Quando si lavora, si entra spesso
nella prosa dei rapporti di produzione ma, pur nella fatica e nell’impegno
quotidiano, non mancano la poesia dell’umano e qualche motivo di orgoglio. Ne ho
fatto diretta e felice esperienza oggi quando al Gonzaga è arrivata la
dottoressa Patrizia Vergani a parlare del delicatissimo tema dell’aborto.
Banalizzato, politicizzato, strumentalizzato, l’aborto rimane uno spartiacque
di civiltà. È la civiltà che si confronta con una questione di vita o di morte, cioè il dilemma più grande e tragico per l’uomo. Nessun eufemismo è qui
ammesso e nemmeno le delicatezze politicamente corrette, spesso farsesche e
mai adeguate alle cose grandi (eh già, l’immenso problema dell’uomo vede
protagoniste, nel bene e nel male, le donne!). Patrizia Vergani ce lo ha
presentato nella sua autentica dimensione. Questa la sua grande, magnifica
abilità. Non ha però costruito un discorso concettuale, come avrei fatto io, ma
ha messo assieme racconti. La vita che illustra se stessa, sine glossa,
con la sola forza di una narrazione che rende effettiva e vivente la nostra
straordinaria capacità di empatizzare con gli altri, di rivivere l’altro in
noi, fino a commuoverci e piangere dei suoi dolori o esultare delle sue gioie.
Delle tante storie che ho sentito
dico quella che meglio ricordo. Potrei intitolarla l’Assurda fede della vita.
Due mamme: entrambe sono destinate a veder morire il loro bambino, per una
gravissima malformazione. Un dilemma per entrambe: “Abortisco o porto a termine
la gravidanza?” Una di loro decide di partorire un bimbo che vive cinque
minuti. L’altra abortisce. Costei, tragedia nella tragedia, è afflitta da un handicap
che rende molto difficoltose le normali relazioni per mezzo della parola. I
parenti, la comunicazione, una serie di circostanze l’hanno condotta alla
scelta di anticipare l’inevitabile. Ma poi per una fatalità, le due si
incontrano, si “parlano” in qualche modo, si comprendono a gesti. L’una viene a
sapere della vicenda dell’altra. Per chi ha interrotto la sua gravidanza il
dolore è lancinante. Non ci viene spiegato il perché, ma tutti lo capiamo e
nemmeno qui è necessario dirlo. La dottoressa incolpevole viene tirata per il
camice mentre passa nel corridoio del reparto: “Perché non me lo ha detto?” sembra
voler significare con il suo sguardo disperato. “Perché non ho fatto come
lei?”. Non c’è modo di farle capire che la dottoressa ci aveva provato, invano …
e non c’è modo di tornare indietro…
Assurdo si direbbe. L’assurda
fede della vita: la vita vuole seguire il suo corso, aspira a consumare fino in
fondo il suo destino e si ribella quando qualcuno si mette di mezzo, pur con
tutte le ragioni e con tutte le raffinatezze di un coltivato esprit de
geometrie. In fondo nessuna delle due donne potrà mai crescere il proprio
bambino. Che cosa cambia? Scherzi della morale del risultato e dell’utile!
Guardare all’utile è razionale ma spesso insensato. Per una donna avere un
figlio non significa produrre qualcosa. Essere legati al risultato come
l’operaio al pezzo o il professionista alla prestazione. Un bimbo non è una protesi
di cui disfarsi se non funziona, non è un violinista malato che per nove mesi
si attacca al tuo corpo, parassitandolo, come direbbe la teorica dell’aborto,
Judith Jarvis Thomson. Avere un bimbo significa poter amare qualcuno, e amare
qualcuno significa realizzare tutte le sue possibilità, cioè tutto il suo bene
che è tutta la sua vita. Quindi curare nel più vasto senso del termine. La donna, che non ha avuto suo figlio anche solo per pochi minuti fra le sue braccia,
rimprovera l’incolpevole medico di non aver potuto amare e curare la vita che
portava nel grembo. Questa è tutta la sua tragedia.
Qui finisce la storia. Non è un
fine lieto. Ma esprime fino in fondo la bellezza dell’essere di tutti i suoi protagonisti.
Anche nell’errore, nella disperazione, nella rabbia e nell’impotenza, splende
la vita oltre ogni ragione. La vita quia absurdum.
Oggi ho ascoltato diversi
racconti. Ho visto altre radure illuminate dal sole, pur dentro vicende di
dolore infinito. Narrare è efficace, potente e trascinante. Addirittura, è una
forma di medicina che si associa a quella tradizionale, quella dei bisturi e
dei farmaci. Per sua virtù ci si cura anche dalla tentazione di ideologizzare
l’aborto, di farne il pretesto per affermare un a-priori sul mondo: quando
libertà, diritti, emancipazione diventano astrazioni roventi sulla pelle dei
più deboli. Le donne protagoniste dei racconti di questa giornata importante potranno
a loro volta raccontarsi ad altre donne, o ai loro mariti, o ai loro nipoti, in
pubblico o in privato. Ci sono luoghi adatti e persone che sanno ascoltare,
come la dottoressa Vergani. Noi e loro siamo pazienti che hanno bisogno di
trovare “nuove possibili connessioni tra malattia e vita quotidiana, trame di
senso per riuscire a rivedersi, ricomprendersi e riprogettarsi in una rinnovata
versione della propria storia e della propria identità”, come si dice alle
frontiere ancora da esplorare e indagare della medicina narrativa[1].
Per ora sappiamo che per ogni romanzo che recita l’adagio “Io uccido”, ci sono
migliaia di trame diverse pronte ad essere raccontate. Ogni donna e ogni uomo,
nei drammi dell’esistenza di ciascuno, possono scriverne di grandi. Grandi
storie nobili da opporre ai lacci di ogni piccola storia ignobile che ci tenta
con le sue seduzioni [2].
Storie migliori, storie belle, storie che curano.
[1]
La medicina narrativa è un orientamento recente che intende prendersi cura del
paziente in tutte le sue dimensioni, favorendo, mediante la possibilità di
ricostruire i propri percorsi biografici, la relazione con i medici, la
partecipazione consapevole ai processi terapeutici, l’individuazione del senso
della propria vicenda anche attraverso lo sviluppo di attitudini riflessive e
metadiscorsive.
[2]
Alludo a una canzone di propaganda del cantautore Francesco Guccini. Egli, non
senza autenticità di ispirazione, racconta la vicenda “triste” e “ignobile” di
un aborto clandestino, dentro il clima di una crudele ipocrisia benpensante e
borghese, in cui alla colpevolizzazione moralistica della sessualità e della
donna, segue contro di lei la pratica violenta di una procedura in cui ciò che
conta sono le apparenze e la reputazione di soggetti che per nulla si
interessano di lei e della sua sofferenza. Il problema sembrerebbe qui la
clandestinità. Poi si è scoperto che anche le storie di aborti liberi, gratuiti
e garantiti dallo Stato sono molte volte piccole storie ignobili.
N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore, mantenendo inalterato contenuto e titolo.
Bellissimo pezzo, Massimo. Soprattutto autentico e profondo il sentimento che l'ispira.
RispondiEliminaGrazie Massimo edificante per una visione vera e positiva della realtà. Lo diffondero' ai miei amici.
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