Probabilmente lo sbarco del futurismo in Argentina risale al 5 aprile 1909, quando il poeta modernista Rubén Darío pubblica nel giornale La Nación di Buenos Aires l'articolo "Marinetti e il futurismo", dando notizia del Manifesto diffuso a Parigi il 20 febbraio su Le Figaro. Nel 1926 il fondatore del movimento, ormai riconosciuto a livello mondiale, si reca in Argentina nel primo dei suoi viaggi oltreoceano. Lo accolgono i giovani entusiasti della rivista d'avanguardia Martín Fierro, un gruppo nel quale già i pittori Emilio Pettoruti e Xul Solar avevano viaggiato in Italia e incontrato diversi artisti futuristi. La rivista nel 1924 aveva informato i suoi lettori della pubblicazione del tabloid “Rovente futurista”, calco dell’omonima rivista parmense nata da un'iniziativa di Pietro Illari, che il suo fondatore replica a Buenos Aires dopo esservi trasferito. Quindi l’interesse per le innovazioni italiane si era già manifestato e, in coerenza con tale orientamento, nel 1926 i martinfierristi dedicano buona parte del numero 29-30 del luglio 1926 al futurismo e al suo fondatore. Tra i molteplici interventi, si incontra questo importante, simpatico e poetico articolo di Leopoldo Marechal, giovane promessa delle lettere argentine, mantenuta nelle decadi successive con opere di rilievo assoluto come il romanzo Adán Buenosaires (1948, tradotto in Italia da Vallecchi), la raccolta poetica Heptamerón (1966), i saggi di estetica tra cui il Descenso y ascenso del alma por la belleza (1939), o le opere teatrali tra le quali La batalla de José Luna (rappresentato per la prima volta nel 1967).
Non è vero che Marinetti l’è morto, Pun!
Marinetti, Pun!
Marinetti, Pun!
Così dovrebbe modificarsi la canzone sabbatica del volgari
- rumorosi parvenu della notte - che all'alba delle domeniche musicano gli
omnibus ebbri di caffè e dell'Orchestra delle Signorine.
Marinetti sopravvive al suo mezzo secolo di pugilato. In
America sta regalando a volte un eccesso delle sue autorevoli pastiglie di
stupore. È un Messia con gilet di futuro; e davanti all'indignazione degli
uomini accarezzò molte volte la nutrita barba della sua svergognatezza geniale.
Non ricorderò la sua opera, nemmeno ai suoi proseliti:
Marinetti poté evitare l'opera scritta, inutile appendice del suo lavoro
dinamico. Una lettura dell'antologia futurista pone in evidenza la travagliata esplorazione di uomini entusiasti, ma con mortali cadute nell'ieri, nell'avant'ieri e nel sempre della volgarità.
Io cerco Marinetti nei palcoscenici, quando verificava la
produzione orticola del suo paese, una specie di stregone che cambiò
l'ammirazione in applauso e lo scetticismo in legumi. Elogio la sua mira contro
i vecchi bluff, la sua violenza da Girolamo Pagliano, la sua chirurgia brutale
che infieriva sull’Italia sofferente il mal di Carducci e l'appendicite
dannunziana.
C'è un'epoca dell'arte nella quale le rotte appaiono
esaurite definitivamente. Le idee e i sistemi arrivano a quello stato di
maturità, vicino alla putrefazione, che rende imminente la caduta di una
sensibilità.
L'artista sente gravare il tedio delle vecchie fonti; un
astio desolante si impossessa di lui a fronte del cadavere delle cose
irrimediabilmente concluse.
Tutto il mattutino, tutto l'imprevisto e l’agilità del suo
essere cerca un'espressione distinta che lo riveli nella sua forza totale e
nella grazia libera dei suoi movimenti.
Allora il creatore si situa nell'altezza, come una vedetta
docile a tutti i venti della possibilità. Il suo piede entusiasmante inaugura
cammini a caso; tutti i giorni si sveglia accanto alla sua speranza, diventa
guida nella topografia del dubbio e sa ricostruirsi, meraviglioso architetto.
Brandisce il suo fanatismo come una daga: è un incendiario,
dinamitardo pugilatore. Ha l'orgoglio dell'uomo che possiede un angolo inedito
di mondo e traccia un segno di quelli che mai arrivano, perché nella temporaneità
del suo giorno si è avvicinato alla notte necessaria.
Questa è la gloria di Marinetti. Infuriò come il vento
sopra l'albero di frutta andata a male; sfrondò le terre e rese suggestiva la
facilità di un sentiero, perché al camminarvi quelli della mattina possano innalzare
il loro sguardo. È il lato negativo di tutto il Rinascimento e una negazione
annuncia la vicinanza di grandi affermazioni.
Niente rimarrà della sua opera: Marinetti è il gesto,
l'atteggiamento superbo, il manifesto urlante fissato a un angolo del tempo.
Strappò alla vita la sua cintura di castità che una retorica in menopausa le
aveva allacciato, grazie a lui può rivelarsi una volta di più la nudità di Eva.
Io saluto in Marinetti tutti gli uomini liberi, tutti
quelli che si azzardarono a dire che la bellezza non è una divinità statica, ma
un movimento che assume la larghezza del nostro passo e diventa perfetta con la
nostra stessa perfezione.
(tr. it. di M. Maraviglia)