domenica 27 dicembre 2020

IL COSTRUTTO MODERNO. Un itinerario nella filosofia dei secc. XVII-XIX alla ricerca della Missione del dotto

 

 

Venerdì 4 dicembre ho concluso un serie di lezioni tenute presso il Master di Alta Specializzazione in Counseling Filosofico e Pratiche Filosofiche organizzato da Pragma. Società Professionisti Pratiche Filosofiche. Si è trattato di ripercorrere alcuni momenti della storia della filosofia, cogliendo temi, orientamenti, stili di pensiero e prassi di ricerca in grado di arricchire il patrimonio delle odierne pratiche filosofiche. Mi è parsa una sfida affascinante e abbastanza pionieristica, preceduta solo dallo sforzo di P. Calandruccio, A. Tommasoli e G. Traversa con la loro Storia della filosofia per consulenti filosofici, Mimesis, Milano 2017. Personalmente mi sono concentrato di più sulla filosofia antica e medioevale: dopo un’introduzione sulla nascita della filosofia e sul tema colliano dell’enigma e della sfida dialettica (G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2014), ho trattato di Platone e di Aristotele e della questione della cura mediante la parola, appoggiandomi al notevole saggio di P. Laín Entralgo, La curación por la palabra en la antiguedad clasica, Anthropos editorial, Madrid, 2005; poi è stata la volta del pensiero ellenistico e dell’approfondimento di P. Hadot, Esericzi spirituali e filosofia antica, tr. it. Einaudi, Torino, 2005; cui è seguito il tema della Trinità in Agostino, posto a fondamento di una metafisica e di una antropologia della relazione (Agostino De Trinitate, Città Nuova, Roma, 1998; A. Trapé. S. Agostino: Introduzione alla dottrina della grazia vol.II: Grazia e libertà, Città Nuova, Roma 1990); il medioevo tomistico ha dato un profondo spunto di carattere metodologico con il tema della disputatio e del cammino metafisico attraverso i molteplici aspetti della realtà e del discorso (in questo campo è stato fondamentale lo studio di E. Porcarelli, Spunti per una didattica della filosofia tratti dall’esperienza medievale, che ho associato alla Summa Theologiae I-II di Tommaso, di cui si è analizzato l’articolo 4 della quaestio I, sul fine ultimo della vita umana). Concludendo il ciclo di lezioni, ho voluto presentare alcune riflessioni sulla filosofia moderna, che culminano in un percorso attraverso la fichtiana Missione del dotto, alla ricerca di spunti per comprendere il ruolo individuale e sociale della consulenza filosofica nella nostra contemporaneità, che è precisamente la risposta alla domanda sul ruolo che oggi possono ricoprire gli uomini che si dedicano alla cultura e alla ricerca, cioè alla filosofia. Di quest’ultima tappa presento una rielaborazione nelle righe che seguono.

 

La modernità e la questione della conoscenza

Parleremo qui di un testo che induce a riflettere sul ruolo del filosofo nella società, cioè in quella comunità in cui, su base nazionale, si dovrebbe vicendevolmente agire gli uni sugli altri. Il testo che prenderemo in esame è la Missione del dotto di Johan Gottlieb Fichte, del 1794, dove si riportano cinque conferenze aperte al pubblico che il filosofo tenne a Jena e dove si presentano in modo divulgativo le tematiche che egli aveva fatto oggetto di corsi specialistici nella locale università.

Ma chi era Fichte? 

Egli nasce a Rammenau, in Sassonia (Germania), il 19 maggio 1762. I suoi genitori sono contadini molto poveri, tanto che durante l'infanzia è costretto a lavorare come guardiano d'oche per aiutare la famiglia. Grazie al sostegno del barone von Miltitz, il giovane Fichte riesce a iniziare i suoi studi. Pare che il barone sia rimasto stupefatto nell'udire il ragazzo ripetere a memoria un sermone - che il nobile non aveva potuto udire - e, comprendendo le sue doti di intelligenza e di memoria,  avrebbe deciso di aiutarlo.

Dopo aver frequentato il ginnasio, nel 1780 il nostro filosofo si iscrive alla facoltà di teologia di Jena per poi proseguire gli studi a Lipsia, mantenendosi, a causa del progressivo rarefarsi dei contributi del barone, con i proventi dell’attività di precettore. In seguito si trasferisce a Zurigo dove conosce Johanna Rahn, sua futura moglie. Nel 1790 la sua carriera di studioso ha un momento di svolta: legge la Critica della ragion pura di Kant, costretto dal fatto che uno studente gli aveva chiesto aiuto per approfondire lo studio del maestro di Koenigsberg. Per Fichte quest'opera diviene una vera e propria rivelazione: a proposito di questa scoperta e dell'arricchimento interiore che gli provoca, avrà modo di affermare di sentirsi "uno degli uomini più felici del mondo". Dopo aver scritto un'opera intitolata Saggio di una critica di ogni rivelazione, in cui espone abilmente i principi della dottrina kantiana, si reca a Koenigsberg per farla leggere a Kant stesso. Quando un editore nel 1792 pubblicherà il lavoro non verrà stampato il nome dell'autore: questo farà sì che lo scritto sia scambiato per un lavoro dello stesso Kant. Quest'ultimo rivelerà solo in seguito la vera identità dell'autore e Fichte diverrà subito celebre. Chiamato dall'Università di Jena, diviene quindi professore nel 1794. Intanto nel 1791 a Danzica aveva steso una difesa degli editti del governo prussiano che limitavano la libertà di stampa e introducevano la censura. Nello stesso periodo, però, la censura si abbatte su di lui e sul suo Saggio. Ciò contribuisce al cambiamento della sua posizione sul tema della  libertà, tanto che nel 1793 pubblica - anonimamente - la Rivendicazione della libertà di pensiero. A Jena il filosofo si trattiene fino al 1798 quando, a seguito di una nuova controversia sull’ateismo e sulla sua compatibilità con la moralità, viene estromesso dall'insegnamento. Dopo le sue dimissioni la cattedra verrà assegnata a un giovanissimo Friedrich Schelling che di Fichte era stato prima studente e poi coadiutore, grazie all'intercessione di Goethe. Durante il soggiorno di Jena,  vengono scritte opere fondamentali come i Fondamenti dell'intera dottrina della scienza (1794), i Discorsi sulla missione del dotto (1794), i Fondamenti del diritto naturale (1796), il Sistema della dottrina morale (1798).Trasferitosi a Berlino, Fichte si mantiene per un certo periodo dando lezioni private e vivendo nell'indigenza. Frequenta diversi intellettuali romantici, tra i quali Schlegel, Schleiermacher e Tieck. Nel 1805 torna all'insegnamento universitario quando gli viene offerta una cattedra all'università di Erlangen. Nel 1806 si trova a Koenigsberg quando Napoleone invade la città. Poco dopo torna a Berlino e scrive i Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), in cui cerca di risvegliare l'anima e l’orgoglio del popolo tedesco contro la dominazione napoleonica. Questa pubblicazione rinnova la sua celebrità, favorendo anche la sua nomina da parte del Re di Prussia a professore ordinario della neonata Università di Berlino, dove nel 1810 verrà eletto rettore.  Muore a Berlino il 27 gennaio 1814 dopo avere contratto il colera dalla moglie, infermiera volontaria negli ospedali militari.

Per comprendere le tematiche principali del pensiero fichtiano è necessario un breve excursus sulla filosofia moderna.

Nella filosofia moderna, dopo l’intervallo umanistico-rinascimentale, che, rispetto al medioevo, laicizza il pensiero ed esalta, da un lato, le ricerche di carattere naturalistico, dall’altro, l’uomo come centro dell’universo, ci si concentra su tematiche gnoseologiche, lasciando in secondo piano quelle ontologiche. Ciò significa che, se la filosofia classica e medievale ci teneva a scoprire anzitutto che cosa è la realtà, per poi stabilire come l’uomo, in quanto parte della realtà, la conosce; la filosofia moderna ci tiene a chiarire preventivamente come l’uomo conosce la realtà, per poi stabilire con maggiore affidabilità che cosa è la realtà stessa.

Ora, la conoscenza, su cui si insiste, è un processo che implica sempre una relazione tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto. Il problema è dunque il seguente: come fa il soggetto conoscente ad affermare cose vere, cioè a giudicare rettamente l’oggetto conosciuto?

 

René Descartes e la certezza

Tale questione viene sollevata in tutta la sua pregnanza da René Descartes (1596-1650), il quale insiste sulla questione della certezza della conoscenza, che egli ritiene essere il tema fondamentale di una riforma della filosofia e del sapere che possa rispondere adeguatamente alle domande lasciate insolute dalla tradizione precedente.

La soluzione fornita da Descartes a tale problema è la seguente: anzitutto siamo certi del nostro pensiero e di noi stessi, riprendendo il tema agostiniano dell’errore che testimonia, come tale, l’esistenza di un soggetto. Agostino dice: “Si enim fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum si fallor[1] (“Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto”). Descartes dice che il fatto stesso che la mia mente si possa ingannare su tutto, testimonia che essa pensa, e se pensa allora esiste il soggetto come sostanza pensante. Dunque: se m’inganno allora penso, se penso allora sono: “cogito ergo sum[2]! Dal nostro pensiero si può dedurre anche l’esistenza di Dio e del mondo. Se posseggo nella mia mente l’idea di Dio, mi posso domandare da dove essa venga. Mi dovrò rispondere che essa, trattando di un essere assoluto e onnipotente non può venire da me che sono contingente, limitato e imperfetto e tanto meno da una realtà esteriore, altrettanto contingente, limitata, imperfetta. Siccome, infatti, la causa deve essere uguale o superiore all’effetto, la causa dell’idea di Dio deve essere almeno assoluta e onnipotente quanto l’oggetto che la costituisce, cioè il suo effetto, cioè Dio. Dunque, deve venire da Dio stesso il quale, essendo ente perfettissimo, è impossibile che non esista (si veda l’argomento di Sant’Anselmo[3]). Quindi, una volta stabilita con certezza la nostra esistenza come soggetti individuali e l’esistenza di Dio, siccome Dio, in quanto essere assoluto onnipotente, non può non essere buono, allora egli non può ingannare. Se Dio non inganna, egli diventa il garante della mia conoscenza. Perché non è possibile che, quando un’idea si presenta alla mia mente con chiarezza e distinzione tale da avere indubitabile evidenza, io, come soggetto conoscente, mi possa ingannare. Pertanto, un’idea chiara e distinta, cioè evidente, che rappresenti una realtà esterna al soggetto conoscente dà sufficiente certezza che tale realtà esterna esista e che sia conosciuta con verità.

 

 Razionalismo ed empirismo

Dalla riflessione cartesiana si sviluppano due correnti di pensiero, il razionalismo e l’empirismo[4]. La loro diffusione va di pari passo con quella delle scienze sperimentali galieliano-newtoniane e le discussioni tra gli appartenenti a tali due correnti spesso si intrecciano con questioni circa il metodo delle scienze stesse e l’affidabilità delle loro acquisizioni (epistemologia).

Il razionalismo, in linea con Descartes, afferma che punto di partenza degli atti conoscitivi e loro criterio ultimo sono le idee, cioè le rappresentazioni della mente umana e la loro chiara evidenza, identità e connessione logica. Basandosi sul presupposto che la natura stessa parli un linguaggio matematico, i razionalisti sostengono che da idee generalissime - come quella di Dio, di sostanza, di essere - si può costruire deduttivamente un sistema che arrivi a conformarsi esattamente alla realtà che l’uomo ha di fronte, dandone una descrizione esatta e necessaria[5]. Senza dubbio la forza e l’ideale del razionalismo sono l’esattezza geometrico-matematica della conoscenza.

Per contro l’empirismo, contestando Descartes, afferma che la radice ultima della conoscenza consiste nell’esperienza. L’esperienza proviene dal rapporto che il soggetto instaura con l’oggetto mediante i sensi. E' questa, infatti, la genesi di tutte le nostre idee, che hanno valore descrittivo solo nella misura in cui tale genesi possa essere esibita e confermata[6]. Forza e ideale dell’empirismo è evidentemente il legame degli atti conoscitivi con la realtà empirica immanente.

 

Immanuel Kant

Come si vede, il tema del contendere è quale strumento consente al soggetto umano di cogliere la realtà più profonda dell’oggetto da conoscere. Quando il dibattito si sta arenando in una disputa senza sbocchi, tanto da far sostenere qualcuno, come il filosofo David Hume, che la conoscenza certa e affidabile è impossibile, sorge l’astro di Immanuel Kant (1724-1804). Egli nel suo fondamentale testo La critica della ragion pura (1781-87) suggerisce un approccio diverso al problema della conoscenza. Non bisogna pensare che, quando conosce, il soggetto

          recepisca i dati che provengono dall’oggetto, di cui si è avuta esperienza (empirismo);

          consideri l’oggetto come ciò che deve essere raggiunto mediante il pensiero (razionalismo).

Al contrario bisogna ritenere che ogni giudizio sulla realtà provenga dall’adeguamento dell’oggetto alle strutture conoscitive del soggetto, cioè alla sua mente. Proprio perché l’uomo è fatto in un certo modo - essendo dotato di sensibilità e intelletto, cioè di sensi che intuiscono la realtà e di una mente che ragiona -, egli può conoscere i fenomeni oggettivi con universalità e necessità, e produrre scienza. Quest’ultimo è il fine della riflessione e del pensiero: si avverte qui un nuovo ruolo delle scienze naturali che via via assumono indiscussa centralità nel campo del sapere, grazie ai progressi che il metodo sperimentale ha loro garantito. Quindi per Kant il sapere naturale è essenzialmente scientifico, di quelle scienze che da Galileo e Newton hanno rivoluzionato tutte le precedenti conoscenze della natura e hanno consentito notevoli e importanti progressi, anche di carattere tecnologico.

Se dunque si vuole fare scienza, bisogna considerare gli oggetti da conoscere, cioè gli enti naturali, come fenomeni, ossia in modo tale che le loro caratteristiche risultino determinate da come il soggetto umano le comprende con i suoi strumenti e con le sue facoltà di sensibilità e intelletto. La verità dei fenomeni è pertanto data dal loro apparire al soggetto umano (fainomai in greco significa apparire). In ciò consiste la cosiddetta rivoluzione copernicana in gnoseologia: non il soggetto si adegua e registra ciò che accade e quali sono le caratteristiche fondamentali dell’oggetto; bensì l’oggetto, apparendo al soggetto, viene letto, interpretato e giudicato per mezzo degli strumenti conoscitivi del soggetto stesso. Da quest’ultimo dipende in ultima istanza il giudizio conoscitivo finale. Che avrà carattere di universalità e necessità perché universale è la costituzione razionale dell’uomo, cioè perché è tale per cui seguendo un certo metodo, con rigore, si può arrivare a determinare le leggi valide per ogni uomo, in tutti tempi, ovunque e relativamente a qualunque fenomeno. Nella Critica della ragion pura Kant illustra esattamente come avviene il processo conoscitivo e secondo quali dinamiche si verifica la suddetta rivoluzione copernicana.

 

Da Kant a Fichte

Finalmente arriviamo a Fichte, che è il miglior seguace di Kant e al tempo stesso colui che ne radicalizza le istanze, fino a determinare una corrente filosofica autonoma che ha preso il nome di idealismo (benché filosofo idealista sia da considerare anzitutto Berkeley). Suo testo fondamentale è la Dottrina della scienza, un libro che ha avuto molteplici edizioni (la prima del 1794, l’ultima del 1813) lungo tutta l’esistenza e l’attività filosofica del suo Autore che ogni volta l’ha ripensata e riadattata alle acquisizioni che veniva guadagnando durante il suo cammino di ricerca.

Il punto di partenza di Fichte è appunto kantiano. Kant aveva sostenuto che

1) esiste un oggetto (le cose della natura);

2) esso appare al soggetto (l’uomo);

3) il soggetto investe con le sue facoltà conoscitive che

4) ne consentono una determinazione valida per tutti coloro che posseggono le stesse facoltà conoscitive.

Ciò significa, come si è detto, che l’universalità necessità della scienza-conoscenza deriva dal soggetto. Poiché tutti i soggetti posseggono le medesime facoltà, allora possono consentire a un giudizio scientifico universale e necessario. Di conseguenza non l’essere dell’oggetto, ma le capacità del soggetto sono considerate ciò che determina la scienza. In effetti, noi non sappiamo come è veramente un oggetto, sappiamo piuttosto come appare a noi in quanto uomini. Noi conosciamo solo il fenomeno; non conosciamo la cosa in sé, cioè la cosa come veramente è, assolutamente e a prescindere da ogni apparire. La cosa in sé è solo l’oggetto che deve esistere per poter apparire a noi che lo conosciamo. Per il resto di essa non si può dire assolutamente niente, perché non appena diciamo qualcosa, essa diviene in realtà cosa-per-noi, cioè determinata da come noi la conosciamo.

Ebbene, Fichte sostiene che il concetto kantiano di cosa in sé è contraddittorio perché, da un lato, si dice che essa deve esistere perché vi sia un fenomeno, dall’altro si dice che di essa non si può dire niente. Ma dicendo che deve esistere, o che esiste, già se ne sta parlando, dunque, benché di una conoscenza minima e basilare, la si sta conoscendo. Così essa non è mai in sé, anche quando se ne afferma l’inconoscibilità; al contrario, in quanto cosa esistente e punto di partenza della conoscenza, è già cosa-per-noi.

Per evitare tale contraddizione bisogna allora dire che tutto l’oggetto dipende da un atto conoscitivo del soggetto il quale, quando conosce qualcosa, conosce ciò che egli stesso ha posto. Allora tutta la conoscenza deriva dall’Io, dal soggetto, da cui ogni oggetto, ossia ogni non-Io, dipende: "Un mondo esterno esistente in se stesso indipendentemente dal conoscere e perciò dall’Io, non è in alcun modo coerentemente affermabile: quindi l’intero universo non è che il sistema del nostro conoscere, cioè non è che in virtù dell’Io e per l’Io"[7]. In questo modo si compie una radicalizzazione soggettivistica della gnoseologia, resa possibile dalla rivoluzione copernicana di Kant che aveva attribuito al soggetto un ruolo attivo e primario nei processi conoscitivi. Il soggetto, divenuto con Kant protagonista, con Fichte è considerato l’unico attore della conoscenza.

Dall’Io penso all’Io puro

L’Io protagonista della conoscenza di cui si parla non è un Io empirico, cioè la personalità e l’intelligenza di Tizio o di Caio, ma un Io trascendentale, cioè una struttura a priori propria dell’umanità in quanto tale. Nel “Fondamento di ogni dottrina della scienza” del 1794 si afferma che a tale struttura va ricondotta ogni forma di scienza e conoscenza. Ma siccome non esiste un sapere se non sulla base di un principio di identità che dice che ogni cosa è se stessa, all’Io va ricondotta anche la posizione e la determinazione di questo principio. Tale principio di identità logicamente si esprime con la formula A=A. Ciò significa appunto che, quando esprimiamo un qualsiasi giudizio sulla realtà, dobbiamo presupporre che ogni contenuto della conoscenza sia se stesso. Prima di esporre qualsiasi teorema su un triangolo, dobbiamo dare per acquisito qualcosa di semplicissimo, ma di essenziale: se parliamo di un triangolo parliamo di un triangolo e non di un trapezio. Tale principio vale per tutti gli enti della realtà: essi sono se stessi (e dunque non altro). Venuto meno tale principio, verrebbe meno anche la minima possibilità di intendersi, e quindi ogni scienza crollerebbe. Ma a chi va ricondotto questo principio? All’Io, dal quale ogni sapere ha inizio. E l’Io, come inizio assoluto di ogni conoscenza, come Soggetto assoluto, non può essere posto da altro, non può essere oggetto di nessun’altra attività, perché altrimenti non sarebbe più soggetto: ciò da cui tutto inizia, non può presupporre prima di sé qualcos’altro, altrimenti non sarebbe ciò da cui tutto inizia. Dunque l’Io si autopone con un atto originario in cui dice “Io sono io”. Questa attività originaria della posizione di sé implica immediatamente la posizione di un Non-Io. Infatti l’Io si pone come Soggetto, ma ogni soggetto implica l’essere Soggetto avendo di fronte a sé un oggetto. Non c’è mai un soggetto solo, perché il concetto di soggetto è tale solo in relazione a un oggetto, che è l’oggetto che il soggetto pone e conosce non appena si determina come soggetto. Pensare il soggetto senza l’oggetto sarebbe come pensare l’artista senza opera d’arte, l’inventore senza un’invenzione, un aviatore senza un aereo, etc. Quindi non appena l’Io si autopone, esso pone il Non-Io-oggetto. Il non-Io è la natura come ciò che sta di fronte all’Io. Il determinarsi di un Io assoluto che infinitamente si autopone e infinitamente pone il non-Io, dà luogo alla compresenza di Io e non-Io tale per cui essi, l’uno di fronte all’altro non sono più un’attività infinita e un prodotto infinito, ma attività e prodotto che si limitano a vicenda (due infiniti non possono coesistere senza limitarsi a vicenda). Così l’attività infinita dell’Io è limitata dal prodotto infinito di tale attività, il non-Io. L’infinita coscienza soggettiva è posta di fronte all’infinita realtà da essa prodotta. Dall’interazione tra questi due infiniti che si autolimitano determina il mondo così come noi lo conosciamo, abitato dai soggetti empirici, gli uomini in carne ed ossa, così come noi li conosciamo. Quindi, analizzando su basi kantiane il processo conoscitivo, Fichte elabora una visione di tutta la realtà, come prodotto di una soggettività conoscente infinita, originata da un’attività conoscitiva originaria e cosmica che ha determinato tutto l’universo naturale come non-Io. In virtù di questi passaggi dall’attività conoscitiva dell’Io, al prodotto-non-Io, alla reciproca limitazione di Io e non-Io, noi viviamo in un un mondo naturale ed empirico, in cui sono presenti nuclei di soggettività conoscente, gli Io empirici, i singoli esseri umani, che esprimono nel loro piccolo, ciò che la Soggettività universale e cosmica è in grande. Una volta che Io e non-Io sono entrati in relazione e si sono autolimitati (“l’Io oppone, nell’Io, all’Io divisibile un non Io divisibile”, questa è la formula con cui Fichte spiega la dinamica di autolimitazione reciproca, perché una volta entrati in relazione Io e Non-Io, non sono più un solo Io e una sola Natura-non-Io, ma si definiscono e delimitano - cioè si "dividono" -  attraverso l'esistenza di molteplici Io empirici e di molteplici oggetti naturali), abbiamo compreso come è venuta a costituirsi questa nostra realtà empirica, cioè appunto un mondo di oggetti naturali che è il risultato dell’attività creativa dell’Io e della materia passiva del non-Io. Ora, gli oggetti naturali nella nostra esistenza quotidiana vengono investiti dagli uomini singoli di una specifica forza conoscitiva che intende appropriarsi di loro e comprendere ogni aspetto della loro esistenza. Ogni essere umano vede agire in sé la forza della soggettività trascendentale che vuole conoscere mediante la ragione il non-Io che ha di fronte a sé. Tale non-Io è stato originariamente prodotto dall’Io, ma la forza produttiva per la quale l’Io trascendentale, come struttura a priori dell’umanità, ha generato il non-Io, è inconscia. Perciò, pur essendo ciascuno di noi ragione che conosce, cioè pur avendo in noi la forza originaria dell’attività dell’Io, noi individualmente non avvertiamo più il nesso che ci lega al non-Io come nostro prodotto, perché appunto la produzione è avvenuta in modo inconscio, e dunque dobbiamo riappropriarci della realtà esterna che avvertiamo ora come opaca ed estranea, e ciò dobbiamo fare mediante l’elaborazione faticosa di una scienza che trasformi quella estraneità in un possesso compiuto. Quindi la natura che abbiamo di fronte, con i suoi fenomeni meccanici, dinamici, chimici, biologici, astronomici etc., diventa una continua sfida alla nostra soggettività conoscente, ossia alla nostra mente, perché, mediante le scienze, torni ad essere perfettamente trasparente e dominata da un sapere razionale.

Ciò avviene in due momenti: in modo teoretico e in modo pratico. Nel momento cosiddetto teoretico, o propriamente conoscitivo, l’Io, cioè la persona di ciascuno di noi, si fa influenzare dall’oggetto, che agisce sugli organi ricettivi del soggetto, mediante la sensazione, e mette in moto il processo conoscitivo. In questo frangente, elaborando conoscenze sempre più raffinate arriviamo alla consapevolezza filosofica che ogni realtà è infine un prodotto dell’Io. Quindi il momento teoretico comporta una certa iniziale passività, con l’azione del non-Io sull’Io, per concludere nel riconoscimento della centralità dell’Io. Il momento pratico è quello in cui noi ci riappropriamo del non-Io non mediante una conoscenza, ma mediante l’azione, un’azione governata ovviamente dagli imperativi morali. Mediante la razionalità noi agiamo sulla natura, la trasformiamo, la rendiamo coerente con i nostri fini. Agire sulla natura non significa solo lavorare sull’ambiente che ci circonda, ma su tutto ciò che a prima vista non dipende da noi – cioè che in senso lato è non-Io, quindi appunto natura – come la realtà storica, sociale e politica, ma anche su tutto ciò che in noi non è pienamente dominato dalla ragione (istinti, inclinazioni, sentimenti, aspirazioni etc.). L’azione morale che stabilisce la suprema finalità di costringere dentro scopi razionali tutto ciò che all’inizio sembra loro estraneo è l’attività suprema dell’Io e lo scopo ultimo di ogni uomo, che in questo modo si assimila a ciò che dentro di sé è la purezza dell’Io assoluto, che tutto produce e che tutto domina. Lo scopo della vita degli individui empirici è cancellare la distanza che li separa dalla razionalità assoluta dell’Io, esaltando in sé la dimensione razionale e trasformando il non-Io naturale e storico in un prodotto perfettamente coerente con i fini dell’Io, dunque perfettamente razionalizzato. Si tratta ovviamente di un compito che non avrà mai fine, perché l’attività di produzione inconscia del non-Io da parte dell’Io è infinita, quindi ci sarà sempre un non-Io di cui riappropriarsi e da razionalizzare da parte dell’Io. Ma ogni volta che nella nostra vita progrediamo verso livelli più alti di conoscenza e moralità, abbiamo realizzato un progresso concreto verso la realizzazione di quell’ideale, che è il dovere e il fine della nostra vita.

 

Kant, Fichte e la morale

I tratti fondamentali della dottrina morale di Fichte sono già determinati da Kant, e l'allievo, come già aveva fatto relativamente ai temi gnoseologici, si limita a ripensarli pur con conseguenze notevolissime sotto il profilo teoretico.

Kant aveva fondato l’agire morale esclusivamente sulla ragione. Secondo lui non serve alcun Dio per determinare i comportamenti umani, ma è possibile farlo solo in base alla ragione: si comporta correttamente colui che si comporta in modo tale che ogni essere razionale potrebbe approvarlo, a prescindere dall’oggetto che la volontà stessa vuole. Se la volontà umana si adegua a un criterio razionale, essa vuole in maniera corretta i suoi oggetti, che pertanto debbono essere considerati dei beni. Se invece la volontà rinuncia a farsi guidare dalla ragione, l’intenzione che si rivolge a un certo oggetto ne risulta degradata, e l’azione va considerata come male. Ma come si fa a volere in modo razionale? Quando la volontà si fa guidare dalla ragione? Quando si può dire che essa segua una legge razionale che la rende giusta? Kant, nella sua opera La fondazione della metafisica dei costumi del 1785, offre tre formule che possono consentire di rispondere a queste domande. Sono le cosiddette formule dell’imperativo categorico, dove per imperativo si intende ciò che la ragione comanda di volere, e per categorico si intende che il comando è assoluto e non dipende da altre circostanze. Tali formule così recitano:

1) Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso che divenga legge universale[8].

Qui Kant dice che il proprio criterio di azione (massima) deve poter diventare legge universale, cioè deve appunto essere comprensibile e approvabile da ogni altro essere che sia dotato di ragione. Ogni volta che si agisce ci si deve domandare, pertanto, se la regola che guida l’azione potrebbe essere fatta propria da chiunque possieda la ragione, cioè da un qualunque altro essere umano, ovunque e in ogni tempo. Per esempio, non restituire prestiti come criterio dell’agire non potrebbe essere approvato anzitutto dai creditori, ma poi da qualunque altro essere umano che comprenda che le transazioni e i contratti necessitano la fiducia nel rispetto delle regole, senza il quale una quantità innumerevole di relazioni risulterebbero impossibili e impensabili. Di conseguenza la massima non restituire prestiti non risulta compatibile con un agire razionale secondo questa prima formula dell’imperativo categorico. Come si vede, un piccolo "test di universalizzazione", proprio in virtù dell'universale costituzione razionale degli uomini, è sufficiente a garantire la razionalità dell'intenzione del soggetto agente.

2) Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare, per tua volontà, una legge universale di natura[9]

Nella seconda formula si confrontano implicitamente la massima di un’azione umana e una legge universale di natura. Se è vero che una legge naturale in nessun modo si può trasgredire - per esempio la legge di gravitazione universale vale sempre e ovunque e nessuno può evitare di esservi sottoposto -, allora la legge umana di ragione alla quale si deve sempre adeguare ogni criterio individuale, va considerata come se fosse una legge naturale impossibile a trasgredirsi. Il senso è che un comportamento doveroso non ammette eccezioni: il dovere vale sempre e se a volte gli uomini non ascoltano la sua voce, non per questo smette di valere. Quindi ciò che noi abbiamo compreso come buono e giusto diventerà per noi assolutamente obbligatorio e dobbiamo sempre fare in modo che esso sia rispettato.

3) Agisci in modo da considerare l’essere umano, sia nella tua persona, sia nella persona di qualsiasi altro, sempre anche come fine e mai come semplice mezzo[10].

Nell’ultima formula si dice che l’essere umano non può mai essere strumentalizzato, cioè non può mai diventare il mezzo per un fine superiore. Infatti, adottando la ragione come criterio universale dell’agire, non esiste né può esistere un fine che superi in dignità l’essere che possiede la ragione. La ragione è il proprio dell’uomo, lo caratterizza, lo distingue, lo realizza e gli indica come condurre la propria esistenza. Se la ragione è dunque l’umanità stessa, e la pienezza dell’umanità è il fine dell’uomo, in nessun modo l’umanità può diventare razionalmente un mezzo per un diverso fine.

In questo modo Kant ritiene di aver fondato razionalmente la possibilità di valutare le nostre azioni e di guidarle verso ciò che in ogni luogo in ogni tempo è doveroso, emancipandole dai diversi stimoli che possono venire dalle circostanze. Circostanza, per esempio, è un oggetto che piace, un fine che affascina, una situazione che seduce, per il guadagno o in generale per i vantaggi che può offrire. Rispetto a questi ultimi, se essi rappresentassero un motivo dell'agire, al tempo stesso diventerebbero i padroni della vita dell'agente, perché le circostanze sono esterne e, se diventassero una legge, non sarebbero la legge dell'agente ma la legge di un mondo che lo attrae, lo cattura e infine lo sottomette. Viceversa, la ragione è nell’uomo ciò che è veramente suo. Quindi, per lui seguire la ragione significa seguire se stesso. E se le circostanze esterne, da Kant chiamate stimoli sensibili, sono sempre eteronome (legge proveniente da altro), la legge razionale è sempre autonoma (legge proveniente da ). Seguendo la legge dell’imperativo categorico, dunque, noi diventiamo liberi; seguendo al contrario gli stimoli sensibili noi diventiamo schiavi. Se facciamo qualcosa perché ci piace, perché crediamo di ottenerne un vantaggio, perché semplicemente non pensiamo, allora siamo schiavi, se invece seguiamo il dovere che proviene dalla nostra razionalità, rispettandone la legge, allora diventiamo liberi perché rimaniamo i soli legislatori di noi stessi.

Ebbene, Fichte accoglie la riflessione morale di Kant, enfatizzando l’elemento soggettivo della morale, cioè il fatto che il fondamento razionale dell’agire umano proviene dall’Io, cioè dal soggetto. Quell’Io che pone tutta la realtà, a maggior ragione pone a se stesso la regola, è regola e fine a se stesso.

Ecco allora che nel primo capitolo-conferenza della Missione del dotto[11] (intitolato Sul destino dell’uomo in sé) egli esordisce, sulle basi della Dottrina della scienza, sostenendo che il mondo dipende dall’Io. Ma che cos’è l’Io? Non è il singolo individuo, ma la razionalità che ogni singolo individuo possiede. L’Io infinito, come ha ben colto Nicola Abbagnano, “non è cosa diversa dall’io finito: è la sua sostanza, la sua attività ultima, la sua natura assoluta”[12]. Quindi l’Io è sostanza razionale dell’uomo, così che “l’io di ciascuno” diviene al tempo stesso, grazie alla sua razionalità, “l’unica sostanza suprema”[13].

E che cos’è il mondo, cioè la natura? La natura è il non-Io, ciò che sta davanti all’Io come suo oggetto e che, però, egli ha prodotto. Io e non-Io sono due “succhi”, due “concentrati”: il succo di ciò che è soggetto conoscente e il succo di ciò che è oggetto conosciuto.

Proviamo noi a elaborare un piccolo esempio. Pensiamo ad un signore qualsiasi che fa il botanico e che chiameremo Giuseppe, il quale studia il funzionamento di una qualsiasi pianta. Giuseppe è un soggetto empirico. È un individuo singolo di cui si può fare esperienza, che si può incontrare per strada, che ha la sua vita e il suo lavoro. La pianta è uno dei tanti possibili oggetti esterni, appartenenti alla natura empirica, di cui si può fare esperienza, in cui l’uomo si trova immerso. Qual è la sostanza, l’essenza, il senso ultimo di Giuseppe? La sua ragione. Qual è la sostanza, l’essenza, il senso ultimo della pianta? Il suo essere natura esterna. Quando Giuseppe ha veramente conosciuto una pianta? Quando questa natura esterna non ha più segreti per lui. Quando la sua ragione ha compreso come è fatta la pianta in modo tale che prende coscienza che la sua natura esterna in realtà non è più esterna, ma dipende in toto dalla ragione stessa. Così l’Io empirico di Giuseppe “raggiunge” la sua sostanza: per quella pianta che ha di fronte e che ha pienamente conosciuto con i suoi strumenti razionali, egli diviene allora Io puro che ha posto il suo oggetto, cioè ne è la ragione. In quanto ne è la ragione, egli non aspetta più che la pianta cresca libera nella natura, ma la coltiva e la modifica del suo essere, affinché l’oggetto-pianta risponda esattamente ai fini razionali che egli, come soggetto-Io ha posto.

 

La missione del dotto

Ecco per Fichte, sempre nel primo capitolo della Missione del dotto, qual è la destinazione dell’uomo, considerato come tale a prescindere dalla società: signoreggiare tutto ciò che è senza ragione (natura) in accordo con la propria legge (ragione). Cioè rendere razionale tutto ciò che è a prima vista esterno, oggettivo, appunto senza ragione. Affermare dunque il primato dell’Io su tutto ciò che è non-Io. E questo avviene sia sul piano conoscitivo, quando si tratta di comprendere la realtà, sia sul piano morale quando si tratta di dominarla e modificarla mediante la propria azione, derivante a sua volta dalla volontà razionale.

Per fare ciò, afferma Fichte, non bisogna tralasciare la funzione della cultura. Infatti, qui non si tratta solo di una determinazione generale delle prerogative dell’Io, ma di chi cosa ogni singola persona deve fare per vivere bene in armonia con la propria essenza razionale. Quindi non c’è mai un soggetto avulso da un contesto e non esiste una razionalità che agisca nel vuoto. Sempre calati nei contesti della nostra vita naturale e sociale, per noi individui empirici esiste sempre anche un mondo di saperi dentro i quali siamo immersi, e tale mondo è la cultura. La funzione della cultura è estremamente importante per la nostra prassi concreta e per la nostra crescita personale. Essa è un patrimonio altrui che spiana la strada all’esercizio della nostra ragione. Prima che la ragione si dispieghi autonomamente, la cultura, cioè il patrimonio degli sforzi razionali sono stati compiuti da altri, ara il terreno, per poi diventare una specie di codice, un libretto di istruzioni che facilita il compito di modificare il mondo naturale e sociale secondo i nostri concetti. Quindi se la ragione è sempre, inscindibilmente legata con la prassi, perché non esiste una conoscenza che non voglia rimodellare il non-Io mentre lo conosce, allo stesso modo la cultura, che introduce all’esercizio della ragione, pure introduce all’esercizio della prassi, perché il mondo diventi effettivamente docile ai nostri fini.

Una volta preliminarmente stabilito il fine dell’uomo in quanto tale, e gli strumenti culturali di cui è dotato perché detto fine sia perseguito nella sua effettiva esistenza, si passa, nella seconda conferenza (intitolata Sulla missione dell’uomo nella società), a indagare la destinazione dell’uomo nella società.

Dentro la nostra esperienza, in cui tutto il non-Io deriva dal Io, come faccio a sapere che non ci sono solo oggetti ma anche altri soggetti razionali? A rigore si dovrebbe dare una soluzione solipsistica (c’è solo il soggetto), infatti se tutta la realtà è dentro il soggetto conoscente, tutto quanto esiste non è che una sua rappresentazione e, all'interno di quest’ultima, tutto è oggetto. Quindi per ogni essere umano varrebbe la medesima prospettiva: egli, e solo lui, è soggetto, mentre tutto il mondo è oggetto. Il fatto che esistano altri soggetti sarebbe totalmente indifferente, se gli altri soggetti esistessero solo in quanto conosciuti dal soggetto, solo perché il soggetto li considera tali nella sua rappresentazione della realtà.

Ma l'intento di Fichte è anzitutto dedurre razionalmente la società a partire dal principio dell’Io e per fare ciò deve escludere una prospettiva solipsistica che, a prima vista, parrebbe l’orientamento più ovvio sotto il profilo idealistico. Bene, Fichte ammette che non c’è modo di operare tale distinzione - tra un oggetto qualsiasi e un soggetto dentro la rappresentazione conoscitiva umana - sotto il profilo puramente teoretico, ovvero appunto puramente conoscitivo. L’esistenza di altri uomini razionali, cioè di altri Io, non è un fatto di esperienza, non si può affermare all’interno del processo conoscitivo. Essa è bensì un’esigenza morale. Fichte cerca di dimostrarlo notando che non si potrebbe raggiungere il fine della riconduzione della natura alla nostra ragione, cioè il fine proprio dell’uomo, se non alla seguente condizione: che la nostra aspettativa di trovare nella natura un riscontro a tutti i nostri concetti sia l’esito inevitabile e quasi la testimonianza dell’effettiva realizzazione dei processi di razionalizzazione e soggettivizzazione della natura stessa. È come se il non-Io non fosse mai adeguatamente ridotto ai fini posti dall’Io se l’Io non trovasse nel non-Io tracce, immagini, testimonianze, riscontri, attestazioni della quella stessa razionalità a cui egli vuole ricondurlo. E non potrebbe esservi alcun riscontro della razionalità nel fenomeno se non si potesse rinvenire in esso una causalità libera e razionale, cioè non solo oggetti, ma altri soggetti. La presenza nel mondo dell’uomo come libera causalità razionale di ciò che accade costituisce allora la cartina al tornasole del fatto che la natura è docile ai fini dell’uomo: essa è soggettivizzabile perché ha di per sé una componente soggettiva, cioè è in qualche maniera già soggetto. Dunque, il rinvenimento nella natura di altri soggetti è un’esigenza nata dallo stesso compito morale che la ragione dà a se stessa. Altrimenti ci sarebbe solo un dogmatico muro contro muro tra un soggetto e una natura estranea, che in tale estraneità non potrebbe essere ricondotta alla ragione: il compito morale della razionalizzazione e soggettivizzazione sarebbe impossibile. Ma il fatto che un compito morale sia in sé contraddittorio, cioè comandi cose impossibili non si dà.

Quindi si deve concludere che esistono uomini come soggetti liberi e razionali attorno a noi, e che ciò che nella nostra esperienza è un semplice oggetto di conoscenza umano deve moralmente essere considerato un ente soggettivo con cui entrare in una relazione totalmente diversa. Questa relazione diversa Fichte determina come un agire vicendevole mediante concetti. La società non è altro che la reciproca relazione tra gli uomini mediante la razionalità. Così come l’uomo è fine a se stesso - perché oltre la ragione non si dà alcun fine, e la ragione è la sostanza dell’umanità - la società è parimenti fine a se stessa in quanto relazione tra esseri razionali. Nella società, formata da molti soggetti, caratterizzata dalla diversità delle disposizioni, delle vite, dei caratteri, delle vocazioni, ciascuno eleva gli altri al suo ideale. La naturale inclinazione alla socievolezza al miglioramento reciproco - implicita nello stesso agire vicendevole mediante concetti - esige che chiunque trovi un suo simile, cioè un altro soggetto, in condizioni di una qualsiasi forma di inferiorità rispetto sé, o rispetto all’ideale di uomo che egli abbraccia, si adoperi per elevare l’altro alla propria condizione o a quell’ideale. Ma ciò deve avvenire in accordo con la legge morale, cioè rispettando il fine umano di ciascuno che consiste nel libero dispiegamento della sua ragione-libertà. Ciò esclude la coazione e la servitù. Nessuno può essere costretto contro la sua volontà a migliorare. Nell’uomo ogni miglioramento deve procedere da una persuasione razionale, altrimenti non è un miglioramento e, se opera di qualcun altro, non si accorda con la dignità che quest'ultimo deve riconoscere ad ogni soggetto razionale.

Nel terzo capitolo conferenza (intitolato Sulla diversità delle classi nella società) Fichte sottolinea che i processi di vicendevole soccorso finalizzati alla vicendevole elevazione puntano in ultima analisi all’unità delle differenze tra gli uomini nel comune fine della pienezza e della perfezione. Precisamente nel libero e pieno dispiegamento della razionalità di ciascuno in pieno accordo con se stesso e nella piena riconduzione alla sovranità della ragione di tutto ciò che è irrazionale risiede lo scopo della società. Il raggiungimento di questo scopo livellerebbe verso l’alto tutte le differenze, perché nella perfezione assoluta e nell’attualità realizzata di tutte le potenzialità, il genere umano si troverebbe a coincidere in un punto: l’unità del compiuto accordo di tutto con se stesso e con tutto. Tale unità, che rimane evidentemente un’ideale regolativo, non si ottiene contro le differenze ma per loro mezzo. È particolarmente interessante notare che, mentre Fichte enuncia una sorta di utopia escatologica quale sommo ideale dello sviluppo dell’intera umanità, egli realisticamente sostenga che le differenze fra gli uomini ossia, detto in altri termini, la storia con le sue dinamiche particolari, vadano rispettate e che il loro superamento debba avvenire dal loro interno e non dalla forza di una imposizione livellatrice.

 In accordo con tale prospettiva il nostro Filosofo rileva che la natura offre a ciascuno diverse disposizioni, stimolando in modo diverso la ragione di ciascuno. È questa la matrice delle differenze. La varietà dell’empiria agisce diversamente e determina le diverse empiriche declinazioni dell’unica sostanza umana, dell’unico intelletto agente che sostanzia le nostre singole facoltà individuali. Quindi, radicalmente diversi nelle diverse circostanze della vita, gli uomini scelgono dalla periferia della loro condizione empirica la via che li porta verso il centro della loro realizzazione razionale. In queste scelte essi si uniscono, si associano, trovando tra loro affinità, sostegno reciproco e possibilità di reciproco miglioramento.

Sulla base di un concetto che definirei ancora tradizionale e addirittura medievale di corporazione, ossia di associazioni di mestiere, Fichte pensa l’associazione degli uomini a seconda delle loro diverse vocazioni professionali, esistenziali, culturali in diversi ceti (Stände). I ceti-corporazione costituiscono la sostanza della vita economica e delle relazioni degli uomini all’interno della società civile. Essi, nella loro diversità, vengono integrati per mezzo del tutto della società, dopo aver a loro volta integrato le disposizioni dei singoli nei loro gruppi, mediante quello che Fichte chiama l’istinto sociale a dare e a ricevere. La società si avvale così delle più diverse attitudini e del loro vicendevole agire su ciascuno per promuovere il miglioramento di tutti. In questo contesto, ognuno sviluppa una libera e personale vocazione (si sceglie il suo ceto) e, grazie all' azione in tale ceto a beneficio di tutti, ricambia ciò che gli altri, ossia la società, gli hanno fornito in termini di avanzamento morale e materiale. Così ognuno nel suo ceto partecipa all'opera della società: la nobilitazione dell’uomo e la sua libertà. Il ceto intellettuale pone al centro del suo interesse esplicitamente tale fine ed evidenzia la necessità che l'avanzamento di ciascuno costituisca al tempo stesso l'avanzamento di tutti. In questo modo il ceto intellettuale si propone di determinare il dominio della ragione umana di tutti su tutti e su tutto.

 L'intellettuale ha dunque un ruolo centrale, che viene ulteriormente indagato nel quarto capitolo-conferenza (intitolato Sulla missione del dotto). Infatti, per suo mezzo si valorizza il ruolo della conoscenza e una società non avanza se non conosce la realtà, ma soprattutto se non conosce l’uomo stesso. L'uomo è oggetto di indagine nei suoi istinti, nelle sue inclinazioni e nei suoi bisogni, e per conoscere tali fattori nell’essere razionale bisogna indagare la ragione come fondamento di tutto. D'altro canto, gli stessi istinti, inclinazioni, bisogni costituiscono insieme la tendenza a un fine, il fine ultimo della realizzazione dell'umanità come genere razionale. Tale scopo va soddisfatto in tutte le maniere. Così si corrisponderà alla vocazione più profonda dell’umanità. L'uomo è conosciuto solo se si posseggono solidi principi razionali cioè la filosofia, ma per soddisfare i suoi bisogni non si può prescindere dall’esperienza cioè dalle diverse situazioni in cui si trovano i diversi individui, quindi alla filosofia va aggiunta la storia. Per completare tale conoscenza bisogna pure valutare il livello di sviluppo della società, il suo grado culturale e questa è una meta che è capace di raggiungere solo una disciplina squisitamente storica. Quindi, da un lato, la filosofia, dall'altro, una filosofia che si avvale di supporti storici, e infine, dall’altro ancora, la storia: sono queste le componenti fondamentali dell'erudizione propria dell’intellettuale che, dal canto suo, si esprime nella specializzazione in diversi rami del sapere e tende al sommo controllo sul reale avanzamento della razza umana nella sua globalità. Ecco il ruolo dell’intellettuale, il quale nella sua opera di ricerca e comunicazione del sapere, non solo si adopera per un ininterrotto incitamento a tale avanzamento, ma ammaestra senza mentire, senza falsificare e far violenza, cioè rispettando la libertà di ciascuno. Così egli educa il genere umano a perseguire il fine che gli è proprio. 

L'intellettuale diviene, dunque, maestro ed educatore dell’umanità, avendo la verità come unico criterio (Fichte vi allude come a un vero e proprio sacerdozio della verità) e l'esempio come strumento privilegiato: non può indicare agli altri il bene chi a sua volta non è buono.

Nella quinta e ultima conferenza (intitolata Critica delle affermazioni del Rousseau intorno all’influenza delle arti e delle scienze sul benessere dell’umanità) Fichte sottolinea che per l'intellettuale non può essere oggetto da perseguire il ritorno a un ideale e incorrotto stato di natura: non può essere questo il fine dell'uomo cui egli deve continuamente incitare. In ciò il nostro Autore critica, pur con una certa comprensiva benevolenza, Rousseau quando rifiuta di riconoscere appunto l'influenza delle arti e delle scienze sul benessere dell’umanità e anzi considera la costituzione della società, dei suoi costumi, e dei saperi al suo interno, come fonte di corruzione della naturale, integra e originaria condizione umana. Non nella natura l'uomo trova compimento, dice Fichte, ma nella sua totale e sempre da compiersi soggettivazione, che implica uno sforzo continuao per  portare il non-Io naturale all'altezza del Io, l'irrazionale all'altezza del razionale, ri-plasmando la natura con l'impegno della volontà razionale in costante tensione verso il compimento. 

Giunto a ribadire questo leit-Motiv della sua opera, l'Autore  può concluderla, rivolgendosi in particolare al suo pubblico giovane, con le seguenti parole: “Avete imparato ora, per mezzo di indagini filosofiche, come dovrebbero essere gli uomini, coi quali però non siete ancora entrati finora in rapporto stretto, intimo, indissolubile; voi in tale rapporto entrerete, e troverete gli uomini assai diversi da quello che la vostra morale esige. Quanto più nobili e migliori voi sarete, tanto più dolorose saranno le esperienze che vi attendono. Ma non lasciatevi sopraffare da questo dolore; vincetele con le vostre azioni. Ricordatevi che esso è calcolato e previsto nel vasto disegno del perfezionamento del genere umano. Perdersi in lamenti sulla corruzione degli uomini, senza muovere un dito per combatterla, è da effeminati. Castigare e schernire amaramente, senza indicare agli uomini il modo di migliorarsi, non è atto da amici. Agire! Agire! Ecco il fine per cui esistiamo. Con quale ragione potremmo adirarci, perché gli altri non sono così perfetti come noi, se noi stessi di ben poco solamente siamo di lor migliori? E non è forse questa nostra maggiore perfezione un monito che ci dice essere noi chiamati a lavorare per il perfezionamento degli altri? Esultiamo alla vista del campo sterminato che siamo chiamati a coltivare! Esultiamo di sentirci forti e di avere un compito, che è infinito!”[14].  

 

Il costrutto della modernità

La scelta della Missione del dotto come una sorta di testo simbolo della filosofia moderna ha un motivo preciso. Mi è sembrato che in questo breve scritto si potessero ritrovare alcuni tra i temi maggiormente significativi della sua epoca filosofica, e pure molto stimolanti per la nostra. Non alieno dalla passione della conoscenza, dallo sfondo del tema squisitamente moderno del soggetto gnoseologico, anzitutto salta all’occhio il profondo afflato umanistico fichtiano. Esso si situa nella scia del De hominis dignitate di Pico della Mirandola e offre adeguate formulazioni al sentimento tutto laico e mondano della grandezza della specie umana, che già aveva fatto capolino nell’illuminismo kantiano, al tempo stesso ricollegandosi all’umanesimo cristiano, di cui mantiene il ricordo nella trasposizione laica della trascendenza entro la categoria di infinito. In questa Stimmung si colloca anche una certa tensione utopica, che riecheggia le speranze palingenetiche che - da Th. Moore, a Bacone, a Müntzer, a Godwin ed altri - hanno attraversato i tempi moderni, riportando talora in auge antiche eresie millenariste e gioachimite, che tornano in quella che rimane una sorta di costante escatologica occidentale[15]. Rispetto all’illuminismo che nella sua ansia di rinnovamento razionalistico scadeva talvolta in una vera e propria letteratura filosofica fantasy, tanto era il suo distacco dalla realtà, in Fichte si avverte la lezione della storia e la preoccupazione di rimanervi ancorato per evitare le costruzioni a tavolino che tanto avevano caratterizzato la riflessione francese. Naturalmente ciò non cambia una virgola del suo giudizio, nell’ultimo decennio del Settecento ancora entusiastico, per gli eventi rivoluzionari di Parigi.  C’è grande ammirazione da parte sua per tutto l’armamentario ideologico e per le parole d’ordine della rivoluzione. Ciò che qui più interessava, lo si vede anche dalla Missione del dotto, era il tema della libertà. La libertà si lega strettamente alla prassi: la libertà è la ragione legislatrice (Kant), ma in essa è contenuta logicamente anche l’idea di una trasformazione del mondo. Il dovere si realizza  nell’urto con ciò che è solamente dato, per affermare la sua forza liberante: ma il dato non sono eslusivamente gli stimoli sensibili, cioè la tendenza individuale ad adagiarsi e a scadere nell’eteronomia della volontà, bensì la realtà politica con le sue strutture di potere. 

Ecco la prospettiva fichtiana della prassi, tratto esso pure distintivo del pensiero moderno, che ritornerà purificato nell’undicesima tesi su Feuerbach, un po’ ingenerosa riguardo alla tradizione di filosofi appassionati trasformatori del mondo, almeno dal momento in cui si scoprirono scienziati sperimentali. Nella modernità l’uomo europeo viaggia con il pensiero e con le navi, scopre spazi vuoti da occupare, pensa una temporalità rigorosamente lineare che permette di spostare costantemente in avanti la meta dell’umanità, ha una scienza per avere sempre qualcosa da fare, ha un sapere che sempre costantemente guida la sua mano. Qui è il suo segreto: un progetto prometeico che O. Spengler, nel suo Tramonto dell’Occidente[16] ha goethianamente definito civiltà faustiana, in nome di quello stesso Faust che, traducendo il primo versetto del Vangelo di Giovanni, dice: “Sta scritto: ‘In principio era il Verbo’. Eccomi già fermo! Chi m’aiuta a proseguire? M’è impossibile dare a ‘Parola’ (das Wort) tanto valore. Devo tradurre altrimenti, se mi darà giusto lume lo Spirito. Sta scritto: ‘In principio era il Pensiero’. Medita bene il primo rigo, ché non ti corra troppo la penna. Quel che tutto crea e opera è il pensiero? Dovrebbe essere: ‘In principio era l’Energia’. Pure mentre trascrivo questa parola, qualcosa già mi dice che non potrò fermarmi Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro e, ormai sicuro, scrivo: ‘In principio era l'Azione (die Tat)’”[17]: l’azione, cioè la prassi… nella frenesia della prassi, lungo tutta la modernità, “l’industria occidentale ha spostato le vie del commercio già seguite da altre civiltà. Le correnti della vita economica si spostano verso le sedi del ‘re carbone’ e le aree ricche di materie prime: la natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto specie di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana…”[18].

Così da Fichte alla volontà di potenza, il passo è breve, direbbe genealogicamente Heidegger, mentre oggi la sua scolastica ripeterebbe il lamento romantico del ponte sul Reno che l’occhio della tecnica moderna riprogetterebbe come una centrale idroelettrica[19]. La civiltà faustiana muore nell’industrialismo sfrenato e nella fagocitazione sistematica delle risorse da offrire in olocausto alla civiltà dei consumi. In ultimo finisce per generare la sua antitesi dialettica, l’ecologismo lamentoso di coloro che cercano di risvegliare sotto mentite spoglie il mito nostalgico del buon selvaggio, contro il quale Fichte si era scagliato nell’ultimo capitolo della Missione del dotto

Se leggiamo la sua opera seriamente, cogliendovi lo spirito della modernità, non si può non rilevare la profonda serietà del progetto moderno, la stessa che Bauman chiamerebbe solidità[20]. La modernità è profondamente civilizzatrice e trascina con sé gli uomini che, contro le cattedrali del passato, ambivano bensì a costruire nuove cattedrali, ugualmente belle e imponenti, benché dalle più deboli fondamenta. Il costrutto moderno è un’ambiziosa architettura della civiltà, che possiede un nucleo spirituale ancora vitale nel ricordo dell’antico precetto divino di soggiogare la Terra. Esso deve far riflettere tutti coloro che nuotano nel mare indifferenziato della liquidità post-moderna, tempo della dissoluzione e del ritorno alla matrice, tempo della fine della creatività e della reiterazione del godimento istantaneo, tempo a-progettuale dell’attesa e della consegna a domicilio, tempo della resa della ragione e del ritorno del basso ventre. Anche il ruolo della cultura e del pensiero filosofico non deve rimanere fuori da tale riflessione. La prassi avrà generato il dominio distruttivo della natura, il fuoco di Prometeo avrà bruciato la terra, ma l’umidità della matrice genera e riproduce solo muffe. L’intellettuale engagé si è seduto e si è perso sulle sponde del riflusso, ma il topo di biblioteca finisce per rosicchiare la cultura separandola dalla sua vocazione alla via, alla verità e alla vita. Allora la Missione del dotto e le sue parole dicono ancora qualcosa di sensato, esibendo quello che era il cuore pulsante della modernità, le sue speranze e i suoi valori. Dicono di un atteggiamento verso la realtà che, per quanto criticabile, vede nella prassi l’unica forma di salvezza, anche dai suoi errori, anche da sé stessa, suggerendo che quello che conta è ancora trovare le forme dell’agire, senza smarrire l’agire quale norma etica fondamentale dell’uomo di cultura.

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[1] Agostino, La città di Dio, 11,26.

[2] La formula, con l’annesso ragionamento è presente in tre opere: il Discorso sul metodo (1637); le Meditazioni metafisiche (1641) e i Principi di filosofia (1644).

[3] Infatti, tra le perfezioni di un oggetto non può non essere contenuta l’esistenza, qualcosa che esiste ha una qualità in più, cioè è più perfetto di qualcosa che non esiste; Cartesio, Meditazioni metafisiche, V, 9 e Anselmo, Proslogion, XV segg.

[4] “Hegel fu il primo a caratterizzare con razionalismo l’indirizzo che va da Cartesio a Leibniz, contrapponendolo all’empirismo, che fa capo a Locke” N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Tea, Milano, 1993, sv Razionalismo, p. 730 (G. W. F. Hegel, Storia della filosofia, III,2).

[5] “Questo è l’ordine che in proposito ho seguito. In primo luogo ho cercato di trovare in generale i Principi o Prime Cause di tutto ciò che è o può essere nel mondo senza considerare a questo fine nient’altro se non Dio che l’ha creato, né traendoli da altra fonte che da certti germi di Verità che riposano naturalmente nelle nostre anime. In secondo luogo ho esaminato quali erano i primi e più comuni effetti deducibili da queste cause e mi pare di aver trovato per questa via Cieli, Astri, una Terra e su di essa Acqua, Aria, Fuoco e Minerali e alcune cose tra le più comuni e più semplici di tutte, e quindi tra le più facili a conoscere…” Descartes, Discorso sul metodo, 6. Ecco una sorta di manifesto del metodo razionalistico-deduttivo. Poi Cartesio ammette che è necessaria, quando si vuole analizzare la realtà nei particolari, anche l’esperienza, benché dopo avere “fatto esperienza”, giunge alla conclusione che nella natura non ha trovato “nulla che non potess(e) facilmente spiegare mediante i (suoi) Principi” (ibidem), considerando l’esperienza solo un utile coadiuvante che rende il compito deduttivo più facile, data l’immensa varietà degli oggetti naturali.

[6] Questa ulteriore definizione manualistica poterebbe essere d’aiuto: “Con empirismo, dal greco empeirìa, esperienza) si intende qualsiasi dottrina filosofica che basi la conoscenza umana sull’esperienza che proviene dai sensi. L’idea di fondo dell’empirismo è che la nostra osservazione del mondo ci consente di ottenere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, eliminando così la possibilità dell’esistenza di qualsiasi principio razionale evidente a priori (cioè prima di fare esperienza, n.d.r.). Come corrente filosofica vera e propria si impone nel XVII secolo: fra gli empiristi inglesi ricordiamo Hobbes (ma la sua collocazione in tale gruppo è controversa, n.d.r.), Locke, Berkeley e Hume”: F. Mombelli in G. Reale - D. Antiseri, Il nuovo. Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. 2°: Dall’umanesimo a Vico, La scuola, Brescia 2016, p. 506.

[7] J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Mediterranee, Roma 2006, p. 30. In tale opera, pubblicata per la prima volta nel 1925, questo filosofo neoidealista ha riassunto in modo estremamente efficace, sintetico e didattico i temi fondamentali dell’idealismo, a partire anzitutto dalla lettura approfondita e analitica di Fichte.

[8] I Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr.it. di A.Volpicelli, Vallecchi, Firenze 1925, p. 76

[9] Ibidem.

[10] Ivi, pp. 85-86.

[11] Faccio riferimento qui sia alla prima traduzione italiana di Elsa Roncali per Carabba di Lanciano edita nel 1936, sia all’ultima di Diego Fusaro, per Bompiani di Milano nel 2013, con una pregevole introduzione storico-filosofica del medesimo Fusaro.

[12] N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. IV: Dal Romanticismo a Nietzsche, Utet - Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2006, p. 93.

[13] J.G. Fichte, Dottrina della scienza (1794), tr. it. di A. Tilgher, Laterza, Bari 1925, p. 82.

[14] J.G. Fichte, Sulla missione del dotto, tr. it. di E. Roncali, cit., pp. 124-125.

[15] Studiata da molti, tra i quali è naturalmente da segnalare J. Taubes, Escatologia occidentale, tr. it. Garzanti, Milano, 1997.

[16] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it., Guanda, Parma 1991.

[17] J. W. Goethe, Faust, I, 1223-1237, tr. it. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1965, p.95.

[18] O. Spengler, cit., p. 1394-1395.

[19] “La centrale elettrica è impiantata (gestellt) nelle acque del Reno. Questo è richiesto a fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un certo distretto e la sua rete sono impiegati a produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell’ambito di questo successivo concatenarsi dell’impiego dell’energia elettrica, anche il Reno appare qualcosa di bestellte, di ‘impiegato’. La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all’essere della centrale. Per misurare, sia pur approssimativamente tutta l’enormità inquietante che qui domina prestiamo attenzione per un momento al contrasto che si rivela tra le espressioni ‘il Reno’, inteso come fiume incorporato nella centrale (Kraftwerk, opera-di-potenza, n.d.r.) e ‘il Reno’ di un’opera d’arte (Kunstwerk, opera-di-arte, n.d.r.), l’inno di Hölderlin che porta questo titolo. Si obietterà che il Reno rimane pur sempre il fiume di quella regione. Può darsi, ma come? Solo come oggetto ‘impiegabile’ per le escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su (bestellt) una industria delle vacanze”: M. Heidegger, La questione della tecnica, tr. it. in Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, pp. 5-27, qui pp.11-12.

[20] Z. Bauman, Modernità liquida, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2011, p. 13: che cosa è la liquidità della nostra condizione odierna? Essa è “riconducibile soprattutto a ciò che è compendiato nel termine ‘deregolamentazione’: alla separazione del potere (capacità di fare) dalla politica (capacità di decidere cosa fare), e di conseguenza a un’assenza o debolezza delle agenzie (cioè a un’inadeguatezza degli strumenti rispetto agli obiettivi) e al ‘policentrismo’ dell'azione in un pianeta integrato da una fitta ragnatela di interdipendenze. In parole povere, in condizione di ‘liquidità’ tutto è possibile, ma nulla può essere fatto con certezza. L'incertezza è il risultato combinato del sentimento di ignoranza (impossibilità di sapere ciò che accadrà) e di impotenza (impossibilità di evitare che accada) e di una paura sfuggente e diffusa, definita in modo vago e difficile da localizzare: una paura che fluttua alla disperata ricerca di un punto fermo”; Che cosa è la solidità? evidentemente il contrario che si potrebbe riassumere nei concetti di certezza, fermezza, stabilità, coerenza, razionalità ed efficacia del pensiero e dell’azione.  

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