"Il dialogo della salute" potrebbe anche intitolarsi: "La bestia, l'uomo, il dio". Infatti, descrive il passaggio attraverso queste tre tappe. La bestia nella sua innocenza ha bisogni, “desidera” e gode di tutto ciò che consente di continuare a vivere, e quindi gode del piacere del presente per poter nuovamente godere nel futuro, trovando in questa catena ininterrotta di bisogno-soddisfazione l’immediata in-consistenza della propria vita senza significato.
L'uomo si accorge,
tramite la ragione, che il piacere-felicità può essere cercato. Però è
lo stesso edonismo di chi invoca il piacere e fugge il dolore a dimostrare la
sua vanità profonda, poiché non può che somigliare all'atto di "guardare
nella propria ombra il proprio profilo": v'è piacere solo laddove vi è
immediatezza, dove si gode nell'incoscienza di godere, perché, laddove si
genera una mediazione consapevole, misteriosamente il piacere diventa "un
iddio pudico" che "fugge da chi li invocò" che "ai piaceri
è nemico" e che "fugge da chi lo cercò". Il piacere, cioè, è
soprattutto una esperienza, è nemico della razionalità che riflette sui fini:
esso non è e non può essere un valore, cioè l'oggetto di una ricerca, nella
fattispecie un valore stabile e l'oggetto di una ricerca non infinita. Sono
grandiose queste pagine che attraversano la tradizione dell'edonismo filosofico
e ne confutano con grande forza i presupposti.
Il terzo passaggio e quello verso il dio,
ossia l'uomo-dio, colui che è persuaso, cioè l’individuo che ha trovato
un senso convincente dell’esistenza, persuasivo come una verità che si
impone improvvisamente, come una condizione di salute che distrugge ogni
finzione e illumina ogni oscurità. La vita consacrata al piacere dissipa se
stessa in un non-valore, ma la vita consta proprio di questa continua
aspirazione a soddisfare bisogni, la vita è schopenhauerianamente volontà, la
volontà di cose determinate che si fingono ricche e piene ma generano solamente
un circolo vizioso, quello che subito si instaura tra il bisogno, la
soddisfazione e un nuovo bisogno. Sembra che tale circolo oltre ad essere
ripetitivo e nichilistico, sia nell'uomo peculiarmente artificiale e falso
perché alla coscienza umana l'esperienza immediata della soddisfazione è negata
alla radice, essendo invece concessa alla bestia incosciente. Che può fare,
dunque, colui che si rende conto di un simile doppio vizio? Può rifiutare la
vita, esprimendo così il desiderio di morte come riposo e negazione del bisogno
… ma si tratta di una negazione che lascia permanere la coscienza. Si cerca la
morte in quanto nella vita si ha l'insopportabile e lacerante coscienza dei
bisogni insoddisfatti. Ma la morte non cancella solo il bisogno, ma anche la
coscienza, lasciando permanere in essa un tragico senso di incompletezza. Il
suicidio così diventa un pensiero con il quale ciascuno si costruisce uno
sfondo falsamente consolatorio, a proprio uso e consumo di fronte alla
frustrazione dell'esistenza. È una porta che ciascuno si lascia aperta ben
sapendo che non conduce da nessuna parte, perché chi muore sa di non essere più,
e sa che "il non-valore della morte non gli vale la speranza del
valore". Anzi nell'invocazione della morte "parla la sua stessa
debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore". Lì, dunque,
si presenta un meccanismo paralogistico in cui è presente, pur dissimulata,
"la volontà di continuare, la pietà commossa di se stessi". Che cosa
resta da fare allora? Niente: nausea per la vita che è e che non è, disincanto
totale per il mondo della volontà. Un niente, però, ricco di significati perché
è la ribellione contro l'insignificanza del vivere. Questo fermarsi, questa
rivolta immobile contro il divenire nichilistico delle cose è la via-non via
della persuasione. "Allora non più invano spererai, non più sarai disperato,
non più invano esulterai e non più avrai da lamentarti: ma il futuro non sarà
più per te e nell'ultimo presente il tuo cuore consisterà [...] Niente da
aspettare / niente da temere / niente da chiedere e tutto da dare / non andare
/ ma permanere / non c'è premio, non c'è posa / la vita è tutta una dura
cosa". Il fermarsi contemplativo e ascetico di fronte alla durezza della
vita è persuasione, il persuadersi di una verità scomoda e tremenda, che
tuttavia è l'unica esistenzialmente autentica.
Michelstaedter
nega che questa possa essere chiamata via, dal momento che consiste
nella negazione di ogni via e di ogni andare che è sempre anche un
inutile vagare. Nondimeno essa pur sempre rimane via in quanto
implica un passaggio, una presa di coscienza, uno sforzo che dovrebbe condurre
dalla naturale vita inautentica e dalla vana ricerca del piacere e della
felicità, a una condizione diversa e superiore. La condizione di partenza è l’inconsistente
e bramosa ricerca del futuro, l’attaccamento irrazionale alla vita (la filopsychia
nell’accezione platonica) che Michelstaedter chiama "rettorica",
perché a somiglianza dell'antica arte oratoria costituisce una trama,
l'intreccio di condizioni, fatti, eventi, desideri, pulsioni che nascondono la
reale consistenza della vita, come la retorica è una trama di argomenti,
parole, immagini, figure che nascondono la reale consistenza della verità.
Siccome la retorica è condizione di partenza di tutti, una sorta di generale Verfallen
(scadimento) esistenziale, si presuppone che persuadersi della verità,
cioè anti-retoricamente consistere, implichi appunto il percorrere una faticosa
strada. Malgrado la sua dimensione puntuale - ci si persuade quando si smette
di volere il futuro e di diluire l'esistenza nei diversi momenti della sua
dialettica del desiderio - la persuasione è una meta, e come tale oggetto di
una peculiare aspirazione. E questa è precisamente l'utopia michelstaedteriana,
un'utopia escatologica che si intuisce nella significativa espressione che
descrive la persuasione come "l'ultimo presente" in cui (si noti il
verbo al futuro) "il cuore consisterà". La persuasione è, quindi, il
desiderio di non più vanamente desiderare, la fame di non avere più fame, la
speranza di non dover più sperare, cioè di un punto fermo in cui "la
volontà si sarà raccolta e avrà fatto di se stessa fiamma", bruciando i
desideri retorici, l’ansia del piacere, la vita sempre in bilico tra essere e
non essere che costituisce il "caso mortale della nostra nascita".
Allora c'è desiderio e desiderio, c'è speranza
e speranza, c'è volontà e volontà: c'è il desiderio retorico del piacere vano,
la speranza di ottenere le cose determinate che esprimono il non senso del
vivere e la volontà che si rapporta gli oggetti per ribadire il circolo vizioso
del bisogno, ma c'è anche il desiderio di autenticità, la volontà di verità, la
speranza di una definitività che smetta di rimandare ad altro. Chiamerei la prima
fattispecie "desiderio", per indicare una brama morbosa e
inconcludente, del tutto naturalistica e quasi animale, un eros
inesausto che alberga nella pulsione verso il piacere e non domanda il
significato; la categoria di "speranza", credo viceversa che possa propriamente
rendere la qualità ultima, dunque escatologica della tensione ascetica verso la
verità nuda, disincantata e abissale a cui Michelstaedter si riferisce. Egli
per nulla indulge alla speranza volgare nella folle illusione di una pienezza
felice, ben sapendo che la vita si decide dove nulla di ciò che si vuole
accade, dove però tutto è vero e il nuomeno di sé e del modo si spalanca
violento e possente a chi ha la forza di guardarlo. Solo questo può accadere di
buono, perciò io ancora questo chiamerei speranza e con un certo azzardo anche
felicità.
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