «Il diritto di tutti i popoli di scegliere la forma di governo entro cui vivere». Contro nazisti e sovietici, essi facevano riferimento ai vecchi ideali cristiano-protestanti come matrice per l'ordinamento politico dell'Occidente. Dopo la Seconda guerra mondiale, il futuro di questo ordinamento politico divenne sempre più incerto. Finì l'ordine classico degli Stati con la fine del riferimento pubblico a Dio e a quelli che abbiamo poco fa chiamato requisiti minimi etici. Si manifestò disinteresse per la salvaguardia dell'indipendenza politica delle nazioni e sì fini per ricostruire un’Europa sottomessa a un regime multinazionale che si affiancò alla potenza americana promotrice di un nuovo ordine mondiale. Si sviluppò dunque un’alternativa all’ordine delle Nazioni e degli Stati che potremmo chiamare la costruzione liberale dell’Occidente. In che cosa consiste questo edificio liberale? Consiste anzitutto nel tentativo di applicare il seguente principio:
fondamento di un ordinamento politico legittimo è solo la libertà individuale.
Fonte di tale visione è il Secondo trattato sul governo di John Locke. Pubblicato nel 1689, il testo si apre con l’affermazione che tutti gli esseri umani sono nati in perfetta libertà e perfetta uguaglianza. Poi vi vengono descritti gli uomini che aspirano, come principale obiettivo della vita, alla libertà e alla proprietà. Tali ideali diventano modello per la vita politica e per una teoria del governo. Pur essendo collocato dentro l'architettura culturale, religiosa e politica protestante, Locke minimizzò aspetti della natura umana – che quest’ultima aveva invece sottolineato - senza cui nessuna filosofia politica può avere senso. Egli, infatti, pone al centro del legame politico il consenso ed esclude tutti gli altri fattori. Egli ha mostra di assumere prospettiva razionalista che astrae da ogni legame che unisce una persona all'altra. Pur di orientamento gnoseologicamente empirista, Locke non usa argomenti che si appoggiano all'esperienza storica nella sua ricerca politica. Infatti, si aggrappa a una serie di assiomi slegati da ogni evidente connessione con ciò che si può apprendere da studi storici ed empirici sullo Stato:
1) l'esistenza di un ipotetico stato di natura in cui
2) le persone sono in perfetta libertà
3) e uguaglianza, senza superiorità o giurisdizione dell'uno sull'altro.
4) In questo stato di natura una legge naturale governa l'uomo.
5) la legge di natura è identificabile con la stessa ragione umana.
6)Tale ragione universale conduce gli esseri umani a por fine allo stato di natura, producendo un unico corpo politico attraverso un atto di libero consenso.
Il principio del consenso pone l'individuo a perno di tutte le scelte importanti, ma questa è una descrizione assai insufficiente del mondo politico reale in cui legami di reciproca fedeltà avvincono gli esseri umani in famiglie, tribù e nazioni, ognuno ricevendo un particolare lascito culturale e religioso dal fatto di essere nati in simili collettività. Insomma, ciò che per Locke è assolutamente indifferente è l'appartenenza come veicolo di obblighi e regole per le singole persone, appartenenza che non dipende dal consenso e non decade se il consenso viene meno. Così Locke elide e svaluta e più basilari legami che mantengono unita una società.
Si consideri la famiglia: l'appartenenza ad essa non dipende dal consenso, perché nessuno sceglie i propri fratelli propri nipoti, eppure essa e fondamento di ogni vivere civile e richiede continuamente all’individuo riconoscimento e sacrificio. Ciò vale anche per lo Stato nazionale. Nella vita reale le nazioni sono comunità unite da vincoli di mutua fedeltà in cui le tradizioni specifiche sono trasmesse da una generazione all'altra. Le nazioni possiedono memoria storiche comuni, una lingua e una letteratura condivise, riti e confini comuni e, infine, offrono una potente identificazione con i predecessori. Questa costruzione dell'identità personale dentro la nazione spinge l'individuo a servire proprio Paese anche scapito di sé. Tutto ciò è incomprensibile mediante la teoria di Locke che riduce la vita politica alla pura tutela di proprietà individuali e della vita. Trai lettori di Locke, Edmund Burke ritiene il Secondo trattato sul governo uno dei suoi peggiori libri, benché molti intellettuali occidentali vi si deliziarono e ne continuarono l'opera.
Così accadde a Rousseau con il Contratto sociale, a Kant con la Pace perpetua, a Rand con la Rivolta di Atlante, John Rawls con Una teoria della giustizia. Questi testi formano la tradizione e il programma liberale. Tale programma conferma la sua astrazione rendendo ingiustificabili l'esistenza di confini tra le nazioni, infatti nel Secondo trattato non vi è in linea di principio alcun limite all’estensione dello Stato o del numero di individui le cui proprietà lo Stato dovrebbe tutelare.
Per contro la dottrina politica protestante si riferisce alla Bibbia ebraica nel considerare ai fini della pace e del benessere del genere umano non meno importanti i confini nazionali che i vincoli di proprietà. Insomma, per la costruzione liberale il genere umano è un'unica comunità e le barriere tra le persone sono prodotto dalla corruzione e dal vizio. L'influenza di Locke fu grande, benché il contesto protestante dell'ordinamento delle Nazioni abbia impedito al liberalismo di manifestare appieno i suoi difetti. Ma non appena il liberalismo si affrancò delle origini bibliche e protestanti, il suo carattere non-nazionalista andò accentuandosi. E il perpetuarsi di Stati nazionali indipendenti risultò per esso sempre più indifferente. Così Von Mises argomentò ampiamente contro il superamento degli Stati nazionali a favore di un super-Stato mondiale. Allo stesso modo Hayek si fece promotore di uno Stato internazionale federale senza confini tra le nazioni. Negli ultimi decenni le politiche liberali, le teorie economiche e gli assunti della normativa internazionale sono riuscite a espungere concezioni più realistiche dell'ordine politico, attingendo abbondantemente al paradigma lockiano, a prescindere dall’appartenenza partitica dei loro sostenitori. Fanno parte del paradigma liberale istituzioni e concetti come l'Unione europea, il libero commercio, la libera immigrazione, l'imprenditoria multinazionale, la normativa internazionale invasiva rispetto a quella interna e nazionale, i diritti umani, le corti internazionali, l'omologazione mondiale universale. Malgrado la sua egemonia, il progetto lockiano rimane una prospettiva utopica sull'essere umano e sui suoi moventi, nonché una base estremamente insufficiente per decifrare e comprendere la realtà politica. I liberali scopriranno, come i marxisti prima di loro, del resto, che mentre negare è facile la repressione di fattori basilari della vita sociale e politica ha costi ognora crescenti.
V) Il nazionalismo calunniato
Fino a poco tempo fa era cosa accettata e considerata espressione di giustizia il sostegno all’indipendenza e autodeterminazione nazionale. Ora invece marxisti e liberali accusano l'ordinamento degli Stati nazionali di essere causa di tutti i mali del mondo e in particolare della prima e della Seconda guerra mondiale. Vi si aggiunge anche l'accusa di aver portato al razzismo e al nazismo. Al contrario Hitler in realtà non sostenne il nazionalismo perché fu critico dell'istituzione dello Stato nazionale in funzione di un Terzo Reich che trae ispirazione origine dal Primo, ovvero dal Sacro Romano Impero Germanico. L'idea di una Germania padrona del mondo non è un progetto nazionalista bensì imperialista e si scaglia contro l'idea di autodeterminazione dei popoli. Nelle loro trasmissioni radiofoniche, durante il conflitto mondiale, gli Stati Uniti la Gran Bretagna sottolinearono costantemente che la loro alleanza anti-nazionalsocialista era un’alleanza di nazioni indipendenti per ricostruire l'autodeterminazione degli Stati nazionali nel continente europeo. Nella lotta al nazismo, anche Stalin dovette abbandonare i consueti imbonimenti sulla rivoluzione mondiale e ricorrere al patriottismo russo. Dopo la guerra, i liberali, tra cui il fervente anti-nazionalista Adenauer, caldeggiarono la creazione di un’Unione federale europea appunto contro il nazionalsocialismo. Per il presidente tedesco l'unica ricetta era la dismissione degli Stati nazionali indipendenti a favore di un Europa che tenesse a bada la Germania. Ma questa è una chimera perché i tedeschi - non avendo una tradizione nazionale, bensì imperiale (si veda per esempio cosa diceva Kant nel suo Per la pace perpetua a proposito dello smantellamento della Stato nazionale) - soggiacciono alla seduzione di riproporre un primato tedesco mediante la stessa Europa, facendone uno strumento del loro imperialismo. Stati Uniti e Gran Bretagna appoggiano l'Europa con l'esito che anche presso di loro l'idea dell'indipendenza nazionale perde colpi. L'aiuto militare statunitense nei confronti dell'Europa ha inoltre disabituato il continente a contare e a investire sulle proprie forze, cedendo alla seduzione di un impero liberale statunitense cui l'Europa dovrebbe collaborare in uno status di costante infantilismo. È sempre l'utopia di un impero che assicuri la pace, quella che viene posta a sostegno della rinuncia all'indipendenza nazionale. L'edificio protestante che assicurò all'Occidente straordinaria forza e vitalità viene così rifiutato in modo generalizzato, soprattutto dalle élites urbane e colte.
VI) Il liberalismo come imperialismo
L’avanzare del liberalismo è una forma di imperialismo: i liberali possiedono una grandiosa teoria su come potranno portare la pace e la prosperità economica al mondo, abbattendo ogni confine e fondendo l'intero genere umano sotto il loro dominio planetario. Al suo interno tale prospettiva è tuttavia differenziata. George Bush padre proclamò che l'avvento di un nuovo ordine mondiale doveva passare attraverso l'Onu. Successivamente si affermò l'idea che tale ordine dovesse essere basato sull’azione unilaterale americana, unita a quella degli alleati europei. Gli europei parlano invece di trans-nazionalismo, attraverso le decisioni di organismi amministrativi e giuridici internazionali, superiori giuridicamente a quelli degli Stati nazionali. Nondimeno queste dispute all'interno del liberalismo sono come quelle medievali tra papato e impero, due istanze ugualmente imperialiste.
Invece la formulazione del liberalismo imperialista può essere riassunta in queste parole di Ludvig von Mises: “Il più grande interrogativo ideologico che si sia imposto all'umanità e se avremo successo nel creare nel mondo una disposizione culturale che permetta la assoluta e incondizionata accettazione del liberalismo. Il pensiero liberale dovrà permeare tutte le nazioni E i suoi principi dovranno informare per visivamente tutte le istituzioni …”
Ora, benché molti liberali siano dogmatici e utopistici, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti il liberalismo è stato talora temperato dalla tradizione biblica, dal riconoscimento nazionalista dell'eterogeneità, dalla fede, dall'empirismo storico e da un moderato scetticismo. Questi elementi, tuttavia, sono in via di dissoluzione con la prospettiva della vittoria globale del liberalismo che assume su di sé gli aspetti più deleteri di un impero cattolico medievale come quelli relativi a una sorta di dottrina dell'infallibilità, a un agire inquisitoriale connesso ad un indice dei libri proibiti. Infatti, ciò a cui si assiste nel progresso della dottrina liberale è il venir meno della libertà e il discredito o la pubblica umiliazione dei dissenzienti. Di questa deriva è testimonianza il deteriorarsi del libero confronto nelle università nel mondo anglosassone. Dall'università poi si passa alla società: la censura universitaria diventa censura sociale. Tutto ciò è il risultato del discostarsi della società dall’architettura protestante dell’Occidente e dai suoi principi di indipendenza nazionale e autodeterminazione, cui si è sempre associato il principio della tolleranza fra le nazioni che, a sua volta, è storicamente stato alla base della tolleranza all'interno di ogni nazione. Infatti, la possibilità di prospettive diverse tra nazioni vicine abituava in qualche modo a considerare le prospettive diverse anche all’interno di ogni nazione. Viceversa, in un ordinamento politico universale, la tolleranza per le opinioni politiche o religiose diverse si deve assottigliare e lo fa in modo particolare oggi di fronte ad una feroce omologazione liberale. La tolleranza oggi è una sorta di reliquia di un'era passata, lo confermano le calunnie contro la società inglese e la sua dirigenza eletta che hanno scelto la brexit. Questa scelta è stata stigmatizzata come frutto di miopia, egoismo e ignoranza perché per un liberale l'Unione europea è l'unica opzione politica che una persona morale e civilizzata può far propria. L'architettura liberale è sempre meno disposta a tollerare un mutamento a difesa delle tradizioni e delle peculiarità nazionali che essa calunnia considerandole indice di una mentalità fascista. Simili esecrazioni ha ricevuto l'America quando ha voluto mantenersi indipendente dalle istituzioni internazionali come la Corte penale. Altri elementi di accusa contro le politiche nazionali sono quelli che si scagliano contro le osservanze e la sequela dell'ebraismo del cristianesimo tradizionali nelle diverse nazioni. Così in Occidente c'è sempre meno spazio per convinzioni differenti dal mainstream liberale e si afferma l'idea che tali differenti convinzioni personali non possano più essere discusse apertamente e pubblicamente.
VII) Alternative nazionaliste al liberalismo
Dopo il 1990 e la fine dell'esperienza politica di Margaret Thatcher, vi furono in Inghilterra circa tre decenni di unanimi politiche progressiste. In Europa avanzò lo sforzo della Germania di sottomettere mediante l'Unione europea le nazioni del continente. Contemporaneamente gli usa stabilirono un nuovo ordine mondiale che avanzò anche sotto il profilo culturale con un profluvio di belli politici utopistici come «La fine della storia e l'ultimo uomo» di Francis Fukuyama; «Le radici del futuro. La sfida tra Lexus e l'ulivo: che cos'è la globalizzazione e quanto costa la tradizione» di Thomas Friedman; «Il nuovo Medio Oriente» Simon Peres. Si è visto che, come dimostriamo la Serbia, l'Iraq e la Libia, non si può infrangere l'ordine mondiale voluto dagli americani. America ed Europa su ciò sono d'accordo, tuttavia il voto britannico per l'indipendenza e il risveglio nazionalista negli Stati Uniti fanno sembrare meno inevitabile trionfo di questo sistema liberale. Oggi vi sono tre tipi di politiche anti-liberali:
1) Il neo-cattolicesimo (di papa Francesco, n.d.r.) che intende preservare e promuovere il minimo etico biblico (spesso identificato più con una teoria della ragione universale che con le Scritture); che offre sostegno alla famiglia, alle istituzioni tradizionali e ai simboli religiosi ma è ambivalente su tutti gli istituti internazionali, orientati a far crescere un sistema legale di coercizione internazionale, cui la Chiesa cattolica partecipa.
2) C'è il neo-nazionalismo (potremmo identificarlo come una via di mezzo tra il “gaullismo” e ciò che oggi viene chiamato “populismo”, n.d.r.) che segue l’esempio di Rousseau e del nazionalismo rivoluzionario francese, insistendo sulla fedeltà dell'individuo allo Stato. Esso, tuttavia, tende verso l’assolutismo e l'ateismo. Il neo-nazionalisti possono essere considerati conservatori che si oppongono allo smantellamento dello Stato nazionale operato dall’Unione europea; all'Onu e alle organizzazioni internazionali; all'immigrazione; ai sistemi internazionali di coercizione … ma sono distanti dalle tradizioni religiosi bibliche e dal rispetto dei loro standard morali, e dunque non posseggono anticorpi che contengono sia gli eccessi dell'individuo sia quelli dello Stato.
3) La terza prospettiva potrebbe essere quella conservatrice o tradizionalista che difende l'ordine internazionale degli Stati basato sui principi del pensiero protestante: l'indipendenza nazionale e il minimo etico biblico per la legittimità del governo. Questa posizione coincide con la tradizione conservatrice anglo americana e fa riferimento ai pensatori come John Fortescue, John Selden ed Edmund Burke. Tale orientamento sostiene i principi della limitazione del potere esecutivo; delle libertà individuali; di una religione civile modellata sulla Bibbia; di un empirismo storico che spesso servì a moderare la vita politica in Gran Bretagna in America. Detta tradizione può aggiornarsi per soddisfare le necessità della nostra epoca in modo più efficace rispetto alle prime due. Anche se Gran Bretagna e Stati Uniti sono disancorate del messaggio biblico, la loro tradizione, infatti, sopravvive malgrado l'egemonia liberale.
Dopo aver presentato gli argomenti storici a favore del nazionalismo e contro l'imperialismo, passo ad un argomento generale a favore dell’indipendenza dello Stato nazionale come principio regolatore a disposizione dell'umanità.
Parte seconda: In difesa dello Stato nazionale
VIII) Due generi di filosofia politica
Il liberalismo si interessa del governo tralasciando lo Stato. Esso si chiede se lo Stato debba essere governato con un sistema monarchico, con una repubblica aristocratica oppure per mezzo di una democrazia. Ciò assume l’esistenza di uno Stato coeso e indipendente come un dato di fatto e porta a tralasciare le domande sulla formazione, la legittimità e l’estensione del potere dello Stato stesso; se questo sia realmente la migliore istituzione per regolamentare la vita umana o se vi siano altre forme di ordine politico, quali il clan o l’ordinamento feudale; oppure, infine, se si dovrebbe affidare i destini dell’umanità a un unico Stato universale oppure no. Da qui vengono le due aree principali di studio della filosofia politica, che è filosofia del governo oppure filosofia dell’ordinamento politico. La filosofia del governo può dimostrarsi foriera di pericoli se non preceduta da un attento studio sulle cause dell’ordinamento politico. Infatti, l’assunzione dello Stato coeso e indipendente come dato autoevidente fa scorgere Stati là dove non ve ne sono, fa pensare che possono essere facilmente creati Stati, fa sottovalutare i rischi di smarrimento della propria coesione e indipendenza da parte dello Stato, svilisce lo sforzo necessario preservare coesione indipendenza dello Stato quando si attuano politiche che vanno in direzione opposta. Punto di riferimento per capire le cause dell’ordinamento politico può essere la Bibbia ebraica. Nella Bibbia si parla della possibilità da parte degli esseri umani di vivere in famiglie, clan o tribù al di fuori dello Stato. Si sottolineano le ambiguità sussistenti alla fondazione dello stato e la sua fragilità. Si evidenzia il ruolo del giusto governo nel consolidare lo Stato e si pone l’interrogativo se la libertà umana venga implementata oppure ostacolata dallo Stato; o se uno Stato imperiale possa produrre effettivamente schiavitù. Le pagine che seguono parleranno di filosofia politica indagando le cause dell’ordinamento politico per capire come la sua miglior forma sia un consesso di Stati indipendenti e come questo ordinamento sia migliore rispetto, da un lato, alla tribù e al clan, dall’altro, all’impero.
IX Le fondamenta dell’ordinamento politico
La maggior parte delle mete umane richiedono collaborazione. Da qui nasce la politica, quella disciplina o arte di influenzare gli altri, affinché realizzino le mete ritenute necessarie o desiderabili da un’altra persona. Le istituzioni sono collettività umane che perpetuano la loro esistenza nel tempo, facendo riferimento a taluni ben precisi scopi e strutture, quali, ad esempio, un nome specifico e noto che le renda riconoscibili oppure il ricorso a procedure condivise attraverso cui prendere decisioni e agire come un’unica realtà. Ciascuna istituzione insegna, persuade e obbliga i suoi membri a comportarsi in base ai succitati scopi e strutture, conformandosi a regole e procedure accettate, in modo che si possa agire come un solo corpo, senza ogni volta essere costretti a persuasione o costrizione. Che cosa spinge gli individui a dar vita a istituzioni? Vi sono tre possibilità: o il timore di ritorsioni; o l’utile; o la considerazione dei fini dell’istituzione come fini propri. La presenza del terzo è necessaria alla stabilità dell’istituzione. Mentre l’interesse individuale per la vita e la proprietà non può essere considerato il movente più esplicativo degli accadimenti politici, laddove i fini della comunità sono invece spesso perseguiti anche a costo della propria vita. Ogni teoria politica non può, dunque, ignorare questa specifica capacità del singolo essere umano di riconoscere come personali gli obiettivi della collettività. In generale si può dire che ogni essere umano per natura intende preservare l’integrità del proprio sé. Ciò, tuttavia, implica la protezione di tutta una serie di altri beni e persone: non solo il corpo fisico della persona e la sua reputazione, ma anche la propria terra e altri beni materiali connessi, la propria moglie, i propri figli, i propri genitori, i propri fratelli e le sorelle. Oltre a ciò, si va ben al di là della sfera familiare: come se fossimo noi stessi, noi difendiamo un amico, un concittadino, un commilitone un compagno appartenente alla stessa banda eccetera. Insomma, il sé di una persona risulta per natura dai confini flessibili. Indichiamo con la parola fedeltà l’attaccamento a un altro, considerato entro la sfera del proprio sé. La fedeltà reciproca non implica che gli esseri vincolati da questo legame rinuncino alla propria personale indipendenza. Generalmente le divergenze interne, pur sussistenti in persone mutuamente fedeli, vengono obliate e superate di fronte a un attacco esterno o a un’avversità. Tutte le esperienze di relazione di reciproca fedeltà stabiliscono una marcata distinzione tra un dentro un fuori: il dentro è parte della propria identità, il fuori è ciò che porge una sfida rispetto a essa. Le istituzioni provvedono alla loro coesione sia per mezzo di compensazioni economiche, sia per mezzo della forza. Quelle durature, tuttavia, sono fondate sulla mutua fedeltà. Per esempio, sono profondi e resistenti i legami familiari, oltre a quelli delle piccole istituzioni come l’unità militare o plotone. Le piccole istituzioni in cui le persone sono uniti da vincoli costruiti in lunghi anni di avversità e di successi rappresentano la pietra angolare qualsiasi sistema politico. È dalle piccole istituzioni che si sviluppano poi le istituzioni maggiori come per esempio il clan, costituito da un gruppo di famiglie i cui capi si associano per difendere interessi e obiettivi comuni. La fedeltà interna mantiene in essere questa alleanza tra innumerevoli individui che a volte non si sono nemmeno mai incontrati. Successivamente in una sfera più vasta i capi dei clan possono unirsi in una tribù che può arrivare a contare decine di migliaia di membri e queste a loro volta in una nazione. È importante notare che l’intensità con cui i vincoli di lealtà e fedeltà sono avvertiti muta a seconda che vi sia o meno pericolo e dall’intensità con cui sono avvertite le sfide. Sidwick ha inoltre sottolineato il ruolo della coscienza di appartenere l’uno all’altro e di essere parte di un unico corpo, al di là del fatto di trovarsi sotto un unico governo. John Stuart Mill ha chiamato tutto ciò “fellow-feeling” ed Herder “legami affettivi”. Max Weber, dal canto suo, ha ripreso tale concezione indicandola come il sentimento di solidarietà di fronte ad altri gruppi. La storia biblica di Israele ci dice che, non diversamente dai vincoli di fedeltà al clan, i legami di fedeltà del singolo alla tribù o alla nazione crescono per il vincolo di fedeltà ai propri genitori. Nella famiglia ci si abitua a sentire come proprie le vicende degli altri a cui siamo legati. Da qui si passa al clan, alla tribù e alla nazione. C’è un limite a questo allargamento? È possibile che si formino, in occasione di particolari lotte contro un nemico comune, famiglia di nazioni. Non si è mai osservato, invece, una sincera tendenza verso una mutua fedeltà tra tutti gli esseri umani, cosa che potrà verificarsi soltanto nelle condizioni per cui tutto il genere umano debba fronteggiare un’avversità condivisa. La mutua fedeltà degli individui l’uno verso l’altro è la più potente forza operante nella dimensione politica essa non ha radici solo biologiche, ma anche fuori dalla famiglia biologica gli individui sperimentano la tendenza ad aggiungere le loro forza ad altri individui, ottenendo in cambio di protezione. Di qui nasceranno nuovi legami di mutua fedeltà al posto di quelli perduti. La fraternità è solo una metafora e la parentela biologica solo il punto di partenza per una associazione che si tempra in lunghi anni di difficoltà e successi comuni. Ciò ha per conseguenza che non può esistere società i cui singoli membri si dimostrino fedeli a nessun altro soggetto che a loro stessi. All’interno anche degli Stati più vasti esistono diverse associazioni a cui il singolo può offrire la propria fedeltà. Tale tendenza all’associazione aumenta in presenza di minacce. In tali occasioni aumenta in intensità ciò che accade normalmente: il fatto di esperire come proprio e personale quanto accade alla comunità. Cioè il fatto di preoccuparsi in modo peculiare della salute della prosperità della famiglia, dei clan e della tribù o della nazione. Si consideri anzitutto la famiglia. La sua salute e prosperità consistono in una certa floridezza fisica e materiale; in una forte unità interna; nella vastità e qualità del patrimonio culturale trasmesso dai genitori e dei nonni ai bambini. L’individuo normalmente esperisce il rafforzarsi o l’indebolirsi della sua famiglia come qualcosa che sta accadendo a lui e per tale motivo si sacrifica perché avverte il rinsaldarsi della famiglia come un suo personale rafforzamento. Gli stessi fattori della famiglia - benessere economico, coesione interna, forza ed eccellenza del patrimonio culturale - rappresentano la salute la prosperità di ogni collettività umana: clan, tribù o nazione che sia. Come ci spendiamo per la comunità? Ne ricerchiamo il successo materiale, ci adoperiamo per rafforzarne l’unità interna insistendo sulla mutua fedeltà, sull’onore agli anziani e ai leader; ne trasmettiamo il patrimonio alle nuove generazioni. Quest’ultimo passaggio a volte è ritenuto una necessità non meno impellente di quelle di nutrire e vestire i figli. Chi si intromette nella sfera familiare o della propria comunità con intenzioni ostili riceve una reazione particolarmente forte, che può arrivare alla violenza. Nessuna ideologia universalistica ha scalzato l’amor proprio, cioè l’amore per sé e per la propria comunità. La solida fortezza di famiglia, clan, tribù, nazione è necessaria per ogni diversità umana, per ogni innovazione e ogni progresso perché consente a ciascun gruppo di preservare la propria speciale eredità, il lascito prezioso di una cultura specifica, in un giardino in cui può prosperare indisturbata. Qui c’è spazio per ciò che è originario e originale. Ogni progresso è l’eredità indipendente di una piccola collettività umana le cui mura, peraltro, bloccano e rallentano tutte quelle novità che possono rappresentare un pericolo e che pertanto sono vagliate perché ne sia attentamente valutato il significato e la misura del loro accoglimento.
X) Come sono nati davvero gli Stati?
La storia della nascita dello Stato attraverso un contratto, implicante il libero consenso di ogni individuo, è qualcosa a cui nessuno crede più e che tuttavia viene ripetuta dalle scuole all’università, costituendo una favola persistente in tutti gli stadi della vita sociale. Alcuni grandi pensatori - Hume, Smith, Ferguson, Burke e Mill - si sono preoccupati di smontare questo mito perché liberarsi dalla visione contrattuale è condizione per liberarsi dalla confusione relativa alla comprensione di come gli Stati continuino a resistere nel tempo, di ciò che vi mantiene uniti e di ciò che li distrugge. Essi hanno convenuto che non è mai esistito uno stato di natura, mentre costante è nella storia dell’umanità la fedeltà alla famiglia, al clan, alla tribù o alla nazione. Questo ordinamento in tribù e clan è in effetti originario nel genere umano. I clan e le tribù, pur occupandosi delle stesse cose dello Stato (difesa, giustizia, culto divino) non sono lo Stato. Essi implicano una forma anarchica di amministrazione della vita. Non c’è un esercito stabile; non un apparato politico né una burocrazia, né una legge fatta osservare con la forza. C’è un capo che tuttavia deve avere la conferma del consenso dei capi famiglia ogni volta che agisce in nome di tutti. La tribù o il clan agisce in modo unificato quando c’è il consenso dei membri nei riguardi delle loro guide circa le azioni da loro compiute e di conseguenza si mantiene la loro fedeltà. Le guide peraltro devono essere depositarie di una autorevolezza che si esprime nel mondo ebraico con il concetto di kavòd (onore o gloria): di esso sono depositari gli anziani, i membri più potenti, in base ai loro costumi e al loro modo di concepire il mondo. Le differenze di kavòd instaurano una gerarchia tra i vari membri che costituiscono una data comunità. Tale ordinamento anarchico ha il vantaggio di consentire la libertà ai membri. Gli svantaggi riguardano la difesa, la giustizia e la religione. La prima si basa su milizie indisciplinate e non regolarmente addestrate; la giustizia è perseguita con molte difficoltà le tradizioni religiose risultano essere solo spontanee. Vi è inoltre un rischio forte di guerra intertribale che porta ad una debolezza costitutiva del regime, esposto spesso alla sconfitta per mano straniera. Lo Stato nazionale nasce proprio dalla debolezza della tribù e del clan, e introduce un governo centrale permanente, forze armate professioniste, un apparato burocratico, la possibilità da parte del sovrano di emanare decreti che vengono imposti anche ricorrendo alla forza. In tale governo si affida un’inedita concentrazione di potere nelle mani di un numero esiguo di individui. Conosciamo due modi di nascita dello Stato. Innanzitutto la possibilità di uno Stato libero in cui la cooperazione dei governati sia volontariamente offerta al governo. Si tratta di una coalizione volontaria di tribù che affianca il potere supremo da loro stesse scelto, nel suo concreto esercizio. Qui si passa con una certa armonia dalla fedeltà alla famiglia a quella lo Stato senza soluzione di continuità. Qui la fedeltà allo Stato viene prima di quella dovuta al governo. Esempi di questo Stato sono l’antico Israele e Atene che, come città-Stato è uno Stato intertribale, ma anche l’Inghilterra di Alfredo il grande, la Repubblica olandese e gli Stati Uniti d’America. In tutti questi casi, si ha un’unione di gruppi preesistenti che danno origine ad una configurazione più estesa e forte. Il secondo caso è quello di uno Stato dispotico, in cui diverse popolazioni sono soggiogate da un conquistatore e la coesione è ottenuta per mezzo della forza. L’unica forma di governo che possa imporre una sembianza di coesione dove essa, come in questo caso, non esista genuinamente è la tirannide. Queste due modalità, libera unione o conquista, spesse volte sono andate in una combinazione tale per cui alcuni clan liberamente si uniscono tra loro, mentre altri vengono obbligati a farlo. La distanza dalle teorie di Hobbes e Locke relative al consenso degli individui non potrebbe essere più grande: nella realtà non esiste alcun consenso individuale né nel caso della conquista e nemmeno nel caso dell’unione libera. Perché la mutua fedeltà stabilitasi tra i capi-tribù al fine di promuovere la pace tra loro, di garantire la loro congiunta indipendenza e forme di vita, così preservandole da minacce esterne, avviene in virtù di precedenti vincoli di mutua fedeltà. In ogni caso il singolo individuo non ne è interpellato ed è fedele allo Stato perché è fedele alla sua famiglia, suo clan, la sua tribù.
XI La famiglia e l’impresa
La grande menzogna liberale consiste nel dire che la vita politica è governata in ampia misura sulla base dei calcoli di individui consenzienti in relazione a ciò che ottimizzerà il loro utile. La filosofia liberale ignora la mutua fedeltà. Per capire la portata di questo errore si confrontino due istituzioni, la famiglia e l'impresa d'affari. L'impresa è per antonomasia l'istituzione governata da giudizi del singolo su ciò che lo avvantaggerà. È vero che a volte l'azienda ispira fedeltà, ma ciò lo fa per il suo carattere para-familiare e il suo reale fondamento rimane un contratto consensuale articolato sulla convenienza di ciascuno. Il legame che così viene a formarsi è molto debole, è mutevole e necessita di continua conferma del consenso. La famiglia, invece, pur nascendo da un accordo matrimoniale e pur avendo un assetto anche economico, possiede mete diverse e si fonda su legami diversi. Anzitutto i coniugi non si sposano per il reciproco benessere, ma per la trasmissione a un'altra generazione di un'eredità consegnata dai genitori e dagli antenati. Tale eredità include l'esistenza, forse alcuni beni, ma soprattutto una forma di vita, una religione, una lingua, specifiche abilità e pratiche, come pure alcuni ideali e criteri per apprezzare che cosa abbia valore. Lo stimolo alla sua formazione è dato dalla volontà di onorare in certo modo il debito contratto con i propri genitori e avi, trasmettendo il patrimonio a propria volta ereditato. I genitori, peraltro, non si sentono responsabili solo verso i loro figli, ma anche verso i nipoti e verso tutti coloro che sono legati alla propria generazione. Le responsabilità di un'impresa si fondano invece sul consenso e sono transeunti mentre nella famiglia le responsabilità verso i figli sono permanenti e il consenso diventa irrilevante. Ciò che motiva i genitori è la loro fedeltà, ossia il fatto che i genitori sentono il figlio come parte di se stessi. Allo stesso modo l'inizio del rapporto tra marito e moglie è consensuale ma dopo, di fronte alle vicissitudini della vita, prevale il legame della fedeltà. Malgrado le possibili analogie fra famiglia e impresa, le istituzioni rispondono a due diversi ideali: l'impresa d'affari opera in una sfera dell'esistenza umana in cui sono primariamente vantaggiosi la libertà umana, i calcoli e l'accordo; la famiglia opera invece in una sfera in cui sono più giovevoli la fedeltà, la devozione e i doveri. Le sregolatezze proprie dell’agire indiscriminato che regna nell’economico diventano esiziali per i rapporti familiari: i comportamenti che procurano la massima prosperità negli affari sono gli stessi che infliggono una devastante rovina alla famiglia. Tribù, clan, nazione sono del medesimo genere della famiglia. Il loro scopo è trasmettere il patrimonio degli avi; il loro collante è la fedeltà. I saldi vincoli familiari sono fondamentali in un libero Stato, mentre non lo è il consenso. Quando un filosofo cerca di fondare lo Stato sulla libertà individuale, sul consenso e sulla stima dei benefici personali ci chiede di considerare lo Stato come una grande impresa economica. Ma lo Stato non è un'impresa perché esiste in virtù di vincoli modellati su quelli familiari e sulla mutua fedeltà dei suoi membri.
XII) Impero e anarchia
Per lo più gli uomini sono vissuti in ordinamenti anarchici come il clan o un’organizzazione feudale. Con l'avvento dell'agricoltura su larga scala si istituì un governo permanente in grado di imporre il proprio volere ricorrendo a forze armate specializzate. Ne nacque lo Stato, anzitutto come città-Stato in cui si avverte ancora la forza dei singoli clan concorrenti. Alla fine, si giunge a un solo governante al comando e ad una espansione a danni di altre comunità. Nasce così lo Stato imperiale e la sua aspirazione universalistica. Ogni Stato dovrebbe mirare al dominio dell'universo? Oppure vi è un limite ragionevole che gli può essere imposto, diverso da quello dettato dalle sconfitte sul campo di battaglia? Tra le forme di ordinamento politico, ad un estremo possiamo porre l'ideale dell'impero, cioè di uno Stato che per principio sia privo di confini, tale cioè da coinvolgere l'intera umanità. All'estremo opposto troviamo l'anarchia, ove non esiste uno Stato centralizzato e la fedeltà dell'individuo è riservata a una collettività ristretta, profondamente legata, come la famiglia, il clan, il villaggio, il feudo o la banda. L'ordinamento anarchico o feudale si articola su vincoli di mutua fedeltà tra individui che si conoscono fra loro; in una dimensione imperiale, invece, la lealtà e l’obbedienza sono riservate all'impero stesso e all'intero genere umano che si suppone sia rappresentato dall’entità imperiale. Qui il governante non è conosciuto personalmente. L'imperatore è remoto e per lui il governato è un'astrazione così come lo è lui per il governato. Nell’anarchia la fedeltà è concessa una persona familiare e nota, nell'impero la lealtà e l'obbedienza si esprimono solo attraverso notevoli astrazioni. Ecco perché gli imperi considerano l'anarchia il peggiore dei mali: perché la fedeltà al capo clan è incompatibile con la fedeltà all'impero e all'umanità. Così l'anarchico diventa nemico dell'umanità. Impero e d'anarchia si radicano in sistemi morali reciprocamente incompatibili: quello anarchico è fondato sul principio della gratitudine verso individui prossimi, da cui si è ricevuta assistenza, e sul rispetto per i benefici ricevuti dal clan, che fonda l'obbedienza. L'ordinamento anarchico è tuttavia difficile da mantenere per i seguenti fattori: la debole e diffusa autorità rende più facili conflitti intestini; vi è difficoltà di esercizio della giustizia, spesso ostaggio dei rapporti di potere tra clan e tribù; conoscere il proprio governante spesso non è un bene, perché il suo operato è giudicato in base a pregiudizi; la libertà di ogni clan rende difficile un’azione coordinata. In un ordinamento imperiale l'intera vita politica ruota attorno al principio morale dell'unità di un'umanità indistinta e sconosciuta, presso la quale l'impero produce pace e prosperità. Infatti, l'impero fa finire le guerre tra clan imponendo la sua legge universale e imparziale, e portando a tutti benessere economico. Nondimeno i problemi dell'impero sono l'asservimento di popolazioni lontane e la distruzione dei loro stili di vita, proprio affinché regni la pace. Si tratta di un asservimento inevitabile che è fondamentale per la costituzione dell'impero. Tutto ciò per il clan la tribù ciò significa la fine della libertà. I fardelli imposti dallo Stato imperiale per mantenere la sua burocrazia rappresentano per il clan altrettanti elementi di schiavitù. Le leggi e le categorie universali sono distaccate dai contesti specifici: per il clan una legge universale e astratta è iniqua. L’impero, infine, sviluppa due orientamenti: ha un atteggiamento positivo verso chi lo accetta; è radicalmente violento contro le tribù/clan/nazioni che lo rifiutano, che vengono considerati egoisti o primitivi. Il dilemma dell'impero sta nella possibilità di conciliare l'aspirazione per l’unificazione dell’umanità con la concreta ed effettiva natura umana. L’impero chiede fedeltà al genere umano, ma la fedeltà tra gli uomini nasce per lo più in presenza di minacce esterne. Tuttavia, nessuno minaccia l'umanità intera, ergo l'appello alla fedeltà risulta molto debole. Inoltre, per lo più accade che anche nell'impero la reale fedeltà tra gli individui sia quella che si genera all’interno della nazione dominante in esso, che va a costituire quel nucleo di individui, tenacemente legati l'uno all'altro, che si difesero dei popoli conquistati e da quelli sono considerati come una minaccia permanente. Benché a volte l'impero sia stato allargato a più nazioni, comunque primaria rimane la mutua fedeltà tra i membri della nazione dominante. Così, mentre gli imperi amano identificare la loro causa con il bene ultimo dell'intera umanità, questa stessa causa è pressoché sempre associata con il dominio di una nazione a detrimento di tutte le altre. Impero e anarchia sono fondati su principi normativi di eccezionale plausibilità e potere e non è possibile affermare che uno di questi sia sbagliato. Ognuno di essi occupa un certo spazio in un sistema morale equilibrato. Tuttavia, quando uno dei due prevale e diventa assolutamente esclusivo, genererà non libertà nei popoli ma schiavitù. Schiavitù della nazione dominante verso gli altri nell'impero, schiavitù nei riguardi di un conflitto permanente tra i vari capi popoli territoriali nell’ordinamento anarchico.
XIII) La libertà nazionale come principio ordinatore
Il problema delle due modalità estreme e opposte di organizzazione politica dell'impero e dell'anarchia è trattato anche nelle Scritture. Ciò che i profeti di Israele proposero come alternativa è un terzo genere di ordinamento politico, l'istituzione ebraica dello Stato nazionale. Nell'impero la fedeltà degli uomini va all'umanità. Nell'organizzazione anarchica va a un clan. Nello Stato nazionale la fedeltà si rivolge alla nazione. Per nazione si intende un certo numero di tribù che condividono un patrimonio in genere includente un comune linguaggio o tradizioni religiose, e una storia pregressa di alleanze contro comuni nemici. Lo Stato nazionale è il governo unitario, permanente e indipendente della nazione. Quest'ultima si percepisce, come comunità, diversa dalle altre. La sua unità lascia permanere le tribù che continuano ad esistere anche dopo l'indipendenza nazionale. Lo Stato nazionale si colloca certamente a metà tra il clan o la famiglia e l'impero ma è qualitativamente diverso. A differenza che nella famiglia i membri dello Stato non si conoscono. La nazione è un'astrazione impersonale come l'umanità. Ma diversamente dall'umanità ha le sue tradizioni storiche, una lingua, una religione, delle leggi comuni che ne concretizzano l'esistenza. Per questo non si può trovare nell'impero il medesimo vincolo di fedeltà tra i membri che si ritrova nella nazione, eccetto che per la nazione dominante nell'impero stesso. Dal punto di vista del sistema politico e dello Stato nazionale, un ordine complessivo del vivere civile può essere assunto come criterio regolativo la libertà nazionale. Essa ricava dall'impero e dalla famiglia ciò che è importante e fecondo in entrambe. Dal principio imperiale si ricava la fedeltà verso l'astrazione dello Stato piuttosto che verso individui conosciuti. Ciò garantisce un sistema giudiziario imparziale e l'istituzione di una pace interna al di là dei conflitti familiari. Del principio anarchico, la nazione conserva l'idea della possibilità di rispondere ai bisogni e interessi della propria comunità secondo le sue tradizioni e aspirazioni specifiche. Infine la libertà della propria nazione consente di cogliere come un bene anche la libertà delle nazioni diverse dalla propria.
Qualcuno dice che la libertà ha senso solo in relazione all'individuo. Tuttavia essa è come altri concetti che parimenti si attribuiscono all'individuo e alla collettività, per esempio quelli di paura, interesse, aspirazione eccetera. Un altro esempio è quello del concetto di pena o dolore applicato al singolo e alla famiglia. Può essere addolorato un singolo per qualche motivo. Ma il dolore di una famiglia non è semplicemente il dolore di ciascuno dei singoli componenti. Nella famiglia chi soffre, soffre per il motivo della sofferenza e soffre insieme per la sofferenza di tutti i suoi cari poiché nella famiglia ciascun membro sente come proprio ciò che accade agli altri. In questo modo l'individuo non è deprivato ma vive una esperienza ulteriore (ciò vale anche per la gioia e per gli altri sentimenti). Sentimenti, passioni e pensieri collettivi li possono avere anche il clan, la tribù o la nazione. Anche la nazione può patire dei travagli; anche la nazione può soffrire per l'esperienza della schiavitù, come per esempio è accaduto agli ebrei nel racconto dell'Esodo. Se una nazione può sperimentare la schiavitù, parimenti può fare esperienza della libertà, che viene a significare un'esperienza di autogoverno, di costruzione di se stessi, e di determinazione del proprio futuro. In tal caso il fine della disciplina politica è propriamente quello di determinare le circostanze per cui una massa agisca per fini desiderabili o necessari e pertanto sia da considerarsi libera. Anche la libertà collettiva è diversa da quella individuale. La libertà politica implica la libertà di ciascun componente della comunità nazionale: famiglia, clan, tribù. Essa è tale per cui un individuo non si sente libero, magari pur godendo personalmente di ampia discrezionalità di scelta sulla sua vita e i suoi beni, se non è libero anche colui che egli avverte come legato a sé con legami di mutua fedeltà. L'individuo in esilio da un regime dispotico che governa la sua nazione non si sentirà libero finché non sarà liberata la propria nazione. Gli ebrei palestinesi durante la Seconda guerra mondiale non si sentivano liberi finché i propri compatrioti erano perseguitati in Europa.
XIV) Le virtù dello Stato nazionale
Il sistema economico della libera impresa, data la natura umana cerca di ottenere i migliori vantaggi possibili in termini di beni materiali. L'ordinamento per Stati nazionali si basa sulla constatazione che il singolo essere umano costantemente desidera e persegue il benessere la ricchezza della famiglia, del clan, della tribù o della nazione cui è legato da vincoli di mutua fedeltà. Ci sono cinque ambiti in cui la nazione nell'ordinare la vita civile risulta superiore all'impero e all'anarchia, in particolare sul tema della libertà collettiva.
I) La violenza è confinata nelle periferie. Nell'organizzazione per clan il bene dello stesso clan è perseguito contro tutti gli altri. Ciò genera una violenza diffusa senza la possibilità di mediazione o Paci durature. Nella nazione la libertà del clan e sottomessa all'unità della nazione stessa. Ciò limita il conflitto ed espelle la violenza al contesto della sola difesa della più ampia sfera nazionale. La nazione rende possibile anche l'esercizio di una giustizia terza fra i differenti clan. In questo modo si elimina il ricorso alla violenza e alla belligeranza e la guerra viene confinata ai margini dell'esistenza umana. In pace la vita familiare d'economica può procedere speditamente e progredire costantemente, rendendo possibile molte altre innovazioni e migliorie.
II) Scarsa considerazione per la conquista imperiale. Lo Stato nazionale è su scala limitata e riconosce i limiti naturali alla sua estensione. L'impero si espande per portare ovunque pace e prosperità. La nazione trova limite nel riconoscimento della libertà e dell'autodeterminazione delle altre nazioni. All'interno degli imperi, nota Herder, il selvaggio mescolamento delle nazioni rende debole l'unità politica. Viceversa egli ritiene che nello Stato nazionale i vincoli sentimentali e i cittadini e un governo che proviene dal popolo, garantiscano forza ed efficienza. L'espansione innaturale dello Stato distrugge i legami e i vincoli che lo tengono assieme, inglobando elementi incongrui. Ciò fa dell'impero un congegno mal assortito e una macchina fragile. Invece un preciso carattere nazionale che si preserva di era in era e si sviluppa è l'elemento di coesione e forza della nazione. Ciò consente una tranquilla pacificazione interna che è vietata agli imperi, sempre attraversati da conflitti e dalla necessità di una repressione delle spinte eversive. Queste ultime sono rese inevitabili dall'incapacità dell'impero di comprendere la specificità dei popoli a causa della sua prospettiva universalistica. Peraltro mentre si cerca di soggiogare le altre nazioni, si diventa insensibili ai bisogni della propria. Di fronte a questo tipo di deriva, i popoli provano orrore e si distaccano da una dirigenza e lungi dall'essere fedele al loro mandato di concentrarsi sulla crescita del benessere della ricchezza della loro nazione, è impegnata costantemente a preservare e governare un impero costituito da nazioni estranee. Nella nazione la classe dirigente teme di impegnarsi in avventure imperialistiche perché preoccupata di un'eventuale sconfitta e assieme al rischio che la forza coesiva interna della nazione si dissolva dominando terre straniere. Pertanto la mutua fedeltà e lealtà tra dirigenza e popolo limitano agli occhi dei dirigenti stessi l'orizzonte politico dello Stato nazionale. Ciò non significa che in esso vi sia una naturale e scontata tendenza alla pace. Non è detto che si sia immuni, peraltro, da fanatismi ed errori. Nondimeno le guerre nazionali risultano generalmente limitate nelle loro mire, nelle risorse investite e nell'entità della distruzione della miseria generate, perché circoscritte all'ottenimento di qualche vantaggio politico o economico senza pregiudizio per il sistema complessivo degli Stati nazionali. Le guerre distruttive d'Europa sono state per lo più guerre ideologiche, combattute in nome di qualche dottrina universale. Si vedano per esempio la Guerra dei trent'anni, le guerre napoleoniche, la Seconda guerra mondiale. Qui la storiografia è unanime sulla natura imperialista d del conflitto. Anche tuttavia nella Prima guerra mondiale pensare che le cause siano limitata allo scontro tra il nazionalismo serbo e l'impero austriaco, connesso alla rigidità del sistema europeo delle alleanze, è riduttivo. Questi fattori spiegano lo scoppio, non la vastità e la durata del conflitto. Le reali cause sono nell'imperialismo che dominò le politiche di Gran Bretagna, Francia, Russia e Germania. Erano questi imperi in costante estensione tra il 1871 e il 1914. Agli albori della guerra l'espansione di Francia Inghilterra aveva condotto i tedeschi a ritenere finita l'epoca degli Stati nazionali e con Guglielmo II inaugurata l'era degli Stati mondiali. Da qui l'idea che solo una competizione della Germania contro lo Stato mondiale britannico e quello parimenti imperiale francese avrebbe consentito la realizzazione delle aspirazioni tedesche ad una parità con gli altri imperi. Allo stesso modo i francesi ed inglesi esprimevano ambizioni di ulteriore estensione verso l'intero Medio Oriente. La Prima guerra mondiale fu data dunque dall'infatuazione degli Stati nazionali europei per l'imperialismo. Fino a che la competizione tra gli Stati europei si limitava agli imperi d'oltremare di Francia, Inghilterra e Olanda, il sistema degli Stati europei regge. Quando i tedeschi si inseriscono nel gioco, essi pensano ad un impero sul suolo europeo. Che avrebbe come conseguenza fatale la distruzione del sistema degli Stati nazionali, un sistema che invece nel continente la Gran Bretagna vuole mantenere, assieme al suo impero mondiale. Pertanto, anche la Grande Guerra è una guerra imperiale con un livello di istruzione proporzionata alle aspirazioni universali dei belligeranti.
Al contrario i legami di mutua fedeltà che avvincono i membri di una nazione limitano l'entità dei conflitti perché rammentano ai governanti le privazioni e le tribolazioni patite dalla nazione e li esortano a implementare dentro i confini baratri la ricchezza materiale la coesione interna e il peculiare loro patrimonio culturale.
È interessante considerare anche l'imperialismo statunitense. Con William Mc Kinley nell'ultimo decennio dell'Ottocento gli Stati Uniti si sentono investiti della missione di portare l'eredità culturale cristiana e il capitalismo nei luoghi non civilizzati del pianeta. Ecco allora la conquista delle Filippine, di Cuba, di Puerto Rico e di altre isole spagnole. Ciò però portò solamente ad un impegno eccessivo in guerre di repressione coloniale cosicché Teddy Roosevelt e Woodrow Wilson persero interesse per un'espansione oltreoceano e promisero indipendenza sia alle Filippine sia a Cuba. Gli Stati Uniti mantennero sostanzialmente questa prospettiva nazionale fino alla Seconda guerra mondiale.
In Europa Gran Bretagna e Olanda rifiutano l'imperialismo ma solo dentro il continente, e invece costruiscono imperi extraeuropei per meglio contrastare l'impero spagnolo. A fine Ottocento l'imperialismo francese inglese è un modello e al tempo stesso una provocazione per Germania, Italia e Giappone. Mentre dopo la grande guerra La Società delle nazioni voluta da Wilson contrasta singolarmente con la sua prospettiva nazionalista di autodeterminazione dei popoli. Nel corso delle due guerre mondiali furono gli statisti statunitensi a riconoscere le radici imperialiste della catastrofe, ottenendo una diffusa accettazione del principio politico nazionalista.
III) La libertà collettiva. Nell'ordinamento degli Stati nazionali gli è un massimo grado di libertà fruibile in vista del benessere e della ricchezza collettiva. Nel clan e nella tribù c'è grande apprezzamento per indipendenza e libertà. Tuttavia qui la guerra intestina sempre alle porte rende impossibile fruire effettivamente della libertà. Ciò significa ridursi a vivere in contesti di estrema indigenza, privi delle risorse per poter progredire nelle arti nell'industria, incapaci di alimentare il lascito culturale delle passate generazioni. Nello Stato nazionale c'è pace permanente tra le tribù, alle quali lo Stato offre tutela in cambio di un sacrificio di parte della loro autodeterminazione. Così nella pace fioriscono i talenti, aumenta la ricchezza, si arricchisce la tradizione religiosa. Ma vi è qualcosa in più, così come nella tribù anche nello Stato nazionale il cittadino avverte come proprio ciò che capita alla nazione. Egli ne vede il progresso, partecipa al raggiungimento del suo benessere materiale, vi vede aumentata capacità di arricchire il suo patrimonio culturale. Infine fa esperienza in questa capacità di stabilire legami con tutti i suoi membri di una libertà collettiva e autodeterminazione sconosciute alla vita della famiglia del clan. Ciò è possibile all'interno di un impero? No perché l'impero non è unito da ciò che unisce la nazione, cioè una lingua, una religione, una storia comune e la reciproca difesa. Su ciò poggia la coesione nazionale che impedisce i conflitti interni e stabilisce la pace. Nell'impero non vi sono le condizioni per la mutua fedeltà perché non vi è la condivisione dei suddetti elementi comuni. Trovandosi unita ad altre nazioni straniere, la nazione perde la facoltà di autodeterminazione collettiva. Certo, l'impero può favorire materialmente alcune nazioni sottomesse. Ma questo farà a suo esclusivo arbitrio e i vantaggi ricevuti possono trasformarsi in altrettanti vantaggi senza che la nazione possa farci niente. Uno Stato imperiale non può essere uno Stato libero. Esso non offrirà mai libertà alla nazione, perché ciò non risponde ai suoi interessi. Solo governanti avvinti alla nazione da legami di mutua fedeltà sentono come propria la libertà della nazione stessa.
Tale libertà nei contesti politici può esistere unicamente laddove siano preservati molteplici centri di potere tra loro indipendenti: la nazione è quindi libera solo all'interno di un sistema di nazioni libere, e non dove prevale uno Stato imperiale. Questa è la ragione della politica di equilibrio fra gli Stati auspicata da Vattel: c'è libertà solo in un contesto di equilibrio in cui nessuno detta legge agli altri. Quindi se la nazione può garantire la pace interna, pacificando le eterogenee tribù, essa prospera in un contesto di libertà anche esterna. Ciò accade anche quando la nazione accolga al proprio interno comunità non originarie e altri popoli che decidano di aderirvi, fondando legami di permanente e mutua fedeltà (la nazione può ingrandirsi rimanendo tale).
La fedeltà alla nazione è considerata con orrore dall'imperialista che la ritiene retrograda, meschina e asfittica, ma in ogni caso è sempre migliore perché è sempre meglio far fiorire il proprio popolo che spendere le proprie energie politiche per reprimere l'insurrezione. Bene inestimabile è infatti una certa unità di popolo e territorio, contraddistinta da specifiche tradizione ed ha un proprio particolare accesso alla verità.
IV) Un ordinamento politico competitivo. Napoleone, Lenin, e l'Unione Europea sono esempi di Stati imperialisti. In tutti questi casi si ha l'applicazione delle dottrine illuministiche della ragione universale, che affermano come evidente una certa verità politica per l'intero genere umano. Contro tale prospettiva il principio della libertà nazionale implica una diversa visione delle capacità conoscitive umane: una stessa verità politica non appare evidente a tutti, benché tutti hanno l'uso della ragione. Non essendoci un'unica evidenza, ogni nazione deve poter sviluppare i suoi obiettivi e i propri approcci alla verità. Devono esistere più nazioni ciascuna impegnata a ricercare la verità secondo le proprie categorie e concezioni. Verità politiche e principi morali ne esistono, e alcuni sono migliori di altri. Tuttavia capire quali siano i migliori non è facile e non raggiunge evidenze universali. Solo la storia potrà giudicare a posteriori quale sarà per un certo gruppo umano il miglior sistema politico.
Di contro a questa consapevolezza l'imperialismo promuove una teoria di impianto razionalista che intende esprimere verità universali. Ciò mentre il nazionalismo propende per un moderato scetticismo verso i prodotti della ragione umana: vi sono eterogenee possibilità di approccio alla verità, in base all'esperienza di ciascuna comunità umana la quale insegna molte cose e costituisce il punto di vista di un dibattito collettivo, vivace e diffuso che alimenta il progresso. Nell'imperialismo non esiste evidentemente dibattito. Anche in ambito economico vi è differenza tra un approccio razionalista cioè pianificatore e orientato a dar vita a un sistema capace di regolare l'intera economia, ed uno più empirico in cui l'economia progredisce per l'azione autonoma di molteplici fattori economici in competizione fra loro. Dalla competizione, infatti vengono nuove soluzioni scoperte, e quindi l'aumento della ricchezza. Lo stesso vale per i sistemi politici: nessuno possiede la conoscenza di una costituzione valida per tutta l'umanità. È la competizione e la reciproca imitazione delle soluzioni di successo a generare il miglioramento di ciascun sistema politico. Tanto più che le epoche storiche con piccoli Stati indipendenti in competizione fra loro sono state le epoche di grande sviluppo: l'antica Grecia, Israele, gli Stati italiani del Rinascimento, gli Stati nazionali come Olanda, Inghilterra e Francia e gli Stati germanici dell'Europa centrale. In tali epoche storiche è stata grande diversità culturale e una grande varietà di percorsi, ognuno conducente ha qualcosa di apprezzabile, come sostiene John Stuart Mill. Viceversa il contributo degli imperi è stato scarso: nello Stato imperiale gli uomini eccellenti hanno un unico percorso a disposizione, quello di servire l'impero.
Se ciò è vero bisogna fare attenzione a quegli economisti che propongono un unico mercato globale. Ciò presuppone la presunzione che le norme necessarie per la prosperità delle economie siano facilmente intuibili e fruibili. Così nasce l'utopia di una politica economica per l'intera umanità.
La Thatcher ha confutato tale prospettiva sostenendo anche che il mito della parità di condizioni distrugge quelle differenze e quella competitività tra i sistemi che sono alla base del progresso economico. La varietà delle economie delle differenti nazioni è all'origine della loro competizione e anche dell'ottimizzazione in tutte delle normative economiche e delle regole di tassazione. Tale differenza è anche la radice di una libera cooperazione per il progresso in differenti settori.
V) Le libertà individuali. Nello Stato nazionale si realizza una libertà collettiva. Ma la libertà nazionale è differente dalla libertà individuale. Essa è forse più difesa in un impero dove c'è uguaglianza tra molte nazionalità? Il guaio è che tutti gli Stati imperiali sono più o meno regimi autocratici. D'altro canto la tradizione dei diritti umani si è sviluppata in seno agli Stati nazionali parallelamente allo svilupparsi di quelle che Mill chiama "libere istituzioni". Condizione primaria di una libera istituzione è la coincidenza del governo con la nazionalità. Dato ciò, storicamente e gli Stati nazionali britannico statunitense si sono realizzate quelle libertà individuali e quei diritti la cui radice è nella Bibbia e nella costituzione promulgata da Mosé. Qui le loro libere istituzioni che prevedono che le leggi della nazione abbiano precedenza sulla volontà del re; che i poteri del re siano limitati dai rappresentanti della nazione; che i diritti dell'individuo possono essere violati solo in ragione di un giusto processo secondo leggi; quattro e le leggi siano finalizzate a proteggere il diritto alla vita al matrimonio, alla proprietà, così come la libertà di espressione, di movimento, di associazione e di culto; cinque che vi siano pubbliche lezioni per le cariche di governo.
Dunque, le libertà individuali sono godute per natura ma in virtù di un processo storico in cui coloro che detengono il potere permettono che il loro potere venga circoscritto. Tale rinuncia al potere è condizione della mutua fedeltà e lealtà tra governanti e governati. Se ciò esiste anche la fazione politica più detestata, la chiesa che si disapprova, o il giornale che si ritiene più menzognero possono essere compresi come positivi per la causa della nazione, perché l'effetto delle sue istituzioni libere, che sono la sua forza la sua gloria. Nell'impero viceversa non c'è mutua fedeltà tra le nazionalità perché non si condivide né lingua e religione. Ogni impero quindi si regge sulla coesione interna della nazione dominante e sulla repressione delle altre. Così avvenne per esempio nell'impero asburgico, i cui trionfi e fallimenti sono stati avvertiti dalle nazioni che lo componevano come propri. In tale situazione la concessione di libertà individuali diventa nelle nazioni oppresse occasione per accelerare il processo di emancipazione dall'autorità imperiale stessa.
Per libere istituzioni è dunque necessaria una coesione interna scaturente dalla condivisione di lingua, religioni, storia e collaborazione contro avversità. Solo così qualcuno può essere disposto a sacrificare il suo personale vantaggio politico, quello del suo clan, per il bene collettivo della nazione.
XV) Il mito della soluzione federale
Imperialismo e nazionalismo rappresentano due posizioni inconciliabili in seno al pensiero politico. È possibile sottrarsi a tale dicotomia immaginando la possibilità di un regime mondiale federale in cui le singole nazioni risultino responsabili delle proprie azioni perché vincolate a leggi internazionali? Sarebbe un po' la federazione mondiale immaginata da Kant, o la "sovranità dell'umanità" pensata da Wilson oppure ancora quello Stato federale internazionale che ponesse fine alle guerre, auspicato da Hayek. In realtà la federazione non è che una forma ottimizzata di Stato imperiale. Nelle sue intenzioni non si tratterebbe di eliminare la libertà delle nazioni ma solo di interdire la violenza. Non che questo non sia un fine auspicabile: la pace tra le nazioni era una preoccupazione anche dei profeti biblici. Tuttavia, la loro prospettiva è quella della disponibilità delle nazioni a sottoporsi volontariamente a giudizio. Al contrario l'ordinamento internazionale federale prevede un giudizio coatto, esattamente nello stile e secondo le modalità previste da un impero. Nel caso di un giudizio volontario gli Stati indipendenti rimangono sovrani che non riconoscono alcun superiore. Nel caso del giudizio coatto gli Stati non sono più indipendenti. Ancora una volta la scelta tra imperialismo e nazionalismo risulta ineludibile. Infatti, anche in caso di soluzione federale la decisione su come gli Stati debbano condurre i propri affari verrà presa dal superstato imperiale. I federalisti ribattono che l'unico ambito di potere della federazione internazionale sarebbe la pace e la guerra, per il resto la libertà nazionale sarebbe garantita di diritto. Nondimeno le motivazioni di una guerra possono estendersi a qualsiasi politica o azione significativa condotta da un qualsivoglia stato. Insomma, tutto può divenire materia di conflitto e quindi tutto può divenire oggetto di decisione del superstato. Il problema è sempre chi decide in ultima istanza se è il caso di intervenire? Decide tutto l'autorità internazionale, altrimenti non li sarebbe alcuna federazione ma solamente un arbitrato volontario. Ma se la federazione decide, essa ricopre esattamente il ruolo di uno Stato imperiale. Infatti, ogni intervento della federazione ridimensiona l'indipendenza delle nazioni. Ciò accade sempre, a meno che i funzionari internazionali non si autolimitino, ma l'esperienza ci dice che ciò non accade pressoché mai, anzi accade sempre il contrario: l'intervento viene esteso in nome del supremo valore della pace. Tutto ciò non è un'obiezione contro il federalismo all'interno di uno Stato. Uno Stato nazionale ben governato spesso garantisce a ciascuna tribù una certa libertà di determinazione del proprio corso. In questo caso il federalismo sarebbe un ricordo dell'ordinamento tribale pre-nazionale in grado di mantenerne alcuni benefici. Ma in un sistema federale l'autonomia locale è diversa dall'indipendenza, perché lo Stato decide e concede. Si vedano per esempio gli Stati Uniti d'America. Le 13 colonie all'inizio sono una coalizione di Stati indipendenti contro gli inglesi. Dagli elementi in comune tra loro - lingua, codici normativi, religione, storia - nasce la possibilità di uno Stato nazionale che si dà la sua costituzione nel 1787. Non appena lo stato nazionale si afferma nella sua autorità, viene meno l'effettiva indipendenza degli Stati locali: si veda l'azione di Jefferson (?) contro l'ordinamento costituzionale e religioso protestante del Massachusetts e del Connecticut. Si vedano altresì le azioni di Lincoln contro gli Stati del sud e quelle dei successivi governi federali contro la legislazione poligamica dello Utah o contro gli Stati recalcitranti in materia di normativa razziale, istruzione biblica nelle scuole, aborto, unioni omosessuali. Qui il potere centrale uniforma le tradizioni costituzionali e religiose dei singoli Stati entro una forbice di costumi ritenuti accettabili. Per tale motivo negli Stati Uniti come altrove ogni governo federale può revocare a piacimento concessioni e diritti degli Stati interni. Quand'anche vi siano carte dei diritti, sono i funzionari del governo centrale che ne decidono l'interpretazione. Nel caso degli Stati uniti gli elementi comuni tra i diversi stati hanno comunque consentito una distribuzione condivisa dei poteri, ma che cosa accadrebbe in una federazione internazionale? Essa manca totalmente di questo presupposto di comunanza linguistico-storico-culturale. Quando le differenze condurranno a uno scontro politico, o la federazione sarà in grado di sedarlo con la forza, e diventerà uno Stato imperiale, oppure la federazione stessa esploderà e si tornerà allo Stato nazionale. A uguale destino va incontro l'Unione Europea. Fondata nel 1992 con il trattato di Maastricht, riunisce all’inizio una dozzina di nazioni un tempo indipendenti sotto il principio di "sussidiarietà”. Esso dice che, a parte le materie di stretta competenza dell'Unione europea, l’Unione stessa interviene a sostenere gli Stati membri quando gli obiettivi della loro azione non possono essere da loro realizzati. Ma, dal momento che le decisioni su quali obiettivi possano meglio essere perseguiti dal governo federale europeo dimorano nelle mani dei funzionari del governo stesso, non vi è limite alcuno al costante assottigliarsi dell'autorità dei singoli Stati nazionali membri, se non nell'autocontrollo e nella disciplina dei suddetti funzionari. Ma così torniamo a una forma di governo che non è altro che un eufemismo per l'impero. I teorici dell'europeismo ribattono che non si tratta di questo ma di una sovranità congiunta degli Stati europei, che non esprime un governo ma solo una "governance condivisa". In realtà questo potente governo dell'Unione europea esiste e coincide con una nutrita burocrazia legislativa le cui direttive vengono imposte alle nazioni sussidiarie europee attraverso forze dell'ordine proprie e sistemi giudiziari soggetti a tribunali federali europei. Le corti federali europee, infatti, impongono direttive oltre alla volontà degli Stati e ciò fa dell'Unione europea non un libero governo ma un'autocrazia burocratica. La differenza dell'Unione Europea dai vecchi stati imperiali è che essa non ha una politica estera, perché da questo punto di vista rimane un protettorato americano per mezzo della Nato. E siccome all'interno dell'Unione europea la burocrazia è prona agli interessi tedeschi, oggi essa è un protettorato tedesco in tutto tranne che per la guerra, per la quale è un protettorato americano.
In verità non esiste una soluzione federale che permetta di eludere la scelta tra un ordinamento imperiale e un ordinamento di nazioni indipendenti, perché anche nel federalismo il potere dello Stato centrale è sempre superiore agli Stati federati.
XVI) Il mito dello Stato neutro
Lo Stato nazionale non governa mai tutti i singoli membri della nazione, mentre invece governa alcune popolazioni appartenenti ad altre nazioni, più grandi o più piccole. Perché allora l'ordinamento degli Stati indipendenti deve articolarsi attorno all'autodeterminazione di una certa nazione, che viene a essere privilegiata all'interno dello Stato, rispetto a quelle in minoranza? Non sarebbe meglio uno stato neutro, cioè non legato ad una nazione e inteso solo a difendere la propria popolazione, mantenere la pace, tutelare diritti e libertà individuali? Esempi di questi Stati sarebbero gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna eccetera. Ma la risposta a questa domanda è che lo Stato neutro, concepito indipendentemente dalla coesione nazionale, è un mito, al pari, se vogliamo, dell'utopia economica socialista. Infatti, volere la difesa della popolazione, l'obbedienza alle leggi, la tutela delle libertà individuali a prescindere dai vicendevoli legami di fedeltà in una nazione non è possibile. Lo Stato neutro separerebbe la nazione dallo Stato, presupponendo l'idea erronea che l'individuo non assolve i doveri verso lo Stato in virtù dei legami che lo uniscono alla sua nazione. E allora domandiamoci: che cosa in uno Stato neutro spingerà gli individui al sacrificio di sé? Si dice forse la devozione ad una costituzione, considerata quasi come un testo sacro e in grado di ricevere quasi un ossequio religioso. Ma in realtà esiste una devozione che non si impari nella famiglia, nella tribù, nella nazione? La devozione religiosa, per esempio, si apprende in contesti familiari e fa tutt'uno con la devozione familiare. Il sacro inizia esistere unicamente attraverso i riti della famiglia, del clan, della tribù e della nazione. La coscienza della sacralità si radica e cresce assieme ai vincoli di mutua fedeltà che vanno formandosi nel corso della nostra infanzia e giovinezza. Questo dovrebbe valere anche per i documenti costituzionali: la fedeltà ad essi promana dalla fedeltà alla famiglia, alla tribù, alla nazione. Non esistono Stati neutri: ciò che mantiene unito uno Stato dimora nella mutua fedeltà dei membri della nazione tribù maggioritaria, che può allearsi con altre nazioni o tribù più piccole al fine di stabilizzare e rinsaldare lo Stato stesso. Gli Stati Uniti, per esempio, sono tutt'altro che neutri: essi sono anglofoni, hanno forti tradizioni bibliche protestanti, hanno una tradizione di regime repubblicano giuridicamente fondato sulla common law. A tale nazione si sono aggiunte altre nazioni cui però non sono stati consegnati né indipendenza, né predominio. L'omogeneità nazionale è pure una caratteristica di Francia e Inghilterra che l'hanno perseguita nel corso dei secoli. La forza e la stabilità di questi liberi Stati si devono al predominio schiacciante in essi della nazione di riferimento su ogni altra nazione o tribù in competizione dentro i loro confini. È proprio questa coesione interna che permette la difesa dei diritti e delle libertà individuali che, in uno Stato frammentato, non si potrebbe né sviluppare né garantire. Esempi contrari di Stati non nazionali, e per questo deboli, sono quelli nati in Medio Oriente, Africa e altrove dalla decolonizzazione. Si veda per esempio l'Iraq, la Siria e le loro differenze e conflitti interni. Al contrario Israele è nato come Stato nazionale, cioè come Stato della nazione ebraica e per questo ha resistito negli anni.
A favore dello Stato neutro si potrebbe obiettare che gli Stati nazionali sarebbero meno coesi e quindi più oppressivi di uno Stato neutro, perché offrendo privilegi alla nazione maggioritaria, ecciterebbero la resistenza, l'astio e la violenza nelle minoranze nazionali. Tuttavia, in realtà, la coesione della nazione dominante è la sola base per la pace interna in un libero Stato. Un predominio incontestato della nazione maggioritaria è tale da rendere ogni opposizione futile e inimmaginabile, così che la libertà altrui, cioè delle nazioni minoritarie, non può costituire una sfida. Viceversa, negli Stati non nazionali e neutri non c'è coesione ma una continua lotta per il potere, con un potere mai riconosciuto da tutti. In tale situazione ciò che previene la rovina dello Stato neutro sono i legami di fatto tra membri del gruppo dominante che terrorizza tutti gli altri grazie al pugno duro delle sue dirigenze. Così, però, uno Stato neutro non nazionale inevitabilmente decade a regime dispotico.
XVII) Un diritto all’indipendenza nazionale?
Essendo incontestabile il fatto che l'indipendenza degli Stati nazionali sia un bene, esiste un diritto universale all'indipendenza nazionale? È corretta l'affermazione di Wilson secondo cui "i popoli potranno essere dominati e governati solo in virtù del consenso ottenuto. L'autodeterminazione non è soltanto una parola. Si tratta piuttosto di un principio imperativo per l'azione che, da ora in poi, di uomini di governo ignoreranno a loro rischio e pericolo" (Adress to a joint session of congress analyzing german and austrian peace utterances - 11/2/1918)? La risposta è no. Non si può slittare dal riconoscere che qualcosa costituisce un bene all'affermazione che tutti gli individui o le nazioni ne abbiano diritto. I diritti si determinano in riferimento a contesti e vincoli del mondo reale, mentre il ragionamento di Wilson è caratterizzato da astrattezza e utopismo. Per esempio e giusto evitare guerre e fame, ma da qui non ne deriva un diritto. Il diritto a non aver fame c'è solo in una società che ha i mezzi per evitarlo; così come il diritto a non essere chiamati in guerra. Non si capisce perché un bene quando non esistano le risorse per renderlo fruibile, debba per alcuni diventare un diritto e fondare in altri il dovere di procurarlo. Il supposto diritto all'indipendenza nazionale rientra in questo ragionamento. Affermare il diritto all'indipendenza nazionale di una nazione significa implicitamente che ci sono risorse per garantirne l'indipendenza ma, da un lato, il mondo delle nazioni non è così ben definito, dall'altro, non vi sono risorse sufficienti per garantire la formazione di un diritto così universale in tutti i casi in cui viene richiesto. Infatti che cosa è una nazione? Il numero di nazioni identificabili su basi linguistico-culturali è altissimo ed è ulteriormente moltiplicato dalla divisibilità delle nazioni in tribù e clan con specifici patrimoni culturali e religiosi. Ebbene si è già visto come l'ordinamento per tribù e clan ha i suoi numerosi problemi. E siccome lo Stato nazionale viene dall'aggregazione di tribù e clan che rinunciano alla loro indipendenza, per costituire unità che garantiscano il godimento della pace interna, l'autodeterminazione collettiva estesa a tali tribù e clan che rivendichino uno status nazionale, distruggerebbe lo stesso ordinamento degli Stati nazionali. In altre parole cercando di accordare a tutti l'indipendenza nazionale si finirebbe per non garantirla a nessuno. Infatti l'autodeterminazione generalizzata polverizza gli Stati esistenti e costruisce unità che non hanno risorse per mantenere l'indipendenza. Vi sono al limite popoli e gruppi che possono sperare di essere associati e di diventare protettorati in altre nazioni, ottenendo una certa misura di autonomia. Ciò per molti popoli della Terra corrisponde al massimo grado di autodeterminazione collettiva perseguibile.
Per esempio, si veda il caso della volontà indipendentista degli Stati del sud confederale (USA): essa può essere considerata legittima? Il dato topografico anzitutto rende possibile l’indipendenza degli Stati Uniti dalla Gran Bretagna, ma non quella del Sud dal Nord. L'indipendenza del Sud di per sé significa lotte fratricide come quelle accadute tra Israele e Giuda. Tale considerazione giustifica la negazione ai Confederati del diritto all'autodeterminazione in aggiunta alla tematica della legislazione razzista.
Per fare un altro esempio, l'autodeterminazione dei popoli dell'Impero austro-ungarico generò uno squilibrio a favore dell'Impero tedesco con conseguenze assai negative nella politica internazionale. Allo stesso modo Eisenhower compì un grande errore nel favorire l'autodeterminazione dei popoli arabi che indebolì l'alleato inglese contro il comunismo sovietico e produsse in Egitto la dittatura di Nasser. Quindi se va accettata l'indipendenza nazionale essa va considerata all'interno di ulteriori e molteplici fattori. Codesti fattori esistevano nello Stato ebraico quando Stati Uniti e Inghilterra presero in considerazione l'evento della Shoah come fattore etico determinante la concessione dell'indipendenza. Allo stesso modo esisterebbero per uno Stato curdo.
In conclusione, non c'è un diritto universale all'indipendenza ma una necessità di considerarla dentro una serie di concrete circostanze quali per esempio la coesione interna, le risorse finanziarie e belliche, la capacità di un eventuale stato nazionale di favorire gli interessi e il prosperare di altre nazioni, le minacce che la nazione, una volta indipendente, potrebbe eventualmente arrecare ad altri.
Ciò conduce a rifiutare l'utopismo di Wilson che immaginava un sistema giuridico universale a garanzia dell'indipendenza nazionale, con l'esito di determinare necessariamente la nascita di un superstato imperiale e globale.
È invece necessario realismo, un realismo mitigato da alcune istanze morali per evitare che qualsiasi assassino in ascesa verso il potere si avvantaggi della nostra complicità. Tuttavia, l'ambiguità costitutiva delle problematiche politiche disserra un ampio dominio di considerazioni etiche, volte a inclinare, in un senso in un altro, l'ago della bilancia dei processi decisionali, senza che però gli statisti vengano in alcun modo sollevati dalla loro responsabilità di perseguire comunque gli interessi nazionali.
Così lo statista, riconoscendo che l'ordinamento per Stati nazionali è la migliore forma di ordinamento politico, non intenderà, come un novello Napoleone, capovolgere ogni cosa esistente al fine di imporre ovunque nel mondo questo ideale. Esso permarrà nella sua mente come l'immagine di un bene concretamente realizzabile, ispirando moderazione ed equilibrio nelle sue decisioni, senza però trasformarlo in un pazzo dogmatico. Egli considererà la libertà delle nazioni come un bene da apprezzare e tutelare, così che, in talune rare occasioni, vigorosamente sosterrà la fondazione di un nuovo Stato nazionale, oppure la dissoluzione di un fallimentare Stato non nazionale.
XVIII) Alcuni principi sull’ordinamento in Stati nazionali
Si può preservare l'ordinamento gli Stati nazionali aderendo ad alcuni principi pratici, o doveri naturali, o leggi naturali delle nazioni.
1) L'ordinamento in stati nazionali concede indipendenza politica a nazioni coese, sufficientemente forti per difendersi, sostenersi, sia sotto il profilo finanziario sia sotto quello militare
2) Non si deve interferire negli affari interni di altri Stati nazionali, consentendo a tutti di perseguire i propri interessi e le proprie aspirazioni, secondo la propria comprensione e sensibilità.
3) Nello Stato, il governo ha il monopolio dell'esercizio organizzato della forza coercitiva, cioè esiste in esso un unico potere coercitivo organizzato, altrimenti l'ordinamento gli Stati nazionali con lascerebbe regredendo in quello anarchico.
I punti 2 e 3 non accordano però diritti assoluti: non esistono diritti inviolabili perché i diritti possono essere dedotti solo dall'esperienza. Per esempio: vi possono essere limitazioni del principio della non-interferenza per preservare l'ordinamento degli Stati nazionali stessi. Limitazione analoghe possono riguardare il monopolio governativo delle forze armate organizzate. Tali limitazioni sono inversamente proporzionali alla capacità dello Stato di proteggere tutte le tribù e tutti clan presenti all'interno dei suoi confini.
4) Stante l'esposizione dello Stato nazionale al rischio di smarrire la sua libertà a beneficio di altre nazioni o federazioni di nazioni, è necessario enunciare il quarto principio, quello della preservazione di molteplici centri di potere in cui i vari Stati nazionali si devono sforzare di mantenere tra loro un equilibrio dei poteri, in grado di garantire stabilità e pace. Sarebbe più efficace a tal fine un ordinamento imperiale? Ma con un ordinamento imperiale viene meno la libertà nazionale; mentre l'equilibrio è proprio in vista del mantenimento della libertà nazionale. Esso comporta alleanze fra Stati contro le pretese imperiali di alcuni. Vi è da tener conto che le mutazioni all'interno delle nazioni implicano mutazioni nei rapporti esterni tali per cui i confini tra le nazioni non sono perenni. Ci vuole allora impegno diplomatico per affrontare i mutamenti in vista della preservazione dell'intero sistema degli Stati. Per esempio: è possibile ridisegnare confini di alcune nazioni secondo un criterio più corrispondente al complessivo grado di libertà nazionale e di pace.
5) Il quinto principio è la parsimonia nella fondazione di Stati indipendenti. Ciò implica che bisogna evitare di dividere Stati esistenti in entità indipendenti sempre più piccole. Al contrario si può procedere all'integrazione di diverse unità per mezzo di annessioni, come avvenne per la Germania nel 1990. Però bisogna stare attenti che il nuovo Stato non minacci gli stati esistenti.
6) Bisogna proteggere le minoranze nazionali e tribali perché non diventino focolai di rivolta che indeboliscono lo Stato nazionale. Senza tale protezione si ritorna inevitabilmente o all'anarchia o all'impero. Una minoranza si protegge o attribuendole maggiore autonomia, o evitando che altre minoranze ne acquisiscano troppa a spese di tutti.
7) Bisogna evitare di trasferire i poteri di governo a istituzioni universali, perché le istituzioni internazionali sono anche istituzioni imperiali. Si può dire che è un diritto nazionale rinunciare alla propria libertà? Sì, quando si parte dalla considerazione che per una nazione è meglio appartenere ad un'altra più forte compagine, per promuovere i propri interessi. No, quando si tratta di consegnarsi a una realtà imperiale. Infatti, nel primo caso si rinuncia alla propria libertà nazionale, nel secondo si distrugge lo stesso ordinamento degli Stati nazionali. Esempi di istituzioni internazionali sono l'Unione europea; l'Onu e il suo consiglio di sicurezza; l'Organizzazione mondiale per il commercio; la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite eccetera. La libertà delle nazioni indipendenti implica il rifiuto di tali istituzioni internazionali, in modo tale che la sollecitudine reciproca fra gli Stati avvenga solo mediante accordi bilaterali o multilaterali che non pregiudichino indipendenza e libertà. Rinunciando a queste ultime, l'alternativa è o l'eterna schiavitù o la guerra. Se invece si vuole preservare l'ordinamento nazionale è importante impegnarsi anche sul piano della cultura e della trasmissione di una sensibilità nazionale contro ogni tentativo imperialistico.
PARTE TERZA: Antinazionalismo e odio
XIX) L’odio può essere un argomento contro il nazionalismo?
Secondo gli imperialisti l'interesse per la grandezza della propria nazione equivale all'odio per gli altri; mentre al contrario l'imperialismo significa sollecitudine verso gli altri. Certamente esistono nazionalisti che odiano i loro avversari e rivali. Ma tale odio può gettare discredito su tutto il nazionalismo? E poi l'imperialismo non fomenta forse l'odio al posto di promuovere, come dice, l'amore? I liberal attribuiscono alla religione una tendenza a fomentare l'odio. In realtà cristianesimo e l’islam promuovono odio in quanto dottrine imperialiste finalizzate a imporre un unico dominio sulla Terra. L'universalismo promuove l'odio non appena incontra un'opposizione. Vi sono allora due tipi di odio: quello nazionalista che consiste nell'ostilità di un clan, di una tribù o di una nazione nei riguardi dell'avversario con cui è in competizione; quello imperialista che si rivolge contro tutti coloro che rifiutano di accettare un potere universale. Si tratta di un odio per il particolare, per il nazionalista, per il dissidente che serpeggia fra tutti i sostenitori liberal del nuovo ordinamento politico universale. Un odio che si riversa contro Israele, e contro i nazionalismi britannico e statunitense: questo sarà l'argomento delle prossime pagine.
XX) Le campagne diffamatorie contro Israele
Periodicamente Israele è messo alla gogna dagli organismi internazionali, dai media e nei campus universitari. Oggetto della riprovazione generale sono le azioni israeliane contro il regime islamico che governa Gaza; le incursioni per annientare il programma nucleare iracheno; le ispezioni di alcune autorità israeliane sul Monte del Tempio; l'acquisto e l'occupazione da parte di ebrei di edifici a Gerusalemme est e così via. Molti ebrei sostengono che contro le campagne diffamatorie anti-israeliane è necessario un cambio di politica, associato ad un miglioramento delle cosiddette pubbliche relazioni. Ma anche quando vi è stato uno sforzo in questa direzione, le operazioni per delegittimare Israele sono andate avanti, come per esempio accaduto dopo il ritiro israeliano da Gaza e la fondazione dello Stato palestinese o dopo il ritiro dalla fascia di sicurezza nel Libano meridionale. L'odio verso Israele non si ferma perché non si alimenta di precisi riferimenti alle politiche dello Stato. Queste ultime sono solo simboli di qualcosa di più profondo e detestabile. C'è un paradigma dominante anti-israeliano che accetta solo i fatti che confermano il paradigma stesso. Esso non è cambiato negli ultimi tempi e punta il dito contro Israele come indipendente stato nazionale.
XXI) Immanuel Kant e il paradigma anti nazionalista
Il vecchio paradigma che aveva all'inizio accordato legittimità a Israele sosteneva che lo Stato israeliano era lo Stato della nazione ebraica e la sua legittimità risiedeva nella libertà delle nazioni di rivendicare e difendere la loro indipendenza rispetto agli appetiti ferini degli imperi internazionali. Tale paradigma origina dal 1588 con la sconfitta della Spagna contro l'Inghilterra. Una sconfitta che consolida la libertà delle nazioni contro la rivendicazione austro-spagnola del diritto governare l'umanità intera. Ciò segue la sconfitta dell'universalismo imperiale della Guerra dei trent'anni. Nel 19º secolo la libertà nazionale diventa uno dei principi dell'ordinamento del mondo e trionfa con l'indipendenza nazionale della Grecia, dell'Italia e con la nascita del movimento sionistico. Nel 1947 le Nazioni unite votarono con una maggioranza di due terzi per la fondazione di quello che i documenti diplomatici definirono uno Stato ebraico in Palestina. Già in quell'anno l'idea nazionale era in ritirata. In Europa già si ricercava un modello di convivenza post nazionale e tale paradigma dilaga successivamente negli Stati Uniti. Esso ha un'origine antica nel sogno europeo anzitutto di un impero tedesco, poi di una Chiesa universale. Immanuel Kant con lo scritto Per la pace perpetua. Un progetto filosofico ne è l'erede più consapevole e profondo. Egli paragona l'autodeterminazione alla libertà senza legge dei selvaggi, sempre impegnati ad "azzuffarsi serenamente piuttosto che sottomettersi ad una costrizione legale". L’indipendenza politica non è dunque qualcosa da persone civili. Se gli individui fanno un grande progresso quando si sottomettono all'ordinamento legale dello Stato, le nazioni devono, con un balzo altrettanto rilevante, sottomettersi alla legalità di uno Stato internazionale. In questo atto, gli Stati abbandoneranno la loro libertà bestiale e favoriranno la marcia verso il regno della ragione destinato a superare il violento egoismo nazionale.
Tale paradigma kantiano non ebbe successo durante il trionfo dello Stato nazionale, ma dopo la Seconda guerra mondiale, quando il nazismo fu aggiunto alla fedina penale dello Stato nazionale, per la sua volontà di egemonia, anche se il nazismo era in realtà l'imperialismo destinato a distruggere le nazioni. Così la condanna marxista dello Stato nazionale si aggiunse a quella liberista che con entusiasmo si era adoperata per il tramonto del vecchio ordinamento in nome del progredire kantiano verso l'età della ragione. Per i tedeschi fu più facile rinunciare allo Stato nazionale in ragione del loro ruolo nella guerra mondiale e per il fatto che la loro nazione era vinta e occupata.
In ogni caso con il progredire degli anni il paradigma kantiano fa capolino nel 1992 con l'Unione europea, il cui sviluppo ha reso per la prima volta in 400 anni un'intera generazione incapace di riconoscere lo stato nazionale il fondamento della loro libertà.
XXII) Due lezioni da Auschwitz
Personalmente considero Gran Bretagna, Olanda, Stati Uniti una famiglia di nazioni la cui continuativa e indipendente esistenza riveste un significato importante per la mia vita. La mia primaria sollecitudine è però per Israele. Come viene vista tale nazione in Europa alla luce del suo paradigma imperiale? Auschwitz ha convinto gli ebrei della necessità di Israele. Questa era l'opinione di David ben Gurion che nel novembre 1942 alla Assemblea nazionale degli ebrei di Palestina disse che Israele aveva diritto a una madrepatria e all'indipendenza perché era l'unica difesa che avevano le vittime innocenti ebree delle aggressioni altrui. C'è alla luce di queste parole un legame tra la Shoah e la colpa della mancanza di potere degli ebrei. Da qui l'idea che Israele è l'unico bastione contro una nuova Shoah.
Per gli altri europei Auschwitz è invece conseguenza del particolarismo nazionale. La soluzione consiste nello smantellamento della Germania e degli altri Stati nazionali europei. La risposta ad Auschwitz non è Israele ma l'Unione europea. Vi sono dunque due paradigmi concorrenti sul significato di Auschwitz. Secondo il paradigma A, esso è l’indicibile orrore delle donne e degli uomini ebrei indifesi e ignudi costretti a veder morire i propri figli senza poter impugnare un'arma per difenderli. Secondo il paradigma B, Auschwitz è indicibile orrore dei soldati tedeschi che usano la propria forza contro altri supportati esclusivamente dalle opinioni del loro governo circa i diritti e gli interessi nazionali. Nel primo caso il male è scaturito dall'impotenza delle vittime; nel secondo dalle azioni degli omicidi. Nel primo caso Israele rappresenta l'opposto di Auschwitz perché difende gli ebrei. Nel secondo Israele “è” Auschwitz perché è uno Stato nazionale pronto a usare la forza contro di altri. Secondo il primo paradigma, l'autoaffermazione e l'autodifesa ebraica avrebbero impedito Auschwitz. Al contrario per gli imperialisti il percorso verso l'autodeterminazione rappresenta un percorso verso Auschwitz. Gli europei non riescono infatti a comprendere le ragioni nazionali e la resistenza degli ebrei all'avvento di un nuovo ordine mondiale che supererà definitivamente gli egoismi nazionali e il rischio di nuove oppressioni. Da qui la necessaria equazione europea Israele uguale nazismo, perché alla luce della prospettiva universalistica e imperialistica europea è incomprensibile il ricorso indipendente da parte di Israele alla forza per difendersi. Di qui l'idea che Israele come stato nazionale vada abbattuto.
XXIII) Perché le atrocità perpetrate dal Terzo Mondo e dall’Islam passano sotto silenzio?
La delegittimazione di Israele è stata parallela all'avanzare del paradigma antinazionale Europa. La lesione del principio di libertà nazionale è andata di pari passo alla lesione dell'autonomia di Israele. Ma se questo è vero per i detrattori di Israele, perché essi aspirano a veder nascere uno Stato nazionale indipendente per gli arabi palestinesi? Perché non si critica il ricorso alla forza da parte di Iran, Turchia e di altre nazioni mediorientali? La risposta va trovata nel paradigma kantiano e nella sua aspirazione ad uno Stato universale che imponga la rinuncia degli individui e degli Stati al loro egoismo e alla loro libertà senza legge, per assoggettarsi alla pubblica legge razionale e coercitiva di uno Stato universale. Tuttavia questo obiettivo, secondo lo stesso Kant e secondo i suoi seguaci, si ottiene progressivamente e nella storia non tutte le nazioni sono al medesimo livello di sviluppo.
Questo avviene in due fasi:
dalla pura ferinità allo stato nazionale
e dallo stato nazionale alla maturità etica di uno Stato universale federale.
La maturità etica implica la rinuncia a giudicare individualmente e localmente il giusto e ad agire in base a tale giudizio, per lasciare tutto allo Stato universale. Secondo gli europei questo livello di maturità è stato raggiunto solo presso i popoli europei stessi, che sono gli unici eticamente maturi. Il mondo arabo e il Terzo mondo sono ancora allo stadio ferino e per loro rappresenta un progresso giungere a quello nazionale. Per questo le élites europee sono contente quando si formano nuovi Stati nazionali in Medio Oriente nel Terzo mondo, a prescindere dalle loro violenze. Ma per Israele questo non vale: gli ebrei sono un popolo sviluppato, del tutto assimilabile agli europei. Pertanto, per loro lo Stato nazionale rappresenta un regresso e l'atto di voltare le spalle alla maturità etica che viene esigita da loro. Questa ideologia spiega il netto squilibrio dei giudizi tra Israele e altri Stati come Iran, Turchia e altri del Terzo mondo. Ma affermare che queste nazioni non siano migliori di bambini indisciplinati e violenti e che per queste ragioni ci si aspetta poco da loro non è certamente né educato né politicamente accettabile. Ciònonostante è questa l'esatta considerazione degli europei, come ha evidenziato l'ambasciatore danese Jesper Var durante la Jerusalem Post Diplomatic Conference dell’ 11/12/2014: "Credo dunque che (voi israeliani, n.d.r.) abbiate il diritto di insistere sul fatto che noi costantemente impieghiamo un doppio standard, inserendovi nei medesimi standard con cui ci si riferisce al resto dei Paesi di matrice europea".
XXIV) La Gran Bretagna e gli Stati Uniti: altre nazioni deplorevoli
Dunque il motivo delle campagne antiche israeliane che gli ebrei sono un popolo europeo che continua a comportarsi come uno Stato nazionale, non aderendo al concetto europeo di nazione eticamente matura (quella che dovrebbe sottomettersi alla legislazione di uno Stato universale). Vi sono altre nazioni soggette alle medesime critiche? Certamente: negli anni ‘80 del secolo scorso tali critiche sono state rivolte al Sudafrica, alla Serbia. Oggi vengono rivolte agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, l'Ungheria, la Polonia, alla Repubblica Ceca: tutte nazioni diffamate un po' come Israele. Gli Stati Uniti sono condannati per il rifiuto di aderire a molti accordi internazionali, come il protocollo di Kyoto e la Corte penale internazionale, dimostrando, soprattutto con Trump, un'attitudine peculiare a risolvere autonomamente i propri problemi. Ma gli europei non sopportano azioni unilaterali, cioè le azioni politiche tipiche di una nazione indipendente. Gli Stati Uniti vogliono vivere nel vecchio ordinamento degli Stati nazionali e dunque sono oggetto di critiche che però vengono risparmiate a Cina e Iran, perché queste ultime non richiedono standard europei che invece sono applicati agli Stati Uniti. Le stesse critiche sono piovute alla Gran Bretagna quando ha deciso la Brexit, alla Repubblica ceca, all'Ungheria e alla Polonia in merito alla loro visione nazionale e autonoma delle politiche migratorie. Tutte le politiche indipendenti vengono comparate al nazismo e a volte si passa dalle condanne morali alle azioni coercitive, come quelle nei confronti di Sudafrica e Serbia. Il problema non è ovviamente la bancarotta morale di questi Paesi, ma il motivo per cui solo loro sono esecrati. Il motivo è precisamente il fatto che l'odio verso di loro non è dato dai mali da loro compiuti, ma dal fatto che essi appartengono alla comunità degli europei. Se una nazione è europea o di discendenza europea, allora ci si aspetta che si conformi ai criteri e ai requisiti europei, il che è sempre più equivale alla kantiana rinuncia al diritto nazionale.
XXV) Perché gli imperialisti odiano?
L'internazionalismo liberal è un'ideologia imperialista che odia le nazioni. Tale odio è passato sotto silenzio perché male si confà al paradigma progressista e kantiano che esso difende. Nondimeno rimane questo punto cieco nel discorso liberal: esso guarda all'odio implicato dai nazionalismi e dai particolarismi tribali ma minimizza l'astio direttamente conseguente dalla brama di dar vita ad un ordinamento politico universale. Ogni imperialismo proclama un'ideologia di salvezza universale che s'è rifiutata si tramuta in odio. Sembra che l'universale possa amare tutti gli esseri umani e tutte le nazioni solo fintantoché queste siano disposte a farsi determinare nel pensiero e nell'azione da questo universale. Non appena una particolare persona o nazione si oppone, l'universalista ne è stomacato e scandalizzato. Ciò genera odio e repulsione. Tale odio è simile a quello che i cristiani hanno nutrito nei confronti degli ebrei. L'universalismo kantiano reitera un tropo cristiano: per i il liberal il rifiuto dell'universalismo equivale a quello che per i cristiani fu il rifiuto dell'evangelo da parte degli ebrei.
E che dire dell'odio hitleriano contro gli ebrei? Esso è stato accusato di essere un odio tribale e nazionalistico. In realtà, tuttavia, esso deriva dal sogno cattolico-tedesco (Austria est imperare orbi universo) che si è incarnato nella brama nazista di assurgere a signori del mondo il particolarismo ebraico è irriducibile a tale progetto cattolico-tedesco. L'odio di quest'ultimo non è l'odio verso un'altra nazione bensì l'odio degli imperatori e degli imperialisti. Questi lottano per una verità pura e priva di eccezioni. L'esistenza di una sola eccezione ne dimostra la falsità e dunque non è ammissibile. Se vi sono stati cristiani nazionalisti è perché essi hanno imparato ad amare il particolarismo ebraico desunto dall'Antico testamento. Viceversa, oggi il liberal credono nei dogmi imperialisti ai quali si erano attenuti un tempo i cristiani e nei quali ebbero fede i marxisti. Di qui l'odio liberal per gli ebrei che oggi si diffonde e si allarga agli Stati Uniti, la Gran Bretagna, alla Francia, all'Olanda, alla Danimarca, alla Repubblica ceca, alla Polonia, all'Ungheria, alla Grecia, all'India, al Giappone e a tutti quelle nazioni che resistono volendo orientare autonomamente il proprio destino. L'opposizione nazionalista all'universalismo imperialista a diverse coloriture e orientamenti, non tutti condivisibili, e tuttavia accomunati dal voler vedere la propria nazione ben salda nel suo alveo.
CONCLUSIONI: Le virtù del nazionalismo
Mosé si presenta come legislatore del solo Israele. I profeti di Israele certamente furono coscienti che la Torah venne data per il progredire dell'umanità. La Bibbia ebraica mantiene una distinzione tra lo Stato nazionale decretato da Mosé nel Deuteronomio, da governarsi in seno ai suoi prescritti confini, e l'anelito a insegnare la parola di Dio alle nazioni del mondo. Tale sensibilità biblica è molto lontano da ciò che troviamo degli imperi dell'antichità. In questo libro cercato di capire che cosa dimori nella predilezione della scrittura per gli Stati nazionali, che è servita da pilastro per l'edificazione protestante della civiltà occidentale. Certo lo Stato nazionale, come l'impero, ammette guerre ai propri confini e una pace solo all'interno. Ma, a differenza dell'impero, esso ha avversione per gli appetiti di conquista di terre lontane. L'ordine degli Stati nazionali garantisce altresì la possibilità di autodeterminazione collettiva e stimola il progresso degli individui e delle società. Questo fonda la superiorità del nazionalismo e il progetto di un mondo di nazioni indipendenti nelle quali ciascuna nazione persegua i propri interessi aspirazioni. Ciò è uno scopo che va raggiunto senza affermare tuttavia un utopistico diritto universale all'indipendenza nazionale, bensì attraverso la prudenza nelle relazioni internazionali e, negli affari interni, l'attenzione alla prosperità materiale e spirituale della propria nazione. Tale prospettiva non nega le ingiustizie delle nazioni tuttavia ritiene che affermare l'ideale imperialistico di un'unica autorità e un'unica dottrina corrisponda a sostenere qualcosa di ancora peggiore. Il liberal dicono che il vecchio imperialismo di Hitler, Stalin e Napoleone appartiene al passato: in realtà anche loro sono consumati dal medesimo odio dei loro predecessori, che è l'odio dell'universale nei confronti del particolare che non si sottomette.
Vi sono due livelli del discorso nazionalista che afferma la superiorità di un ordinamento di Stati indipendenti.
Il primo livello dice che il nazionalismo è migliore ma non perfetto. Il nazionalismo, cioè, non scade nell'utopia. Il nazionalismo è inoltre una virtù anche per un individuo. Tale convinzione si oppone rigidamente alla convinzione imperialista per cui il nazionalismo corromperebbe e abbruttirebbe l'individuo, mettendolo in una posizione di conflitto e aggressività. Al contrario per il nazionalista buoni confini creano buoni vicini. Inoltre esso veicola tratti positivi del carattere: se per le dottrine imperialistiche la verità è stata trovata e si tratta solo di abbracciarla per redimersi, allora l'universalismo eccita la naturale intolleranza umana: il miglior distruttore è infatti colui che è infiammato da una verità universale. Dal canto suo, l'ordine per tribù e clan (anarchismo) insiste sul sacrificio di sé in nome della fedeltà alla tribù ma implica la possibilità di violenza in caso di minacce al clan. A differenza di quella imperiale, tuttavia, tale violenza rimane a livello locale. L'ordinamento nazionale per ultimo è un particolarismo fondato sulla fedeltà ma è anche un ideale più elevato del benessere della propria clan-tribù. Esso si eleva alla contemplazione di un ordine internazionale di Stati indipendenti. Ciò implica dal punto di vista psicologico un atteggiamento umile verso il sapere delle nazioni. Infatti, se da un lato promuove la bellezza e la verità del proprio patrimonio, dall'altro evita di attribuire ad esso un primato esclusivo, giacché è implicito nell'idea di un ordinamento internazionale di Stati nazionali il concetto che verità e bellezza stanno anche altrove. Ciò genera uno scetticismo moderato sul proprio e la disponibilità a valutare l'altrui.
In secondo luogo, la fedeltà al proprio clan e tribù è con temperata da un moderato scetticismo che pone valore anche nelle altre tribù all'interno della nazione e promuovere una politica empirica e pragmatica che consideri le ottiche eterogenee delle altre tribù. Dunque, il nazionalismo diventa una virtuosa mescolanza di fedeltà e scetticismo, una tensione che costituisce una virtù di incomparabile eccellenza per ogni essere umano.
Tra gli imperialisti al contrario non vi possono essere individui scettici e tolleranti e al tempo stesso coerenti con l'imperialismo. Le ideologie dell'omogeneità sono onnipervasive e lavorano anche sul foro interno, mentre il nazionalismo si pone agli antipodi di ogni fanatismo per l'universale.
Nella tradizione biblica mai viene offerto ai patriarchi un impero sulla terra, ma soltanto un regno per Israele; non esiste cioè persona o nazione che possa affermare di aver carpito interamente la verità per elargirla alle altre.
All'opposto di ciò vi è l'imperialismo kantiano che si presuppone illuminato e che asserisce di rappresentare la maturità etica di chi rinuncia all'indipendenza nazionale e accetta un singolo impero universale. Ciò costituisce un appello a regredire alla dipendenza infantile che è lontanissima dalla pretesa maturità etica del modello. La vera maturità etica si raggiunge bensì quando possiamo dire di stare in piedi autonomamente, imparando ad autogovernarci a difendere noi stessi, evitando di danneggiare chi ci circonda ed estendendo il più possibile aiuto e collaborazione a vicini e amici. L'umanità matura è quella che vive in libertà, i cui gruppi progettano e perseguono autonomamente il proprio futuro, soccorrono e beneficano gli altri non appena risulti fattibile, senza aspirare a imporre con la forza il proprio dominio.
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