domenica 10 gennaio 2021

Capitol Hill: apologia di una visita non guidata. Epifania della democrazia … e della reazione

 


Il popolo oltre i leader

Il comizio “Save America” è finito. “Che ne dite se sfiliamo davanti al Campidoglio (la sede del Congresso americano a Washington)? Ma sì … già che ci siamo!”, si saranno detti gli americani convenuti nella capitale per ascoltare il loro presidente. Le parole che avevano sentito sicuramente si riferivano a una vittoria elettorale rubata. In effetti lo spettacolo cui si è assistito è stata la congiura di tutti i poteri forti d’America che hanno vinto la partita persa con la Clinton: da un lato raschiare il fondo del barile elettorale democratico, dall’altro provvedere con qualche aiutino di qua e di là, per sopperire a qualche assenza, a qualche voto mancante. Poi tanto ci sono i giornali, le tv, i Gates e gli Zuckemberg che premono, che legittimano, che trasformano le denunce dei brogli in vaneggiamenti di chi non vuole abbandonare la poltrona. Troppe poche guerre ha fatto Trump, troppo poco imperiale l’America di Trump, e dentro i confini economia in crescita fino alla tragedia del covid cinese, pochi aborti, poco peso ai deliri politicamente corretti … no, così non può andare! Trump parla alla folla, ma poi, in un sussulto di viltà borghese, non la guida al Campidoglio. La sua presenza là avrebbe avuto un senso. Se avesse voluto bloccare l’incursione, l’avrebbe potuto fare lui. Se l’avesse voluta guidare, l’avrebbe potuto fare lui. Invece ha preferito assentarsi. E il popolo ha fatto da sé.

 

Democrazia: identità di governanti e governati. Da Robespierre a Tocqueville e oltre

Che cos’è la democrazia? Certo è il “potere del popolo”. Fin troppo semplice. Ma questo potere non si realizza se non nell’ “identità dei governanti e dei governati”. Le stesse persone devono essere quelle che governano e quelle che sono governate. Quello che fa il governo non è nient’altro che quello che ciascuno farebbe nei confronti di se stesso. È un ideale che presuppone la capacità di ciascuno di autogovernarsi e l’assoluta onestà intellettuale del governante nello smettere di considerarsi tale, se non nei confronti di sé stesso. È un’utopia che presuppone la virtù. Ma siccome la virtù è, essa stessa, un’ideale regolativo e non si può dire mai acquisita, allora lo sforzo che bisogna compiere è quello di conquistarla. Ma siccome, oltre ad essere difficile, ci si mettono anche i refrattari, i nemici, coloro che lavorano-contro, coloro che preferiscono il Vizio…allora bisogna imporla: “Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. È molto meno un principio contingente, che non una conseguenza del principio generale della democrazia applicata ai bisogni più pressanti della patria. Si è detto da alcuni che il terrore era la forza del governo dispotico. Il vostro terrore rassomiglia dunque al dispotismo? Sì, ma come la spada che brilla nelle mani degli eroi della libertà assomiglia a quella della quale sono armati gli sgherri della tirannia. Che il despota governi pure con il terrore i suoi sudditi abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il terrore i nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come fondatori della Repubblica”.

Quale eco di puritanesimo selvaggio in queste parole di Robespierre[1]! Per chi ne coglie tutta l’inaudita violenza, l’unica soluzione è quella di rinunciare a questa democrazia e accettare il popolo per quello che è. Una democrazia che non sia selvaggia vuole pazienza e sopportazione, realismo e disincanto. Poi bisogna leggere Tocqueville e capire che cosa c’è di positivo nelle consuetudini americane, con i suoi pesi e contrappesi, con il suo associazionismo e i suoi corpi intermedi – invenzione dell’Ancien Régime -, senza rinunciare alla critica. Lo Stato è res populi, questo è il grande argomento democratico; le élites devono eccellere, questo è il grande argomento antidemocratico. La politica, nella tradizione euro-occidentale, si gioca entro questi due estremi.

 

La liturgia liberal-democratica, un’ipocrita conciliazione.

Il liberalismo è l’ideologia borghese della separazione dei poteri e del primato del legislativo. Si può dire con una certa approssimazione, che esso nasce nel Seicento dall’aspirazione dei nuovi ricchi ad avere spazio libero per fare i propri comodi economici, oltre e al di là della volontà del sovrano. Questa è la libertà. Questa è la lotta dei liberali contro l’autorità: una costante di tutti i tempi. I nostri regimi, le cosiddette democrazie occidentali, nascono invece da un compromesso del liberalismo vittorioso con le istanze popolari che ne avevano permesso il trionfo. La rivoluzione contro le monarchie era stata compiuta con l’ausilio necessario del popolo…almeno quello di Parigi, almeno quello cittadino più sensibile alle parole degli oratori che l’avevano saputo infiammare contro i despoti. Liberal-democrazia significa un sistema strettamente controllato dalle élites borghesi, ma legittimato dal consenso popolare. Il popolo, come diceva Schmitt, può solo dire di sì o di no…al resto pensano gli illuminati, i possidenti, i ricchi, i furbi, gli immanicati etc. Siccome questa realtà è ben prosaica, serve una liturgia. Il potere sempre ha le sue liturgie, ma da quando la monarchia è stata smascherata come dispotismo, da quando è stato per sempre denunciato l’inganno criminale del sempiterno connubio trono-altare, ogni liturgia avrebbe dovuto essere bandita. Il diritto umano dei popoli è infatti l’esatto contrario del diritto divino dei re. Allora le liturgie democratiche diventano una contraddizione in termini. Esse appaiono insopportabili, molto di più di quanto non lo fossero i rituali di corte dei re taumaturghi. La sacralità dei luoghi, per esempio delle aule parlamentari, le cerimonie di insediamento, le parate, gli inni, gli alzabandiera, le celebrazioni, i gesti rituali e ripetitivi dei rappresentanti del potere…tutto ciò a rigore non dovrebbe essere ammesso…tutto ciò è residuo del dispotismo: decorazioni e culti per coprire una realtà tanto, troppo prosaica.

 

Il popolo contro le liturgie liberali.

Di fronte a questo sopruso dispotico, il popolo si riprende i suoi diritti e chiede il divorzio dalle élites liberali, (questo è il populismo) le quali nel frattempo si sono fatte sempre più autoreferenziali, fino addirittura ad avere elaborato un linguaggio proprio, l’odioso politicamente corretto, che dai campus universitari, loro eletto luogo di riproduzione, vorrebbero che forzatamente fosse imposto a tutta la società. Il popolo si riprende i suoi diritti, anzitutto esteticamente. Trump non ha voluto guidarlo. Ebbene il popolo ha organizzato una visita non guidata nei luoghi del potere. Qualcuno potrebbe dire che quello non era il popolo in base a un discorso puramente quantitativo. Falso, come tutti i discorsi puramente quantitativi! Il popolo si distingue per qualità: esso non è l’élite borghese, ricca, pasciuta, decadente, laida e ipocrita; esso non è la canaglia, per esempio i black lives matter, fanatica, violenta, iconoclasta, manipolata con poche e ignobili parole d’ordine, ladra e assassina. Tra questi due estremi si situano coloro-che-non-hanno-potere, che aspirano a costruirsi la propria vita senza nuocere ad altri. Possiamo guardare con altezzoso sussiego a questa categoria di persone, così refrattaria alle parole d’ordine dello Zeitgeist, così fuori dalla storia, che vive, lavora, fa figli che vivranno, lavoreranno e faranno figli, sempre a rischio di finire triturati dal potere, dalla società, dalle leggi, dai buoni di turno, dai riformatori del mondo, dai difensori della Giustizia… ma la loro è la sostanza morale della storia e della vita, una sostanza che si muove solo quando il livello di sopportazione è superato e solo quando i buoni, i giusti, i democratici, i santi hanno veramente rotto le scatole!

Allora, oltre le democrazie teorizzate, pensate, progettate e regolarmente tradite, c’è una democrazia eterna, che dal basso del popolo-così-come-è e di coloro-che-non-hanno-potere si esprime in due modi: nell’acclamazione e nella rivolta. 1) L’assemblea riunita approva e mostra la sua volontà. Guai a contraddirla, guai a toccarla. 2) La folla riunita si è stufata e agisce.

Il secondo caso è quello americano. Le prime vittime della sua azione sono le decorazioni e i paramenti sacri del potere. Ecco che cosa è successo a Washington: il popolo entra nel tempio del potere liberale e para-democratico e disincanta, decostruisce, demistifica i simboli delle liturgie liberali con cui si usa raccontare la favoletta della sovranità popolare e della legalità democratica. Ricorda che a lui stesso appartiene il potere costituente e che tale prerogativa non può essere limitata e conculcata da nessuna delle istituzioni del potere costituito. Che non c’è legalità democratica che tenga a fronte della legittimità popolare.

 

La beffa dello Sciamano, una dissacrazione esteticamente sublime.

Come si esprime la rivolta? Con gesti. Non sono le esplosioni di rabbia plebea delle manifestazioni liberal (poi le verginelle del giornalismo à la page credono di essere acute quando domandano perché al Campidoglio non c’era lo stesso schieramento del Lincoln Memorial durante la sfilata dei black lives matter… domanda retorica, stupida o in malafede, cui bisogna subito rispondere non retoricamente: perché l’esperienza dice che la violenza isterica non appartiene al popolo, ma alla canaglia, e si vede subito quando c’è il popolo e quando la canaglia). Non è, dunque, il gesto violento dell’iconoclastia puritana, ma l’espressione ingenua di chi dice di no a un furto. Semplice: non si ruba. Semplice: se uno cerca di derubarti gli dici di no. Semplice: se questo indossa divise e paramenti sacri, lo si spoglia e gli si dice: il re (ladro) è nudo.

Come si annuncia la nudità del re? Con una modalità estetica. Abbiamo qualche immagine: Jake Angeli, lo sciamano, in pelliccia, corna di bisonte, catena al collo, faccia dipinta coi colori della bandiera, la stessa che impugna con orgoglio facendosi fotografare dallo scranno di Mike Pence, presidente del Senato e vicepresidente degli Stati uniti. Abbiamo Richard Barnett, detto Bigo, che appoggia le sue pesanti scarpe sulla scrivania di Nancy Pelosi e preleva dalla postazione una busta da lettera che regolarmente paga lasciando 25 centesimi. C’è un tizio, vestito da Batman, che a un certo punto si erge tra la folla (anche se sembra che l’immagine sia un fotomontaggio); c’è un signore in posa mentre solleva un piedistallo con il bassorilievo dorato di una stella della bandiera americana; c’è quello che gira con la bandiera sudista, simbolo degli sconfitti che sempre fa paura ai benpensanti; c’è il deputato della Virginia che cammina per le stanze del palazzo, dice il giornale, “come un turista in visita”, e ammonisce “niente vandalismi, mi raccomando”.

Le categorie che mi vengono subito in mente sono il kitsch e il sublime. Il kitsch per il moralizzante Baudrillard “si definisce di preferenza come pseudo-oggetto, vale a dire come simulazione, copia, oggetto artificiale, stereotipo, come povertà di significato reale e sovrabbondanza di segni, di riferimenti allegorici, di connotazioni disparate, come esaltazione del dettaglio e saturazione per mezzo dei dettagli"[2]. Per il più spregiudicato Zevi "Il kitsch è il linguaggio del nostro tempo. In un mondo in cui è la realtà stessa a dominare, nella sua immediatezza, eccentricità e diversità, il kitsch riesce ad esprimere questa ricchezza meglio di ogni altra tendenza". In questa eccentricità, elemento proprio del kitsch è il contrasto dell’opera con il suo contesto: il kitsch è fuori posto, è un oggetto sbagliato in sé, perché riprodotto, perché maldestra imitazione, perché di scarso valore e, infine, perché dis-locato e inopportuno. Ma Zevi parla anche di immediatezza e diversità. L’oggetto kitsch colpisce subito e salta all’occhio, è un pugno in un occhio. Ebbene, Jake lo sciamano, Batman e Bigo sono esattamente fuori posto e poi, come delle opere dozzinali, sono tremendamente ordinari dentro un ambiente eccezionale, dentro il giardino delle élite, gli umili giardinieri hanno rubato la scena ai gran signori della democrazia.

Ma dal kitsch al sublime il tratto è assai breve. Il sublime è fuori-forma, eccentrico, diverso … ma perché tende all’infinito: sublime matematico, dice Kant, infinitamente grande; sublime dinamico, infinitamente potente. Quando il limite della forma viene violato, quando la forma diventa angusta fino ad essere essa stessa kitsch per l’impossibilità di un rimando a un contenuto significativo, quando un’architettura simboleggia solo l’ordinaria manipolazione della realtà e la sistematica digestione e defecazione politicamente corretta degli ideali, allora il kitsch diventa sublime, perché dimostra che un altro modo di essere è possibile. Il travestimento dozzinale ed esibizionista, immesso dentro l’affettazione decadente e finto-classica di un palazzo della menzogna le cui colonne sorreggono il nulla di un potere che vige perché vige, è uno sputo che diventa una marea purificatrice. La forma affettata, la pura esteriorità, l’armonia solo apparente di un ordine che non risplende perché è ornamento dell’oscurità, kallopìsma òrfnes, il cinismo retorico in forma figurativa: tutto ciò viene sfondato dalla sublime differenza della semplicità ordinaria del vero, del carattere umano che si manifesta nell’immediato per ciò che è, dell’istinto popolare che proviene dal fango, humus degli uomini, ma puro e senza infingimenti.

Tutto ciò ha poi il sapore della beffa. Non importa quanto intenzionale. L’opera, il gesto è in sé beffardo. L’immissione di quel vino nuovo in otri vecchi è al tempo stesso una presa in giro di quella decrepitezza laida. I rozzi fan di Trump al Congresso sorridono e fanno sorridere come Trinità e Bambino in un ristorante di lusso. L’irruzione è gioiosamente menefreghista e si impone quasi dicendo al borghese scandalizzato con la boccuccia a culo di pollo: “Ecco, sono qui, adesso ti becchi la mia puzza e i miei modi rudi che irridono la tua presunta forza”, una forza che si manifesta ora come viltà, effeminata pruderie, raffinatezza vuota da basso impero, insignificanza e miseria travestita in abiti da grandeur… Il travestito sciamano mostra che gli habitués del luogo sono i veri travestiti, perché sono il nulla che si dà arie di grandezza. E infatti il senatore-tipo, al felice irrompere della festa popolare, ha paura e si nasconde sotto le sue poltrone, chiedendo protezione, frignando tutto il suo spavento, impallidendo della propria sordida impotenza.

Così lo scherzo funziona: “Guarda che non ti facciamo niente, smettila di fartela addosso, o gran rappresentate del popolo … guarda che il popolo è qui, non temere, stai tranquillo, sorridi, ci stiamo tutti divertendo”. E il senatore si riprende, salvo poi, alla fine di tutto, denunciare, denunciare che si è salvato per un pelo, denunciare che lo volevano rapire, denunciare che volevano fargli la bua!

Tutto ciò, come detto, trascende complessivamente le intenzioni e il carattere dei singoli: è un tutto che è più delle sue parti. Bisogna vedere l’evento nella sua totalità…un grande happening, un’opera d’arte che fa impallidire quelle di Christo. Un’opera d’arte sublime, fatta della vivente scultura degli uomini, di folle danzanti, di pitture e tattoo, di architetture rimodellate nella loro destinazione, di letteratura pop, di parole, musica e poesia…l’opera d’arte totale, l’arte dell’avvenire, direbbe Wagner. La perfetta consonanza dell’arte con la vita, una vita che si riprende i suoi diritti contro la forma morta, il situazionismo di una vita esuberante che vuole far festa, seppellendo con una risata la cadaverica arroganza di sinistri demagoghi e strateghi della struttura passatista dello status quo.

 

La festa e la morte: in ricordo di Ashli Babbit

Ogni Fiume ha il suo Natale di sangue, ogni festa politica ha la sua corrispondente tragedia. Non sembri sproporzionato il paragone con il lontanissimo e glorioso episodio dannunziano. D’altronde ogni analogia possiede una maior dissimilitudo e tante sono le differenze, a partire dall’enorme disparità di caratura dei leader: da una parte un poeta coraggioso fino all’eroismo che si mette sempre in prima fila, che ha fatto la guerra in prima persona, contribuendo fattivamente alla vittoria della sua patria,  che ha cultura sterminata e sensibilità profondissima, che vive nel culto della bellezza e che infine possiede un genio smisurato e inarrivabile; dall’altra un imprenditore di successo, ma senza grande levatura umana, senza grande coraggio, senza grande cultura, benché con tratti di autenticità, capacità di cogliere le esigenze delle masse e con un progetto di ricostruzione della sua nazione fedele alla storia e allo spirito profondo di quest’ultima. Diversi i capi, diversi i protagonisti, diversi anche i comprimari…non c’è molto da aggiungere…

Ma l’analogia è che in entrambi i casi la politica diventa occasione per una festa popolare che trasgredisce i confini della presunta santità delle istituzioni. Allora si mette a nudo l’insignificanza della classe politica e, con la leggerezza di una gita fuori porta, si genera scandalo nella comunità dei Cosimo Trombetta che detengono alte cariche ammnistrative dei rispettivi Paesi: Cagoia Nitti e Cagoia Biden o Cagoia Pelosi. È la messa in crisi del mondo dei cagoia. E allora certamente il pitale avvolto in un mazzo di rape, lanciato da Guido Keller, nudista già ritratto col tridente di Nettuno nelle spiagge di Fiume, sul palazzo del parlamento italiano, fa il paio che le corna di Jake Angeli e i 25 centesimi di Bigo Barnett… diversi contesti, stessa irriverente ironia, stesso effetto straniante rispetto alla mediocrità ladresca del potere costituito.

E la morte di una combattente (e qui non conta nulla il fatto che le guerre americane siano state tutte sbagliate) come Ashli Babbit nell’Epifania 2021 è certamente analoga a quella di altri combattenti nel Natale 1920. C’è sempre un generale Caviglia che fa il lavoro sporco e costringe altri a sparare. In questo caso gli altri erano dei poliziotti impreparati che hanno ucciso per paura, senza essere minacciati. Ashli stava entrando disarmata nei corridoi che portavano all’aula del Senato ed è stata assassinata dalla mediocrità alla cui imposizione si stava ribellando. È morta “amando l’America con tutto il cuore”,  dicono i giornali. È morta perché la politica può essere festa, ma è anche sangue, e il nemico deriso non perdona. Perché la politica riguarda i legami fra gli uomini, che quanto più si legano fra loro, tanto più si contrappongono ad altri. E se non c’è un’educazione al conflitto onorevole, se manca uno jus in bello, se manca un riconoscimento del diritto alla lotta, se manca la capacità di cogliere nella lotta ciò che è opportuno e ciò che non lo è, non ci si ferma al momento giusto e può capitare di uccidere così, per niente, per semplice, inutile, piccolo amor proprio. L’uccisore che ama se stesso, l’uccisa che ama l’America, nulla di nuovo sotto il sole!

Assieme ad Ashli Babbit, bisogna per ricordare anche altri tre morti, deceduti in circostanze meno chiare, subito attribuite dalla narrazione dominante a motivi fisiologici (infarto, ictus etc.). Sarà difficile rendere loro giustizia, oltre alla giustizia inerente a priori alla loro condizione e a quello che stavano facendo. Infine, c’è anche un morto tra la polizia. Anche in tal caso non è chiaro lo svolgimento dei fatti, sembra che abbia subito dei colpi durante una colluttazione con i manifestanti e che poi sia crollato una volta finito tutto e tornato in caserma. Anche lui si è sacrificato, anche lui fa parte dei migliori. In questo caso il sacrificio definisce la qualità umana (non la causa, ma la pena cui ci si sottopone assumendo i rischi della propria condizione, definisce il tipo di uomo che si è…). Cerchiamo di stare ben distanti dai pregiudizi law&order come da quelli ACAB… sempre orientati a giudicare gli uomini in base alle categorie cui appartengono e non in base all’agire e al patire!

 

Essere americani: antiamericanismo radical chic

Amare l’America…embeh? Che male c’è? Un americano che cosa dovrebbe fare? Dovrebbe forse fare come i surrealisti francesi che odiano tutto ciò che è francese? Come i comunisti tedeschi che odiano tutto ciò che è tedesco? Come i ricchi cosmopoliti di tutte le razze e di tutte le nazionalità, pronti a diventare cittadini dei loro paradisi fiscali? O dobbiamo giudicare una forma di rozzezza spaventosa e orripilante l’amore di un americano per l’America, per poi rivendicare la legittimità del nostro patriottismo? Forse perché l’America che noi vediamo è tutta dentro il range Steven Segal-Woody Allen e non è, invece, terra, vita, lingua, paesaggi, pensiero, arte: William Faulkner, Flannery O’Connor, Jack Keruac, Walt Withman, Thomas Stearns Eliot, Thomas Merton e, udite udite Ezra Pound?

Insomma, sarebbe ora di emanciparsi da quello sterile antiamericanismo snob che rivendica Il male americano o Il nemico principale come letture aristocratiche che avrebbero illuminato ciò che nessuno avrebbe capito, che cioè  gli USA sono una potenza imperialista da combattere sempre e comunque. Il ruolo deleterio dell’imperialismo statunitense è sotto gli occhi di tutti coloro che nel corso del Ventesimo secolo lo hanno subito. Ma un conto è ciò che gli USA fanno nei riguardi dei Paesi che ritengono sottomessi e inferiori, un conto è l’orribile e violenta ipocrisia di dominio della dottrina Monroe, contro cui è lecito scagliarsi con tutte le forze, altro conto è ciò che l’America è: una nazione, ciò una forma di vita che esprime l’infinita ricchezza dell’umano e che è un crimine perdere. Perché delle due l’una: o riteniamo l’ordinamento pluralistico del mondo come una ricchezza, oppure lo consideriamo un flagello. Nell’un caso siamo nazionalisti, nell’altro imperialisti. E se da imperialisti lottiamo contro l’imperialismo americano solo in nome di un altro utopico, più giusto, più santo imperialismo siamo ipocriti e puritani mascherati. Se in più  vediamo nelle più sincere manifestazioni popolari americane dei meeting di buzzurri, preferendo loro le criminali espressioni della canaglia antirazzista e politicamente corretta, che in tutto il mondo sono sempre le stesse, hanno sempre gli stessi simboli di morte, gli stessi insulsi slogan da servizio della CNN di terz’ordine … se va a loro la nostra preferenza, allora siamo noi i veri, autentici e più sinceri mondialisti…i più sinceri sostenitori dell’uomo a una dimensione, del regime orwelliano della fratellanza imposta, i più acritici fautori dell’avvento del kali yuga egualitario  e totalitario sulla Terra.

 

Vigliacchi di tutti i paesi, unitevi!!! Epifania della reazione.

Tra le avanguardie dell’età del ferro andiamo a collocare tutte le autorità dell’Occidente europeo che hanno avuto una reazione sinergica e concomitante: la condanna senza appello di un attacco alla democrazia. Ora, solo un soggetto stordito dal potere – il potere logora anche chi ce l’ha, e ciò accade anzitutto in interiore homine – può considerare antidemocratico il popolo che si raduna nella piazza e decide. Questa, viceversa, è l’origine, diretta, pura, essenziale della democrazia, di cui l’escamotage della rappresentanza è solo un pallido simulacro. Ma Emmanuel Macron si scandalizza e così fanno Boris Johnson e Angela Merkel, mentre chiudono a doppia mandata i loro armadi stracolmi di scheletri, e via via  seguono tutte le marionette delle burocrazie europee, esperte in totalitarismi per via amministrativa, aborti, eugenetica, commercio di uomini, inverni (e non primavere) arabi e insurrezioni teleguidate.

Venendo all’Italia, non sorprendono certo le reazioni della sinistra integrata, con i suoi interessi globali e le sue locali necrosi etico-politiche. Fanno, invece, veramente ribrezzo le posizioni dello schieramento (fintamente) opposto: dal titolo del “Giornale” di Berlusconi: “Non è la nostra destra”, agl’inopinati ragionamenti di Sallusti sulla “caduta del muro di Berlino per i sovranisti” e alla retromarcia di tutti i filoamericani di Forza Italia e della Lega, che hanno difeso pubblicamente i peggiori crimini della amministrazioni di Washington (dalle guerre dei Bush, a quelle di Clinton e Obama fino all’ultimo assassinio politico di Soleimani), per poi prendere le distanze a mezzo stampa dai fatti di Capitol Hill … insomma un generale e nemmeno celato badoglismo si è impossessato di tutto lo schieramento di centro-destra, assumendo peraltro l’argomento risibile della violenza, tema di sguazzo di certa sinistra strabica che immagina sempre e immancabilmente apocalissi di destra proiettando i suoi sadismi e le sue frustrazioni sul nemico politico. Sarebbe stato facile per Giorgia Meloni prendere  la posizione giusta, ma da quel che ho capito, il segretario di FdI appoggia Trump pur condannando l’irruzione nel Congresso: esattamente il contrario di quello che avrebbe dovuto fare, perché Trump - che ha ragione a lamentarsi dei brogli elettorali troppo facili con il voto per posta - ha detto a tutti: “Armiamoci e partite” e in ciò è indifendibile … e se la situazione è degenerata è stata anche colpa sua … Proviamo immaginare se lui stesso, al contrario, avesse accompagnato il suo popolo nelle stanze del potere – anche le sue – e avesse detto a tutti: “Questa è roba vostra, perciò vi ascoltiamo!!!” … e a chi si fosse ribellato in nome delle istituzioni e bla bla bla, avesse replicato: “Zitto, taci perché qui parla il popolo!” ... Sì va bene, si dirà, stiamo parlando di Trump, mica del Comandante… e il poeta è andato dove c’era la vita, senza temere la morte; Trump ha temuto la vita, stando ben lontano da ogni pericolo.

Così oltre a quella di Cristo Signore, a Capitol Hill il 6 gennaio si sono avute diverse epifanie, di diverso segno: l’epifania della democrazia liberale svelata nelle sue nudità di opera buffa; l’epifania della volontà popolare capace esprimere lo stile e di dare voce all’identità dell’America più profonda e vera; l’epifania della reazione e della ferocia liberal, la vendetta dei pavidi che non tarderà ad abbattersi sui colpevoli, anche attraverso una ben collaudata macchina del fango; infine l’epifania della reazione europea e italiana, sorpresa con i suoi comprimari, assai poco coraggiosi, nell’alacre lavoro a favore di un sinistro re di Prussia, quello di cui finiranno prima o poi per lamentare soprusi e ingiustizie liberticide.  

 

Solo una jacquerie

 

In fondo però è stata solo una jacquerie e i protagonisti erano solo dei Jacques Bonhomme, pronti a farsi reprimere dai loro padroni. I padroni, corretti e benvestiti, possono anzi manifestare per loro mezzo l’  angelicata voglia della quiete acquiescente che essi chiamano pace e che più correttamente sarebbe il cimitero della critica e della lotta e l’apologia di tutti gli appassimenti. Anche i professori che rivendicavano una più autentica genuinità rivoluzionaria lo hanno detto: è l’estrema destra degli idioti. Con il suo gesto inconsulto tale idiozia ha seppellito tutti i progetti delle destre rispettabili, che tanto somigliano alle loro controparti di sinistra.

Felice idiozia, mi viene da replicare, quella che porta un lampo di luce e la voce troppo semplice dei Forrest Gump di Capitol Hill a cantare per un momento di gioia vera, che fa balenare per un momento strade divergenti, mondi possibili, aule sorde e grigie che diventano concerti di musica country.

 

 

 

 

 

 



[1]Discorso pronunciato il 18 piovoso, anno II (5 febbraio 1794). Il testo originale è in Oeuvres de Maximilien Robespierre, Société des études robespierristes, Parigi, 1961-1967, a cura, fra gli altri, di Marc Bouloiseau, Georges Lefebvre e Albert Soboul, v. X, pp. 350-366; il testo italiano è in Maximilien Robespierre, La rivoluzione giacobina, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 158-181.

[2] In V. Torselli, Il kitsch, “Artonweb. Punti di vista sull’arte”

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

lunedì 4 gennaio 2021

NON UCCIDERE. In difesa dell’in-nocente

 




Ringrazio l'amico Fabrizio Fratus e Valentina Jannaccone per avermi invitato a questo incontro, organizzato dall'Unione Nazionale Vittime (Unavi). E' stata un'esperienza toccante, da cui ho tratto le seguenti riflessioni.
 

Non uccidere… l’innocente

Qual è il senso profondo del comandamento non uccidere? Nella storia si sono date innumerevoli interpretazioni. Il Catechismo, nel solco della vivente tradizione della Chiesa cattolica, dice: “La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente” (2258). Credo che l’ultima parola sia qui particolarmente importante. Non uccidere si riferisce anzitutto all’innocente. Ne consegue che la vittima non va difesa genericamente, ma in quanto innocente e innocua. L’innocente è colui che non ha procurato male a nessuno, l’innocuo è colui che non minaccia di procurare alcun male. In una società dove essere vittima sembra rappresentare uno status privilegiato, avere buona volontà non costituisce invece alcun motivo di distinzione. Allora vittime sono tutti, vittime sono coloro a cui non sono stati garantiti i cosiddetti “diritti”, vittima è qualsiasi soggetto che si “senta” tale e quindi chieda agli altri una considerazione speciale. Insomma, essere vittima sembra fornire un passaporto per la pietà e un viatico al privilegio, a prescindere da quello che si è e da quello che si è fatto.

Sì, perché il misericordismo non distingue: siamo tutti bisognosi e tutti oggetto di una qualche ingiustizia, quindi tutti vittime nella legittima condizione di pretendere da chi è più fortunato di noi. Ma chi lo è, appunto, dato l’assunto che attribuisce a tutti lo status di potenziali vittime? Lo decide il soggetto, è sempre il sentimento soggettivo, privato e ingiudicabile, di un patimento ingiusto a determinarlo, e il patimento ingiusto finisce per coincidere con una qualsiasi privazione in relazione a una qualsiasi dotazione altrui. La ricerca del riconoscimento della condizione di vittima si fonda e al tempo stesso alimenta il potente vizio dell’invidia sociale che dissolve i legami, ferisce le relazioni, distrugge la convivenza. Ma quel che è più grave è il male radicale che da ciò prende le mosse: il disgusto della giustizia e il disprezzo dell’innocenza. Con la scusa che nessuno è senza peccato – verità generale che non può diventare generica – si pongono l’innocente e l’aggressore sullo stesso piano, sacrificando a un egualitarismo straccione la difficile ma indispensabile arte del discernimento che non guarda al peccato in astratto, ma a quello che ciascuno compie, alla valutazione delle azioni concrete e degli accadimenti nella loro genesi e negli effetti sugli altri … che distingue il peccato dal reato … che guarda al bene comune e agli attentati che esso subisce da parte dei singoli … che ha a cuore il bene intoccabile della vita umana che non nuoce. Perché, malgrado la malizia che attraversa il genere umano, è sempre possibile e, quand’anche complicato, deve essere sempre possibile distinguere in re, cioè nelle diverse circostanze della vita, chi minaccia e chi è minacciato, chi opera il male e chi lo subisce, chi lascia intatta l’umanità altrui e chi la distrugge, chi manifesta una buona volontà e chi una cattiva.

 

Certezza del diritto e della pena

Allora quello che è il fondamento della nostra civiltà giuridica, l’idea che il diritto deve essere certo, ha un peculiare corollario. La condizione della certezza del diritto è la legge: Nullum crimen, nulla poena sine lege[1]: non vi è crimine e non vi è pena senza una legge. La legge definisce il comportamento criminoso nella maniera più precisa possibile e al tempo stesso in una forma universale che non fa differenze tra categorie di uomini. La sua formula deve essere: “Chiunque compia o non compia X…”: mentre il soggetto deve essere “qualsiasi essere umano”, l’“X” deve essere determinato nella maniera più precisa possibile, facendo uso di concetti chiari, su cui la possibilità di equivoco deve essere ridotta al minimo. Una volta definito il contenuto della legge, è necessario che essa implichi una sanzione per i trasgressori. La legge positiva si distingue da quella naturale, cioè da quella consapevolezza in certo modo innata di ciò che è bene e di ciò che è male che possediamo in virtù del possesso della ragione, per contenere la minaccia di una pena per coloro che compiono l’azione proibita od omettano quella comandata. Tutto ciò deve essere evidentemente conosciuto in anticipo. Tutti devono sapere chiaramente che cosa è vietato o comandato, altrimenti la possibilità di comminare sanzioni, cioè pene, sarebbe consegnata al puro arbitrio della forza. Il diritto ne risulterebbe demolito dalle fondamenta.

Ma una demolizione altrettanto radicale si otterrebbe se non fossero tenute in debito conto le implicazioni logiche del suddetto brocardo. Se è vero che senza una legge non vi può essere né crimine, né pena, con la legge è definito il crimine ed è prevista la pena, senza residui e senza ambiguità: totum crimen, tota poena cum lege. Infatti, se la legge non definisse ciò che è vietato e non lo sanzionasse adeguatamente, verrebbe meno la sua funzione e la sua vigenza. Il risultato sarebbe la totale inconsistenza del diritto positivo, e la permanenza a mo’ di residuo solo di vaghe leggi naturali, ridotte al rango di consigli ed esortazioni che presto rimarrebbero soffocate dalla generale indifferenza in una società fatalmente consegnata alla guerra di tutti contro tutti.

 

Il ruolo dello Stato nell’applicazione della legge

Affinché la legge viga e sia efficace è tuttavia necessaria un’altra condizione. La legge non si applica da sola: c’è sempre la necessità di un’auctoritatis interpositio tra ciò che accade, l’essere, e la legge, il dover essere. Siccome la legge è una statuizione concettuale che mostra un’esigenza, ma di per sé non contiene alcuna forza attuativa, affinché l’esigenza della legge trasformi lo stato di cose, cioè la realtà, secondo quanto esigito dalla norma stessa, ci vuole qualcuno, un soggetto reale, che si preoccupi di attuare lo stato di cose suddetto, rendendolo conforme al concetto della legge. A questo fine il soggetto deve possedere autorità e potere. Colui che possiede detti requisiti ed è in stretta correlazione con il diritto è lo Stato: “Il senso dello Stato consiste quindi nel suo compito di realizzare il diritto nel mondo e di agire su quest'ultimo in questa direzione. Il motivo per cui esso è il potere supremo è una conseguenza di questo compito; il motivo per cui esso debba essere il potere supremo risulta dalla direzione del suo compito, poiché l'agire sul mondo dei fenomeni ha come presupposto una potenza di fatto. Il concetto di Stato in rapporto al diritto riceve così una posizione del tutto analoga a quella che il concetto di Dio, che sorge dalla necessità di realizzare ciò che è morale nel mondo reale, assume riguardo all'etica. Solo lo Stato porta l'imperativo del diritto. Alla norma giuridica risultano per sé estranei un effetto su qualcosa, un'azione in qualche direzione, già secondo il concetto. Il carattere giuridico di una norma non ha quindi nulla a che fare con la sua coattività o con una tendenza alla coattività. La coercizione o la tendenza ad essa si riferiscono al mondo empirico reale, all' essere; esse hanno di mira una condizione concreta della realtà, la cui produzione tramite i mezzi reali è il loro scopo. Poiché, però, lo scopo, nel senso di un tale render reale, è estraneo all’essenza del diritto in quanto norma, la tendenza alla coercizione non appartiene al lato del diritto, ma a quello dello Stato, come mezzo del diritto”[2].

Perciò è essenziale la volontà politica dello Stato e dei suoi poteri affinché la legge sia realizzata e sia comminata la pena a chi ha commesso un reato.

 

La magistratura e la sua doxa

E qui lo Stato deve esibire una comunione di intenti, un’omogeneità e unità di indirizzi che la rigidità della distinzione dei poteri potrebbe ostacolare. Perché se è vero che l’indipendenza della magistratura ne garantisce la terzietà, essa non può diventare terzietà rispetto allo Stato, di cui la magistratura è parte integrante. La magistratura non può diventare autoreferenziale. Il passo dall’indipendenza all’autoreferenzialità è breve ed esiziale per la vita civile. Perché in questo modo si distrugge l’unità politica di un popolo, si frantuma la volontà generale, si trasforma un potere dello Stato in un parassita che succhia il sangue delle sue strutture senza rendere alcun servizio alla collettività. Ogniqualvolta un magistrato viene corrotto, non tanto dalle normali tentazioni del potere, ma anche solo dalla sua particolare doxa, dalla sua individualità irrelata e dimentica del rapporto che le sue azioni devono mantenere con la vita del tutto, ogniqualvolta il servizio alla legge diventa pretesto per l’affermazione di sé, lo Stato muore, la sua volontà si nullifica, le relazioni sociali si ammalano e deperiscono, perché la legge rimane lettera morta, mancando il tramite della sua applicazione alla realtà.

Questo è il caso di quell’interpretazione estensiva della cosiddetta “funzione rieducativa della pena” che dall’articolo 27 della costituzione costantemente cade nella prassi giuridica con tonfi pensatissimi, le cui vibrazioni fanno tremare l’edificio istituzionale. Lo abbiamo prima sottolineato: se la pena non viene applicata, la legge non ha senso. Il diritto perde certezza. Disattendere una legge è infatti eliminare la legge. Il che significa eliminare il crimine e la pena senza tuttavia aver eliminato il danno e la colpa. Anche in questa situazione non vi è certezza del diritto, perché manca il diritto stesso e non si può essere certi di niente, nemmeno di poter vivere: bellum omnium contra omnes, la guerra civile permanente delle mafie sociali.

 

La funzione rieducativa della pena: una tautologia

Ma che cosa è la funzione rieducativa della pena? È una tautologia in cui si dice qualcosa di ridondante e si prescrive qualcosa che già c’è. La pena, che manualisticamente potremmo intendere come “la sofferenza (patimento, afflizione) inflitta all’autore di un fatto illecito attraverso la privazione o la diminuzione di un bene di sua pertinenza”[3], per essere pena è già una forma di rieducazione. Agli albori della nostra civiltà lo avevano capito. Il peggiore dei mali è l’ingiustizia e, come la medicina libera dalla malattia, la giustizia libera dall’ingiustizia e dalla malvagità, in che modo? Attraverso la pena: “Lo scontare la giusta pena non ci è parso essere la liberazione da questo male? […] Pertanto, commettere l’ingiustizia è, per gravità, il secondo dei mali; ma compierla senza poi scontare la pena è il primo e più grave di tutti”[4] …e come i medici privano di alcuni cibi e bevande corpi malati che altrimenti peggiorerebbero le loro condizioni, così la pena priva dei desideri malvagi, corrotti, disordinati e intemperanti anime che altrimenti ne verrebbero ancor più danneggiate. Ma “privare l’anima di ciò che desidera, vuol dire punirla”[5] e la punizione è la pena.  Le parole di Platone sono chiarissime: la pena è sempre qualcosa che contrasta le ragioni della dismisura interiore che ha condotto alla trasgressione della legge. Essa parte dall’esterno, interviene sui corpi e sui beni desiderati, ma compie la sua opera internamente e in questo senso re-indirizza l’anima verso l’ordine perduto, ri-educandola.

Questa sua funzione rieducativa la pena svolge quando ovviamente è proporzionata al tipo di male commesso, in termini moderni alla gravità del reato. Questa proporzionalità ha un carattere retributivo: retribuire, cioè restituire a chi ha commesso un certo atto, una certa contropartita equivalente al danno arrecato. Il crimine lede l’ordine complessivo della vita individuale e sociale sconvolgendo l’equilibrio nelle relazioni personali, la pena lo ristabilisce. Per questo essa, agli occhi di Platone, può risanare. Aristotele parla, a proposito di ordine, di un rapporto equilibrato tra ciò che è dato e ciò che è ricevuto (giustizia correttiva)[6]. Kant esprime icasticamente questa necessità assoluta di ristabilire un’integrità perduta con il crimine, riconducendo la pena dalla sfera giuridica a quella più strettamente morale: “Anche quando la società civile si dissolvesse col consenso di tutti i suoi membri (se, per esempio, un popolo abitante un’isola si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo), l’ultimo assassino che si trovasse in prigione dovrebbe prima essere giustiziato, affinché ciascuno porti la pena della sua condotta, e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione: perché questo popolo potrebbe essere considerato allora come complice di questa violazione pubblica della giustizia. Questa uguaglianza tra la punizione e il delitto che, secondo lo stretto diritto del taglione, non è possibile che per mezzo di una sentenza di morte, si chiarisce da ciò che questa sentenza è il solo modo di punire tutti i criminali in modo proporzionale alla loro malignità interna[7] .

Ora, tralasciando la questione della pena di morte, che ci porterebbe assai lontano[8], è importante insistere sul tema dell’uguaglianza tra punizione e delitto e sulla punizione proporzionale. Su tale fondamento, a differenza di quanto prospetta la dottrina dominante, l’idea di retribuzione e quella di rieducazione paiono strettamente connesse, e riconducono il tema della rieducazione dentro l’alveo del sentimento comune della giustizia. Esso, si dirà, è fondato su una rivisitazione più o meno urbanizzante della lex talionis e su questo abbiamo poco da dire, se non notare il fatto che senza il fondamento di tale innata convinzione che a un male vada contrapposto un male (che, tuttavia, in tale opposizione diventa a sua volta un bene) e a un bene vada associato un bene, non vi sarebbe alcuna percezione della giustizia. Anche il suo superamento evangelico, infatti, conferma la legge del taglione perché quest’ultima ne rappresenta il trampolino logico-etico.

Peraltro, le teorie più o meno utilitaristiche di difesa e prevenzione sociale[9] eludono il tema della proporzionalità e quindi appaiono sostanzialmente ingiuste e affidate all’arbitrio della percezione di un certo vantaggio sociale cui viene sacrificata la persona del reo e l’entità del suo agire.

Pur avendo nondimeno un senso - poggiante sulla finalità di protezione dei cittadini dalle possibili reiterazioni dei reati – dette teorie sono carenti sotto il profilo della giustizia e la giustizia è una certa uguaglianza come dice Aristotele[10]. Quindi è corretto assicurarsi che, per esempio, il criminale non torni a commettere reati, ma la sicurezza di ciò, in termini assoluti data evidentemente solo da una detenzione perenne, deve essere commisurata alla proporzionalità retributiva della pena. Lo stesso dicasi per le funzioni di deterrenza, che hanno un ruolo e un senso solo se collegate al medesimo principio, altrimenti permetterebbero sotto il profilo squisitamente logico, un pena illimitata, quanto sono perenni e illimitate le giuste esigenze di sicurezza dei cittadini onesti. È significativo, dunque, che la dimensione retributiva, che serve a Kant per giustificare la pena di morte, che egli non considera sproporzionata, appaia al contrario nella luce di una forma di garanzia del reo, proprio mentre essa insiste sull’irrinunciabilità della pena. Tale garanzia, come abbiamo visto in Platone è commisurata alle esigenze dello stesso criminale, che deve essere in qualche modo liberato dal male che ha commesso. Egli deve essere allora rieducato attraverso la pena. Vista sotto il profilo educativo, la pena può quindi essere considerata l’extrema ratio dell’educazione stessa, quando tutti gli altri mezzi si sono rivelati fallimentari.

 

 

La pena: farmaco o veleno?

Il fatto che la giustizia, anche quando commina una sanzione, agisce nell’interesse delle persone è un’altra delle questioni fondamentali sollevate da Platone. La pena libera il colpevole e quindi non costituisce un male, come il farmaco che produce un positivo sconvolgimento dei ritmi naturali con lo scopo di ristabilirli non è un veleno. Certo esiste una vicinanza concettuale e una facile possibilità di rovesciamento sia nel pharmakòs, sia nella pena come pharmakòs. Nondimeno è bene distinguere: separati da una pur sottile linea divisoria, farmaco e veleno, da un lato, male e pena, dall’altro, vanno chiaramente differenziati. Ripeto: nell’un caso ciò che viene somministrato è nell’interesse del somministrante, nell’altro è nell’interesse di colui che riceve la somministrazione. Se ciò è vero, nella giustizia si esprime la preoccupazione per l’altro. Che l’ordine della vita sia stato infranto dal crimine non è un fatto puramente oggettivo: ha a che fare con la carne e il sangue degli uomini, non solo delle vittime ma anche dei carnefici, e con il loro destino. In questa logica l’unica preoccupazione che possiamo avere per il criminale è che il suo atto lo ha profondamente degradato. Infatti, come rileva Platone piantando un seme fecondissimo in tutta la cultura occidentale, “commettere ingiustizia è peggio che ricerverla e sfuggire al castigo è peggio che subirlo”[11]. Se dunque amare è bene velle cioè volere il bene oggettivo dell’altro[12], non c’è altro modo che la giustizia per esprimere il comandamento dell’amore, l’altro grande pilastro d’Occidente. Non c’è altro modo di preoccuparsi di chi ha sbagliato se non quello di fargli scontare la pena.

 

La falsa opposizione di giustizia e amore

Contrapporre la giustizia all’amore è, invece, una delle più grandi mistificazioni in cui cade l’epoca contemporanea. Dall’originaria unilateralità dell’eresia marcionita[13], che contrappone il Dio giusto dell’Antico Testamento e il Dio buono del Nuovo – contro la prospettiva della Chiesa per la quale Jahvé e Cristo sono l’unico Dio, e dunque la giustizia e l’amore sono la stessa cosa -  nascono tutti i fraintendimenti dell’odierna cultura della scusa. Infatti, «rinnegando il Dio giusto e l'Antico Testamento, Marcione rinnegava la giustizia, l'ordine sociale, il matrimonio, la famiglia, la nazione. È anche un tratto generale della gnosi, che disprezzava la giustizia e la morale, aborriva la procreazione, condannava la proprietà e tutte le regole che reggevano la vita sociale. La dottrina di Marcione era ugualmente caratterizzata da una predilezione per tutte le devianze. Il rifiuto del Dio giusto si accompagnava al rifiuto di quelli che seguono la sua morale. Marcione affermava che quando Gesù scese agli Inferi non liberò nessuno dei giusti dell’Antico Testamento. Per contro, aveva liberato i dannati. Ha liberato Caino, l'assassino di suo fratello Abele che fu invece lasciato all'inferno. Il Dio buono preferisce gli assassini alle loro vittime. Come pure preferisce i violenti agli uomini virtuosi. Ha liberato i sodomiti, gli abitanti di Sodoma che, presi da una violenta pulsione, avevano assediato la casa di Loth, pretendendo che consegnasse loro i due bei giovani - due angeli - che aveva da poco accolto sotto il suo tetto. Questi sono coloro che, secondo Marcione, Gesù avrebbe strappato agli Inferi, preferendoli ai giusti della Bibbia come Noè, Abramo o Mosè. Dall'amore senza giustizia, Marcione trasse la predilezione per gli assassini e i violentatori. E anche per i nemici, perché aggiungeva che Gesù avesse ugualmente liberato dagli Inferi gli egiziani, cioè i nemici del popolo ebraico. Nel nome della legge dell'amore puro, Marcione operava una completa inversione dei valori, con il risultato che i cattivi diventavano buoni”[14].

Vedere la giustizia senza amore e di conseguenza l’amore senza giustizia: è questo il grande errore etico che fonda un atteggiamento molto diffuso oggi. La tradizione illuministica ha consegnato questa esigenza di contemperare la severità della giustizia, intesa come rispetto di un rapporto esclusivamente oggettivo e quasi matematico, con l’amore che avrebbe la funzione di addolcire le risoluzioni esclusivamente “giuste”. Ma se alla fine la giustizia nella sua purezza è considerata disumana, non ci si può accontentare di moderarla con l’amore. L’amore dovrà prima o poi trionfare, e con esso la pienezza dell’umano, sui residui di crudele barbarie, ancora legati alla riparazione giusta, ridotta artatamente a pura vendetta. Ecco perché la società contemporanea, vittima di questo fraintendimento marcionita, tende sempre più a rincorrere il criminale, limitando la portata della pena, e al contempo a dimenticare la vittima innocente. Il risultato è che, credendo di interpretare lo spirito di una tradizione cristiana, adeguatamente laicizzata e depurata dai suoi residui oscurantisti, essa ne risulta essere la più decisa contrapposizione, perché si rende colpevole di quello che Cristo ha precisamente denunciato con la sua croce, cioè il sacrificio ingiusto dell’innocente.

 

L’inferno degli innocenti

Oggi, nota J.-L. Harouel, “la cosa più importante è il riscatto dei criminali, la loro redenzione terrena. Il criminale è la pecora smarrita, e solo lui conta veramente. Molto più delle sue vittime, molto più degli innocenti […]. La società perdona e porge l'altra guancia anche troppo facilmente. Ciò genera ingiustizia, pericolo, sofferenza. L'amore verso il criminale - verso la pecorella smarrita che si vuol credere ritrovata - genera un inferno per molti innocenti”[15]. Sì, perché innocente non è solo la vittima diretta del crimine, ma tutti coloro che erano a lei legati da vincoli di parentela, amicizia, amore, lavoro etc. A loro vanno aggiunti tutti gli altri che potrebbero identificarsi con la vittima perché disarmati, come vuole la legge, e fiduciosi nella protezione dello Stato cui offrono obbedienza. E quando il reo non è adeguatamente punito e la pena non è scontata, questi innocenti subiscono un nuovo affronto da chi invece dovrebbe difenderli. Ciò fa venire meno le relazioni di convivenza civile e politica in cui è fondamentale il nesso protezione-obbedienza. Di nuovo la società e il suo ordine si distruggono e risorge la guerra di tutti contro tutti. Questo potrebbe anche essere uno dei motivi per cui alla riduzione della severità della giustizia penale corrisponde l’aumento costante della violenza sociale, ossia per l’appunto l’inferno degli innocenti.

 

La privazione della libertà…e solo quella

Tutto ciò non significa che il regime di coloro che sono riconosciuti colpevoli di un qualche reato debba essere reso più duro per soddisfare il sadismo delle masse in cerca di capri espiatori. Diciamo chiaramente che non può esserci alternativa alla privazione della libertà come unica pena compatibile con la dignità umana. E ribadiamo altresì che uno Stato serio vigila affinché questa sia l’unica pena comminata al condannato, che per il resto va rispettato anche con la severa sorveglianza dell’ambiente carcerario, spesso luogo di surrettizie pene supplettive, fuori da ogni legge e civiltà. Ma, una volta stabilito ciò con la massima decisione, dobbiamo anche affermare che la pena, di qualsiasi rilevanza, va scontata per intero. In letteratura “sotto il profilo dinamico, la pena attraversa tre fasi distinte: edittale, o della comminatoria legislativa (la pena prevista dalla legge per il reato); giudiziale o della determinazione in concreto (la pena applicata dal giudice al singolo reo); esecutiva o della espiazione effettiva (la pena eseguita in base alla condanna)”[16]. Bene, giustizia vuole che tra queste tre fasi non esista differenza e la pena edittale finisca per essere quella effettivamente espiata dal reo (facendo salve ovviamente le garanzie processuali e procedurali per la determinazione della sua colpevolezza, con la valutazione di tutte le circostanze del reato).

 

Premi?

Tutto ciò che attiene alle forme più o meno premiali  di trattamento del colpevole appare da questo punto di vista un’indebita inserzione dell’amore nel diritto, laddove il diritto non ne necessita affatto perché già lo contiene. Da esse altresì traspare un progetto assai ambizioso, per non dire presuntuoso: quello di condizionare i soggetti umani affinché non commettano più reati. È l’idea, connessa alla cosiddetta prevenzione speciale[17], che dovrebbe sapientemente dosare, assieme alla punizione per i comportamenti che si vogliono evitare, i rinforzi per quelli che si vogliono promuovere. Un pregiudizio della vecchia psicologia comportamentista crede che l’uomo sia oggetto di “allevamento” e tralascia come irrilevanti quelle particolarità che hanno condotto alla devianza, spesso al confine con la patologia psichiatrica, sempre aventi a che fare con la sostanziale libertà dell’essere umano. Tale psicologia mette al centro della sua riflessione la cosiddetta “legge dell’effetto”: “Un’azione accompagnata o seguita da uno stato di soddisfazione tenderà a ripresentarsi più spesso, un’azione seguita da uno stato di insoddisfazione tenderà a ripresentarsi meno spesso”[18]. Su tali basi si può costruire il progetto di prevedere e poi anche di controllare i comportamenti umani, dosando premi e punizioni. Il problema è che nell’uomo il determinismo di stimolo e risposta non è così facile da individuare, né consente previsioni affidabili. Se anche statisticamente una legge fosse in grado di offrire indicazioni di massima sul comportamento, il caso individuale nell’umanità non risulta mai del tutto sussumibile sotto la generalità della legge. Questo dai più ottimisti è attribuito a una qualche arretratezza o imperfezione cognitiva che ha da essere superata con il progresso del sapere, dai più realisti è considerato qualcosa di connesso alle caratteristiche intrinseche del soggetto umano e alle sue specificità. Come che sia, gli uomini, anche ammesso che ciò sia eticamente accettabile, non si allevano e non si condizionano a piacimento.

 

Libertà, condizionamento e redenzione

La pena ha per contro il pregio di poter essere liberamente assunta dal reo, caratterizzandosi come il mutamento di una condizione esterna che può risuonare internamente solo se viene fatta risuonare internamente. Essa però è il correlato di un certo atto e non trae la sua validità sull’effetto che può fare sul reo, benché tale effetto sia augurabile. Qui rimane assolutamente centrale la libertà umana, quanto al processo di rieducazione che non può non essere un processo di autoeducazione, solamente facilitato dalle condizioni esterne. L’alternativa è da un lato la sproporzionata fiducia nelle capacità condizionanti di una teoria che offrirebbe le chiavi della redenzione del reo, dall’altra la riduzione di quest’ultimo a semplice oggetto di intervento, materia malleabile nelle mani degli ingegneri del reinserimento sociale. Una strategia fin troppo scoperta per chi può trarre grandi vantaggi dalla dissimulazione e dalla possibilità, da parte di chi ne è sottoposto, di compiacere i propri demiurghi. Così il rapporto utilitaristico tra lo sconto/concessione e le dimostrazioni di ravvedimento arriva a falsare tutto il processo, che cionondimeno, a motivo del compiacimento che si trasforma surrettiziamente in verifica sperimentale dei presupposti della teoria, si riproduce metastaticamente, distruggendo alle fondamenta il sistema penale.

Tale distruzione di attua nel fatto di produrre concretamente l’erosione della pena. Per quanto il giro concettuale sia lungo e le giustificazioni articolate, il nocciolo effettuale è sempre la ritrosia a punire e a scontare e la tendenza a scusare, a patto, naturalmente che si dimostri nel foro esterno un ravvedimento la cui reale presenza nel foro interno nessuno può valutare se non nella volontà di scontare la pena. Quale atto esterno può infatti offrire la sicurezza di un mutamento interiore se non il fatto che da tale mutamento non si vuole in alcun modo ricavare vantaggi? Per contro in tutti gli altri casi nessuno può avere alcuna certezza riguardo quello che è avvenuto nel cuore della persona che ha commesso un grave reato, né sulle sue reali intenzioni relativamente al futuro.

 

La giustizia riparativa

Un’osservazione analoga si può rivolgere al concetto di giustizia riparativa, recentemente affermatosi in ambito statunitense e poi esportato nella legislazione internazionale ed europea. Secondo questa visione della giustizia, il reato “è una lesione altrui e l’obiettivo è, quindi, quello di porre rimedio a tale lesione, attraverso la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti alla commissione del delitto. Il fine ultimo è la ricerca di una soluzione, quantomeno, condivisa fra le parti. Tale ultima caratteristica conferma il fulcro della giustizia riparativa: un sistema partecipativo e inclusivo”[19]. Insomma, il sistema giuridico dovrebbe favorire gesti e atti da parte del criminale, finalizzati a compensare il danno prodotto con il suo comportamento. Le considerazioni che qui avanziamo prescindono dagli ambiti particolari in cui questa prassi può avere un senso: la giustizia minorile e i casi di lieve o lievissima entità. Ciò che invece interessa è l’ipotesi di un’applicazione a reati gravi, dove si misurano i significati ultimi e radicali di una simile impostazione. Iniziamo col notare qui un’interessante inversione della giurisdizione islamica, che affida alla famiglia della vittima la decisione sulla pena: affidarsi al reo affinché ricomponga la frattura provocata con il suo crimine. In entrambi i casi la tendenza è quella a privatizzare la giustizia, nell’uno accentuando l’elemento vendetta, nell’altro quello perdono. Il tutto va a detrimento della ricerca di una oggettività giusta che solo la terzietà dello Stato può consentire, oltre e al di là di ogni coinvolgimento soggettivo.

Ma è proprio questo che si vuole promuovere nelle parole di Zagrebelski: “Il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa. Studi sono in corso, promossi anche da raccomandazioni internazionali. Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa pur sempre parte, pur rappresentandone il lato d’un rapporto patologico”[20]. Come si vede da tale riflessione, contrariamente alle intenzioni di molti suoi sostenitori, si tratta qui di una giustizia nuovamente centrata sul reo, che deve tornare ad essere “incluso” nella società, attraverso una riparazione da attuarsi nei confronti della vittima e del suo entourage. Paradossalmente, ma non tanto, ancora il reo è il soggetto, la vittima è l’oggetto. Oggetto di una richiesta di riparazione che mai può essere compiuta, né mai potrebbe essere esaudita se non con una nuova intrusione del criminale nella vita della vittima o dei suoi affetti, questa volta nella veste di aspirante penitente.

No, logicamente, ontologicamente ed eticamente nulla può essere riparato, perché un gesto non può sopprimerne un altro e nulla, nemmeno Dio, può cancellare ciò che è avvenuto. Certamente non si vuole escludere che un processo di cambiamento nel cuore di coloro che hanno subito gravi perdite possa condurre al perdono, che peraltro è in questi casi concesso gratuitamente. Nulla, d’altro canto, vieta a nessuno di chiedere scusa e di voler dimostrare che si è cambiati. Ma la prima prova di tale intenzione rimane quella di non voler ottenere vantaggi insieme a quella di rispettare profondamente quelli che sono stati danneggiati, anzitutto nella sfera privatissima e sacra del loro dolore. Lo Stato, che diventa mediatore in questa impossibile mediazione tra la vittima e il carnefice, mostra in realtà predilezione per il secondo, che così potrà essere re-inserito, risanando la ferita sociale del crimine, a danno della prima, quantomeno nel fatto che essa diviene mezzo di una restitutio ad integrum che finisce per compiersi in un contesto sociale dove il suo individuale e specialissimo vissuto ha da stemperarsi e annullarsi sistemicamente.

A prima vista, più che giustizia riparativa, mi pare che si tratti di una giustizia impudica, che contempla la relazione tra il criminale e l’innocente come una relazione fra parti, già in qualche modo parificandole. Mentre lo Stato è terzo tra l’accusa e l’imputato, che rimane presunto innocente, una volta che quest’ultimo sia stato dimostrato colpevole, non è più il caso di mediare. Il colpevole e la vittima innocente non sono parti da avvicinare, sono tra loro incommensurabili. Ogni tentativo di mediazione denuda l’innocente, chiamandolo al cospetto dello sguardo del colpevole, sotto lo sguardo dello Stato, colpevolizzando la vittima per la normale volontà di ritorsione che emerge in modo sacrosanto alla presenza del colpevole stesso. L’innocente, nudo e immobile nel suo dolore, è chiamato a contenersi di fronte al criminale che diventa il vero soggetto agente, anzitutto della sua redenzione. Lo Stato diventa il finto-terzo garante dei tempi, dei luoghi e delle condizioni in cui questa nuova umiliazione può avvenire, senza rischi per il colpevole. (naturalmente non si sta descrivendo una situazione, ma una logica, cioè qualcosa che può succedere perché implicito in un certo orientamento).

 

Cambiare orientamento

Quello che sarebbe auspicabile è invece un cambio di paradigma proprio nell’orientamento fondamentale. Perché, impudica verso la vittima, anche la cosiddetta restorative justice, in molte delle sue espressioni rimane invece estremamente pudica nei riguardi della pena, indebitamente ricondotta nell’alveo della vendetta e posta sotto i riflettori della ricerca in vista di un suo superamento. Siamo ancora invischiati nella cultura della scusa. Al contrario sarebbe necessaria una presa di coscienza che l’unica relazione rispettosa verso chi è offeso è la garanzia della punizione giusta dell’offensore e che ogni altra soluzione che attenui, riduca o elimini questa possibilità è implicitamente uno schiaffo all’innocente e una carezza al colpevole.

Ancora il tema dell’innocenza va messo a fuoco in modo privilegiato. Chi è innocente? Chi non nuoce mai? Chi non minaccia di nuocere? Evidentemente nessuno. Ma, come detto all’inizio, ciò non può divenire pretesto per non distinguere, per confondere innocenza e colpevolezza, che sono idee con una chiara connotazione e descrivono precisi stati di fatto. Rispetto a un accadimento che ha avuto principio in un soggetto agente[21], è sempre possibile individuare in questo soggetto una responsabilità. Se il comportamento ha nuociuto, esso è ingiusto, altrimenti è innocente. E rispetto alla colpevolezza bisogna sempre preferire l’innocenza: non c’è alcuna diluizione post-moderna che possa confutare questo principio fondamentale dell’etica e del diritto. Il diritto afferma una cosa fondamentale: bisogna essere giusti verso tutti, anche verso i nemici e i colpevoli, e lo Stato di diritto si assume il fardello di questo compito immane. Ma questo non significa che la situazione di colpevolezza e innocenza possano essere trattate ugualmente nella loro incalcolabile differenza. La carne e il sangue delle vite annientate dalla sopraffazione altrui e di quelle consumate dal dolore gridano vendetta ogniqualvolta un pensiero debole, vile e indegno colpevolmente lo dimentica.

 

 

 

 



[1] Affermazione riconducibile all’illuminismo liberale tedesco di P.J.A. Feuerbach, Lehrbuch des gemeinen in Deutschland gültigen peinlichen Rechts, Gießen 1812, p. 22, cit. in F. Bertoldi, L’origine romanistica del principio nullum crimen, nulla poena sine lege, https://forhistiur.net/2016-10-bertoldi/?l=it#notes_n66, dall’Autrice appunto ricondotto alle sue origini romanistiche.

[2] C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, tr. it. Il Mulino, Bologna, 2013, p. 60.

[3] G. De Vero, Corso di diritto penale, Giappichelli, Torino 2020, p. 4.

[4] Platone, Gorgia, 479d, tr. it., La vita Felice, Milano 2013, p. 209.

[5] Ivi, 505b.

[6] Aristotele, Etica Nicomachea, V,5 e V,7. La giustizia correttiva “è capace di portare riparazione nelle relazioni” (V, 5). “Il giusto qui in oggetto è dunque ciò che è proporzionale, e l’ingiusto ciò che viola le proporzioni”, cioè che “vuole di più” rispetto a quanto gli spetta nelle relazioni con gli altri, causando agli altri una diminuzione in ciò che spetta a loro. Il “giudice cerca di rendere uguale” questa disuguaglianza (V,7).

[7] I. Kant, Metafisica dei costumi, tr. it. di G. Vidari, Paravia, Torino 1919, p. 177.

[8] Il discorso di Kant ha una sua immediata comprensibilità perché oppone alla morte procurata dal criminale, la morte da lui subita per mezzo della giustizia. È evidente che qui si tratta del medesimo danno e appare a tutti proporzionato. Ma il diritto non può limitarsi a questa pratica di infliggere al criminale ciò che il criminale ha inflitto alla sua vittima. Questo contrappasso infatti assumerebbe a proprio modello le azioni del criminale, producendo il paradosso che il diritto dipenderebbe dalla sua violazione e pertanto si annullerebbe come tale. La pratica della giustizia si è allora correttamente orientata a dar la prevalenza alla pena della privazione della libertà, accettando la sfida di una maggiore difficoltà a definire la proporzione tra crimine e pena, data la sostanziale eterogeneità tra ciò che è inflitto e ciò che è subito. Ma questo è un falso problema, anzitutto sotto il profilo logico, perché riterrebbe impossibile un’operazione assai comune, quella di mettere in rapporto di proporzione grandezze diverse in cui al mutare dell’una muta l’altra in misura corrispondente. Avendo a disposizione una gerarchia di gravità dei reati, da un lato, e una possibile estensione temporale della pena, dall’altro, è sempre possibile con buona approssimazione costruire un sistema complessivo delle pene, certo soggetto a sempre nuove revisioni e miglioramenti, perché in tale campo i rapporti numerici contemplano grandezze etiche nelle quali la precisione matematica e l’esattezza, come ha stabilito in maniera definitiva Aristotele non è ottenibile. D’altro canto, le prospettive alternative dovrebbero commisurare la quantità della pena all’utile della società, grandezze non così eterogenee ma aventi il grave difetto di prescindere dalla persona del reo e dagli atti da lui compiuti: si vedano le numerose opere distopiche che su tale tema sono state elaborate. In esse la società individua sempre nuovi sistemi per evitare il crimine, fino all’utilizzo di condanne preventive prima che questo sia commesso, costruendo castelli in aria, o meglio inferni sulla terra, sulla base di semplici ipotesi e sulla testa dei cittadini che vengono sacrificati “per la felicità del maggior numero”.

[9] Cfr.  anche. infra, nota 17.

[10] “Ora, è opinione corrente che è ingiusto chi viola la legge e chi desidera avere di più e non rispetta l’uguaglianza; di conseguenza è chiaro che sarà giusto chi osserva la legge e chi rispetta l’uguaglianza”: Aristotele, Etica nicomachea, V,2.

[11] Platone, Gorgia, 474b.

[12] È quello che Tommaso chiama amor benevolentiae, amore pieno, contrapposto all’amor concupiscientiae (amore che punta a un qualche utile): “L' amore col quale si ama un essere, volendo ad esso il bene, è un amore in senso pieno e assoluto (est amor simpliciter), invece l’amore col quale si ama una cosa per ricavare del bene a vantaggio di terzi (ut sit honum alterius), è un amore secundum quid” (Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 26, a. 4). K. Wojtyla, pur all’interno di una tematica lontana dalla presente, lo spiega molto bene con questa espressione: “Non ‘Io ti desidero come un bene’, ma “Io desidero il tuo bene”: Amore e responsabilità, morale sessuale e vita interpersonale, tr. it. Marietti, Genova 1980, p. 60.

[13] Marcione è un cristiano eretico vissuto tra il I e il II secolo (85-160 ca.). Dopo aver fatto fortuna come armatore, trasferitosi a Roma, grazie a una cospicua donazione, entrò nella Chiesa locale, ma presto ne fu scomunicato a causa delle sue idee nel 144. Elaborò allora un proprio canone di scritture sacre, comprendenti dieci lettere paoline (escluse le pastorali e quella agli Ebrei) e il vangelo di Luca emendato dagli elementi giudaizzanti. Scrisse inoltre le Antitesi, un testo in cui contrapponeva Antico e Nuovo Testamento cercando di dimostrarne l’incompatibilità. Tutto ciò fece da base dottrinale per la fondazione di una Chiesa concorrente a quella cattolica che ebbe una certa diffusione fino al secolo successivo. Egli “leggendo le epistole paoline, in particolare quella ai Romani e ai Galati, fu colpito dall’opposizione tra la Legge e il Vangelo, tra la Giustizia e l’Amore. In questa opposizione egli credette di discernere la chiave del cristianesimo autentico. Ciò che egli trovava in Paolo, pensò di ritrovare anche in Gesù: anche Gesù, infatti, aveva abrogato l'economia della Legge per sostituirvi quella del Vangelo. Traendo le conseguenze da questa opposizione, Marcione rifiuta l'Antico Testamento, testimonianza di un sistema abrogato e sorpassato, e annuncia l'esistenza di due divinità, quella della Legge, cioè il Dio dell'Antico Testamento, e quella del Vangelo, il Dio d'amore predicato da Gesù. Marcione ammette dunque l'esistenza di due divinità. Si ritrova in questa idea un certo dualismo, fondato non sull’opposizione bene-male, ma sull'opposizione Amore-Giustizia, Vangelo-Legge”: M. Simon-A. Benoît, Giudaismo e cristianesimo, tr. it., Laterza, Roma, 1997, p. 122.

[14] J.-L. Harouel, I diritti dell’uomo contro il popolo, tr. it., Liberilibri, Macerata 2018, pp. 56-57.

[15] Ivi, p. 63.

[16] AaVv, Enciclopedia Treccani, sv Pena, https://www.treccani.it/enciclopedia/pena/

[17] “La teoria della prevenzione speciale considera la pena uno strumento per impedire che il reo in futuro delinqua. Tale risultato può essere raggiunto o attraverso la rieducazione del reo, ossia il recupero morale interiore o la maturazione di una coscienza etico-civile; o mediante l’intimidazione, e cioè l’efficacia dissuasiva che la condanna o la sua esecuzione possono esercitare sulla psiche del reo; infine, con la neutralizzazione, ovvero la segregazione carceraria del reo impedendone materialmente la possibilità di delinquere. La teoria della prevenzione generale sostiene, invece, che la pena serva a impedire che i consociati delinquano. La pena svolge, quindi, una funzione dissuasiva perché intimidisce i consociati con la minaccia di una conseguenza negativa, e al contempo di persuasione perché la comminatoria di una conseguenza negativa implica il messaggio che delinquere non è giusto. La teoria in esame tende a concepire la punizione del reo in chiave meramente strumentale nel senso che egli non viene punito per se stesso, ma per fornire un esempio agli altri”: ibidem. Prevenzione speciale e generale costituiscono forme di interpretazione del concetto di pena alternati a quella classica della retribuzione, cioè della compensazione del male commesso e del ristabilimento dell’equilibrio della giustizia fra gli uomini infranto dal crimine, con un’afflizione proporzionale a quella inflitta dal criminale alla sua vittima.

[18] E.L. Thorndyke, Animal intelligence, Mc Millan, New York 1911, in C. Cornoldi, Il Comportamentismo, in P. Legrenzi (cur.) Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 147-176, qui p. 162.

[19] M. V. Maggi, Che cosa si intende per giustizia riparativa?, https://www.iusinitinere.it/cosa-si-intende-giustizia-riparativa-4721; si veda anche, per farsi rapidamente un’idea, M. Scarsi, Mediazione penale: cos'è e come funziona in Italia, https://www.studiocataldi.it/articoli/36653-mediazione-penale-cos-e-e-come-funziona-in-italia.asp; Per un approfondimento di veda F. Reggio, Giustizia Dialogica. Luci e ombre della Restorative Justice, Milano, FrancoAngeli 2010, recensito in modo preciso e profondo da F. Pozziani in “L’Ircocervo. Rivista elettronica italiana di metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello Stato”, http://www.lircocervo.it/index/pdf/2010_02/recensioni/2010_02_05.pdf

[20] In M. V. Maggi, cit.

[21] Aristotele, Etica Nicomachea, III,3.

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