Può essere il voto al partito di
Giorgia Meloni un voto critico? Che cosa è un voto critico?
Tra i diversi approcci a questa
un po’ consunta liturgia repubblicana si possono individuare i seguenti:
1) il voto come esaurimento dei
doveri civici, segreto, borghese, timido, inconfessabile, che prelude ad un
immediato ritorno o riflusso nel privato, considerato come la dimensione della
vita autentica e originaria;
2) il voto come corsa alla
partecipazione democratica, suo “punto più alto”, sua espressione massimamente
egualitaria, esercizio di un diritto fondamentale che consente al sistema
sociale di reggere nel complesso delle sue ideologie e delle sue illusioni;
3) il voto come attesa di
legittimazione popolare da parte di una classe di professionisti della
politica, alcuni dei quali forniti di sufficiente cinismo per supplire alla
carenza di visione generale (e sono i migliori), altri patenti rappresentanti
delle classi inferiori della cultura, ma discreti giocatori al tavolo della
clientela e della crassa furbizia arrivistica. Naturalmente quest’ultimo gruppo
spera nelle opzioni 1 o 2 da parte del corpo elettorale;
4) il voto che canalizza opinioni
negative, sentimenti di rifiuto, frustrazioni più o meno legittime da parte dei
cittadini, e che gli psicologi classificherebbero come evacuazione di
elementi beta (W. Bion): pezzi di esperienza non digeriti dalla ragione o
dal complesso della personalità, che vengono restituiti sottoforma di gesto
impulsivo, non ragionato, confuso benché emotivamente energizzato. Potremmo
chiamarlo voto borghese di protesta? Espressione di una rabbia che la paura e
l’incompetenza confinano nella solitudine della cabina elettorale.
5) il voto di sistema: potremmo
dire il voto di coloro che esibiscono orgogliosamente un’appartenenza che è
fonte di integrazione e prestigio sociale, apprezzato dai media, caldeggiato
dai settori più reazionari della politica, tutto volto a consacrare
l’esistente, pur ammantandosi di una certa aura di originalità e issando la
bandiera di un’apparente moralità alternativa. È tipicamente il voto a
sinistra.
Questa classificazione non vuole
essere esaustiva ma semplicemente esibire delle possibilità, che si
intrecciano, si confondono, si scambiano, si oppongono. Come raggi che puntano
al centro, tuttavia, ognuna delle forme accennate concorre a manifestare la
crisi della democrazia e della convivenza civile, cioè di quella articolazione
della convivenza che si è data storicamente nella disciplina della democrazia.
La sua involuzione
oligarchico-plutocratica sembra un processo irreversibile: al suo interno le élites
del denaro, dell’ideologia e della corruzione politica prosperano.
Oggettivamente i programmi dei
partiti ne rimangono contaminati producendo ricette al tempo stesso poco
ambiziose e assai demagogiche: poco ambiziose perché costitutivamente incapaci
di osare il nuovo, demagogiche perché solleticano costantemente i bassi istinti
di quel bestione acefalo che sarebbe il popolo quando fatto oggetto della
prassi opportunistica dei sofisti di questo tempo, prezzolati prestigiatori e
illusionisti del teatro sociale. Costoro finiscono per chiamare l’intera
società a un gioco, ad un rituale vuoto, ad una commedia senza autori e senza
trama in cui, nel rimando all’infinito dei poteri e delle responsabilità e
nella negoziazione segreta degli utili e delle plusvalenze, tutti perdono.
Soggettivamente la questione
rimane aperta, deve rimanere aperta, perché la libera consapevolezza razionale
deve sempre essere in grado di emanciparsi dai meccanismi consolidati della routine
sociale. Noi infatti rimaniamo capaci di pensare, di immaginare, di costruire
modelli, di cercare verità e di mettere in moto nuove, imprevedibili,
divergenti e sediziose catene causali.
Soggettivamente la democrazia può
sostanziare le prassi elettiva - che,
osservava Platone, non è tipicamente democratica - con il sale della virtù.
Democrazia e virtù vanno di pari passo, ma non nel senso datole da Robespierre:
il fanatismo di un’intransigenza occhiuta e criminale che è disposta ai
sacrifici umani per onorare il Dio assetato di sangue del Migliore dei Mondi
Possibili (la virtù che ama lubricamente e si accoppia in indecenti congressi
carnali con il Terrore). No, la virtù democratica andrebbe intesa nel senso di
una capacità di porsi seriamente il problema del destino comune, di una prassi
ragionevole, di un “vicendevole agire secondo concetti” il cui compito costante
è l’elevazione reciproca ad una qualità di vita più alta e più perfetta, cioè,
direbbe Gentile sulla scorta dell’utopia idealistica fichtiana, alla vita dello
spirito e della cultura. Tale virtù renderebbe ciascun componente della
comunità capace di autogoverno e di governo. Il difetto di tale virtù è di
essere tale. Ossia seria, impegnativa, difficile, bella e per certi versi
inarrivabile. Cioè per sua natura cosa di pochi. La democrazia è un asintoto
che all’infinito tocca la perfetta aristocrazia, ma l’asintoto è la precisa e
perfetta utopia. Il cuoco di Lenin non sarà mai capace di governare.
L’inarrivabilità oggettiva però
non implica l’indifferenza soggettiva. La virtù rimane un compito e un obbligo
di ciascuno: essere pronti come se in ogni momento si potesse essere chiamati e
determinare quel destino comune di una vita razionale che è la meta di ogni
prassi sociale. Essere pronti non è uno slogan, è il precetto evangelico nel
quale si sostanzia la virtù democratica la cui formula potrebbe suonare nel
modo seguente: agisci in modo tale che i tuoi fini possano essere in ogni
momento assunti come i fini del tuo popolo.
Lo slogan di Fratelli d’Italia
può quindi essere letto come un’allusione e una via d’accesso alla virtù. Questo
può avvenire dentro una dimensione personale, paradossalmente anche a
prescindere dai programmi, cioè dalla fragile accortezza comunicativa di questo
mondo. A prescindere dagli apparati ideologici costruiti a posteriori su
diverse e a volte inestricabili reti di interessi. A prescindere dalle superficialità
e dagli errori di prospettiva che giocoforza allignano in un gruppo che media le
sue diverse anime non sempre verso l’alto.
Se ciò, malgrado tutto avvenisse,
ci collocheremmo alla soglia del voto critico: occasione e apertura che non
definisce un’identità in modo grossolano e rapsodico, ma rinvia ad un lavoro e
ad un impegno; che è un inizio non un compimento; che è un segno semplice in
cerca di una sostanza complessa; che deve fare appello alla persona e alla sua
integralità. Il suo carattere critico non allude necessariamente né a un
insieme di teorie preconfezionate (i “nostri valori”), né ad un atteggiamento
di protesta, né ad un atto di affidamento consapevole ai meccanismi della
rappresentanza, né all’assunzione critica, cioè dimidiata e parziale degli
scopi del partito (ti voto turandomi il naso, perché mi piaci a metà), ma al
senso originario della parola. Il voto critico è un passaggio, la tappa di un
cammino pratico, l’episodio di una serie articolata che conduce alla fedeltà a
sé stessi e al proprio compito. Una fedeltà che è dunque al tempo stesso
conservatrice in quanto fedeltà e rivoluzionaria in quanto rivolta al futuro di
ciò che si deve realizzare e della vita che si deve costruire.
Il voto a Fratelli d’Italia, del
cui simbolo mi approprio personalmente, mettendovi, con un pizzico di ironia
socratica, alla base un libro, cioè il Mezzo della sapienza d’Occidente, può
essere critico? E questo che noi vorremmo? Sì, è questo.
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