La chiamano oggi “lezione frontale”, ma è la lezione tout court. Si svolge da secoli con un maestro che parla e alcuni uditori che si disciplinano all’ascolto, che cercano di comprendere, che fanno domande a se stessi, agli altri, al maestro. È una situazione di scambio, dove si lavora con la parola, con lo sguardo, con la penna e il foglio. Qui l’attenzione e la memoria sono chiamate in causa. Qui ci si sforza e si lavora. Non mancano possibilità di esercizio, di azione. C’è sempre una teoria, una prassi e una poiesi: pensare, comportarsi, produrre risultati in questo esatto ordine. La classe dove si svolge la lezione è un microcosmo di anime, relazioni, vite che si incontrano e si scontrano, non a caso, non secondo una lotteria assurda della vita e dell’ordine alfabetico, ma secondo la ragione del fine, dello sforzo per un obiettivo di crescita. Lo scopo esistenziale, la formazione della figura umana eticamente delineata, si raggiunge mediante la cultura e nella cultura. Ci sono altri modi per crescere? Sì, ma la lezione è quello che privilegia la cultura, perché la cultura coltiva. Le piante selvatiche crescono lo stesso, ma in modo disordinato, sparso, irrazionale, raramente bello… Certo la foresta ha una sua bellezza, ma il giardino è l’endecasillabo della natura e dell’uomo. I cieli suonano, ma il compendio della loro musica è in Bach e Beethoven. Quindi: teoria, prassi poiesi.
La lezione è un theorein
che avviene anzitutto nella traduzione della parola pensata in parola espressa,
e nella ritraduzione della parola ascoltata in parola pensata. Induzione e
generalizzazione, deduzione e particolarizzazione, analogia, similitudine,
confronto, rappresentazione, immaginazione. Non semplice comunicazione, ma
appello all’insieme dell’anima perché faccia funzionare le sue facoltà, che
sono chiamate a lavorare all’unisono per cogliere il senso di un discorso,
afferrarlo e abbracciarlo con la propria interiorità. E dentro si reagisce,
mentre non si capisce qualcosa, mentre si approva, si disapprova, si cercano
ragioni e ci si stupisce di trovare nel dialogo dell’anima con se stessa
mondi imprevisti e inesplorati, che si fanno via via più chiari, man mano che
le nebbie della complessità si diradano fino alla massima chiarezza possibile,
fino all’assenso catalettico con cui la mano dello studente si chiude in un
pugno di possesso. O si reagisce con la rabbia per qualcosa che rimane esterno,
pietrificato, morto nelle parole che cadono rumorosamente non centrando il
bersaglio, e vanno in frantumi insieme alla magia della comprensione. La
relazione con il maestro è sempre emotiva e insieme razionale e passa dall’essere
una risposta davanti alla persona all’essere una risposta davanti alla cosa.
Nella lezione ci si dirige alla cosa stessa mediante la persona e si impara a
rivedere la persona e se stessi mediante la cosa stessa. Zu den Sachen
selbst, verso le cose stesse: un senso del mondo che non è soggettivo ma
che coinvolge il soggetto. Perché il soggetto è lì davanti a te, insieme a te:
quello impegnato nel porgerti la materia del sapere, perché tu sappia dar la
sua forma e quello impegnato con te nell’impresa di conoscere e riconoscere.
La teoria è anche una prassi: ascoltare
non è solo capire ma obbedire, cioè saper rinunciare al proprio capriccio
mettendo davanti gli altri, le altre cose, l’altro mondo in cui ti è chiesto di
entrare, piuttosto che la comoda ripetizione del tuo. Obbedire non si può senza
udire. È un’ulteriore forma di ritraduzione della parola, ma non più in sole rappresentazioni,
bensì in rappresentazioni e comportamenti. Già si accede dal bene compreso a
quello realizzato: subito, lì, nella compagnia che è la classe, nella universitas
della comunità dei discenti e dei docenti che forma la classe. Si ascolta, si
capisce, si obbedisce, ci si comporta immediatamente con gli altri. Essere è mit-sein,
con-essere. Nella lezione la parola circola, attraversa più anime che però
stazionano nello stazionare dei corpi l’uno accanto all’altro, nel loro giacere,
nella loro stessa compostezza reciproca, che determina una forma riflessiva e
consapevole di relazione umana. Ci sono i discenti, che sono compagni di
classe, c’è il docente che ha una relazione con tutti e ciascuno e c’è la
postura attraverso la quale la parola viene comunicata e recepita e la postura
non è un caso, ma è un ethos. La classe abita nella sua postura, come
nel bene che permette il fiorire dell’anima di ciascuno e come nel bello di un
ordine interno che permette all’azione spirituale dell’insegnamento di
realizzarsi mediante i corpi e le presenze fisiche.
La poiesis è infine il
risultato. Il risultato non si determina mediante un semplice prodotto esterno
(a volte anche), ma attraverso il sapere. Sapere è un verbo che andrebbe
declinato senza sostantivizzazioni. Forse un gerundio per indicare il divenire
di qualcosa, il suo svolgimento, il suo dipanarsi dalla potenza all’atto; forse
un congiuntivo per indicare l’obliquità di un’azione labirintica, di un viaggio
nella complessità, ma anche una dimensione utopica, ottativa ed esortativa. Sapere
è un sapendo e un sapessi. Perché ogni lezione è sempre un processo che si
interrompe sul più bello, è sempre troncata, ma è sempre capace di alludere all’al
di là da sé, al mondo che sta oltre e che sarà oggetto della lezione
successiva.
Una lezione non ha dunque bisogno
di essere completata se non da un’altra lezione. Nessuna falsa esperienza, nessun
banale fare, che rimane sempre l’esecuzione di una compito nell’ipocrita veste di
una “libera” attività. Nessuna fantasia e creatività che non si insegnano e all’ombra
delle quali si propongono strategie da altri preparate per credere di scoprire ciò
che altri hanno già scoperto. Nessun lavoro applicativo da prevedere: la
lezione non è funzionale a nulla se non alla forma. Solo forma, solo dare un ordine a sé e alle
cose perché quest’ordine lo si riceve nel profondo e dopo averlo ricevuto si
diventa capaci di criticarlo. L’umiltà della forma, che ha un suo peso, che
rimane attraverso la fatica del governare sé, i propri impulsi, i propri
desideri mediante il continuo indefesso e impegnativo esercizio della ragione.
La lezione è una celebrazione
fiduciosa e festante del logos, discorso, pensiero, ragione. Anche quando è
venuta male, anche quando lo studente non ascolta o l’insegnante balbetta,
anche i suoi tentativi falliti testimoniano la grandezza a cui tende, come il lapsus
del linguaggio rivela profondità autentiche, benché incapaci di trovare
espressione.
Non c’è alternativa alla lezione.
Non la lezione frontale (come fosse un banale e dannoso incidente: non ce la
contate mai giusta, cari pedagoghi del nulla!), ma quella secondo la sua norma
alta. La lezione normale.
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