venerdì 15 dicembre 2023

Carl Schmitt: un'introduzione

 


Carl Schmitt e l’ordine politico

Carl Schmitt è essenzialmente un giurista, cioè uno studioso di diritto, con una particolare vocazione a un pensiero radicale, cioè a risalire ai fondamenti e ai pilastri della scienza giuridica, cosa che lo conduce fuori dai confini tecnici della sua disciplina, verso altri ambiti di pensiero come la storia, la politica, la sociologia, la filosofia. Il suo pensiero copre un arco di tempo molto vasto, dagli anni Dieci del Novecento fino agli anni Ottanta. In questa vastissima produzione cercheremo il filo conduttore nel concetto di ordine politico, che sembra essere propriamente il nocciolo della sua vocazione scientifica. Come si costruisce un ordine politico, con quale obiettivi e quali fondamenta razionali? Che cosa accade invece quando l’ordine si dissolve e prevale in conflitto indiscriminato e la guerra civile? Perché un ordine tiene e quali sono i suoi fattori di disgregazione?

Perché un giurista si interroga sull’ordine politico? Perché contrariamente al senso comune non sono le norme che consentono la vita civile in una certa società. Le leggi non sono la condizione di una società ordinata e funzionante, bensì la presuppongono: solo in una società “normale” valgono e vigono le norme. Le leggi provengono da una certa vita, da una certa esistenza, e non la producono. La riprova è che le leggi non si applicano da sole. Sempre tra una legge e una fattispecie (un caso, un fatto, un accadimento che chiama in causa l’applicazione della legge) vi è un’auctoritatis interpositio, l’interposizione di un’autorità. Quest’ultima è una certa volontà di un uomo o di un gruppo di uomini reali, viventi, esistenti in una situazione concreta che “si mette in mezzo”, cioè si interpone, determina l’applicazione di una legge generale e astratta a un caso particolare e concreto. Senza tale attività la legge rimarrebbe lettera morta.  La volontà che applica la legge deve avere una certa forza per imporsi, cioè deve essere autorevole e deve aver prodotto una situazione in cui essa può far rispettare un certo dettato normativo. Quando un gruppo di uomini ha generato un’organizzazione tale per cui la loro volontà produce leggi e le fa applicare, determinando una situazione sociale prevedibile e ordinata, tale gruppo va sotto il nome di Stato quale “entità giuridica il cui senso risiede esclusivamente nel realizzare il diritto” (C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, tr. it., Il Mulino, Bologna 2013, p. 58). Gli organi dello Stato hanno esattamente il compito di esprimere quell’autorità che realizza il diritto, rendendo efficaci le leggi in una situazione dove i conflitti, il disordine, la violenza, il caos sono minimizzati.

 La rappresentazione e la forza delle idee

Nel saggio Cattolicesimo romano e forma politica del 1923, Schmitt insiste su un fattore fondamentale dell’ordine politico. Usualmente con il termine “rappresentanza” si indica la dinamica propria delle elezioni per cui l’eletto rappresenta i suoi elettori. In ogni regime elettivo, sia esso liberale e censitario o democratico e universalistico, il soggetto che viene eletto per partecipare a un’assemblea, o per occupare un organo dello Stato, rap-presenta i suoi elettori, li rende presenti, come se essi fossero lì ad occupare il posto del loro rappresentante e a fare quello che egli fa. La rappresentanza riguarda non solo quelli che lo hanno votato, ma, come un’adeguata finzione giuridica, tutto il corpo elettorale. Ciò per sottolineare la funzione di ricerca del bene comune che deve avere l’eletto, senza limitarsi agli interessi di una parte dell’elettorato. Che cosa accade in questa situazione per cui il deputato al parlamento, o il presidente eletto, rappresenta la volontà degli elettori?  Vi è una dottrina squisitamente democratica, per la quale il rappresentante sarebbe un semplice esecutore della volontà degli elettori, ogni volta a loro giudizio liberamente revocabile. Si pensi alla Comune di Parigi che prevedeva l’elettività di tutte le funzioni di governo e una brevissima permanenza in carica, con elezioni molto ravvicinate, in modo tale da esprimere il più completo controllo dell’azione politica “dal basso”.  Questa è la modalità in cui i cittadini danno un mandato (un compito) imperativo ai loro rappresentanti che sono declassati a semplici strumenti della volontà dei loro elettori. Viceversa, esiste una dottrina, che appartiene alla tradizione liberale, per la quale il mandato è libero, cioè il rappresentante ottiene la fiducia dei rappresentati, interpretando liberamente la loro volontà e adattando l’interpretazione alle mutevoli circostanze politiche, dove si considera il consenso come presupposto. La presenza del corpo elettorale nelle decisioni politiche è così molto meno attiva, in compenso ne guadagna la dignità dell’azione del rappresentante: se nella dottrina del mandato imperativo potrebbe paradossalmente essere anche una macchina, che riceve input e agisce di conseguenza, nel mandato libero sono implicate cultura, virtù, capacità e qualità umane che fanno del rappresentante il membro di un’élite, di un corpo di “migliori” che per tale motivo è legittimato a decidere in nome del “popolo”. In questo secondo caso il rappresentante non “sta” semplicemente “al posto di”, non è un semplice sostituto di una moltitudine che non può essere presente contemporaneamente per deliberare, al contrario egli rappresenta un’“idea”. Le qualità personali del rappresentante sono rilevanti e corrispondono a un certo tipo di umanità, a certi valori etici, a una certa visione del mondo e delle cose che è componente essenziale della fiducia che in lui ripone il corpo elettorale. La rappresentanza è dunque non solo dal basso, mediante il meccanismo elettorale, ma anche dall’alto: l’uomo che viene votato al tempo stesso incarna un certo progetto di società e una certa concezione del bene comune. Ciò è importantissimo perché la “forma politica”, cioè l’ordine che si produce in una società non proviene solo da un qualsiasi meccanismo tecnico di selezione delle élites, ma anche da un’immagine forte di come la vita, l’uomo, le relazioni dovrebbero essere per essere buone.  Questo tipo di rappresentanza dall’alto, indispensabile perché l’ordine politico non sia una pura imposizione e un puro apparato amministrativo, senza senso e senza responsabilità, trova il suo modello, nella storia europea all’interno della Chiesa cattolica. Essa infatti rappresenta, fa presente, la trascendenza divina di Cristo nella storia. La Chiesa prosegue l’Incarnazione di Cristo: è il modo in cui Cristo crocifisso, morto, risorto e asceso al cielo è ancora presente nella storia degli uomini. Tale presenza fa sì che l’intero popolo di Dio, cioè l’intera comunità dei cristiani, viva concretamente al cospetto del proprio Capo, Gesù Cristo, reso presente continuamente nel culto eucaristico, ma anche in ogni atto di magistero religioso e morale della comunità guidata dal papa, vicario di Cristo stesso. Per un cattolico, dunque, grazie alla Chiesa e al papa, Cristo viene rappresentato, cioè fatto presente nella storia umana e nella vita dei fedeli. La persona del sacerdote e in modo particolare quella del vescovo di Roma, rende presente Cristo qui ed ora. Questa dinamica, tipicamente personale, per la quale un uomo incarna una realtà trascendente e se ne fa veicolo vivente, è importantissima sotto il profilo religioso, ma anche per la politica. Quest’ultima infatti, nel proprio campo, cioè la vita civile e laica, riproduce la medesima dinamica. Il rappresentante politico non rappresenta solo i suoi elettori e i loro interessi, ma il popolo intero, la sua idea, i suoi valori, la sua cultura e la sua storia. Solo con questa rappresentanza ideale, il cui modello è la rappresentanza ecclesiale del Cristo, si può determinare una forma politica, cioè un ordine stabile, legittimo, autentico e non solo un apparato amministrativo e organizzativo di puro potere. Infatti, il rapporto tra la comunità e le sue istituzioni in questo caso è umano, etico, ideale, valoriale e non solo tecnico. L’ordine che ne deriverà avrà dunque il carattere di un bene, considerato e creduto tale, e pertanto guadagnerà in affidabilità, solidità e durata a tutto beneficio del popolo che lo avrà acquisito.

 La sovranità, lo stato di eccezione

Nel saggio intitolato Teologia politica del 1922 Schmitt nota che c’è un’analogia strutturale tra mondo della politica e i concetti teologico/metafisici: “Il quadro metafisico che una determinata epoca si costruisce del mondo ha la stessa struttura che si presenta a prima vista come la forma della sua organizzazione politica” (C. Schmitt, Teologia politica, in Idem, Le categorie del politico, tr. it., Il Mulino, Bologna 1972, p. 69). La monarchia è un sistema che manifesta un ruolo analogo a quello di Dio onnipotente nell’universo e dell’onnipotente legislatore nello Stato. Nello Stato di diritto liberale che separa i poteri, dà primato al legislativo e alle procedure costituzionali, cioè in cui tutto funziona come un grande meccanismo, diremmo noi di cheks and balances, in modo che sia escluso il comando diretto di una persona, perché con esso di ricadrebbe in forme di potere assoluto, questa modalità di organizzazione politica ricorda il deismo, cioè quella teologia illuminista che considera Dio semplicemente come la ragione delle cose, ossia una sorta di principio impersonale che organizza il mondo mediante leggi razionali, ma che non ha né personalità, né volontà, né amore e che dunque di fatto non esercita un potere se non mediante il meccanismo delle leggi di cui il Dio è semplicemente un altro nome. Il “naturalismo assoluto” dell’anarchico Michail Bakunin, che, sulla base del suo ottimismo antropologico (l’uomo per natura buono), nega ogni forma di potere e autorità, ha come contraltare teologico l’ateismo, che nega Dio e attribuisce al mondo una naturale autosufficienza. L’analogia più importante, però, tra la sfera teologica e quella politico-giuridica, viene individuata da Schmitt quasi di passaggio tra il miracolo e lo stato di eccezione. Che cosa è lo Stato d’eccezione? Nel precedente saggio sulla Dittatura del 1921, Schmitt rileva che Arnold Clapmar, un rilevante giurista del sec. XVII, l’epoca d’oro della Stato moderno, intende per “iura dominationis (diritti di dominio, n.d.r.) il diritto pubblico di creare l’eccezione, in forza della quale chi ne è titolare può derogare dal jus commune (la legislazione ordinaria e vigente nella comunità, n.d.r.) in casi di emergenza nell’interesse dello Stato e del mantenimento della quiete e della sicurezza pubblica (tranquillitas, pax et quies). Guerra e disordini interni sono i due casi più importanti di questo diritto […] Esso significa la potestà giuridicamente e per principio illimitata, che può anche usurpare uffici legittimi e diritti acquisiti” (C. Schmitt, La Dittatura, tr. it., Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 37-38). Quindi nello stato d’eccezione, a causa di un’emergenza che mette in pericolo la pace, la tranquillità e la quiete, cioè la vita stessa di un popolo e la sua possibilità di prosperare, si determina l’esercizio più tipico di un potere che non incontra limiti – e in ciò richiama e aiuta storicamente a comprendere il concetto di “dittatura” - nel suo compito di preservare i beni più importanti per un popolo e financo la sua stessa esistenza. Per questo lo stato di eccezione è una situazione in cui l’attività del governante assomiglia a quella di un dio che, per un motivo superiore che è lui stesso a decidere, rompe e infrange le leggi che lui stesso ha determinato a beneficio delle creature che egli governa. L’importanza dell’analogia miracolo/stato di eccezione sta nella sottolineatura del concetto di sovranità. Come il miracolo fa emergere in modo peculiare la presenza e l’onnipotenza sovrana di Dio, così lo stato di eccezione in politica fa emergere la sovranità di chi veramente comanda in un certo gruppo umano. Tant’è vero che la Teologia politica esordisce proprio con la famosa e icastica frase: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Ciò significa che quando qualcuno può determinare se è il caso di sospendere le leggi ordinarie per promuovere una condizione di pace e normalità necessaria alla stessa continuazione dell’esistenza di un popolo, quello è colui che veramente comanda in una comunità. Ciò dice una cosa fondamentale riguardo al potere in qualsiasi società. La cosa fondamentale non è la normalità. La situazione normale in cui vigono leggi, prescrizioni e diritti viene dopo e deve essere determinata da un potere che per sua natura è antecedente alle leggi e ne consente l’attuazione e la vigenza. Tale potere è del tutto analogo a una forma di dittatura, dove per essa si intende la capacità di “dettare”, cioè di indicare cose da fare coattivamente e senza possibilità di rimostranza. Il dettato del potere avviene di necessità perché, come detto, le leggi hanno bisogno della normalità per essere efficaci: “Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero” (C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 39). Quanto di tutto ciò è arbitrio e quanto no? Qui è la realtà a discriminare. Alcuni autori come G. Agamben, hanno ritenuto che la decisione sullo stato d’eccezione, cioè la decisione se esiste una condizione che rende necessario un potere di principio illimitato per ripristinare l’ordine, è totalmente soggettiva: “La necessità, lungi dal presentarsi come dato obiettivo, implica con ogni evidenza, un giudizio soggettivo e […] necessarie ed eccezionali sono ovviamente soltanto quelle circostanze che sono dichiarate tali” (G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 41), altri come il giurista Santi Romano no. Qui ci limitiamo a osservare che qualcuno che decretasse un’emergenza, cioè uno stato di eccezione, che non fosse percepita minimamente come tale da una cospicua parte della società, verrebbe rapidamente smascherato come un mentitore con puri interessi di potere. D’altro canto, una guerra o una sedizione interna, cioè i casi citati da Schmitt, hanno una certa evidenza oggettiva e difficilmente possono essere considerati pretesti. I casi più complicati sono quelli la cui sussistenza non è manifesta ma neppure del tutto pretestuosa. Un esempio potrebbe essere la pandemia da Covid 19; all’inizio si è trattato di affrontare un’emergenza con la sospensione di molti diritti garantiti costituzionalmente; l’eccezione sembra tuttavia essere stata procrastinata ben al di là dello stretto necessario, configurando più da vicino quella che Agamben ha indicato come una forma di democrazia governamentale in cui la lettera e lo spirito delle libertà costituzionali viene scavalcato senza che vi sia una reale necessità.

 La decisione

Prima di concludere su questi temi soffermiamoci su un altro elemento della definizione di sovranità. Sovrano è chi “decide”. La decisione è un elemento importantissimo della prassi politica.  Il politico non è un intellettuale che pensa, né un tecnico che fa, né un religioso che prega, né un attore che recita, né un artista che crea: l’azione precipua del politico è decidere. Il comando in cui si sostanzia la sovranità politica è una decisione che sempre sceglie tra alternative concrete in una determinata circostanza. La decisione avviene anzitutto perché è necessaria. È la concreta esistenza di un popolo e le minacce cui è sottoposta a renderla necessaria. Se è procrastinata, rimandata, dissimulata, delegata, la decisione è sicuramente sbagliata. Se è presa con senso di responsabilità, fedeltà al proprio popolo, onore, intransigenza, coraggio e forza, se insomma coincide con quella che Schmitt ha chiamato “l’orgogliosa decisione morale”, allora può essere corretta e produrre le sue più benigne conseguenze, cioè l’ordine politico, la configurazione di una realtà caotica, di guerra civile, di conflitto, caos, angoscia, sopraffazione e bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti), in una situazione di pace, sicurezza e ordine. Potremmo con un’immagine dire, senza timore di tradire Schmitt, che l’“orgogliosa decisione morale” fa passare dalla situazione del “cattivo” a quella del “buon governo” dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti al palazzo comunale di Siena. Potremmo anche dire che la decisione fa passare l’ordine politico dalla potenza all’atto, dal “non ancora” al “già”, dalla virtualità alla realtà. Qui Schmitt è molto hobbesiano. Il sovrano, per mettere ordine in un mondo di individui “pericolosi” e tutt’altro che pacifici, deve essere soggetto di una potestas directa, ossia di un potere effettivo e diretto, che monopolizza la decisione, proprio perché il conflitto tra gli uomini è dato dal fatto che ciascuno decide per sé, in modo egoistico e conflittuale. La guerra, infatti, è sempre lo scontro tra decisioni opposte e incompatibili che devono essere risolte con la sottomissione forzata di uno dei contendenti. Ora, se in una comunità deve essere costruito un ordine pacifico, è naturale che l’ultima istanza decisionale deve competere a un solo soggetto (non importa se collettivo o individuale, ma, dice Hobbes, meglio individuale), perché altrimenti, se più di uno pretendesse legittimamente di esercitare la facoltà di decidere, lo scontro si riproporrebbe e la pace si rivelerebbe impossibile. Anche in questo caso, però, con realismo, Schmitt nota che la decisione del sovrano non è totalmente senza presupposti. Non c’è, come in Hobbes la finzione dello stato di natura e di un patto che origina la società. Molto più realisticamente Schmitt osserva nel suo testo I tre tipi di pensiero giuridico del 1934 che ogni popolo possiede una certa creatività e vitalità istituzionale: vi sono degli ordinamenti concreti che nascono spontaneamente dalla società, in cui gli uomini sviluppano legami, solidarietà, gruppi di carattere familiare, economico, culturale, ludico, amicale, tali da sfociare in articolazioni stabili del vivere collettivo, come una famiglia, un clan, un ceto, un campo di lavoro, un esercito, una Chiesa (cfr. C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica, tr. it., Giappichelli, Torino 2002, pp. 16-17) e da sollevarli dalla condizione di individui isolati (come erroneamente le pensa il contrattualismo individualista di Hobbes, Locke e Rousseau). La decisione arriva a coronare questo processo spontaneo, evitando che all’interno di una società etnicamente, linguisticamente, culturalmente storicamente omogenea l’intensità di associazioni e dissociazioni spontanee determini conflitti distruttivi (pensiamo alla conflittualità interna ai comuni del medioevo italiano). Il sovrano pertanto verrà a detenere il monopolio dell’ultima istanza, cioè della decisione definitiva, lasciando alla società solo decisioni parziali e sempre suscettibili di revisione sovrana.

 Il politico, l’amicizia e l’inimicizia

Ora siamo pronti per comprendere uno dei guadagni fondamentali della riflessione schmittiana sulla politica, il criterio amico-nemico. Scrive il giurista ne Il concetto di politico del 1927: “Si può raggiungere una definizione concettuale del politico solo mediante la scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche. Il politico ha infatti i suoi propri criteri che agiscono, in modo peculiare, nei confronti dei diversi settori concreti, relativamente indipendenti, del pensiero e dell’azione umana, in particolare del settore morale, estetico, economico. Il ‘politico’ deve perciò consistere in qualche distinzione di fondo alla quale può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso specifico. Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio. Il problema è allora se esista e dove risieda, come semplice criterio del ‘politico’, una distinzione specifica, autonoma e valida in sé, anche se non dello stesso tipo delle precedenti bensì anzi indipendente da esse. La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione tra amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, non corrisponde per la politica ai criteri autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via […]. Il significato della distinzione amico-nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che nello stesso tempo debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non vi è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che nel caso estremo siano possibili conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite, né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’”. (C. Schmitt, Il concetto di politico, in Idem, Le categorie, cit., pp. 87-208, qui p.109-109). Questa lunga citazione

1) offre un criterio e non un’essenza: non ci dice come agiscono i politici, o quali sono i loro scopi e come raggiungerli, non ci parla della polis e dello stato, delle forme di governo, dei partiti e delle ideologie, ci offre al contrario un concetto che aiuta a distinguere la presenza della politica e il carattere politico di un comportamento da tutti gli altri. Dove c’è amicizia e inimicizia, là c’è politica.

2)Il criterio riguarda l’intensità di un’associazione e di una dissociazione. Il fatto che gli uomini si associano e si dissociano è dunque presupposto: è il presupposto fenomenologico della distinzione ed è la sua forza descrittiva. Chi può negare questa dinamica di associazione e dissociazione come un fattore intrinseco e costante delle relazioni umane? Non esiste politica se non in presenza di gruppi umani, coesi al proprio interno (associazione) e contrapposti all’esterno (dissociazione), benché tale contrapposizione abbia diversi gradi, non sempre raggiunga il caso estremo della guerra, e ciononostante lo contempli sempre come una possibilità.

3) La distinzione è autonoma e non coinvolge altre sfere dell’esistenza. Rilevantissima è l’osservazione per cui il nemico non è per forza il “cattivo”. Morale e politica non vanno sovrapposte. Il fatto che qualcuno sia l’ “altro”, e sia potenzialmente anche una minaccia, non lo qualifica come cattivo. Soprattutto nelle relazioni internazionali è facilissimo constatare che l’amico non è sempre buono e il nemico non è sempre cattivo, malgrado le propagande di tutti i colori tentino sempre di qualificare moralmente il nemico e di santificare l’amico. Questo abbaglio propagandistico può far presa per un altro peculiare fenomeno. Sebbene l’amicizia e l’inimicizia siano sfere esistenziali autonome dalle altre occupazioni della vita, esse possiedono una specifica “forza di gravità” tale per cui, superando una sorta di “massa critica”, cioè un dato livello di intensità, attraggono a sé e sottomettono ai loro scopi tutte le altre. Il nemico, quindi, non diviene più semplicemente l’altro, ma è il cattivo, spietato, traditore che viene dipinto con caratteri mostruosi, deformi, repellenti; è ladro, è furbo, si insinua; è barbaro, incivile, crudele; contro di lui è necessario mobilitare tutte le forze a disposizione per colpirlo in ogni aspetto della sua vita, che è tale da costituire di per sé una grave minaccia, anche nelle attività più innocenti. La descrizione che Oliver Cromwell fa degli spagnoli è eloquente e per questo Schmitt la cita nel suo scritto: “Consideriamo dunque i nostri nemici i nemici dell'esistenza stessa di questa nazione. Perché infatti, il vostro grande nemico è lo Spagnolo. Egli è un nemico naturale. Ed è naturalmente così, a causa di ciò che è in lui contro tutto ciò che è di Dio, tutto ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere in voi […].lo Spagnolo è il vostro nemico e la sua inimicizia è posta in lui da Dio, egli è il nemico naturale, il nemico provvidenziale, chi lo ritiene un ‘nemico accidentale’ non conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha detto: «Io porrò inimicizia fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi III, 15)” (in C. Schmitt, Il concetto, cit., p.154). D’altro canto, il nostro giurista lo aveva potuto notare nella Prima guerra mondiale: la forza del conflitto era divenuta tale che tutta la vita dei popoli veniva coinvolta nella grande macchina bellica. Questa si nutriva di un’inimicizia estrema che, come in un grande buco nero, era in grado di non lasciar cadere nulla fuori dal parossismo della lotta tra le nazioni. Schmitt, nel corso della sua attività successiva, cercherà di pensare, sulla scorta della grande tradizione giuridica europea, possibili vie d’uscita da questo vortice della guerra totale. Probabilmente non conosceva l’episodio raccontato dal grande romanziere e intellettuale francese Pierre Drieu la Rochelle, quando egli partì per il fronte occidentale nella Grande Guerra portando con sé nello zaino un testo di Friedrich Nietzsche, un filosofo tedesco, il maître à penser del nemico. Si può fare la guerra, per una serie di circostanze che fatalmente pongono gli uomini e i popoli gli uni contro gli altri. Al tempo stesso si può riconoscere grandezza e la verità ovunque si trovino, anche nel campo avverso. Il nostro Autore non conosceva l’episodio biografico dello scrittore parigino, ma i temi della sua ricerca sulla limitazione della guerra, sviluppata negli anni Quaranta/Cinquanta, ne assumono in qualche modo lo stile.

Ancora tre precisazioni sul concetto di politico. La prima, cui già si è fatto accenno, riguarda la dimensione esistenziale dell’amicizia e dell’inimicizia. Ciò significa che non vi sono particolari ragioni, non v’è un artificio, o una volontà che raduni gli uomini in amici e nemici, semplicemente accade così. E accade che l’umanità si divida in schieramenti contrapposti, le cui relazioni variano a seconda della loro amicizia e inimicizia. E pure accade che in determinate circostanze qualcuno avverta l’altro come un’alternativa alla propria esistenza. Esistenzialmente si avvertono i nemici della propria sussistenza, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, così come accade per gli amici. Questo è un fatto … che tuttavia appare un corollario ineludibile dell’autonomia del politico. Se il politico riguarda una modalità del vivere con proprie dinamiche e caratteri, non c’è bisogno che ci si prendano a prestito categorie da altre sfere dell’esistenza per giustificare i fenomeni ad esso connaturati. Agli uomini basta essere, per essere politici, e ogni gruppo umano per sua natura finirà col trovarsi prima o poi di fronte alla decisione su chi è amico e chi no. Ciò è un fattore fondamentale della sua vita oltre che della sua libertà e sovranità.

La seconda precisazione riguarda il tipo di amicizia e inimicizia di cui si tratta. Sia il greco sia il latino hanno due modi di indicare il nemico, a seconda che sia pubblico o privato: echthròs e inimicus per quanto riguarda i nemici privati; polémios e hostis per ciò che concerne i nemici pubblici. Inutile precisare che il nemico politico è quello pubblico, che si riferisce a raggruppamenti umani e a interi popoli. Schmitt aggiunge assai significativamente che Gesù non esorta ad amare i nemici politici, ma quelli personali (diligite inimicos vestros, Mt 5,44; Lc 6,27) e conclude: “Nella lotta millenaria tra cristianità e Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio ‘nemico’, cioè il proprio avversario” (C. Schmitt, Il concetto, cit., p. 112).

Infine bisogna sottolineare il ruolo che ha lo Stato nella gestione del politico. Lo Stato nella tradizione europea è un’istituzione imprescindibile per mettere ordine nella dinamica amico-nemico. Esso deriva dal fatto che un certo popolo si unisce e si dà una forma, un certo assetto istituzionale che corrisponde alle consuetudini prevalenti fra i propri cittadini, che vivono in un territorio, parlano una lingua, adorano un Dio etc. Ovunque un popolo si unisca stabilmente e si dia una forma riconoscibile, lì c’è uno Stato. Quando ciò accade, le rivalità interne a una data comunità, come quelle che per esempio possono sorgere tra famiglie, clan, tribù, corporazioni, città, regioni, chiese, etc. sono relativizzate nello e dallo Stato che impone la pace tra i gruppi e rende vigenti le leggi che ne regolano le relazioni. Ecco allora che si è in presenza dell’“unità politica di un popolo” che espelle l’inimicizia, per dirigerne l’energia all’esterno, verso coloro che esistenzialmente vengono percepiti come nemici. L’efficacia di questa pacificazione interna deriva dal fatto che lo Stato monopolizza il politico e impedisce il sorgere di conflitti che porterebbero divisione, lotte e la malattia mortale della stàsis (la guerra civile, la peggiore e più devastante tra tutte le forme di guerra). Per adempiere a questo compito lo Stato deve presentarsi come terzo rispetto alle parti, giudice imparziale delle controversie, affidabile e prevedibile mediante il suo diritto che garantisce ai cittadini una vita pacifica nella migliore approssimazione possibile alla giustizia. Infine, deve naturalmente essere ultima istanza decisiva: solo la detenzione esclusiva di un potere sovrano è condizione sufficiente per imporre la pace e svolgere tutte le altre funzioni.

Se ciò avviene al suo interno, all’esterno dello Stato le cose stanno in maniera differente. Come aveva già precisato Thomas Hobbes, tra gli Stati vige lo stato di natura, un dis-ordine in cui ciascuno è legge a se stesso e giudice nella propria causa, e non potrebbe essere altrimenti visto che a ciascuno compete un potere sovrano. Le relazioni internazionali e il loro tentativo di regolamentazione si scontrano con questa ineliminabile condizione, per la quale ogni Stato, pur ammettendo che bisogna perseguire la pace, i buoni rapporti, il reciproco rispetto, il progresso, la cooperazione etc., ogni volta decide che cosa si debba intendere con questi concetti e lo fa in totale autonomia. Quando evidentemente confliggono gli interessi degli Stati, le decisioni pure risulteranno divergenti, e ognuno offrirà la propria interpretazione, non rinunciando alla soluzione estrema della guerra, quando ogni mediazione risulterà inefficace. La possibilità della guerra è dunque una conseguenza necessaria della libera sovranità degli Stati, cioè della decisione ultimativa sull’amico e il nemico che essi avocano a sé. Nondimeno i processi giuridici di contenimento dei conflitti messi in atto nella storia dell’Europa moderna, hanno consentito allo Stato di affermarsi come l’istituzione maggiormente in grado di garantire una relativa prosperità alle proprie comunità che, malgrado le guerre che sempre hanno interessato le potenze del Vecchio continente, hanno promosso un’apprezzabile tranquillitas rei publicae, una discreta pace sociale e i benefici che queste condizioni apportano alla vita civile e culturale dei popoli. La preoccupazione di Schmitt è che i processi di democratizzazione degli Stati tipici dei secc. XIX e XX, con il coinvolgimento delle masse nella vita politica mediante la dialettica di partiti e movimenti più o meno radicali, distrugga quest’opera di pacificazione riportando l’intensità dei conflitti interni a livelli pericolosi per la sopravvivenza dell’unità politica. Lo Stato, quando si fa totale, cioè quando estende a tutta la società le divisioni della politica, prepara la propria tomba nella guerra civile, una guerra esacerbata dalle motivazioni morali e ideologiche, dai fanatismi dei partiti rivoluzionari o borghesi, e che invece nella tradizionale politica delle potenze europee trovavano la porta sbarrata dalla depoliticizzazione della società (fanno politica i funzionari dello Stato, gli altri godono della pace che essa garantisce per tutte le altre attività umane e sociali) e dalla considerazione razionale degli interessi.

 

 La costituzione


Con la Dottrina della costituzione del 1928 Schmitt elabora un manuale di diritto costituzionale che si propone di illustrare la struttura dello Stato borghese di diritto, ossia di quello Stato, monarchico o repubblicano, che, assumendo una prospettiva liberale, si dà una costituzione finalizzata a limitare l’elemento politico, cioè la sovranità che decide e l’ordine che ne discende. Ciò però gli offre anche il pretesto per determinare un concetto di costituzione diverso dalla tradizione liberale. Quest’ultima insisteva sulla nozione di legge fondamentale e sull’idea di Stato come “servitore, rigidamente controllato, della società; […] soggetto a un sistema chiuso di norme giuridiche, ovvero […] semplicemente identificato con questo sistema di norme” (C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, tr. it., Giuffré, Milano 1984, p. 173). In questo modo si conferma l’idea per cui “l’organizzazione dello Stato è posta sotto un punto di vista negativo e critico nei confronti del potere statale – protezione dei cittadini di fronte all’abuso del potere statale -. Lo Stato stesso è meno organizzato che i mezzi e i metodi del suo controllo; sono create garanzie contro gli interventi statali e si cerca di introdurre ostacoli all’esercizio del potere statale” (C. Schmitt, Dottrina, cit., p. 64). Per Schmitt nell’ipotesi che “una costituzione non contenesse altro che queste garanzie dello stato borghese di diritto”, non vi sarebbe alcuna unità politica, giacché le norme contro lo Stato non possono fondare lo Stato stesso come unità politica sovrana, capace di ordinare la vita di un popolo. Ecco allora che “lo Stato borghese di diritto può rappresentare solo una parte della costituzione complessiva di uno Stato, mentre un’altra parte contiene la decisione positiva sulla forma dell’esistenza politica” (ibidem). Insomma, come aveva già affermato in diverse occasioni, per Schmitt il liberalismo è un capitolo della lotta contro la sovranità: non una decisione su come darsi un destino politico da parte di una comunità, ma una contro-decisione su come limitare ogni destino e concreto orientamento in nome dell’individuo borghese e delle sue pretese di libertà, le quali storicamente rimandano alla contestazione borghese della monarchia e alla ricerca dell’emancipazione della sfera economica dagli obblighi inerenti la vita comune e politica. Ma questa modalità di concepire la costituzione funziona, quasi per necessità logica, solo dove un’unita politica già esiste ed è operante, cioè dove la decisione sull’unità ed esistenza politica di un popolo è già stata presa. Ecco allora il secondo e più pregnante significato di costituzione: la costituzione in senso assoluto come la concreta condizione generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale di un dato Stato. In questo senso lo Stato è la costituzione, cioè uno status di unità e di ordine. La costituzione è la sua anima e la sua esistenza individuale. La Francia e l’Inghilterra non hanno una costituzione, sono la loro costituzione. Quindi tutto ciò che in Francia e in Inghilterra ha fatto sì che tali Stati esistano e continuino a esistere - le loro istituzioni, i loro uomini, il loro popolo unito - esprimendo una certa politica nei confronti dei propri cittadini e degli altri Stati, tutto ciò è la loro costituzione.

Siffatta costituzione si regge su due principi: l’identità e la rappresentanza. Il primo, fondato sulla consapevolezza che lo Stato è res populi, implica la presenza del popolo come soggetto fondamentale della vita politica di uno Stato. Si potrebbe trattare di un principio radicalmente democratico, per il quale tutto il potere appartiene al popolo. Tutto il potere - ossia quell’illimitato potere costituente con il quale un popolo inizia a vivere esprimendo se stesso nella storia, quel potere di darsi forma, di darsi una configurazione concreta, il potere che rende un gruppo umano, diremmo con parole non schmittiane, una soggettività politica cosciente – è del popolo. Ma il popolo, che nello Stato è tutto e quindi può tutto, dice Schmitt, solo in rarissimi casi è capace di esprimere la sua volontà e solo in forme assai semplici, come l’acclamazione che dice di sì o di no. Emerge dunque la necessita di una rappresentanza. Cioè: non la presenza effettuale del popolo agisce, ma la sua rappresentazione per mezzo di una persona o un gruppo di persone che del popolo interpretano la volontà. Il potere costituente del popolo è infatti essenzialmente muto, benché illimitato. Esso ha bisogno di costituirsi in una serie di istituzioni in cui alcune persone lo rappresentano dando voce alla sua volontà. Ma tale rappresentazione è fatalmente dall’alto. Il mandato ha da essere libero, perché altrimenti il rappresentante, come puro megafono dei suoi elettori, perderebbe ogni valore e dignità, e per garantirne la fedeltà al dettato popolare si dovrebbe procedere a una votazione continua su ogni provvedimento, tale da rendere nulla la rappresentanza stessa. Quindi nella dimensione della rappresentanza è d’obbligo liberare il mandato e farvi entrare la rappresentazione di un’idea che, come già precisato in Cattolicesimo romano e forma politica è il fondamento della fiducia che il popolo ripone nel rappresentante che sia in grado di dare una forma alta e densa di significato etico-spirituale alla sua prassi politica. Il rappresentante per questo motivo dà forma allo Stato: “In ogni Stato devono esistere uomini che possano dire: L’État, c’est nous (Dottrina della costituzione, cit, p. 273), cioè tali da determinare con la loro azione quella più alta specie d’essere in grado di trasformare l’esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che vivono assieme in un’esistenza “come unità politica”. Ad essa si attagliano parole come “grandezza, altezza, maestà , gloria, dignità e onore”(ivi, p. 277).

In questo senso si determina il forte realismo schmittiano, che è sempre attento alla volontà che pone il diritto, ma non come puro arbitrio, bensì come volontà legittimata da una qualità ideale, superiore, rappresentativa, in modo che la fondazione di una comunità ordinata non è mai opera di pura violenza che si impone, bensì di una forza che viene riconosciuta e che è sempre aperta a ciò che la trascende. Tale attenzione alla reale configurazione dell’ordine non può accogliere il formalismo di colui che rappresenta la controparte teorica del nostro giurista, l’altrettanto famoso e importante studioso Hans Kelsen. Costui insisteva sullo Stato come sistema di norme e sulla possibilità di normare e rendere prevedibile l’intera vita politica e giuridica. Il problema fondamentale di “chi decide” doveva essere ricondotto a una norma che stabiliva alcune competenze e che indicava di volta in volta chi e come si doveva decidere per affrontare un dato evento giuridicamente e politicamente rilevante. Le leggi positive dovevano per lui essere a loro volta ricondotte a leggi più generali contenute in una carta costituzionale e non poste da qualcuno, ma logicamente presupposte dalle norme vigenti, e approvate da un’assemblea apposita. Semplificando molto, il ragionamento di Kelsen era insomma il seguente: siccome esistono e sono valide leggi, deve esistere una legge fondamentale che produce queste leggi come sua conseguenza. Questa legge fondamentale o norma delle norme o costituzione vige perché è necessaria logicamente alla vigenza delle norme di rango secondario, a prescindere da ogni considerazione riguardo alla giustizia, all’ordine, alla volontà concreta di esistere di un popolo. Così “per Kelsen hanno vigenza soltanto le norme positive, cioè quelle norme che hanno effettiva vigenza; esse vigono non perché debbono vigere per la loro maggiore giustezza, ma senza riguardo a qualità come razionalità, giustizia etc., solo perché sono positive. Qui cessa improvvisamente il dovere e cade la normatività; al suo posto appare la tautologia di una cruda effettività: qualcosa vige, se vige e perché vige” (ivi, p. 22). Il formalismo conduce a questo sistema di norme – cioè il diritto effettivamente vigente e riconosciuto - di cui la costituzione è semplicemente il fondamento logico, anonimo, tecnico, che è lì solo perché è necessario che ci sia. Questa cruda effettività, da un lato si limita a descrivere l’esistenza di qualcosa come delle leggi, senza alcuna valutazione critica e di contenuto, dall’altro le riconduce a un fondamento totalmente astratto che allontana il diritto dalla concreta vita dei popoli.

 

Il nomos della terra e la politica internazionale


Di fronte alle astrazioni del normativismo liberale e del positivismo kelseniano, per molti versi coincidenti nel comune intento di sottomettere all’imperio di una legge ogni aspetto della vita politica di un popolo, Schmitt insiste nel fondare il diritto e le leggi in una radicale concretezza esistenziale: dalla vita procede la legge e la legge non deve mai dimenticare la vita. Il nomos della terra (1950) rappresenta questo ulteriore passo di fissazione esistenziale del diritto. Dalla Dottrina della costituzione molta acqua è passata sotto i ponti. Ci sono stati gli anni Trenta con l’avvento del nazionalsocialismo e il tentativo fallito di influenzare ideologicamente gli orientamenti giuridici del Terzo Reich; c’è stata la guerra mondiale con il suo corollario di tragedie e distruzioni (Schmitt, accusato di aver collaborato con il regime hitleriano, subisce un breve periodo di detenzione e viene sottoposto a indagine e a interrogatori da parte degli alleati: da questa esperienza verrà fuori il testo autobiografico Ex captivitate salus – 1950); sta consolidandosi ora la divisione del mondo in due blocchi ed esordisce il lungo periodo della guerra fredda tra oriente comunista e occidente liberal-capitalista. Schmitt ha continuato nel suo percorso di ricerca sulla questione dell’ordine politico, estendendo i suoi interessi al di là dello Stato, verso le sempre più pressanti questioni di diritto internazionale. Come sappiamo tra gli Stati non c’è un terzo superiore che possa imporre coattivamente una legge. Se ciò è vero, è altrettanto vero che in Europa si è determinato il tentativo di dare una regolazione dei rapporti internazionali, per evitare una loro indiscriminata degenerazione, quale si era vista nella crudele e devastante guerra dei Trent’anni (1618-1648), a conclusione di un periodo travagliato di conflitti religiosi originati dal trauma della Riforma del 1517. Dalla pace di Westfalia si consolida uno jus publicum europaeum, un diritto pubblico europeo, nel quale gli Stati del Vecchio continente, riconoscendosi reciprocamente come soggetti sovrani, istituiscono tuttavia delle procedure che cristallizzano e quasi ritualizzano una lunga consuetudine diplomatica in cui la pace e la guerra non appaiono più rispettivamente la normalità e l’eccezione, ma vengono imbrigliati in una rete ideale di convenzioni giuridiche che limita fortemente le distruttività dei conflitti e consentono la reciproca convivenza. Pensiamo per esempio alle statuizioni per le quali la guerra si inizia con una dichiarazione e si conclude con un trattato, pensiamo al jus belli che descrive le condizioni che rendono un belligerante un soggetto riconosciuto dallo stesso nemico e dagli Stati neutrali, pensiamo alla determinazione giuridica dello stesso concetto di neutralità, pensiamo alle procedure militari, alla distinzione civile-militare, alla questione della divisa e al concetto di prigioniero di guerra. Pensiamo infine a quella forma concreta di politica europea, chiamata politica della bilancia, in cui ogni potenza agisce all’interno di un equilibrio complessivo che tutte le altre sorvegliano, intervenendo nei confronti di quella potenza che, con ambizioni espansionistiche che travalicano la misura accettabile da tutti gli altri, minaccia l’equilibrio stesso. Ciò implica che lo Stato sovrano, mantenendo la sua libertà di azione, si viene pur collocando in una comunità di pari al cui cospetto le sue azioni vengono valutate e considerate. Non c’è qui alcun superiore, ma un concerto di autonomie, fondato anzitutto su una comunanza di civiltà e di storia istituzionale. Ogni Stato europeo è libero e sovrano, ma condivide con tutti gli altri un nomos della terra. Ciò lo pone strutturalmente e inevitabilmente insieme-agli-altri. Ma che cosa è questo nomos, questa legge che si fonda sulla terra? La terra è justissima tellus, il luogo in cui si radica la vita concreta dei popoli. La terra retribuisce il lavoro umano con i suoi frutti, evidenzia nel terreno dissodato e coltivato nette linee di suddivisione e reca in sé recinzioni, case, delimitazioni e pietre di confine che rendono palese un ordine visibile e pubblico. Nella terra si radica l’ordine. Il confine segna la linea entro la quale c’è una legge. Nella terra si ripartisce lo spazio secondo giustizia. Essa accoglie appunto un nomos, una legge. Infatti, secondo Schmitt non c’è ordinamento (Ordnung) senza localizzazione (Ortung): “Alle occupazioni di terra e alle fondazioni di città è […] sempre legata una prima misurazione e ripartizione del suolo utilizzabile. Nasce così un primo criterio di misura che contiene in sé tutti i criteri successivi. Esso resterà riconoscibile fintanto che la costituzione rimarrà riconoscibilmente la stessa. Ogni successiva relazione giuridica con il suolo del territorio ripartito dalla tribù o dal popolo occupante, ogni istituzione di una città protetta da mura o di una nuova colonia sono determinati da questo criterio originario di misura e ogni giudizio ontonomo, ontologicamente giusto procede dal suolo” (Carl Schmitt, Il nomos della terra, tr. i.t, Adeplhi, Milano 1991, p. 23). La giustizia proviene dal suolo e dalla sua delimitazione/ripartizione che è mezzo di un’equità visibile, pubblica, oggettiva, quanto pubblica, visibile e oggettiva è la linea tracciata nella terra. Questo è un minimo comun denominatore storico-giuridico della civiltà europea nel suo complesso, che emerge in particolar modo in contrapposizione con il mare, la liquidità di un spazio s-confinato dove non esiste linea di demarcazione, dove tutto è libero, sregolato, piratesco: le scoperte di nuovi continenti e la navigazione oceanica rendono dal XIV secolo evidente tale contrapposizione (il libretto Terra e mare del 1942 descrive con grande suggestione la rivoluzione spaziale che ha comportato l’affacciarsi della civiltà europea agli spazi marittimi dell’oceano e la nascita di specifiche potenze marittime, come l’Inghilterra, l’Olanda o il Portogallo).

 

La guerra giusta, l’unità del mondo e il grande spazio


Gli Stati europei nascono con le seguenti caratteristiche: un legame con la terra, cioè un ordinamento concreto spaziale; la capacità di neutralizzare i conflitti interni; la relativizzazione, mediante il mutuo riconoscimento tra Stati sovrani del conflitto esterno. Tale ultimo obiettivo è ottenuto mediante il passaggio fondamentale dal criterio della justa causa belli a quello del justus hostis. Nel momento in cui, infatti, gli Stati europei si riconoscono, confermano reciprocamente anche il diritto sovrano di fare guerra, secondo le consuetudini invalse. Ciò fa di loro dei potenziali nemici, ma tali da avere nell’altro un nemico non assoluto, bensì partner in una comunità. Il nemico diventa “giusto” perché con lui si può combattere come tra duellanti che hanno preventivamente accettato regole del confronto. E, come nel duello d’onore, così anche tra gli Stati l’avversario è un pari e come tale, quand’anche sconfitto, deve essere ritenuto. Ciò configura la peculiare considerazione statuale della guerra: lo Stato, solo per il fatto di essere tale ha il diritto di fare la guerra, senza bisogno di ragioni. Non c’è alcuna necessità di una “giusta causa”, che peraltro ogni Stato normalmente avoca a sé con ragioni che nessun altro può smentire, se non limitando di fatto la sua sovranità. Anzi, la giusta causa finisce per avere un effetto boomerang: nata come dottrina ecclesiale per limitare i conflitti, quando nel medioevo la Chiesa pur poteva virtualmente presentarsi come organo super partes, essa finisce per incrementarli, perché nella distribuzione delle responsabilità, quando ciascun contendente aggiunge al suo diritto di far guerra un motivo essenzialmente morale, tende irresistibilmente a presentare il nemico come un partigiano del maligno, hors-la-loy, hors-l’humanité (fuori dalla legge, fuori dall’umanità). La guerra, relativizzata come duello interstatale, diventa nuovamente una guerra morale e infine una guerra di religione che punta all’annientamento del nemico come obiettivo essenziale per far trionfare il bene nel mondo. È con la Rivoluzione francese che la morale e la religione tornano a interagire con la dimensione bellica, diventando strumento del politico e finendo per essere poste al servizio. Esse tornano sotto le vesti secolarizzate dell’ideologia, cioè di una filosofia politica, quella dell’illuminismo, assunta in modo dogmatico e trasformata in surrogato laico e mondanizzato delle aspettative di redenzione metafisica dell’umanità. Come i cristiani preparavano un regno ultraterreno, i rivoluzionari intendono costruire un regno terreno. Come i cristiani confidavano nella salvezza dell’umanità per mezzo di Dio, così i rivoluzionari confidano in una salvezza tutta terrena e prodotta dall’uomo. Il regno dell’égalité, della liberté e della fraternité dovrà essere fondato mediante la prassi rivoluzionaria. Questa differenza, non da poco, rispetto alla tradizione religiosa lascia libero campo alla radicalizzazione fanatica del dogma, perché mentre l’opera di redenzione è nella religione sottratta all’uomo e parimenti lo è la vittoria contro il male, qui è proprio una parte dell’umanità che, in nome di un futuro di totale emancipazione, si arroga il diritto di indicare il cammino e i nemici da combattere e vincere durante il cammino. Così il politico con le sue dinamiche amico-nemico, lungi dal venire contenuto e gestito mediante reciproci riconoscimenti, intensifica le proprie dinamiche di associazione e dissociazione fino al grado massimo di violenza: la violenza dei buoni per estirpare il male dal mondo, l’ultima e definitiva violenza, che è pure la più crudele e devastante. Ecco allora che inizia, con la Vandea, la triste storia degli sterminii ideologici aventi lo scopo di purificare il mondo dalle contaminazioni del Male. Uguale impostazione di ideologia di redenzione collettiva e terrena avrà il comunismo, che assumerà la guerra civile (di classe) e la violenza purificatrice come strumento necessario di emancipazione degli oppressi e di instaurazione definitiva di una società giusta. Allo stesso modo il razzismo novecentesco assumerà la discriminazione razziale come analoga modalità di liberazione dell’umanità. Il liberalismo promette dal canto suo la redenzione mediante l’indefinita crescita economica in un paradiso terrestre di abbondanza nella compiuta società del godimento e parimenti si comporta con i suoi nemici con la massima spietatezza come dimostra l’atomica di Hiroshima e Nagasaki, Dresda e financo il processo di Norimberga. Ciascuna ideologia ha la sua guerra giusta da combattere per portare una pace definitiva all’umanità. Ciascuna a suo modo rifiuta l’idea di un’ineliminabile dimensione conflittuale che attraversa i gruppi umani e, volendo superarla, finisce per radicalizzarla. Perché il politico ha questa straordinaria forza d’attrazione e sottomette alla sua logica tutti gli ideali e le morali che non vogliano fare i conti con la sua pervasività. Tutte le ideologie hanno a loro modo combattuto lo Stato tradizionale westfaliano: qualcuno apertamente, parlando di un’estinzione dello Stato nella società senza classi, qualcun altro cercando di svuotarlo dall’interno mediante strumenti costituzionali. Qualcuno infine propone l’utopia di uno Stato mondiale, dove il politico venga sublimato nel tecnico e nell’economico, dove l’umanità acceda a una sola grande ecumene culturale e dove le differenze sopravvivano solo come folklore e non come idee di un destino storico autonomo e libero. Questo Stato senza nemici considererebbe tutti i conflitti come fattispecie di reato contro l’unica e uniforme legge mondiale, e li tratterebbe mediante operazioni di polizia. Esso renderebbe universale il grande sogno materialista del comfort generalizzato, di una pace universale, di un'unica fratellanza globale, pagata evidentemente con la fine delle differenze, delle identità popolari, del pluralismo delle visioni del mondo e della vita, della pluralità politica, culturale, religiosa. Paradossalmente quando Schmitt constata, nel saggio L’unità del mondo del 1951 la fine del primato europeo e della civiltà giuridico-politica continentale, che ha lasciato il campo a due blocchi contrapposti e ugualmente lontani dalla tradizione moderna, non può non notare che sotto il profilo delle idealità ultime, entrambi i blocchi tendono a una forma molto simile di Stato tecnico, centralizzato, globale ed estremamente oppressivo nella volontà di promuovere l’amministrazione generalizzata della vita umana mediante burocrazie e apparati freddi, anonimi, impersonali e onnipervasivi (siano essi i meccanismi della finanza capitalistica internazionale, o quelli delle burocrazie sovietiche).

La guerra fredda sovietico-americana, dunque, appare a Schmitt una delle ultime propaggini della nuova organizzazione mondiale, bipolare nei fatti, unipolare negli scopi, in cui, senza che le ideologie abbiano ottenuto ancora una vittoria definitiva, lo Stato è stato consegnato al novero delle esperienze superate dalla storia. 

Di fronte a tale deriva che ne è dell’ordine politico? Dove finisce la grande tradizione dello jus publicum europaeum? Dove la grande opera di civilizzazione e gestione dell’endemica conflittualità umana? Lo Stato muore e con esso tramonta l’occidente, come direbbe Oswald Spengler, ma per Schmitt non esiste un determinismo storico insuperabile. Come Toynbee egli ritiene che la storia sia caratterizzata dalla dialettica sfida-risposta  - i tempi sfidano, gli uomini rispondono pensando e agendo - e quindi mantenga una fondamentale apertura. La fine della statualità europea è una sfida al pensiero e alla creatività umana. Essa presenta, al di là della cupa religione dell’unità tecnico-economico-amministrativa del mondo, la possibilità di una nuova risposta a partire dalla concreta situazione storico-mondiale. “Ciò implica la possibilità di un equilibrio di forze, un equilibrio di vari grandi spazi, che creino tra loro un nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello e con dimensioni nuove, però, nello stesso tempo dotato di certe analogie con il diritto delle genti europeo dei secoli XVIII e XIX, che pure si basava su un equilibrio di potenze grazie al quale conservava la sua struttura. Anche lo jus publicum europaeum implicava un’unità del mondo. Era un’unità eurocentrica; non era il potere politico di un unico padrone di questo mondo, ma di una formazione pluralista e di equilibrio di varie forze […]. È molto probabile che l’attuale dualità sua molto più vicina alla pluralità che all’unità definitiva, e che siano troppo affrettati i pronostici e le combinazioni del One World” (Carl Schmitt, L’unità del mondo, in Idem, L’unità del mondo e altri saggi, tr. it., Antonio Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303-319, qui p. 309). Ma che cos’è questa positiva alternativa allo Stato? Il concetto di grande spazio (Grossraum) si riferisce a una specie di “espansione” dell’unità politica statale su una scala più grande, la cui condizione di possibilità è data dal territorio effettivamente influenzabile e controllabile da un soggetto politico attivo. Questi, all’interno di uno spazio maggiore di quello assegnato allo Stato tradizionale, articolerebbe sovranamente una pluralità di comunità (senza cancellarle) e costruirebbe una nuova sintesi politico-territoriale capace di entrare in rapporto con altri soggetti simili. Rimanendo legata ad una precisa collocazione spaziale, eviterebbe al contempo di ricadere nell’utopia liberal-comunista di uno Stato mondiale fondato su ideologie astratte. Al tempo stesso preserverebbe il pluralismo delle unità politiche, dei paesaggi del mondo, delle vocazioni geopolitiche, delle culture. Pensiamo, con un esempio nostro, a una serie di macro-soggetti continentali, come Europa, Nordamerica, Sudamerica, Russia, Cina, India, Australia, Umma musulmana, Africa centro-meridionale: essi andrebbero a costituire una nuova forma di organizzazione politica mondiale pluralistica, in grado di garantire i destini dei popoli in un contesto multipolare e al tempo stesso di articolare forme giuridiche di convivenza e di reciproco riconoscimento, capaci di limitare e depotenziare i conflitti. La riflessione di Schmitt pensa i grandi spazi ancora come estensione “imperialistica” di uno Stato nazionale, ed è questo forse il suo punto debole. L’intuizione feconda sta nell’opporre all’egemonia dei blocchi mondiali della guerra fredda la forza maggiore di unità politiche più estese e capaci di porsi da pari e pari nei confronti delle pretese egemoniche russo-americane e della loro tendenza a mondializzarsi. Naturalmente la prospettiva dei Grandi Spazi, rivista e corretta tenendo conto degli sviluppi storici del nuovo secolo, diventa ora ancor più necessaria di fronte all’ostinazione dell’Occidente americano, vittorioso nella guerra fredda, nel pensarsi come unico modello di vita politica e sociale e fine della storia.

 

Il katéchon


“Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima, infatti, verrà l'apostasia e si rivelerà l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione, l'avversario, colui che s'innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene (katéchon) perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell'iniquità (mystérion tès anomìas) è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene (katéchon). Allora l'empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2 Ts 2, 3-9).

Che cosa ha a che fare questo passo di san Paolo - riguardante la fine dei tempi e l’antecedente lotta tra l’Avversario , o Anticristo, e “ciò, colui che lo trattiene (katéchon)” - con la riflessione politico-giuridica schmittiana?

Il gesto del nostro giurista, quando ha parlato dei grandi spazi e delle innovazioni epocali avvenute con la guerra mondale e dopo la sua fine, è stato quello di allargare gli orizzonti, dall’ordine politico interno a quello internazionale, in un quadro storico che, pur non avendo mai travalicato gli ultimi secoli dell’Europa moderna, avverte vieppiù il carattere epocale degli eventi da lui vissuti negli ultimi anni. In linea con tale percezione, Schmitt cerca un ulteriore ampliamento di prospettive che riguarda il senso del destino di crisi e dissoluzione dell’ordine politico. Le Scritture paoline, in particolare la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, con la lunga tradizione interpretativa dei Padri e dei grandi dottori della Chiesa, offrono un eccezionale strumento interpretativo. Infatti, la “forza” che trattiene il dilagare del mistero dell’iniquità o dell’anomia (mancanza di legge), è stata associata all’Impero Romano e poi alla sua versione cristiana. Quindi ha ricevuto una declinazione “politica”, del resto plausibile a partire dall’uso paolino del termine nomos (che in lui mantiene ambedue i significati, religioso e politico). Per contro l’anomia, in quanto mancanza di legge, è facilmente associabile a tutto quanto concerne il venire meno e la dissoluzione dello stesso ordine politico che “trattiene” e al prevalere delle forze dell’Avversario. Con questo schema apocalittico il nostro giurista legge “teologicamente” il significato  storico della ricerca dell’ordine politico: a fronte dell’anomia che attraversa un’umanità sempre alle prese con la propria tendenza all’errore e al conflitto, l’ordine politico, proveniente da una forza storica, pur destinata alla provvisorietà, riceve il compito provvidenziale nel cammino della salvezza di testimoniare la signoria di Cristo sulle vicende umane anche nel mezzo degli eventi del secolo, anche nella realtà pienamente terrestre delle relazioni politiche e sociali. Ecco, in poche parole, il compito del katéchon, ossia di colui o ciò che trattiene (trattiene il divenire delle società verso il disordine, il caos, la guerra indiscriminata quali sintomi di un male operante nella storia)

Schmitt, nondimeno, è molto lontano dal proporre una filosofia o una teologia della storia. Egli non è incline a cedere alle forme di determinismo che i grandi affreschi filosofici impongono al divenire storico. Niente è determinato in un mondo in cui un piccolo resto di libertà ci è sempre riservato, quand’anche all’ultimo momento. Nondimeno egli pure conosce qualcuno dei grandi pittori come Spengler e Toynbee, ma soprattutto è consapevole che la forza del marxismo, suo grande avversario spirituale prima che teoretico, proviene dall’avere una teoria dello sviluppo storico. Perciò, influenzato dalle dottrine dei filosofi cattolici della controrivoluzione (Donoso Cortés, De Bonald e De Maistre), non costruisce uno schema compiuto della successione delle epoche, ma, non rinuncia nemmeno, per così dire, a esprimere una sensibilità e un orientamento generale sulla questione.

 Anzitutto nel mondo agisce il peccato. Diremmo che esso è la forza entropica della storia e della creazione. Dal peccato viene la consapevolezza del fatto che l’uomo è “pericoloso”, uno degli assiomi antropologici di Schmitt, e che tutto ciò che è costruito dagli sforzi della civiltà non si consuma solo per ragioni naturali, ma è sottoposto alla violenza di una forza dissolvitrice tipicamente amartiologica (dal greco hamartànein, verbo che significa sbagliare, peccare). Tale pericolosità della specie umana si manifesta in senso sincronico nel conflitto e nell’inimicizia e in senso diacronico nella progressiva perdita del centro da parte della civiltà europea e cristiana: l’affermarsi dei sistemi ideologici del Novecento in un clima di radicale secolarizzazione e di crisi dell’ordine politico lo dimostra. Tuttavia, lo studio dell’epoca della secolarizzazione e delle sue manifestazioni non diventa mai uno schema pessimista da contrapporre all’ingenuo ottimismo illuministico del progresso, bensì si configura come una vigilanza realistica e disincantata sul fatto storico.

Il fatto storico è una sfida che chiede risposte, ma l’interrogazione dialettica che viene dalla storia è sempre anche una provocazione e una minaccia. La storia quando sfida ad agire lo fa spesso in modo mortale e mettendo in questione radicalmente l’esistenza di un singolo e di un gruppo. L’atteggiamento può essere quello del ritrarsi nella molle condiscendenza ai processi in atto, che gode dello spettacolo dell’erosione dell’eticità – cioè di quella sostanza etico/metafisica del vivere civile, ossia di un ordine aperto alla trascendenza – aspettando l’avvento di ingannevoli “età dello Spirito Santo”, di millenni di pace e godimento, assicurati dai fanatici dell’apocalisse mondana, dai rivoluzionari di professione e dai puritani del mondo nuovo, assetati del sangue del nemico di turno, oppure può condurre a prassi diverse.

Da qui il riferimento di Schmitt alla figura del katéchon come perno di un’interpretazione autenticamente cristiana della storia che è consapevole della tragedia della vita dei popoli, ma sa guardare sempre all’assoluto e alla trascendenza, traendone la forza per opporsi alle derive del mondo, al suo male, alle sue degenerazioni, alle sue piccolezze politiche e sociali.

Così si determina la chiusura teologico-politica della riflessione schmittiana, che scrive alla fine della sua lunga carriera la Teologia politica II (1970), un testo che ribadisce la legittimità di istituire un’analogia tra la sfera della politica e quella della religione, in particolare cristiana, in risposta alle critiche di alcuni teologi come Erik Peterson. Dentro tale relazione analogica, diventa possibile pensare una legittimità superiore dell’azione politica, senza tradurla nella ricerca di forme teocratiche, ossia mantenendo l’essenziale distinzione tra le due sfere del potere e dell’autorità spirituale. Al tempo stesso ci si preserva dalle indebite forme di fanatizzazione morale e ideologica della politica che propongono l’assoluta autosufficienza tecnica ed economica di nuovi modelli di società, che prospettano l’avvento di ere di pace, uguaglianza e abbondanza e che finiscono più spesso con produrre inferni totalitari e liberticidi.


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

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