Lorenzo, antiquario veneziano,
trapiantato nella capitale lombarda, traccia in un diario intimo i contorni
della sua esistenza spirituale. La donna che ha amato e quella che ama si
manifestano come centri di significato e poli simbolici di un cammino di
formazione. La donna del presente è figura etica della famiglia e della
responsabilità, quella del passato richiama il mondo estetico dell’inquietudine
e della convinzione. Il due universi si incontrano per caso quando il figlio di
Barbara, che ha ormai trovato in Lorenzo un punto di riferimento dopo la morte
del padre, rischia a sua volta di morire per un grave incidente di moto. Nel
periodo drammatico della sua ospedalizzazione giunge un messaggio di Gloria,
l’antica fidanzata, rifugiata a Parigi dopo una lunga militanza nelle file
della destra radicale e una pericolosa contiguità con la lotta armata. Questioni
irrisolte di un passato burrascoso tra il Sessantotto e gli anni Settanta sono
tornate a galla e l’hanno condotta in carcere. Di lì, dopo decenni di silenzio,
fa pervenire a Lorenzo la sua richiesta di aiuto. Anche per Lorenzo un passato
non privo di angoscia, benché intenso di vita, sentimenti e bellezza, tornando,
impone le sue condizioni e i suoi dilemmi, in un momento già complicato e
problematico. Parigi, tuttavia, riserverà sorprese e imprevisti, nuove svolte e
nuove riconciliazioni nella trama esistenziale del protagonista. Lì si
risolvono nel più classico dei riconoscimenti le sedimentazioni di un’anima
nascosta che il racconto ci manifesta nelle due relazioni decisive della sua
vita: quella adulta e disincantata con Barbara e quella giovanile e utopica con
Gloria. Sempre di ritorni si tratta: il ritorno alle radici di sé in un amore
complesso dove solo Barbara può sollevare con una nuova e serena bellezza il
peso dell’irrisolto passato di Lorenzo; il ritorno alle radici del dramma della
possibilità e dell’incertezza che Gloria resuscita con l’evocazione di una
gioventù condotta sul filo delle sue sollecitazioni a un’impossibile radicalità
rivoluzionaria.
Questo in fondo diventa il
problema di Lorenzo e qui l’interiorità incappa nella politica. Ma ciò avviene
sulla scia di un’altra precedente e fondamentale esperienza: l’incontro con
Antonello, un giovane e tormentato aristocratico che lo introduce al pensiero
reazionario e anticonformista dell’Otto-Novecento: “Presi i libri poggiandoli
sulle ginocchia, lessi autori e titoli a voce alta: Oswald Spengler, Il
tramonto dell’occidente; Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra;
Ernst Jünger,
Il trattato del ribelle; Martin Heidegger, Ormai solo un Dio ci può
salvare; Rene Guénon […], La
crisi del mondo moderno […] Julius Evola, Cavalcare la tigre…” (p.
85). Antonello è il negativo di Gloria: l’elitismo ritirato e sdegnoso di chi,
consapevole del ciclo destinale della civiltà, opta per la coltivazione del Sé,
per “restare in piedi in un mondo di rovine”, a fronte del gusto attivistico
per l’azione sociale della ragazza che abbraccia, si badi bene, non il distaccato
e impolitico agire senza agire di evoliana memoria, ma un engagement
militante, giacobino, sindacale e soreliano. Lorenzo rimane imbrigliato nel dilemma.
Egli risulta trasformato dalle
sue letture e mi piace pensare che lo sia in particolare, come lo fu chi
scrive, dalla Crisi del mondo moderno, vero libro-dinamite che distrugge
la totalità moderna adombrando l’opposta e irriducibile totalità della
Tradizione. Ma fuori da una comprensione militante, come fu la mia, l’esito non
poteva che essere la resa all’irresistibile fascino dell’apolitia, cui già Antonello
si era definitivamente consegnato. È una “distanza interiore e irrevocabile da
questa società e dai suoi ‘valori’, è il non accettare di restare legati ad
essa per un qualche vincolo spirituale e morale” (J. Evola, Cavalcare la
tigre, Scheiwiller, Milano, 1971, p. 175). Infatti “nell’attuale situazione
politica, in clima di ‘democrazia’ e di ‘socialismo’, le condizioni obbligate
del gioco sono tali che l’uomo in quistione (l’uomo tradizionale, n.d.r.) non
può assolutamente prendervi parte” (ivi, p. 174).
Lorenzo sembra acquisire dall’amico
– che muore prematuramente lasciando il campo libero allo stendardo
della fidanzata - questo fondamentale atteggiamento. L’incontro-scontro con l’amata
Gloria è inevitabile. Da un lato li accomuna la medesima opposizione alla
modernità nel suo complesso, dall’altro li divide la seduzione irresistibile
non, come detto, dell’azione distaccata e impersonale, ma della militanza
politica fatta di strategia e dell’inevitabile e tragico rapporto mezzi-fini.
Il tutto accade nel clima surriscaldato del Sessantotto. Lo scatenarsi di una passione
politica universale e generazionale non può che segnare lo spazio di una
divergenza che si fa più grande man mano che l’esperienza militante di Gloria
nelle organizzazioni della destra radicale si fa più coinvolgente e
totalizzante.
Ma noi non vediamo il cuore di
Gloria. Ci è aperto, bensì, quello di Lorenzo. Egli è pure il narratore e
mantiene la libertà di dischiudere la propria prima persona che è tanto intensa
da decolorare e sfumare le linee della realtà storica. I suoi tratti finiscono
per disperdersi lungo il racconto in accenni di una rapsodia esterna che offre
solo la cadenza, ma non determina i fatti, del tutto o quasi trasfigurati dalla
dimensione interiore.
Vi sono in particolare alcuni
elementi decisamente stranianti: lo svolgersi delle riunioni semi-cospirative di
studenti di destra a casa di Gloria appare modellato sul paradigma delle più
note consuetudini dei loro coetanei di sinistra, sin dal termine con cui viene
indicato il gruppo politico di riferimento: il Collettivo (un nucleo di destra
mai avrebbe usato questa designazione). Allo stesso modo la mancanza di un
dibattito sul fascismo risulta singolarmente irrealistica. Le animate discussioni
nel Collettivo passano dalla dimensione culturale a quella politica. L’attualità
è presente, come pure il tentativo di leggerla mediante i principi delineati
dai maestri della tradizione di destra. Ma il problema dei problemi non compare
mai, se non nelle vesti di un convitato di pietra: l’ingiusta accusa per cui
gli altri “ci dicono che siamo fascisti”.
Anche questa è una pellicola in
bianco e nero, espressione di una narrazione interiore costretta dalle proprie
telecamere a sopprimere l’intensità dei contrasti. Ma, nella sovrapposizione
dell’io narrante e di quello autorale, ciò si può comprendere. Forse qui agisce
l’eco di uno sguardo benevolo su un mondo estraneo. Forse a parlare è colui che
nel 1974 scriveva su Ernst Bloch un testo intitolato Utopia e speranza nel
comunismo, mostrando l’inclinazione a uscire dalle ortodossie e a scavalcare
le loro cortine di ferro. Ma la benevolenza di Zecchi/Lorenzo non può che
giungere alle soglie del campo ancor oggi minato del fascismo. Di qui l’intento
di urbanizzare la gigantomachia attorno fascismo stesso che si consumava negli
ambienti del radicalismo missino ed extraparlamentare, dalla quale si sarebbe
consolidata, sopravvivendo fino ai giorni nostri, l’antica distanza tra regime
e movimento, tra la destra borghese che parassita l’esperienza mussoliniana,
rimanendone suo malgrado invischiata e contaminata, e l’orientamento
rivoluzionario conservatore, a suo volta diviso fra tradizione elitista e
sperimentazione mazziniana e socialista.
Gloria e Lorenzo sembra si
dibattano entro quest’ultima alternativa che in interiore homine viene
vissuta nello scontro fra la tentazione apolitica di lui e quella politica di
lei… ossia tra l’uomo che mediante la bellezza intende guadagnare un centro di
gravità permanente della vita non solo spirituale ma anche sentimentale, e la
donna che chiede alla trasformazione del mondo ciò che alla trasformazione del
Sé manca quanto a universalità intersoggettiva, comunitaria, epocale e cosmica.
Il riconoscimento da parte di
Gloria del sostanziale fallimento di tale seconda opzione va di pari passo con
la piena comprensione del proprio percorso individuale da parte di Lorenzo. L’esito
non è simmetrico. Ci sono vincitori e vinti…e il vincitore riceve infine l’avallo
della nuova e dell’antica fidanzata. Non manca però un fil rouge di
malinconia dentro il complesso cammino dell’antiquario veneziano – che più che
vincere “se la cava” - , forse in ragione di ciò che la storia ha negato all’anima:
la possibilità di specchiarsi in un mondo diverso, che è la via che tentò quel
Sessantotto di destra un po’ irreale e colto tuttavia nel romanzo con occhi
veritieri, delicati e quasi affettuosi.
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