L’idea-guida di Giorgio Agamben
nella sua ultima fatica sullo stato di eccezione appare quella di una definizione
negativa della politica. La politica consisterebbe in una prassi umana volta a
separare due elementi che continuamente tendono ad articolarsi: la violenza e
il diritto. “Veramente politica è quell’azione che recide il nesso fra violenza
e diritto”, un legame che è secondo l’Autore il punto di partenza di un
processo che sta progressivamente trasformando la democrazia in un regime para-autoritario
e guerrafondaio. La trattazione del concetto di stato di eccezione ha precisamente
a che fare con tale deriva. Infatti, esso rappresenta il punto di fusione di
violenza e diritto e al contempo sta diventando vieppiù la regola giuridica
dell’agire delle democrazie che l’Autore chiama ormai “governamentali” (per
distinguerle dalle democrazie, invero più ideali che reali, ove il potere esecutivo
è chiamato a rispettare ben precisi vincoli giuridici a difesa e protezione del
cittadino).
Ma che cosa si intende
specificamente con stato di eccezione? Esso è un dispositivo giuridico che sospende
il diritto in una situazione di emergenza, permettendo di mettere in atto
qualsiasi azione sia utile allo scopo di fronteggiarla con successo. Se ne possono
ritrovare esempi notevoli nella legislazione dell’Europa moderna riguardante lo
stato di assedio, ma anche in quelle costituzioni che hanno previsto,
indipendentemente da situazioni di belligeranza, particolari misure atte a
contenere e reprimere eventi potenzialmente sovversivi dell’ordine costituito. Un
caso classico di realizzazione pratica del concetto di stato di eccezione è
l’articolo 48 della costituzione di Weimar, che prevedeva, quando si fosse presentata
una particolare emergenza politica, la possibilità da parte del presidente del
Reich di attribuire al governo la prerogativa di prendere provvedimenti aventi
forza di legge bypassando il parlamento. Non solo: il governo poteva anche
ignorare le garanzie a difesa del cittadino previste in una serie di articoli
della costituzione la cui validità poteva essere sospesa. Indipendentemente
dall’uso che ne fecero i governi di Weimar ed Hitler stesso, ma anche i loro precursori
nel XIX e XVIII secolo, questa sospensione eccezionale della norma nella
riflessione di molti giuristi, e in particolare di Carl Schmitt, nonostante
instauri effettivamente una zona di anomia, non è senza relazione con il
diritto. Essa fa emergere «in assoluta purezza un elemento formale
specificamente giuridico: la decisione» (Carl Schmitt, Teologia politica,
in Id., Le categorie del politico, trad. it. di P. Schiera, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 39). Detto elemento si pone al confine fra diritto e anomia
proprio nella sua funzione di fondamento della norma a sua volta non fondato su
una norma. Ciò però non elimina del tutto la sostanziale aporia dello stato di
eccezione, che consiste nel fatto che con un dispositivo giuridico si aspira a
mettere in mora il diritto (qui evidentemente interpretato in senso
normativistico), lasciando via libera ad una prassi senza alcuna regola e che
tuttavia pretende ancora di essere giuridica. Tale prassi isolerebbe allora una
forza di legge senza legge, ovvero una vis obligandi sganciata dal
criterio normativo che sta alla base dell’obbligazione, affinché, attraverso la
creazione di una situazione normale oltre l’emergenza, la norma stessa possa
trovare efficace applicazione. Questo tentativo di iscrivere una forza di legge
senza legge, vale a dire una forza tout court, una violenza libera e
sregolata, in un contesto giuridico appare, a un’analisi più approfondita, una
mera finzione.
Esaminando l’origine dello stato
di eccezione nel diritto romano, che lo contemplava nell’istituto del iustitium
(una sospensione temporanea delle leggi e delle procedure vigenti, di fronte a
un’emergenza politica o militare) Agamben giunge alla conclusione che in realtà
in esso, mancando ogni modello legale di riferimento, non vi è più diritto e le
azioni ivi commesse risultano giuridicamente inqualificabili: esse sono «meri
fatti il cui apprezzamento, una volta scaduto il iustitium, dipenderà
dalle circostanze» (p. 65). Si crea dunque con lo stato di eccezione uno spazio
di violenza anomica che con il diritto «non ha alcuna articolazione sostanziale»
(p. 111) e che oggi vale come espediente attraverso cui le democrazie tentano
di emanciparsi dai vincoli legali per affermare un potere in grado di avere, a
partire da una violenza vitalistica, presa diretta sulla vita. Ciò comporta,
per coloro che sono oggetto di una tale prassi di dominio, la sottrazione di
ogni strumento di difesa giuridica della propria persona. Il loro bìos,
la loro vita avente dignità etica e civile, viene allora degradato a pura zoé,
vita biologica, nuda vita, con la conseguente trasformazione del cittadino in
materiale umano disponibile per l’agire autoreferenziale del potere. Ciò è
quanto è avvenuto nei regimi totalitari, che hanno istituito i campi di concentramento,
i quali rappresentano, con l’assoluta mortificazione del diritto e con il puro,
estremo e violento dominio esercitato sulla persona, «lo spazio che si apre
quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (Giorgio Agamben, Homo
sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 188).
Ma le democrazie, appunto, non ne
sono immuni. Già in Homo sacer Agamben aveva notato i sintomi di un
processo di trasformazione del potere democratico in potere governamentale,
cioè tendenzialmente promotore di un’esecutività affrancata dal diritto e
caratterizzata da inquietanti venature biopolitiche. Ora, mostrando l’esempio
delle ultime guerre che hanno coinvolto gli Stati Uniti e di una tra le più
stridenti ingiustizie cui hanno dato luogo il campo di prigionia di Guantanamo,
egli afferma che tale deriva si è ulteriormente consolidata e siamo in presenza
di una fase storica in cui precisamente l’eccezione è diventata la regola. La
conseguenza è che la democrazia così come era stata pensata dalla tradizione
liberale viene svuotata di senso. Ebbene, è proprio l’idea di uno stato di
eccezione, in quanto posto ancora in relazione con il diritto, a mascherare
ideologicamente questo svuotamento, qualificando una prassi violenta e solo governamentale
come ancora legale.
A fronte di ciò Agamben intende
compiere un’opera di demistificazione, che, sulla scorta di Per una critica
della violenza di Walter Benjamin, produca una rescissione del legame
fittizio tra violenza e diritto, dimostrando, principalmente contro Schmitt, la
possibilità teorica e pratica di una violenza pura e, accanto ad essa, di un
diritto puro. La politica si porrebbe tra queste due forze: una violenza
smascherata nella sua catastrofica distruttività, e un diritto cui sarebbe
tolto ogni valore d’uso e quindi ogni possibilità di essere strumentalizzato.
Quest’ultimo diventerebbe allora realmente una “porta per la giustizia”, in
opposizione netta ad una violenza concepita per ciò che veramente è. Tale
operazione di disincanto, effetto di una politicità non priva di una certa
connotazione utopica, permetterebbe secondo Agamben di interrompere il
funzionamento dell’odierna macchina del potere che sta conducendo l’Occidente
verso una guerra civile mondiale.
Così conclude il nostro Autore.
In sede critica non si può non rilevare il grande acume diagnostico che
caratterizza il suo testo, cui è difficile non accordare il proprio consenso
relativamente alla interpretazione dei più recenti fenomeni bellico-politici mediante
il paradigma dell’eccezione. Inoltre, anche alla luce di alcuni suoi testi
precedenti, il tema sviluppato da Agamben del rapporto biopolitico tra potere e
vita appare estremamente ricco di implicazioni e teoreticamente fecondo. Per converso,
la critica a Carl Schmitt, che prende in considerazione principalmente i testi
degli anni Venti (La dittatura e Teologia politica) fa emergere
la concezione essenzialmente normativistica del diritto da parte del filosofo
italiano. Ciò, a parere di chi scrive, è una delle possibili cause dell’estrema
indeterminatezza della pars construens finale del suo testo.
L’eliminazione del legame violenza-diritto non può infatti che considerarsi un
compito utopico, laddove parimenti il significato politico di un diritto
confinato nella pura dimensione del Sollen non può che riguardare una
città che non ha luogo. La dottrina schmittiana è al contrario sempre attenta alla
fattualità concreta del compito dell’ordine politico. Pertanto, ha sì tentato
di inscrivere la violenza nel diritto, correndo il rischio di esporsi a
strumentalizzazioni, ma ciò ha fatto proprio per fuggire a un’opposta deriva, quella
che all’intensificazione dell’aspetto normativo del diritto ha visto corrispondere
il suo scivolamento nella morale e nella tirannia dei valori: modo esemplare
con cui il diritto nega se stesso.
Viceversa, Schmitt ha più volte
sottolineato come la violenza bellica avesse trovato una grande forma di
limitazione e umanizzazione nell’impresa giuridica del razionalismo europeo,
forse grazie proprio al riconoscimento di un nesso violenza-diritto in grado di
porre il secondo nelle condizioni di agire in senso limitativo e lenitivo sulla
prima (jus in bello). Di qui la possibilità della costruzione e della
difesa della categoria di justus hostis: un tema che va esteso ben oltre
il campo del diritto internazionale, perché la sua logica vale altrettanto in
quello interno, sussistendo per entrambi la dimensione originariamente politica
del rapporto amico-nemico e la funzione dell’ordine istituzionale orientata a contenere
il conflitto dentro limiti accettabili. Adottando questo criterio schmittiano è
possibile avanzare un’altra interpretazione di quegli stessi eventi del
panorama politico contemporaneo che ha citato Agamben. Si tratta della
previsione della crescente intensificazione e disumanizzazione della guerra da
attribuirsi alla sempre più arrogante esibizione di una justa causa
(libertà, diritti umani etc.) al fine di scavalcare gli ostacoli giuridico-politici
che si frappongono alle varie strategie dei soggetti di politica interna e
internazionale. Ciò andrebbe eventualmente affiancato al paradigma
dell’eccezionalità di Agamben. Le due interpretazioni non si escludono
necessariamente. Ma la prima ha il pregio di consentire sotto il profilo teoretico
di mantenere le categorie di decisione e di nemico; ovvero un’ermeneutica forte
del fatto politico, capace di opporre alla “macchina letale” del potere non
solo la non-violenza di una petitio principii ma una prassi efficace e
delle significative controforze.
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