Quando capita di leggere un libro che racconta verità profonde o ci affascina con immagini molto belle, subito il pensiero va a chi lo ha scritto: “Che tipo d’uomo sarà costui?”, ci si domanda, “Come è arrivato a dire cose così importanti?”. Se poi, una volta informati sull’autore, questi appare all’altezza della sua opera, l’innamoramento è molto facile. Viceversa se scopriamo nella sua vita qualche cosa che non va — e, dicendo così, alludo a qualcosa di serio e di importante, giacché tutti, in quanto uomini, abbiamo le nostre miserie e ognuno deve essere indulgente verso le piccolezze del prossimo, se vuole un po’ di indulgenza per le proprie — la delusione s’impossessa di noi e anche ciò che leggiamo perde valore.
Con Ernst Jünger siamo
decisamente nel primo caso. Grandissimo letterato, filosofo e uomo di cultura nato ad Heidelberg nel 1895
e morto a Wiflingen nel 1998, si
arruolò nel 1913 nella Legione Straniera, combatté nella Prima guerra mondiale
dove si distinse in numerose azioni, fu ferito quattordici volte e si guadagnò,
oltre alla croce di ferro di prima classe, la decorazione dell’Ordine “pour
le mérite”, un’onorificenza raramente accordata in fanteria. Su questi temi
e il loro rapporto intimo con la letteratura ebbe a dire: “All’eroismo mi
spinse la lettura dell’Orlando furioso dell’Ariosto. Furono quelle
parole, quelle rime lette durante le pause tra un combattimento e l’altro a motivarmi.
E non già la retorica e l’ideologia della guerra sviluppatesi in seguito alla
nostra vittoria nella guerra franco-prussiana del 1870-71...” (A. Gnoli, F.
Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi,
Milano, 1997, p. 22).
Partecipò dopo il 1918 alla vita pubblica
della Germania tra le fila dei critici della Repubblica di Weimar, nata dal
peccato originale della resa della nazione tedesca, ma all’ascesa di Hitler si
ritirò in una sorta di emigrazione interna, non risparmiando le sue critiche al
regime in Sulle scogliere di marmo (1939, romanzo di altissimo pregio
letterario che, pur contenendo metafore negative del nazionalsocialismo, non
può essere ridotto alla sua dimensione politica). Dopo la Seconda guerra
mondiale, cui nondimeno partecipò come ufficiale nell’esercito tedesco, e dopo
avere rischiato molto a causa della sua amicizia con il conte von Stauffenberg,
uno dei congiurati nell’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, si dedicò
all’attività letteraria e alle sue passioni naturalistiche. Era infatti anche
un esperto entomologo: “Non solo una mezza dozzina di scarabei, o ancor di più,
sono stati battezzati grazie a me, ma ci sono anche farfalle, molluschi; il mio
amico Theodorides mi ha anche dedicato
un organismo monocellulare, la gregarina jungeri. Inoltre esiste una
sottospecie di cincidela che si chiama jungerella”: così affermò egli
stesso nell’intervista concessa a Julien Herver e pubblicata con il titolo Conversazioni
con Ernst Jünger (tr. it. di A. Marchi, Guanda, Parma, 1987, p. 50).
Nel lungo periodo del secondo
dopoguerra scrisse alcune tra le sue opere di maggior respiro che si aggiungono
a L’operaio. Dominio e forma (1932), suo capolavoro filosofico: Heliopolis
(1949) e Eumeswil (1978), due romanzi voluminosi e di rara bellezza.
Strinse amicizia, grazie ai buoni auspici del fratello Friedrich Georg
(anch’egli filosofo e letterato), con il grande pensatore Martin Heidegger, in
dialogo con il quale pubblicò Oltre la linea (1950), un acuto saggio sul
nichilismo contemporaneo (quel fenomeno, indicato mediante l’uso della parola
latina nihil = nulla, per cui la vita appare vieppiù senza senso, un
deserto senza valori e significati). Si cimentò in un profondo esame del
fenomeno del tempo in Al muro del tempo (1949); entrò in una feconda
relazione culturale e umana con Carl Schmitt, autorità riconosciuta e
insuperata nel campo della scienza giuridica; dalla loro collaborazione nacque Il
nodo di gordio (1953), un confronto storico-filosofico-giuridico su oriente
e occidente (siamo in epoca di guerra fredda, cioè in pieno scontro tra i due
blocchi, quello orientale-sovietico e quello occidentale-statunitense, per
l’egemonia planetaria). Attraversò con successo diversi generi letterari,
quello diaristico, quello fantastico, quello fantascientifico, oltre alla prosa
filosofica e scientifica: tutto ciò si aggiunge agli scritti anteriori al 1945
che vanno dal romanzo di guerra — famosissimo rimane il suo capolavoro Nelle
tempeste d’acciaio (1920), sull’esperienza di Verdun e della Somme — ai saggi storico-filosofici sul senso del conflitto mondiale (La battaglia come esperienza interiore -1922) e alle riflessioni di strategia
militare come Fuoco e movimento (1930). Si distinse anche per finezza
della prospettiva, ricchezza della descrizione e sensibilità, diremmo oggi,
ecologica nei resoconti di alcuni viaggi (Viaggio in Dalmazia - 1933) o
in quelli di alcune escursioni naturalistiche in Cacce sottili (1967) e,
per certi versi, in quello scritto complesso, a metà tra il diario e la
raccolta di aforismi filosofici, che è Il cuore avventuroso (1929) Curioso fu anche il suo excursus sulle droghe e il significato degli stati allucinatori come via "pericolosa" alla conoscenza di sé (Avvicinamenti droghe ed ebbrezza, 1969)
Insomma siamo di fronte a
un’opera vastissima e a un talento poliedrico che si unisce a qualità umane e
virili oggi veramente rare. In particolare, questa sua capacità di leggere i
segni dei tempi e di tramandare un’immagine nitida di accadimenti estremi come
la guerra è stupefacente. Nel suo Nelle tempeste d’acciaio egli coglie
appieno il significato rivoluzionario della Prima guerra mondiale, una guerra
di masse, in cui l’individuo, come era stato concepito dalla società borghese,
conta pochissimo e va progressivamente scomparendo la distinzione tra
belligeranti e no, laddove la distruttività indiscriminata della tecnica e la
logica dei materiali assumono un’importanza preponderante. Qui si forgia la
nuova figura, il nuovo tipo umano adatto all’epoca, l’operaio. La guerra è
infatti il luogo in cui emerge per la prima volta l’immagine del nuovo mondo
trasformato in un’immensa officina, in
cui l’operaio non è più il lavoratore salariato, cioè un semplice rappresentate
di una classe sociale svantaggiata e capace di ribellarsi (come aveva teorizzato
il socialcomunismo marxiano), ma colui che “opera” cioè governa gli strumenti
attraverso cui si mobilitano le energie del mondo. È una sorta di sacerdote
della tecnica che sa evocare e tenere a bada la potenza “infera” dei materiali
e la loro forza esplosiva. Ciò richiede qualità umane peculiari e una diversa
organizzazione sociale che assimila il mondo a un esercito dove ciascuno assume
un ruolo determinato in funzione delle sue qualità specifiche: la fredda
tranquillità della conoscenza, la capacità di trasfigurare le emozioni e i
sentimenti in una sfera di superiore coraggio e abnegazione, lo sprezzo della
morale dei mercanti e dell’utilità borghese, la ricerca di un contatto più
intimo con le forze profonde che legano il destino dell’uomo alla fisicità e alle
dinamiche elementari della natura. Sono questi elementi che attualizzano e, per
così dire, incarnano quella trasvalutazione di tutti i valori che il filosofo
Nietzsche aveva preconizzato qualche decina di anni prima. Non si tratta però
di un’esaltazione acritica del combattimento, anzi della guerra non vengono
taciuti gli aspetti più crudeli, disumani e inquietanti, e al contrario se ne
inquadrano con un nuovo e affascinante realismo aspetti fino a quel momento non
visti, non saputi e non vissuti dalle generazioni abituate al clima della Belle
Époque guglielmina (il periodo di crescita e splendore del Reich
tedesco seguito all’unificazione bismarkiana e all’ascesa al trono
dell’imperatore Guglielmo II).
Successivamente alla sconfitta del 1918, verrà
elaborata da Jünger una vera e propria filosofia dell’operaio, intesa a rendere
consapevoli le giovani generazioni tedesche delle nuove prospettive filosofiche
e politiche del secolo XX, aperte dall’evento rivoluzionario della guerra
mondiale, la cui coscienza sarebbe servita a una rinascita della nazione
prostrata dalla “vergogna di Versailles”. Nonostante le cose in seguito non
fossero andate nella direzione auspicata dal nostro autore, egli non rinunciò
ad impegnarsi nella cultura collaborando con le avanguardie più coraggiose
dell’intellettualità tedesca, per esempio con il gruppo nazionalbolscevico di
E. Niekisch che si sarebbe opposto, a partire da un originale “conservatorismo
di sinistra”, alla politica del Terzo Reich.
Dopo la seconda tragica disfatta tedesca del 1945, Jünger delineò i contorni di nuove figure antropologiche adatte al mutato contesto storico ed epocale. In esse egli riuscì a individuare efficaci antidoti alla drammatica incapacità della cultura nell’affrontare il brusco risveglio dalle illusioni di redenzione dei popoli affidate alle ideologie del Novecento (comunismo, liberalismo, fascismo). Si tratta delle figure dell’anarca - colui che coltiva una libertà interiore, inafferrabile per gli strumenti d'oppressione dello Stato totalitario moderno - e del ribelle - colui che "passa al bosco" cioè nei luoghi che la civilizzazione e l'omologazione tecnica, economica e politica non hanno raggiunto per organizzare la sua opposizione a tutte moderne forme di oppressione, recuperando un rapporto intimo con la propria natura selvaggia e indomita. Qui il singolo, attingendo alla sua originaria libertà, si sottrae alla civiltà delle masse anonime, del mercato totale e della tecnica senza controllo, grazie alle sorgenti di senso che trova nell’arte, nell’amore erotico, nell’amicizia, nel recupero di un sentimento eroico della morte, ma anche nella rivalutazione di un “giusto senso del sacro” e di un rapporto oginario con la natura (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani, cit., p. 98). Ma il bello di questi tipi umani — l’anarca e il ribelle — è che non sorgono da una descrizione fredda e concettuale, ma prendono vita da storie, vicende e trame che, benché parti di una fantasia vivacissima e piena di risorse, hanno un legame interno con la vivida concretezza del mondo, quasi a confermare l’idea di un’altra grande, seppur diversissima scrittrice, F. O’ Connor, secondo la quale la vera letteratura è più realistica di qualsiasi disciplina puramente descrittiva. In questi paradigmi personali s’intravede ancora l’uomo Jünger, il soldato-poeta, il romantico che fugge nella Legione Straniera, l’eroe tragico della Germania sofferente e sconfitta, l’esule in patria del dopoguerra, ma anche colui che sa emozionarsi e commuoversi al pensiero di essere uno dei pochi cui il destino ha concesso di vedere due volte la cometa di Halley (Due volte la cometa – 1987). Un individuo differente, insomma, il cui carattere cordiale e la cui penetrante intelligenza sono intrecciati a una sostanza umana, a uno spessore etico-valoriale, a una potenza interna del temperamento che hanno impressionato tutti coloro che sono venuti a contatto con lui: da Berthold Brecht ad Adolf Hitler, da Pierre Drieu la Rochelle ad Alfred Kubin e Pablo Picasso, da François Mitterand ad Helmut Kohl per finire con tutti gli intellettuali, anche italiani come Alberto Moravia, che da lui hanno sempre ricavato il senso di una grande autorevolezza e di una straordinaria acutezza di sguardo. Ma, direi anche, un utopista disincantato, che si pone in modo critico nei riguardi del suo tempo, senza indulgere a resoconti accomodanti e consolatori ma, al tempo stesso, senza mai rinunciare alla ricerca dei semi di un futuro diverso, gettati per terra nelle periferie della realtà, in attesa che lo spirito, la forza e la volontà del singolo li facciano germogliare.
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