Ringrazio Fabrizio Fratus per aver organizzato questo incontro nella sede milanese di Fratelli d'Italia, promuovendo un'occasione graditissima e salutare di confronto e approfondimento culturale. Presento qui sotto il testo cui il mio intervento ha dato origine.
INTRODUZIONE:
LA FLUIDITÀ DELLE CATEGORIE POLITICHE
Ciò
emerge in modo particolare quando si tratta di affrontare concetti che, per il
loro uso frequente nel dibattito pubblico, esasperano la loro vaghezza, giacché
le sfumature che comprendono si allargano proporzionalmente alla quantità di
persone che li utilizzano a partire dalla propria esperienza e pre-comprensione
del mondo.
Quello
che di conseguenza io vado a tentare nelle righe seguenti è solo l'abbozzo di
un ritratto che, cercando la migliore aderenza al suo modello reale, è
condannato ad una certa insuperabile opinabilità, difetto che si può accettare
solo ammettendo che, laddove esista un sapere opinabile, vi è anche spazio
maggiore per la libera critica e il libero approfondimento.
"Conservatorismo"
un termine che designa un tema politico di particolare rilevanza nella
tradizione anglosassone. Esso allude alla classica contrapposizione tra Tories
e Wighs, cioè tra partigiani del re e partigiani del parlamento nel Seicento,
alternativa che nella storia successiva ha anche contemplato tipici
"connubi", a partire dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688, in cui
tutti si sono trovati uniti contro Giacomo II.
Nell'Europa
continentale, che più ci riguarda, il conservatorismo, come indirizzo politico
organizzato, si mostra nella Francia rivoluzionaria, dove se ne possono rintracciare
due forme peculiari:
1)
un conservatorismo radicale che contesta complessivamente la rivoluzione del
1789, sia nei suoi esiti monarchico-costituzionali (1791), sia nei suoi esiti
democratico-giacobini (1793). Da qui viene la tradizione della destra comunemente
definita reazionaria (De Maistre, Donoso Cortés nel campo della
riflessione ideologica e filosofica, i Vandeani, i Carlisti, i Cristeros sotto
il profilo dei movimenti politici e della prassi storica);
2)
un conservatorismo moderato e vuole mantenere i "progressi" del
costituzionalismo, ma evitare ogni "avventura" democratica. Da qui l’orientamento
liberale con il quale lo qualificheremo da adesso in avanti (riguardo a
tale indirizzo politico potrai fare i nomi di Locke, che certamente non nasce
conservatore ma che dai conservatori ampiamente utilizzato, Montesquieu, Croce
nel campo ideologico-filosofico; La Fayette, Talleyrand, Guizot, Cavour nel
campo pratico-politico).
Naturalmente nemmeno qui si tratta di una
contrapposizione da intendersi in modo rigido. Pensiamo solamente alla
riflessione di enorme importanza condotta da Edmund Burke sulla rivoluzione
francese: una critica di assoluto valore reazionario avanzata da un liberale wigh
che centra la sua argomentazione sulla cosiddetta "saggezza dei
secoli", ossia sul valore intrinseco di ciò che nell'esperienza storica è
stato selezionato come la migliore e più efficace forma di convivenza civile e
di gestione del potere, la monarchia[1].
Pensiamo altresì agli intrecci tra liberalismo conservatore e conservatorismo
radicale in autori più contemporanei come Eric Voegelin e Leo Strauss quando
criticano il fanatismo apocalittico rivoluzionario, il suo utopismo
irrealistico, e le conseguenze violente alle quali conducono le ambizioni degli
entusiasti di ogni epoca nel voler rinnovare dalle fondamenta e a tutti i costi
il mondo secondo il criterio: "Se i fatti ci danno torto tanto peggio per
i fatti". Questi studiosi stigmatizzano come forme inaccettabili di
totalitarismo tutti gli esperimenti antiliberali del Novecento, di “destra”
come di “sinistra”, e tuttavia sviluppano dottrine che, cogliendo alla radice
le derive della cultura progressista e rivoluzionaria, costituiscono un'ottima
base di riflessione per un conservatorismo consequenziale, radicale e altresì
critico nei confronti del liberalismo
Nondimeno
esistono anche ragioni cogenti per distinguere nettamente le due famiglie. Tra
i tanti fattori in gioco possiamo sottolinearne tre.
A)
La questione metafisica e/o religiosa.
-Il
conservatorismo liberale è tendenzialmente agnostico[2] e
accetta l'idea che il potere politico debba essere legittimato dal basso. Il
potere viene consegnato alle élites dal popolo, inteso come le classi
economiche emergenti, e viene esercitato in loro nome e a loro vantaggio, visto
che l'utile della borghesia, cioè della classe che porta progresso e sviluppo,
diventerà alla lunga l'utile di tutta la società.
-Il
conservatorismo radicale è metafisico e religioso (nell'Europa continentale
soprattutto, ma non solo, cristiano-cattolico) e ritiene che il potere sia
legittimato dall'alto, cioè da Dio ("non est auctoritas nisi a Deo",
Rm 13,1). Il potere è consegnato alle élites da Dio (anche "per
popolum"[3]) e a Dio
deve rendere conto in ultima istanza. Di conseguenza l'assolutismo monarchico è
costitutivamente limitato anche quando sulla carta può agire proprio
arbitrio. Donoso Cortés osserva: "Possiede
la verità politica chi conosce le leggi alle quali sono soggetti i governi;
possiede la verità sociale chi conosce le leggi che governano le società umane;
conosce queste leggi chi conosce Dio, e conosce Dio chi ascolta quel che lui
dice di sé medesimo e crede in ciò che ascolta. La teologia è la scienza che ha
per oggetto queste affermazioni. Ne segue che ogni affermazione concernente la
società o il governo presuppone un'affermazione relativa a Dio, per cui ogni
verità politica o sociale inventa necessariamente una verità teologica”[4].
Tale fondazione teologica della politica ha due conseguenze: da un lato libera
il potere dalle preoccupazioni liberali relative a un suo supposto abuso,
proponendo uno sfondo mediante il quale gli atti sovrani possono essere
valutati e compresi, fatti salvi ovviamente gli arcana imperii (questi
alludono agli strumenti per la salvezza dello Stato e della comunità che sono
accessibile solo dal punto di vista del potere stesso[5]).
Dall’altro preserva la politica dall’attacco concentrico della ragion di Stato
– che ne farebbe un gioco autoreferenziale – e della rappresentanza di
interessi che la sottometterebbe alla dimensione economica. Infine, la teologia
diventa un criterio euristico, perché consentirebbe di estrarre da una certa
prassi storico sociale i contenuti essenziali, chiarificandoli fino
all’assoluto, dimodoché se ne possano leggere i caratteri mediante la lente di
ingrandimento metafisica e teologica in modo molto più chiaro e netto (ammesso
che i processi di generalizzazione ed estrazione dell’essenza siano condotti
con la dovuta prudenza e con l’ausilio di un metodo storico-critico raffinato[6]).
B)
La questione istituzionale
-
Il conservatorismo liberale è costituzionale, monarchico o repubblicano, cioè esprime
la necessità che ogni comunità politica si doti di una legge fondamentale che
rappresenta il criterio di ogni futuro atto del potere legislativo e di ogni
futuro comportamento degli organi esecutivi e giuridici. La carta fondamentale
è pensata come strumento oggettivo che garantisce i cittadini da ogni forma di
arbitrio del potere. In essa viene istituita a tal fine la separazione dei tre
poteri così come teorizzato da Locke e da Montesquieu[7] e
realizzato prima in Inghilterra, poi negli Stati Uniti e nell'Europa
continentale.
-Il
conservatorismo radicale è monarchico assoluto. Lo è almeno nella sua origine.
Quando tale forma di potere ha mostrato di non essere più adeguata ai tempi, i
conservatori radicali hanno elaborato dottrine che accoglievano forme
istituzionali diverse. La nota distintiva rimaneva tuttavia quella che il
potere doveva essere legittimato dall'alto, quantomeno da una tradizione che facesse
riferimento a valori e statuti etico-spirituali; in secondo luogo, doveva
essere risolutamente evitato quell’atteggiamento di rifiuto del potere che,
lungi da pensare alle forme del suo migliore esercizio, tendeva a considerarlo
un fattore di disturbo della normale vita della società, in particolare della
sua vita economica. Assolutezza del potere in questo senso vuol dire libertà da
vincoli e lacci che, se nella prospettiva liberale costituivano altrettante
garanzie nei confronti del cittadino, in quella tradizionale rappresentavano e
rappresentano altrettanti impedimenti alla realizzazione del bene comune.
C)
La questione sociale
-
Il conservatorismo liberale, da Cavour alla Thatcher, non ha alcuna sensibilità
sociale: l'uguaglianza formale dei cittadini è semplicemente lo strumento per
combattere le vecchie élites aristocratiche. Per il resto, in uguali
condizioni formali, ci si attende di più abbienti - cioè i migliori - guidino
la società. La miseria delle masse è il prezzo da pagare per lo sviluppo
economico che solo escatologicamente arricchirà tutta la società e la libererà
dal bisogno. Dice l'anarco-liberale Murray Rothbard:"In una società
libertaria la crescita economica sarebbe rapida, perché lo Stato non la
fermerebbe più con i suoi prelevamenti e le sue regolamentazioni: i poveri
sarebbero quindi molto meno numerosi. E la carità verrebbe riabilitata perché
non dovrebbe più essere delegata allo Stato. Nello Stato libertario rinascerebbero
sentimenti di solidarietà e aiuto reciproco”[8].
Il meccanismo dovrebbe essere il seguente: abbassare le tasse ai ricchi per
creare ulteriore ricchezza della quale, per effetto di
"sgocciolamento" (trickle down economy[9])
beneficerebbero anche i poveri. Ogni ulteriore forma di welfare dovrebbe
essere demandata alla carità privata che, magicamente e paradossalmente,
sorgerebbe dalla libertà degli attori economici di perseguire i propri
interessi senza alcun vincolo, guidati esclusivamente da considerazioni di
mercato. Dunque, una società di privati dove il valore fondamentale diverrebbe
la massimizzazione del profitto individuale, proprio per questo aprirebbe le
porte alla solidarietà. Come dire: la libertà dei lupi finirebbe per
avvantaggiare gli agnelli.
- Il conservatorismo radicale recupera il sociale attraverso il cristianesimo. Il conservatorismo radicale può così essere popolare. La solidarietà interclassista tra signori e contadini, questo mistero grande per tutti i democratici e i socialisti che per consolarsi si sono inventati la bufala della cosiddetta servitù volontaria, è sempre mediata dalla pietà cristiana e dalla comune appartenenza alla Chiesa. Non si tratta qui di costruire una visione irrealistica dei rapporti sociali. Non si tratta di tacere l'oppressione del ricco nei confronti del povero come tentazione costante della storia umana. Si tratta, al contrario di promuovere uno sguardo realistico che riconduca alle sue radici ideologiche ed etiche ciò che viceversa è sempre stato sbrigativamente e poco scientificamente derubricato nella facile e consolatoria categoria di "paternalismo". Il paternalismo dei ricchi nei confronti dei poveri come liberalità che in ultima istanza si fondava sull'immobilità dei rapporti di dominio, trovava un potente antidoto ideologico nel messaggio evangelico e nella forma radicale in cui, contro le logiche del mondo, era stata valorizzata dai cristiani "Madonna povertà". Ciò fino al punto di arrivare a mettere in crisi gli stessi criteri etici signorili, e a far paradossalmente incontrare le categorie di "povertà" e "nobiltà". Se questo è lo sfondo della società euro-occidentale, si comprende come al momento della recisione del filo rosso della tradizione cristiana, settori importanti delle masse contadine e proletarie si siano trovati spesso e volentieri dalla stessa parte dei loro presunti oppressori per combattere i loro presunti liberatori.
IL
CONSERVATORISMO LIBERALE
Naturalmente
i liberali, garantiti i propri interessi, profondono il più ampio ottimismo
circa le sorti della società civile: "In tutte le società tollerabilmente
costituite, la giustizia e l'interesse generale dell'umanità sono quasi sempre
separati; qualcuno è interessato a ciò che è sbagliato; qualcuno anche ha il
suo privato interesse dalla parte di ciò che è giusto. Coloro che sono guidati
da alte considerazioni, benché pochi e deboli per prevalere contro tutti gli
altri, usualmente dopo una sufficiente discussione diventano abbastanza forti
per volgere la bilancia a favore della corporazione privata che sta dalla loro
stessa parte. Il sistema rappresentativo dovrebbe essere costituito per
mantenere questo stato di cose"[11].
La vita sociale, e quella politica come suo riflesso, dovrebbe essere
costituita da una serie interminabile di compromessi e negoziazioni, che per
loro proprietà intrinseca, determinata in modo apodittico, consentirebbe il
prevalere della ragione e della “parte giusta”, proprio grazie composizione
“razionale” dei diversi interessi e all’esclusione di quelli illegittimi.
In
realtà, come assodato dall'esperienza plurisecolare della disciplina retorica,
i discorsi che non siano guidati da una specifica consapevolezza etica e da una
speciale ingiunzione collaborativa che escluda ogni forma di filonichia
(amore per la vittoria nella tenzone retorica), fatalmente scadono nella
ricerca dell'artificio argomentativo più convincente, non sotto il profilo
della razionalità e della conoscenza, ma sotto quello tutto estetico e
superficiale del fascino, dell'attrattiva e della perizia carismatica e
comunicativa.
Per
questo motivo il regime della discussione e il trionfo della clasa
discutidora, come la chiamava Donoso Cortés, preludono a quello scadimento
spirituale cui testé si è accennato e che lo stesso Donoso così ci rappresenta:
"La scuola liberale domina soltanto quando la società vacilla; il periodo
della sua supremazia è quello passeggero e fugace in cui il mondo non sa
decidersi né per Barabba né per Gesù, sospeso tra un'affermazione dogmatica e
una negazione suprema. La società si lascia allora guidare di buon grado da una
scuola che non dice mai affermo o nego, ma che in ogni situazione
usa la parola distinguo. Principale interesse del liberalismo è di non
arrivare mai al giorno delle negazioni radicali o delle affermazioni sovrane; e
affinché esso non arrivi, servendosi della discussione confonde i principi e
diffonde lo scetticismo, poiché sa bene che un popolo che ascolta continuamente
dalla bocca dei suoi sofisti il pro e il contro di tutto finisce
col non saper più a che cosa credere e col domandarsi se la verità e l'errore,
il giusto e ingiusto, l'onestà e l'infamia siano cose tra loro contrarie ovvero
siano una stessa cosa osservata da punti di vista diversi. Ma - aggiunge
Donoso, anch'egli con una certa dose di ottimismo, in lui cristianamente
fondata - un periodo così angoscioso, per molto che possa durare, è sempre
breve. L'uomo è nato per agire e la discussione perenne è contraria alla natura
umana, giacché è nemica delle opere. Verrà un giorno in cui i popoli, sospinti
dalla loro indole più violenta, invaderanno le strade e le piazze per chiedere
risolutamente Barabba o Cristo, abbattendo nella polvere le cattedre dei
sofisti”[12]
Fino
ad allora, nondimeno, il liberalismo, mentre continuerà a produrre alienazione
materiale, non potrà fare a meno di generarne anche una spirituale. Alla
miseria economica dei più si aggiungerà una particolare degenerazione del
dibattito politico indirizzato senza rimedio da maghi e illusionisti della
parola nelle sabbie mobili dell'ignavia, della vuotezza, dell'inconcludenza e
della falsità. Questo accadrà fino ai giorni nostri, a prescindere dalle
ibridazioni con cui il liberalismo nel corso della sua storia avrà ceduto parte
delle sue prerogative per meticciarsi con le dottrine democratiche e
socialiste. Per loro mezzo avrà ottenuto
a)
l'effetto di esternalizzare la miseria e, mediante la sua componente
socialista, promuovere sistematicamente l'ottundimento edonistico delle masse;
b)
l'effetto di promuovere attraverso la propria componente democratica una
selezione delle élites mediante il suffragio universale. Per suo mezzo,
malgrado la retorica della virtù popolare, le élites stesse diventeranno
non la guida ma lo specchio dei vizi delle masse che esse, ci avverte Platone
nella Repubblica, sollecitano e seducono come quando si ammaestrano
bestioni senza ragione[13].
c) La componente originariamente liberale, ben difesa da una cintura retorica di argomenti democratici e socialisti ad hoc, potrà tranquillamente diventare l'articolazione multinazionale del sistema produttivo che si autonomizza dal potere politico il quale, dal canto suo, risulterà sempre più debole, prigioniero di un sistema interno e internazionale di vincoli, pesi e contrappesi orientati a escludere il politico dalla vita civile dei popoli per sostituirlo con il primato indiscusso dell'economico. Attorno a questi ambito si eserciterà il meglio della retorica liberale, sotterfugio dialettico di esperti pronti a chiedere sacrifici a tutti per preservare il sistema e i propri privilegi, che in una dialettica falsa e confusionaria fatta di asserzioni senza fondamento e di fondamenti impresentabili e indifendibili, lascerà emergere dalla leggerezza di una verità evaporata il peso naturale degli interessi più opachi, oscuri e incrostati.
IL
CONSERVATORISMO RADICALE, LA SUA METAFISICA E LA SUA FILOSOFIA DELLA STORIA
La prospettiva conservatrice è compatibile con
il cristianesimo che considera Dio come il “Signore della storia”? Questa
domanda non è peregrina, perché la dimensione religiosa è strutturalmente
connessa all’orientamento conservatore, e in Europa, benché non tutti i
conservatori radicali la pensino nello stesso modo, il cristianesimo ha un
ruolo assolutamente dominante. Ebbene vi sono qui due possibilità. La prima
consiste nella secolarizzazione del principio teologico della signoria di Dio
sulla Storia che conduce direttamente dall’ottimismo escatologico (il mondo è
destinato ad essere redento dalla finale parousia del Cristo)
all’ottimismo progressista (la storia cammina verso una redenzione), laddove il
processo di secolarizzazione via via tende a sostituire la chiusura
trascendente dello sviluppo storico con una immanente, passando
dall’escatologia all’utopia … cioè dalla fondazione soprannaturale del Regno di
Dio all’idea che il regno finale possa essere l’esito di un processo storico di
autoredenzione dell’uomo orientato a costruire la città terrena come luogo
ultimo della definitiva emancipazione e felicità. È questa la prospettiva che
va da Gioacchino da Fiore a Marx. La seconda possibilità è quella che vede
agire nella storia il peccato. Lowith così sintetizza la riflessione di Orosio:
“Considerata sotto la prospettiva del peccato originale, tutta la storia umana,
sia quella di Babilonia, sia quella di Roma, è essenzialmente la stessa.
Infatti, qualsiasi cosa venga costruita dalle mani degli uomini nel corso del
tempo decade e trova la sua fine”[17].
Il cristianesimo è molto pessimista quando vede lo sviluppo storico sub
specie peccati. La storia si allontana dal suo centro, che è e deve essere
Cristo. Ciò è possibile in virtù della libertà umana: “’Storicità vuol dire che
la volontà dell’uomo è libera ed è libera non soltanto per ciò che è
irrilevante, banale o accessorio, ma anche per ciò che è importante anzi
perfino per ciò che ha valore di decisione circa il senso supremo
dell’esistenza … presuppone cioè la possibilità di decidersi per Dio o contro
Dio’ La libertà caratterizza l’essenza della storia e ne fa il luogo
paradossale in cui l’uomo può assumere la tragica illusoria pretesa prometeica
di escludere Dio dal proprio orizzonte vitale”[18]. Proprio
a partire dalla consapevolezza di una libertà che tragicamente fallisce nella
storia e ne determina un decorso infausto, nel medioevo ogni progresso è
concepito come un altrettanto libero – ma di una libertà attivata dalla grazia
- ritorno alle origini e la Chiesa è ritenuta semper reformanda con lo
sguardo al suo inizio, descritto negli Atti degli Apostoli[19].
Addirittura, il compimento escatologico può essere visto come una restaurazione
della condizione edenica, in cui la fine riproduce e perfeziona l’inizio,
ritornandovi. E allora non può essere considerata un’eccezione la riflessione
di Plinio Correa De Oliveira sul processo “rivoluzionario” che ha
caratterizzato l’età moderna, come progressivo allontanamento dalla forma più
compiuta di civiltà cristiana che la storia abbia conosciuto: il medioevo
europeo. Dentro quale dimensione antropologica ha potuto determinarsi il processo
storico della rivoluzione? Il peccato, certamente, nella sua forma più
manifesta dell’orgoglio e della sensualità: “Due nozioni concepite come valori
metafisici esprimono adeguatamente lo spirito della Rivoluzione: uguaglianza
assoluta, libertà completa. E due sono le passioni che più la servono:
l’orgoglio e la sensualità. Poiché facciamo riferimento alle passioni, dobbiamo
chiarire il significato che diamo al termine in questo saggio. Per maggior
brevità, conformandoci all’uso di diversi autori spirituali, tutte le volte che
parliamo delle passioni come fautrici della Rivoluzione ci riferiamo alle
passioni disordinate. E, in accordo con il linguaggio corrente, includiamo
nelle passioni disordinate tutti gli impulsi al peccato esistenti nell’uomo in
conseguenza della triplice concupiscenza: quella della carne, quella degli
occhi e la superbia della vita”[20].
Queste
brevi osservazioni non hanno avuto difficoltà a rintracciare una filosofia
della storia come caduta, regresso e allontanamento da un principio,
all’interno della riflessione cristiana[21].
C’è nel conservatorismo un particolare pathos del “tramonto”[22].
Ma, d’altro canto non manca affatto la dimensione della speranza: coloro che vi
accedono da un punto di vista diremmo “classico”, religioso ma non cristiano,
confidano in uno sviluppo dei cicli storici[23]
che consenta una palingenesi della società, fatta salva per l’individuo
l’opzione di un cammino personale di ritorno ai valori incorrotti dello
spirito, pur dentro il contesto della decadenza della propria civiltà[24].
Chi assume un punto di vista cristiano, propende invece per un atteggiamento che
J. De Maistre magistralmente riassume: “Poiché l’uomo agisce, egli crede di
agire soltanto, e poiché ha coscienza della sua libertà, dimentica la sua
dipendenza […]. L’uomo è senza ombra dubbio intelligente, libero, sublime,
tuttavia non è che uno “strumento di Dio” […]’. L’uomo ‘agisce’, cioè fa la
storia; ma la sua azione, che deriva dalla sua natura umana così costituita da
Dio, pur essendo di fatto libera, è sostanzialmente, ontologicamente,
dipendente sempre e comunque da Dio – anche quando si ribella a Dio, perché è
una ribellione solo formale, non può essere sostanziale. Dio è presente nella
storia, e la Sua presenza è la Provvidenza; e in quanto Creatore, è più
presente nella storia di quanto lo siano le creature, in quanto questo sono
dipendenti nel loro stesso essere da Lui. Ergo: la libertà dell’Uomo che fa la
storia è dipendente dalla Provvidenza, che orienta necessariamente tutto verso
il Bene perché è il Bene – così che la storia dell’Umanità, nonostante le sue
convulsioni, nonostante le sue perversioni, le sue sciagure, i suoi lutti,
nonostante insomma tutto il male in essa presente, si risolverà infine nel
trionfo del Bene”[25].
Possiamo dire che una filosofia della storia conservatrice mantenga un
carattere complesso, dato dalla costitutiva ambiguità della libertà umana e dal
rifiuto conseguente di ogni forma di determinismo, senza rinunciare a valutare
criticamente e in modo assolutamente disincantato il corso degli eventi.
LEOPOLDO
MARECHAL
Per
Marechal ai periodi originari di integrità/espansione, prosperità corrisponde
quello che egli chiama l’uomo d’azione;
ai periodi di decadenza e dissoluzione corrisponde l’uomo del tradimento e, infine, dentro il parossismo della
dissoluzione nasce e cresce un altro tipo umano: l’uomo della riparazione. Il tutto risulta incarnato nella storia
argentina, anzi nella storia di una famiglia. Nella sua Divina Commedia
nazionale, il romanzo Adán Buenosaires,
che per una buona parte è dedicato a un viaggio ultraterreno del tutto simile a
quello dantesco, il protagonista incontra nel quinto girone del suo inferno,
rinominato Cacodelphia, la città dei fratelli cattivi, un tipico
rappresentante della borghesia rapace e affaristica del suo paese, che vive di business
e corruzione e che, occupato il suo posto nella burocrazia statale, svende ogni
giorno la patria a ricchi e potenti stranieri. Questo “personaggio” ricorda la
sua vita terrena e anzi le sue vicende familiari, ricostruendo la parabola
discendente che in tre generazioni aveva trasformato una casa di eroi
dell’indipendenza, esploratori e colonizzatori di terre, con l’animo nobile di
coloro che lavorano alla costruzione di una patria grande, degna e generosa con
i suoi uomini, in professionisti borghesi, urbanizzati e corrotti, intenti solo
a sfruttare le occasioni per arricchirsi a spese della propria comunità. Ma uno
dei figli dell’ultima generazione si ribella e vuole scrivere un Canto del
sangue, che almeno letterariamente nel ricostruire la storia della
famiglia, insiste sui valori originari per ripristinare la condizione etica perduta.
Il destino di questo ragazzo sarà quello dell’esilio: non una cacciata né una
fuga, ma la salvezza in terra europea – forse quella dell’origine – dalla marea
montante della dissoluzione. Forse la riparazione rimarrà un progetto
letterario, destinato ad una realizzazione escatologica in una Calidelphia
(città dei fratelli buoni) futura. Ma quello che conta è che almeno uno, nella
corruzione generale, non si sarà abbandonato alla corrente nefasta del
tradimento, trovando nella letteratura e nella poesia la forza per abbozzare un
contromovimento[28].
Forse è la storia dello stesso poeta Marechal, più fortunato, perché
l’occasione di vivere un momento di riparazione nazionale gli fu data e fu da
lui vissuta da vero protagonista nella pur breve stagione di Perón.
Nella
direzione generalizzatrice e simbolica imboccata suggerita dallo stesso autore
e seguita da Roy Williams[29], e in accordo con la
visione filosofico storica di Marechal, potremmo rivedere sotto il profilo
macrostorico questa storia familiare, che è già storia patria, per alludere
infine a una sorta di storia cosmico-antropologica. Le tre figure quindi
diventano immagini guida, simboli universali e criteri di giudizio.
Il
primo uomo, l’uomo d’azione potrebbe ritrovarsi nell’Adamo originario
che scompare nella lontananza dei miti edenici e che la tradizione religiosa
presenta tuttavia come un modello positivo di umanità, una sorta di ideale
regolativo con cui immaginarsi la virtù perduta e una prassi incorrotta.
Il
secondo, l’uomo del tradimento, si deve identificare il rivoluzionario
borghese che fa dell’oblio la propria bandiera e combatte, come residui
oppressivi, la natura delle cose, la pienezza dei valori etici e l’ordine
tradizionale della politica, per accogliere l’ideale prometeico del mondo nuovo
rifatto a misura dell’arbitrio dell’individuo emancipato e tutto rivolto alla
coltivazione del sé terreno e della potenza storica. Il rivoluzionario opera un
tradimento di se stesso e della sua natura, dell’identità del mondo e di Dio
come alfa e omega di tutte le cose. Egli si trova nella condizione di chi
abbandona la casa, uccide il padre, rinnega il passato per conseguire un
nomadismo ostinato, un’erranza metafisicamente e storicamente cosmopolita e
senza patria che diviene madre di ogni errore. L’erranza-errore inizia politicamente
nel cielo delle utopie costruite a tavolino e finisce nella tragedia terrestre
del terrore e della ghigliottina, simbolo eminente della potenza minacciosa e
omicida della rivoluzione.
Il
terzo uomo è quello della riparazione, cioè, potremmo dire, il
conservatore. Egli, immerso nel contesto della dissoluzione prende coscienza
della propria condizione spirituale di esiliato e sperimenta su di sé l’enorme
potenza del nulla. Attraversando con coraggio la totalità nichilistica moderna
e le sue rovine, sviluppa lentamente in
interiore homine la nostalgia
dell’origine e la ferma volontà del ritorno, cioè la prospettiva di un cammino
inverso a quello della caduta alla ricerca dell’unità della propria vita
dispersa.
La
radice metafisica che garantisce la sua possibilità è la coscienza teologicamente
fondata che nessuna meccanica del divenire possa cancellare la dimensione
interiore della libertà, e nemmeno un destino metafisico del mondo, innescato
dal peccato e dall’esodo dall’origine, possa mettere a repentaglio la graziosa
vigilanza di Dio sulla sua creazione, pur orientata all’oblio del Creatore.
Tale individuo umano rema in direzione contraria a partire da una chiamata che
rompe con la routine del disastro e
con l’abitudine alla quiescenza, una chiamata che risuona innanzitutto nelle
regioni profonde dello spirito:
“Sento
che mi si chiama e penso che tutte le chiamate vengono da qualcuno che chiama.
Mi dico allora che dalla natura della chiamata si dà a conoscere la natura di
colui che chiama.
Se
quella che ascolto è una vocazione o chiamata d'amore, Amato è il nome di chi
mi chiama; se è d'amore infinito, Infinito è il nome dell’Amato.
Se
la mia vocazione amorosa tende il possesso del bene unico, infinito ed eterno,
Bontà è il nome di chi mi chiama.
Se
il Bene è celebrato come bello, Bellezza è il nome di chi mi chiama.
Se
la bellezza è splendore del vero, Verità è il nome di chi mi chiama.
Se
questa verità è il principio di tutto il creato, Principio è il nome di chi mi
chiama.
Se
riconosco ora il mio destino finale nel possesso perpetuo del Bene così
celebrato e così conosciuto, Fine è il nome di chi mi chiama.
E
siccome tutti questi nomi attribuiti a colui che mi chiama solo convengono alla
divinità, Dio è il nome di chi mi chiama”[30]
Questo è l’universo delle ragioni, dei valori e dei sentimenti dell’uomo della riparazione. Ma non esiste riparazione de sé che non presupponga uno sguardo sull’Altro. L’essere umano è essere-in comune (famiglia, società, Stato). Quindi ricostruire il sé è impossibile senza riparare l’essere in comune. Il conservatore lavora stereofonicamente su di sé e sul mondo, riparando pazientemente i guasti del soggetto e dell’umanità con lo sguardo fisso verso l’alto, cioè verso quella vita assoluta che si rivela nella tradizione come meta e sostegno della sua avventura mondana. Certo egli sa che è difficilissimo invertire le tendenze macrostoriche e i processi che superano di gran lunga la sfera individuale, ma il suo sin dall’inizio non è un agire utilitaristico: “Agire senza guardare ai frutti, senza che sia determinante la prospettiva del successo e dell'insuccesso, della vittoria e della sconfitta, del guadagno o delle perdite, e nemmeno quella del piacere e del dolore, dell'approvazione e della disapprovazione altrui” [31], questa è la sua linea di condotta.
IL
KATÉCHON OSSIA UN’INTERPRETAZIONE CRISTIANA DELLA STORIA
“1
Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con
lui, vi preghiamo, fratelli, 2 di non lasciarvi troppo presto confondere la
mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta
passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. 3
Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima, infatti, verrà l'apostasia e si
rivelerà l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione, 4 l'avversario,
colui che s'innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a
insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. 5 Non ricordate che,
quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? 6 E ora voi sapete che
cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. 7 Il mistero dell'iniquità
è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo
trattiene. 8 Allora l'empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con
il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2
Ts 2,1-8).
Katéchon nel testo paolino è colui o ciò che trattiene (vv. 6-7) e rimanda a una forza che si oppone al dilagare del male storico e politico nel mondo, a un soggetto che rema “in direzione ostinata e contraria” rispetto alla corrente del mondo, presso la quale è in atto il “mistero dell’iniquità”. Le interpretazioni politiche del concetto, nel corso della storia del cristianesimo, sono state le più diverse. Collegato al nostro specifico argomento, possiamo dire che identifica la figura di chi non vuole un mondo nuovo, perché la novità è il culto della rivoluzione e si fonda sul suo peculiare cupio dissolvi. Al contrario egli può essere considerato colui che testimonia la presenza attiva dell’origine nell’epoca del suo oblio, quando, appunto, “il mistero dell’iniquità è in atto”, ossia quando la civiltà mostra la sua deriva ed è preda di forze oscure. Qui la sua diviene una presenza sociale, storica, testimoniale ed esemplare: un faro luminoso nella notte e nella lotta che però è destinato a spegnersi e a soccombere. Infatti, il ritorno cui prima si accennava, in ultima istanza è opera del Principio stesso e non delle forze umane. Di conseguenza il katéchon e tutte le sue opere storico-politiche hanno un destino crocifisso che, alla fine, lascia spazio all’unico Signore della storia, cioè il Dio di Gesù Cristo e la sua opera escatologica. Ma il suo destino, pur fallimentare, non manca di esibire un lato luminoso: il katéchon non rimane prigioniero dei suoi progetti e financo dei suoi provvisori successi perché, oltre la contingenza storica, ha di mira il modello dell’inizio e il compimento della fine. Tutto ciò dischiude la più netta alternativa e la più profonda separazione fra tradimento e riparazione, che è quella che separa un avventurismo falsamente autoredentivo, affidato alla sola presunzione umana, e l’umile determinazione di chi è consapevole di essere “servo inutile” benché nobile. Nella sua inutilità, ancora, la funzione del katéchon è di enorme rilevanza: quando il tradimento diventa norma, la riparazione si mostra nondimeno come l’alternativa che incrina la sua apparente legalità. La parola e la prassi di chi disobbedisce a ingiunzioni illegittime, scontandone le conseguenze e portandone la responsabilità dà nuovo valore all’esistenza e al cammino umano nella storia. È a partire da tale valore che agli occhi del mondo il conservatore si mostra come un minaccioso rivoluzionario[33].
LA
CONTRORIVOLUZIONE NON SARÀ UNA RIVOLUZIONE OPPOSTA, MA L'OPPOSTO DI UNA
RIVOLUZIONE[34].
Allora
che cosa potrà essere il contrario della rivoluzione? Semplicemente il
contrario di una lacerazione, cioè semplicemente una ricucitura? De Maistre non
ha visto la rivoluzione diventare stabile, cioè appunto normalità. Ne ha colto
il suo carattere eccezionale, e non poteva essere altrimenti, date le
circostanze, e non la sua costanza, la sua permanenza. Il
nichilismo ha invece un carattere ripetitivo, circolare, reiterativo, e questa
è la sua legge di continuità. Per questo motivo l’uscita dalla sua gabbia
d’acciaio implica la disponibilità di una certa forza dirompente. Ma non per
fare le stesse cose dei rivoluzionari, alla ricerca di un’impossibile marcia
indietro, bensì per il suo contrario: una contrarietà di stile politico, di
visione del mondo, di approccio alla vita. Il rivoluzionario è un
professionista del potere, che riconduce ogni verità all’interesse della
rivoluzione, e ogni mezzo al fine della rivoluzione[36]. È tutto rivolto alla
logica dell’efficacia e dell’utile. È responsabile solo di fronte al futuro che
è semplicemente una proiezione del suo ego utopico, cioè delle sue
pulsioni desideranti dislocate su scala sociale e confermate solo da un potente
apparato ideologico il quale, in nome del desiderio, nega la realtà e la datità
della natura. Il contrario della rivoluzione è precisamente il possesso umile
di una metafisica; la lotta contro se stessi in nome della forma, la lotta
contro il mondo in nome della forma del mondo, cioè della sua verità interna
data per grazia e non prodotta dalla volontà. Lo stile del conservatore
radicale è fare ciò che va fatto, quello del rivoluzionario è fare
ciò che dà risultati…
È
mai possibile che questa radicale alternativa si manifesti come una tranquilla
continuità e non come un bomba che esplode dentro il Leviatano borghese e
rivoluzionario, respingendone ogni frammento nelle più siderali lontananze?
La
prassi conservatrice deve mantenere tutto il suo carattere esplosivo. Ci sono
battaglie terrestri e celesti da combattere, per citare ancora Marechal, e se è
vero che nessuna vittoria sarà mai definitiva, il conservatore sa che ciò conta
relativamente, dato che la sua funzione è ultimamente quella di un testimone e
la sua prassi trova il suo significato più pregnante nella dimensione
simbolica. Ciò che si fa richiama e simboleggia le nostre radici nell’Essere,
le rap-presenta, le rende vive ed operanti, schizzando fuori dal nulla con
forza incontenibile. Il cammino
pratico-politico del conservatore è bensì una rivoluzione, pur rimanendo il
contrario della rivoluzione. Commetteremo in questo cammino molti errori, ma
finché questa società, questa vita, questa realtà stabilmente diminuita,
sovvertita e invertita ci percepirà come una tremenda minaccia, potremo con
verisimiglianza e qualche buona ragione, pensare di essere nel giusto.
[1] Cfr. E.
Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese, tr. it., Ciarrapico, Roma
1984.
[2] L'agnosticismo proclama una sorta di
sospensione del giudizio nei riguardi delle tematiche religiose. Tuttavia,
l'esito di tale atteggiamento non si distingue sia teoricamente sia praticamente
dall'ateismo. Anzi appare una forma di ateismo dissimulato e quindi più
subdolo. Vediamo in un piccolo testo di Montesquieu un esempio di come si
dispiegano le considerazioni oblique di un agnostico nei confronti della fede
religiosa dei semplici, quella fede che, per i suoi contenuti autentici e anche
nelle sue apparenti ed immediate contraddizioni, rappresenta il cammino
tracciato da Gesù verso l'elevazione della propria persona e infine verso la
salvezza. Nella lettera che citiamo qui sotto, l'autore francese non sembra
voler negare dignità alla religione, ma cogliere al contrario un nucleo di
verità misconosciuto dai credenti e invece individuato da chi, a partire da una
posizione intellettuale privilegiata, è in grado di cogliere l’essenziale nocciolo
morale sotteso alla credenza religiosa, e tuttavia dai più sottovalutato. Ma in
questa sua presuntuosa riduzione dello spirituale al morale, l'autore perde
esattamente la misura del senso religioso nella sua specifica vocazione
metafisica e trascendente, custodita, al contrario di quello che egli pensa, dal
gesto simbolico e dalla forza anagogica del rito. Ecco che cosa dice
Montesquieu: "(nella finzione letteraria, si trova a Venezia) Qui incontro
persone che discutono a non finire sulla religione, ma sembra che nello stesso
tempo facciano a gara a chi la osserverà meno. Non solo non sono i migliori
cristiani, ma neppure i migliori cittadini, ed è ciò che mi colpisce, perché,
in qualunque religione si viva, l'osservanza delle leggi, l'amore per gli
uomini e la pietà verso i genitori sono sempre i primi atti religiosi. In
effetti, lo scopo principale di un uomo religioso non deve essere forse quello
di piacere alla divinità che ha stabilito la religione che egli professa? Ma il
modo più sicuro per riuscirci è senza dubbio di osservare le regole della
società e i doveri dell'umanità, poiché, in qualunque religione si viva, non
appena se ne accetta una, bisogna pure ammettere che Dio ami di uomini, dato
che è per renderli felici che stabilisce una religione; e se Egli ama gli
uomini, possiamo essere certi di piacerGli amandoli a nostra volta, cioè
praticando nei loro confronti tutti i doveri della carità e dell'umanità, e non
violando le leggi sotto le quali essi vivono. In questo modo, si è molto più
sicuri di piacere a Dio che non osservando tale o tal altra cerimonia: infatti,
le cerimonie non hanno in se stesse alcun grado di bontà ma sono buone solo in
considerazione, e nella presupposizione, che Dio le abbia prescritte. Questa,
però, è materia di infinite discussioni: ci si può sbagliare facilmente, perché
bisogna scegliere le cerimonie di una religione tra quelle di duemila altre
[...]. 'Non so se mi sbaglio, ma credo che il modo migliore per riuscirci
[ossia per riuscire a piacere a Dio, n.d.r.] sia vivere da buon cittadino nella
società in cui [voi o Signore] mi avete fatto nascere e da buon padre nella
famiglia che mi avete donato'". Montesquieu, Lettera XLIV, in Idem,
Lettere Persiane, tr. it., Feltrinelli, Milano 2020. Dietro alla superficiale
ragionevolezza del discorso, si cela il tentativo di ridurre l’assoluto al
mondano, determinando, come abbiamo osservato, il cuore del precetto religioso
in modo morale, civile e politico. In realtà il modo di piacere a Dio qui
adombrato appare troppo simile a un modo di piacere ai philosophes e
proprio nella sua autosufficienza morale e razionale sta in piedi benissimo etsi
Deus non daretur. Il passaggio è proprio questo: comportarsi bene per
piacere a Dio, etsi Deus non daretur: siamo esattamente nel cuore del
più radicale ateismo. Infatti, siccome la forma del precetto manifesta il più
evidente non senso, giacché non si può finalizzare un’azione all’apprezzamento
di un essere che non esiste, non appena la contraddizione si affaccia alla
ragione, si è pronti all’ultimo passaggio: eliminare la nozione di Dio …
affinché tutto funzioni!
[3]
Sulla lunga tradizione del concetto di auctoritas a Deo per populum che
parte dall’Antico Testamento, giunge alle Glosse medievali al Corpus
iuris civilis, e poi a Marsilio Da Padova, Francisco De Vitoria, Francisco
Suarez, per arrivare alla sintesi poetica del Tasso nella Gerusalemme
liberata, cfr. A Borrelli, «A Deo sed per populum»: la duplice elezione
di Goffredo nella Gerusalemme liberata, “Inerba” 1 (2020-2021), <https://inerba.fileli.unipi.it/articoli/inerba-1-2020-2021-borrelli>.
[4] J. Donoso
Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, tr.
it. Rusconi, Milano 1972, p.51.
[5] J. Pieper
sottolinea quest’aspetto connaturato all’autorità: chi è in alto vede cose che
chi è in basso non vede. Perciò è necessario che vi sia chi sta in alto, e che
colui che sta in basso conceda a quest’ultimo una certa libertà d’azione
riconoscendo la sua posizione politicamente privilegiata.
[6]
È questo, in sintesi, il progetto teologico-politico di Carl Schmitt, Teologia
politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, Idem, Le
categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 33-86 e Teologia
politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, tr.
it., Giuffré, Milano 1992. Qui prima si statuisce l’analogia strutturale tra le
due discipline – sviluppando l’intuizione donosiana - e poi la si difende
contro i suoi critici, e in particolare contro Erik Peterson, teologo
protestante convertito al cattolicesimo e sostenitore dell’impossibilità di
ogni rappresentazione mondana del Dio trinitario e quindi della necessità di
liquidare ogni forma di teologia politica.
[7]
In questa nota affronto una questione particolare che tuttavia può illustrare
alcuni elementi istituzionali previsti dalla dottrina liberale che in realtà
non rappresentano che una concessione alla tradizione monarchica. La questione
dei cosiddetti corpi intermedi sembrerebbe ricondurre all’idea di una
certa strutturazione/stratificazione originaria della società che il governo
dovrebbe rispettare come naturale limite alla propria autorità. Il freno dei
corpi intermedi nei confronti dell’esercizio di una sovranità di natura
dispotica – anche in assenza di separazione dei poteri - è sicuramente un’intuizione importante di
Montesquieu, che ne fa esattamente un liberale conservatore, in ciò lontano dai
radicalismi giacobini, o meglio, per dirla con Chevalier, “… un nobile liberale.
Suddito fedele della più vecchia monarchia d’Europa, malgrado la sua nostalgia
per le repubbliche antiche” (J.J. Chevalier, Le grandi opere del pensiero
politico. Da Machiavelli ai giorni nostri, tr. it. Il Mulino, Bologna 1968,
p. 156). Nondimeno tale valorizzazione
delle istituzioni che si collocano a metà tra la società e l’autorità: la
nobiltà, la Chiesa, ma anche quei corpi che si formano per autonoma
aggregazione di interessi – si pensi alle corporazioni medioevali – non
appartiene tuttavia all’originale Stimmung liberale, ma costituisce la
valorizzazione di un’eredità tradizionale che lo stesso autore stabilisce
essere un carattere distintivo della monarchia (cfr. C.L. De Secondat de
Montesquieu, Lo spirito delle leggi, tr. it, Rizzoli, Milano 1996, vol
I, pp. 162 e segg.), una sorta di freno naturale, aggiunge lui, che impedisce
allo Stato monarchico la precipitazione nelle decisioni, ma che, noto io, non
inficia per nulla le prerogative del re. Dunque, si tratta di qualcosa che
logicamente non si oppone al riconoscimento di un diritto divino del governo
monarchico e alla sua prassi di unificazione e gestione del proprio regno.
Certo, i sovrani assoluti, ma non solo nell’età dell’assolutismo bensì anche in
pieno medioevo, hanno sempre affrontato assieme alla frammentazione feudale,
quella comunale, quella che affidava alla dimensione locale la custodia di
franchigie e privilegi che non di rado ostacolavano la realizzazione e
implementazione degli editti e delle decisioni del governo centrale, infine i
complicati rapporti con la Chiesa e le varie fronde nobiliari. Per questo
motivo, ad esempio, Federico II, sulla scorta delle esperienze passate dei missi
dominici di Carlo Magno, degli intendenti di Guglielmo il conquistatore,
dei legati papali e di altre consimili figure istituzionali, promuoveva la
creazione di uno specifico corpo di funzionari finalizzato a superare le
resistenze locali all’implementazione delle leggi, mentre con le costituzioni
di Melfi cercava di limitare fortemente il potere dei grandi feudatari. In ciò
sarà seguito da sovrani successivi: si pensi a Carlo V alle prese con i fueros
e ai re francesi alle prese con il dirotto di rimostranza dei parlamenti
locali. Dall’età comunale in poi, è da notare ulteriormente che la borghesia
ebbe un ruolo non indifferente nel consolidamento, attorno alle istituzioni
locali, dei propri interessi economici. Tuttavia, tale conflitto tra la
dimensione locale e quella centrale va considerata una costante della storia
politica europea, che è storia dello sviluppo della monarchia e che mai, se non
in casi rari e situazioni particolari – e di limitata estensione geografica, come
nota De Maistre quando dice che la estensione territoriale è di per sé un
argomento a favore dell’assolutismo monarchico - ha rinunciato a quella che
veniva ritenuta la forma più efficace di governo. Di qui la diffusa trattazione
di uno storico controrivoluzionario come Pierre Gaxotte, dell’articolazione
complessa del sistema politico-sociale dell’Ancien Régime, per nulla snaturato
dalle politiche di un Luigi XIV, contro quello che è invece descritto come il
fanatismo centralizzatore dei giacobini (P. Gaxotte, La rivoluzione francese,
Mondadori, Milano 1997, pp. 11-28). Dunque, si tratta evidentemente in Montesquieu
e nel liberalismo conservatore di concedere alla storia passata e alla saggezza
dei secoli un elemento di giustizia e di efficace strutturazione della vita
politica per poi giocarlo in una chiave antiassolutistica e liberale, di cui i
reiterati attacchi a Richelieu sono testimonianza, che originariamente e di per
sé non possedeva.
[8] M.
Rothbard, Lo Stato è un furto, intervista a Guy Sorman, “Figaro
Magazine” 24/6/1989
[9] L. Elliot, Liz Truss favours
trickle down economics but results can be trickle up, “The Guardian”
20/9/2022, Liz Truss favours trickle down
economics but results can be trickle up | Economics | The Guardian. Rimando a questo breve
articolo giornalistico che allude sinteticamente una dottrina alquanto
scandalosa, che pochi studiosi rivendicano, ma che molti politici del
conservatorismo liberale, anglosassone e no, praticano. Giustamente è stato
notato che potrebbe essere considerata un corollario della fiducia milliana
nella “mano invisibile del mercato”, la quale, producendo sviluppo economico a
favore della classe dei possidenti, in teoria farebbe ricadere indirettamente i
suoi effetti su tutta la società.
[10]Questa
dinamica che lega strettamente i temi istituzionali a quelli economici e “di
classe” si può ricondurre a quanto a suo tempo scritto da Carl Schmitt nella Dottrina
della costituzione, tr. It., Giuffré, Milano 1984, pp. 63-64 in cui è
evidenziato come la dottrina liberale dello Stato borghese di diritto è in sé
non una teoria politica ma una teoria della limitazione del potere politico che
ha solamente un valore polemico contro ogni forma di esercizio del potere in
quanto tale. Ciò avviene storicamente a partire da quel coagulo di interessi
borghesi che agli albori della modernità ha dichiarato guerra al regime
monarchico inglese e che viene assunto come criterio in ogni paese europeo dove
la borghesia, ad un dato momento del suo sviluppo, per usare una terminologia
hegeliano-marxista, prende coscienza di se stessa e dei propri comuni
interessi. Su questa falsariga, come nota giustamente A. Zhok, Critica della
ragion liberale, Meltemi, Milano 2020, ed. dig. pos. 1347 e segg., la
riflessione di M. Foucault tende a vedere nel liberalismo “essenzialmente un
principio di limitazione del governo, come arte del governo che limita la
sovranità statale. Ma ciò che determina il carattere propriamente liberale di
questa limitazione è il fatto di non rifarsi a concetti di giustizia o verità
trascendenti, non a idee di legittimità o giustizia divina, bensì a un
principio di efficienza immanente alla pratica di governo stessa, il principio
del mercato […]. Al centro del liberalismo stanno in effetti categorie che
conducono innanzitutto alla tutela dei diritti indispensabili per il
funzionamento del libero scambio commerciale. Le ‘libertà personali’, spesso
invocate come matrice del liberalismo, comparirebbero secondo Foucault (The Birth
of Biopolitics Lecturers at the College de France, Palgrave-Mc Millan, New
York 2008, p. 63) come una sorta di sottoprodotto del processo produttivo: il
sistema economico per essere efficiente ‘consuma’ alcune libertà, come quella
di commercio, di iniziativa e anche di parola, e perciò si fa carico di
produrle”.
[11]
J. Stuart Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo (1851), in C.
Schmitt, Democrazia e liberalismo, tr. it., Giuffré Milano 2001, p. 121.
[12] J.
Donoso Cortés, Saggio sul liberalismo, il cattolicesimo e il socialismo,
tr. it., Rusconi, Milano 1972, pp. 232-233.
[13]
Platone, La Repubblica, 493a
[14]
Il principio di gerarchia è un principio di organizzazione sociale
aristocratico ed è fondato sulle naturali differenti attitudini e vocazioni
degli uomini. I conservatori si rifanno generalmente a Platone (Repubblica
580-581 e 444 a-b) e dopo di lui a chiunque abbia elaborato, nella storia
europea, una concezione organica della società: dalla scuola di San Tommaso (De
regimine principum, cap. 1) secondo la quale la società necessita di
un’articolazione e di una gerarchia, allo stesso modo che i corpi viventi, fino
a Jean Bodin che sostiene nel quinto dei suoi Sei libri sulla Repubblica che
il compito del moderno “potere sovrano dotato della ‘prudenza’, e della ‘virtù
del comando’, è […]tenere unite insieme
tutte le parti – ossia raccogliere come in un unico organismo tutte le sue
membra, dalle famiglie ai collegi, dai corpi ai privati”; al Fichte della Missione del dotto e
dei Discorsi alla nazione tedesca, in cui è sottolineato il ruolo delle
differenze organiche nella società in relazione al suo fine ultimo e al Mazzini
dei Doveri dell’uomo, che concepisce il popolo come un organismo che si
differenzia nelle sue attività e nei suoi gruppi sociali, tutti chiamati a
sostenere il bene comune dell’organismo stesso. Anche i conservatori di matrice
più moderata e liberale insistono sulla gerarchia. Interessante, per la sua
efficacia e anche per una certa tipicità, è l’argomentazione dell’autrice
contemporanea M. E. Roca Barea, Imperiofobia e leyenda negra. Roma, Rusia,
Estados Unidos y el Imperio español, Siruela, Madrid 2016 - edizione
digitale – trad. mia: “Da quando abbiamo notizia di noi stessi vediamo che gli
esseri umani hanno avuto la tendenza a creare enormi strutture sociopolitiche
che chiamiamo imperi” Esse sono compagini che esaltano l’altra tendenza umana a
vivere in comunità gerarchizzate e istituzionalizzate dove l’organizzazione dei
membri prevede la presenza di un potere guida e di una stratificazione sociale
che da tale potere è gestita. Questa capacità di “organizzare (gerarchizzare)
gruppi numerosi” (pos. 63) è forse la ragione per cui l’Homo sapiens ha
prevalso sull’uomo di Neanderthal, che viveva in piccoli gruppi egualitari di
20 persone al massimo. Dunque, potere e “impero” sono costanti della storia
umana sin dai suoi inizi preistorici e l’organizzazione è alla base di un certo
desiderio di sviluppo: “Piaccia o no a coloro che perseguono utopie, la verità
è che la maggioranza degli esseri umani preferisce essere ricca che povera e
non c’è gruppo della nostra specie che non viva sotto un’organizzazione
gerarchizzata. La gerarchia e il potere esistono in tutte le società umane e
anche in molte altre società non umane. Forse sarebbe più bello che non fosse
così, però per nostra disgrazia non conosciamo come si organizzano i corpi
senza questa legge di gravità sociale” (pos. 55)”. Tale legge, infatti, è
quella che, secondo l’autrice, una volta che sia adeguatamente conosciuta,
permette altrettanto rapide forme di sviluppo e prosperità. La differenza tra la
prospettiva ora menzionata e quella del conservatorismo radicale risiede nel
tipo di argomentazione: all’utile e all’efficace viene preferita
dai conservatori radicali la ricerca del giusto. Relativamente a
questo tema della gerarchia e del
potere, ecco un testo egualmente tipico, che ripropone, nella forma di una
critica contemporanea, nozioni platoniche: “In effetti ciascun uomo, in virtù
della natura propria, è adatto a esercitare certe funzioni definite a
esclusione di altre; in una società regolarmente fondata su basi tradizionali,
queste attitudini devono essere determinate secondo regole precise affinché,
grazie alla corrispondenza dei differenti generi di funzioni con le grandi
divisioni della classificazione delle ‘nature individuali’, e salvo eccezioni
dovute a errori di applicazione sempre possibili, ma ridotti in certo modo al
loro minimo, ciascuno si ritrovi nel posto che normalmente deve occupare e
l’ordine sociale traduca in tal modo esattamente i rapporti gerarchici che sono
conseguenza della natura propria degli esseri”: R. Guénon, Autorità
spirituale e potere temporale, tr. it., Edizioni Studio Europeo, Sondrio,
1972, p. 18.
[15]
“Tutti coloro che oggi elaborano dei progetti e coinvolgono grandi masse nella
loro realizzazione, fanno, in un modo o nell’altro, filosofia della storia [in
particolare] la teoria marxista, più che una ontologia, ha la certezza di aver
costruito esattamente il decorso dialettico della Storia. Il marxismo – e con
esso tutto il credo ufficiale del comunismo – è filosofia della Storia nel
grado più eminente; lo è in maniera tale che ogni avversario si vede obbligato
a riflettere sulla sua situazione storica e sulla propria visione della
storia”: C. Schmitt, L’unità del mondo, in Idem, L’unità del mondo e
altri saggi, tr. it., Antonio Pellicani, Roma 1994, pp. 303-319. Qui
Schmitt sottolinea, negli anni Cinquanta, all’inizio della guerra fredda – di
qui i riferimenti obbligati al marxismo – il peso ineludibile che ha in ogni
progetto politico il possesso di una chiara visione della storia, suggerendo
implicitamente che anche gli avversari del marxismo dovevano giocoforza
interrogarsi su questi temi…cosa assolutamente valida anche per noi.
[16] J.
Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma 1988, p. 221.
[17]
K. Löwith,
Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia
della storia. Est, Milano, 1998, p. 201.
[18]
R. Guardini, La storia, in Idem, L’esistenza del cristiano, pp.
436-449 in S. Zucal, La Weltanschauung cattolica di Romano Guardini,
EDB, Bologna, 1988, p. 407-408.
[19]
“Il desiderio di vivere la propria fede (nella società medievale europea a
partire dalla metà del sec. XI, n.d.r.) […] si traduce innanzitutto in una
volontà di ritorno alle origini. Per gli uomini del XII secolo, consapevoli di
essere eredi di un passato brillante, il progresso si colloca nella riscoperta
di una tradizione che la precarietà dei tempi aveva fatto perdere di vista. Il
fascino esercitato dalle origini è contraddistinto, nell’ambito
dell’espressione letteraria, dalla preoccupazione di ispirarsi alla latinità di
cicerone e di Virgilio, preferita a quella di Macrobio e di Lattanzio. A
Bologna Irnerio e i glossatori ridanno lustro al diritto romano, i cui testi
vengono progressivamente ricostruiti integralmente, eliminando le collezioni
incomplete e le compilazioni contaminate dall’influenza dei diritti barbari. In
tutti i campi della vita intellettuale ci si richiama a una tradizione più
autentica. La Chiesa non restò ai margini di questo movimento, anche se,
secondo i suoi principi, la perfezione risiedeva nel passato, cioè nell’ epoca
degli apostoli e dei martiri. Agli occhi del clero, a mano a mano che ci si
allontanava da questa epoca benedetta, il mondo progressivamente deteriorava e
declinava. I riformatori dell’XI secolo ebbero il merito di credere e di
mostrare con l’esempio che la Chiesa avrebbe ritrovato una nuova giovinezza ispirandosi
a quel passato, che nella sua storia ebbe spesso la funzione di un mito
dinamico e stimolante. Gregorio VII illustra efficacemente questo stato d’animo
allorché scrive: ‘ Il Signore non ha detto: il mio nome è consuetudine, ma: il
mio nome è verità’. Donde il suo rifiuto di considerare valide pratiche che,
nel corso dei secoli, erano penetrate nel mondo dei chierici, in nome della
fedeltà a un’autentica Tradizione di cui la Chiesa romana è l’unica garante e
l’unica interprete. Vediamo nella medesima epoca un gran numero di eremiti
abbandonare le comunità monastiche per ritrovare il genere di vita praticato un
tempo dai padri del deserto e, un po’ più tardi, i Cistercensi separarsi da
Cluny in nome di un ritorno alla regola di san Benedetto, che veniva distorta e
velata dalle osservanze che si rifacevano alla consuetudine. In breve, tutte le
esperienze religiose del tempo sono state caratterizzate dal proposito di
ritornare all’originale purezza del cristianesimo. L’ideale della Ecclesiae primitivae
forma diventa riferimento obbligato della nuova spiritualità che, in
maniera apparentemente paradossale, ricerca attraverso un’accresciuta fedeltà
alla testimonianza degli Apostoli e al messaggio evangelico la risposta ai
problemi posti da una società in mutamento”: A. Vauchez, La spiritualità
dell’occidente medioevale, Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 91-92
[20]
P. Correa de Oliveira, Rivoluzione e contro-rivoluzione, Cristianità,
Piacenza 1977, p. 98
[21]
D’altronde rileva De Maistre, Saggio sul principio generatore delle
costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, tr. it., Il Falco,
Milano 1982, pp. 68-69: “Il celebre Zanotti ha detto: ‘È difficile mutare le cose in
meglio’. Questo pensiero nasconde, sotto l’apparenza di un’estrema semplicità,
una verità di grande significato, accordandosi perfettamente con un altro
pensiero di Origene che da solo vale un bel libro. ‘Niente - scrive questi –
può cambiare tra gli uomini indivinamente’. Tutti gli uomini avvertono
questa verità anche senza sapersene rendere conto. L’istintiva avversione di
ogni spirito retto per le innovazioni nasce da questo”. Tale convinzione può
dunque convivere, in De Maistre come in ogni cristiano, con un certo ottimismo
escatologico. Perché da un lato “se c’è qualcosa di evidente nell’uomo è l’esistenza
di due forze contrapposte – e io aggiungerei disuguali – che si combattono
senza tregua nell’universo. Non vi è nulla di buono che non sia contaminato o
alterato dal male; ma dall’altro “non vi è male che non sia incalzato e attaccato
dal bene che spinge incessantemente tutto ciò che esiste verso uno stato più
perfetto”. Ecco, se v’’è forse una debolezza in queste considerazioni è nella
locuzione “stato più perfetto” che effettivamente sembra alludere, in modo
contraddittorio, ad una qualche forma di progresso. Ma se nella storia
si progredisce, allora il male non agirebbe liberamente, pur con il “permesso”
di Dio, e non potrebbe dispiegare la sua potenza, puntando a fare dell’umanità
intera una massa damnata. Se la Provvidenza intervenisse nella storia
modificando la sua fondamentale struttura di peccato, anche quanto alle
conseguenze permanenti della caduta, che persistono dopo l’opera redentrice del
Cristo come propensione alla ribellione contro Dio (“concupiscenza della carne,
concupiscenza degli occhi e superbia della vita”- 1 Gv, 2,16), allora la storia stessa si concluderebbe nel
punto “più perfetto”, non ci sarebbe nessun bisogno di una seconda venuta del
Messia e vi sarebbe, tra secolo e Regno, non un salto ma una tranquilla
continuità, come auspicato da tutte le forme gnostiche, neo gnostiche,
pelagiane o neo pelagiane di ideologia del progresso. Inoltre, tutta la
letteratura apocalittica cristiana sarebbe smentita, a partire da Mt 24. Tutto
ciò, come afferma Pieper rifiutando ogni progressismo e anche ogni forma una
“filosofia sconsolata del più radicale pessimismo”, fa sì che non “ci si possa
attendere un’immagine della storia che si offra con i caratteri della
semplicità o della facilità” (J. Pieper, La fine del tempo, tr. it.,
Morcelliana, Brescia 1954, p. 31). In realtà la Provvidenza, come si dice
popolarmente, scrive dritto su righe storte: le righe sono i binari della
storia post peccatum, la scrittura “dritta” è la mancanza di un
determinismo storico assoluto, tale per cui nel complesso degli eventi, alcuni
contraddicono il corso generale, e una civitas Dei può crescere in
direzione contraria alla civitas Diaboli, come sua eccezione e
contraddizione, che rimane a testimonianza di un regno quale enclave in
un territorio nemico (come attesta la spiritualità monastica), prima della
battaglia finale. Quindi Dio rimane Signore della storia non perché
occasionalisticamente essa diventi il pretesto per un suo continuo intervento -
con sovrana indifferenza per le cause seconde – ma perché essa mai si può
sottrarre alla sua vigilanza e all’amore che egli porta ad ogni singolo attore
umano, che viene gratificato a prescindere dal suo merito, in misura di un’iniziativa
divina che supera ogni cogenza delle circostanze, dei tempi, dei luoghi, e
delle loro dinamiche amartiologiche.
[22]
Il pensiero di O. Spengler, esposto nel Tramonto dell’occidente,
Longanesi, Milano 2008, non accoglie una filosofia strettamente involutiva
della storia, perché quest’ultima è il teatro di una pluralità di civiltà che
nascono, crescono e muoiono. Ciò non toglie che l’autore si sofferma in modo
particolare sulla fase finale della civiltà occidentale, resa comprensibile
mediante l’intera costruzione della mappa delle forme civili in cui si
manifesta il divenire dell’umanità. Rimane pertanto vivo nel grande autore
tedesco, appunto, il pathos del tramonto.
[23]
Cfr. la visione ciclica della storia e la dottrina delle quattro età esposta
sinteticamente da R. Guénon, La crisi del mondo moderno, tr. it.
Mediterranee, Roma, 1985, p. 25: “La dottrina indù insegna che la durata di un
ciclo dell’umanità terrestre, al quale essa dà il nome di manvantara, si
divide in quattro età che segnano altrettante fasi di un oscuramento
progressivo della spiritualità primordiale. Si tratta degli stessi periodi che,
da parte loro, le tradizioni dell’antichità occidentale designarono come le età
dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro. Noi ci troviamo presentemente
nella quarta età, nel kali-yuga o età oscura”. J. Evola si diffonde
maggiormente in Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma
1988, p. 221 e segg..
[24]
J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971: Per Evola siamo
l’inverno della civiltà, proprio in quello che ci rende orgogliosi: scienza,
tecnica, economia, società. Bisogna leggere ogni successo del moderno come una
corrispondente malattia dello spirito, perché è legato indissolubilmente alla
fiducia nell’incremento della potenza materiale e nella deformazione dell’uomo
nell’ideale del gregge e delle masse: il moderno è il regime del
autolimitazione scientifica del sapere all’immanenza; il regime della fiducia
nell’autoemancipazione tecnologica dell’umanità limitato al dominio della
materia; è il regime della demonìa dell’economia e dell’accumulazione infinita
fino al soffocamento di ogni energia non quantificabile e monetizzabile; è il
regime dell’ultimo uomo che glorifica la dimensione gregaria di un’umanità
abbruttita dall’orgia oclocratica della relazione di gruppo, indeterminata,
informe, senza qualità e senza differenza. Cavalcare la tigre è una
rassegna delle possibilità che si aprono all’uomo che voglia differenziarsi dal
proprio mondo e dalla propria epoca per saltare in groppa alla bestia
trionfante della modernità, alla tigre che tutto aggredisce distrugge, senza
farsi divorare. Più che un manuale di sopravvivenza, è una riflessione su come
vincere se stessi in un mondo ostile, sapendo che l’adulazione che esercita la
realtà sull’interiorità umana è potente e pericolosa. Solo un riferimento forte
a una tradizione metafisica e religiosa primordiale, considerata nei suoi
aspetti attivistici, in certa misura superomistici e militari e non certo
devozionali, può offrire un valido appoggio costituendo un assoluto pratico da
opporre al prevalere del relativo, dell’opaco e dell’informe.
[25] N.
Mochi-Poltri, A duecento anni dalla morte di De Maistre, “Il pensiero
storico”
[26] Mentre si domanda da dove viene in
lui l’idea di Dio, Cartesio enuncia chiaramente entrambi i principi quei
accennati, riassumendo una tradizione antica che viene da Parmenide, Platone,
Aristotele, Lucrezio, Tommaso e prosegue con Spinoza, Leibniz e Kant: Se le
idee del cielo della terra, della luce e del calore potevano essere tratte da
se stesso perché vi ravvisa nulla che li facesse “a sé superiori”, “ciò non
poteva accadere riguardo all’idea di un essere più perfetto di me (Dio, n.d.r.);
derivare tale idea dal nulla, infatti, era cosa manifestamente impossibile; e poiché non è meno contraddittorio che il
più perfetto segua e dipenda dal meno perfetto che qualcosa derivi dal nulla, non potevo nemmeno avere quella idea da me
stesso”. Cartesio, Discorso sul metodo, IV.
[27]
Così R. Guenon, La crisi, cit., p. 26: “Ci si domanderà senza dubbio
perché lo sviluppo ciclico deve compiersi in un tale senso discendente, dal
superiore verso l’inferiore, cosa che, come lo si rileverà senza fatica, è la
negazione stessa dell’idea di “progresso” quale i moderni la intendono. Il
fatto è che lo sviluppo di ogni manifestazione implica necessariamente un
allontanamento sempre maggiore dal principio da cui essa procede. Partendo dal
punto più alto, essa tende per forza al basso e, come i corpi pesanti, vi tende
con una velocità sempre crescente, finché essa trova un punto d’arresto”, che
rappresenta la fine del ciclo e una nuova apocatastasi o ricostituzione
del tutto.
[28] Cfr. L. Marechal, Adán Buenosaires, tr.
it. Vallecchi, Firenze 2010, pp. 555-563.
[29] R. Williams, Fenomenologia del
peronismo: comunidad, individuo y nación, Biblos, Buenos Aires 2015, ed. dig., pos
1567 e segg.
[30] L. Marechal,
Descenso y ascenso del hombre por la
belleza, Perfil, Buenos Aires, 2020, pp. 15-72, qui pp. 62-63 (trad. mia).
[31] J. Evola, Cavalcare, cit., pp.
69-70.
[32]
Per un approfondimento rimando al mio La penultima guerra. Il katéchon nella
dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, LED, Milano 2006, senza
dimenticare, tra i tanti, l’importante testo di M. Cacciari, Il potere che
frena, Adelphi, Milano 2013.
[33] Sulla
funzione rivoluzionaria del katéchon, rimando ancora al mio testo, M. Maravigla,
cit., p. 288.
[34] Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, tr. It. Editori Riuniti, Roma 1985,
p. 96.
[35] M. Boffa, La rivoluzione e la
controrivoluzione, in F. Furet (cur.), L’eredità
della rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 101, qui p. 75.
[36] Ho rilevato
questo mostruoso relativismo nel mio commento a Lenin, Stato e
rivoluzione, tr. it., Oaks, Milano 2020, soffermandomi sul seguente assioma
gramsciano: “La verità è la tattica della rivoluzione proletaria” (pp. XXXVI-XLII).
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