domenica 27 dicembre 2020

IL COSTRUTTO MODERNO. Un itinerario nella filosofia dei secc. XVII-XIX alla ricerca della Missione del dotto

 

 

Venerdì 4 dicembre ho concluso un serie di lezioni tenute presso il Master di Alta Specializzazione in Counseling Filosofico e Pratiche Filosofiche organizzato da Pragma. Società Professionisti Pratiche Filosofiche. Si è trattato di ripercorrere alcuni momenti della storia della filosofia, cogliendo temi, orientamenti, stili di pensiero e prassi di ricerca in grado di arricchire il patrimonio delle odierne pratiche filosofiche. Mi è parsa una sfida affascinante e abbastanza pionieristica, preceduta solo dallo sforzo di P. Calandruccio, A. Tommasoli e G. Traversa con la loro Storia della filosofia per consulenti filosofici, Mimesis, Milano 2017. Personalmente mi sono concentrato di più sulla filosofia antica e medioevale: dopo un’introduzione sulla nascita della filosofia e sul tema colliano dell’enigma e della sfida dialettica (G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2014), ho trattato di Platone e di Aristotele e della questione della cura mediante la parola, appoggiandomi al notevole saggio di P. Laín Entralgo, La curación por la palabra en la antiguedad clasica, Anthropos editorial, Madrid, 2005; poi è stata la volta del pensiero ellenistico e dell’approfondimento di P. Hadot, Esericzi spirituali e filosofia antica, tr. it. Einaudi, Torino, 2005; cui è seguito il tema della Trinità in Agostino, posto a fondamento di una metafisica e di una antropologia della relazione (Agostino De Trinitate, Città Nuova, Roma, 1998; A. Trapé. S. Agostino: Introduzione alla dottrina della grazia vol.II: Grazia e libertà, Città Nuova, Roma 1990); il medioevo tomistico ha dato un profondo spunto di carattere metodologico con il tema della disputatio e del cammino metafisico attraverso i molteplici aspetti della realtà e del discorso (in questo campo è stato fondamentale lo studio di E. Porcarelli, Spunti per una didattica della filosofia tratti dall’esperienza medievale, che ho associato alla Summa Theologiae I-II di Tommaso, di cui si è analizzato l’articolo 4 della quaestio I, sul fine ultimo della vita umana). Concludendo il ciclo di lezioni, ho voluto presentare alcune riflessioni sulla filosofia moderna, che culminano in un percorso attraverso la fichtiana Missione del dotto, alla ricerca di spunti per comprendere il ruolo individuale e sociale della consulenza filosofica nella nostra contemporaneità, che è precisamente la risposta alla domanda sul ruolo che oggi possono ricoprire gli uomini che si dedicano alla cultura e alla ricerca, cioè alla filosofia. Di quest’ultima tappa presento una rielaborazione nelle righe che seguono.

 

La modernità e la questione della conoscenza

Parleremo qui di un testo che induce a riflettere sul ruolo del filosofo nella società, cioè in quella comunità in cui, su base nazionale, si dovrebbe vicendevolmente agire gli uni sugli altri. Il testo che prenderemo in esame è la Missione del dotto di Johan Gottlieb Fichte, del 1794, dove si riportano cinque conferenze aperte al pubblico che il filosofo tenne a Jena e dove si presentano in modo divulgativo le tematiche che egli aveva fatto oggetto di corsi specialistici nella locale università.

Per comprendere le sue tematiche è necessario, tuttavia, un breve excursus sulla filosofia moderna.

Nella filosofia moderna, dopo l’intervallo umanistico-rinascimentale, che, rispetto al medioevo, laicizza il pensiero ed esalta, da un lato, le ricerche di carattere naturalistico, dall’altro, l’uomo come centro dell’universo, ci si concentra su tematiche gnoseologiche, lasciando in secondo piano quelle ontologiche. Ciò significa che, se la filosofia classica e medievale ci teneva a scoprire anzitutto che cosa è la realtà, per poi stabilire come l’uomo, in quanto parte della realtà, la conosce; la filosofia moderna ci tiene a chiarire preventivamente come l’uomo conosce la realtà, per poi stabilire con maggiore affidabilità che cosa è la realtà stessa.

Ora, la conoscenza, su cui si insiste, è un processo che implica sempre una relazione tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto. Il problema è dunque il seguente: come fa il soggetto conoscente ad affermare cose vere, cioè a giudicare rettamente l’oggetto conosciuto?

 

René Descartes e la certezza

Tale questione viene sollevata in tutta la sua pregnanza da René Descartes (1596-1650), il quale insiste sulla questione della certezza della conoscenza, che egli ritiene essere il tema fondamentale di una riforma della filosofia e del sapere che possa rispondere adeguatamente alle domande lasciate insolute dalla tradizione precedente.

La soluzione fornita da Descartes a tale problema è la seguente: anzitutto siamo certi del nostro pensiero e di noi stessi, riprendendo il tema agostiniano dell’errore che testimonia, come tale, l’esistenza di un soggetto. Agostino dice: “Si enim fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum si fallor[1] (“Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto”). Descartes dice che il fatto stesso che la mia mente si possa ingannare su tutto, testimonia che essa pensa, e se pensa allora esiste il soggetto come sostanza pensante. Dunque: se m’inganno allora penso, se penso allora sono: “cogito ergo sum[2]! Dal nostro pensiero si può dedurre anche l’esistenza di Dio e del mondo. Se posseggo nella mia mente l’idea di Dio, mi posso domandare da dove essa venga. Mi dovrò rispondere che essa, trattando di un essere assoluto e onnipotente non può venire da me che sono contingente, limitato e imperfetto e tanto meno da una realtà esteriore, altrettanto contingente, limitata, imperfetta. Siccome, infatti, la causa deve essere uguale o superiore all’effetto, la causa dell’idea di Dio deve essere almeno assoluta e onnipotente quanto l’oggetto che la costituisce, cioè il suo effetto, cioè Dio. Dunque, deve venire da Dio stesso il quale, essendo ente perfettissimo, è impossibile che non esista (si veda l’argomento di Sant’Anselmo[3]). Quindi, una volta stabilita con certezza la nostra esistenza come soggetti individuali e l’esistenza di Dio, siccome Dio, in quanto essere assoluto onnipotente, non può non essere buono, allora egli non può ingannare. Se Dio non inganna, egli diventa il garante della mia conoscenza. Perché non è possibile che, quando un’idea si presenta alla mia mente con chiarezza e distinzione tale da avere indubitabile evidenza, io, come soggetto conoscente, mi possa ingannare. Pertanto, un’idea chiara e distinta, cioè evidente, che rappresenti una realtà esterna al soggetto conoscente dà sufficiente certezza che tale realtà esterna esista e che sia conosciuta con verità.

 

 Razionalismo ed empirismo

Dalla riflessione cartesiana si sviluppano due correnti di pensiero, il razionalismo e l’empirismo[4]. La loro diffusione va di pari passo con quella delle scienze sperimentali galieliano-newtoniane e le discussioni tra gli appartenenti a tali due correnti spesso si intrecciano con questioni circa il metodo delle scienze stesse e l’affidabilità delle loro acquisizioni (epistemologia).

Il razionalismo, in linea con Descartes, afferma che punto di partenza degli atti conoscitivi e loro criterio ultimo sono le idee, cioè le rappresentazioni della mente umana e la loro chiara evidenza, identità e connessione logica. Basandosi sul presupposto che la natura stessa parli un linguaggio matematico, i razionalisti sostengono che da idee generalissime - come quella di Dio, di sostanza, di essere - si può costruire deduttivamente un sistema che arrivi a conformarsi esattamente alla realtà che l’uomo ha di fronte, dandone una descrizione esatta e necessaria[5]. Senza dubbio la forza e l’ideale del razionalismo sono l’esattezza geometrico-matematica della conoscenza.

Per contro l’empirismo, contestando Descartes, afferma che la radice ultima della conoscenza, consiste nell’esperienza. L’esperienza proviene dal rapporto che il soggetto instaura con l’oggetto mediante i sensi. E' questa, infatti, la genesi di tutte le nostre idee, che hanno valore descrittivo solo nella misura in cui tale genesi possa essere esibita e confermata[6]. Forza e ideale dell’empirismo è evidentemente il legame degli atti conoscitivi con la realtà empirica immanente.

 

Immanuel Kant

Come si vede, il tema del contendere è quale strumento consente al soggetto umano di cogliere la realtà più profonda dell’oggetto da conoscere. Quando il dibattito si sta arenando in una disputa senza sbocchi, tanto da far sostenere qualcuno, come il filosofo David Hume, che la conoscenza certa e affidabile è impossibile, sorge l’astro di Immanuel Kant (1724-1804). Egli nel suo fondamentale testo La critica della ragion pura (1781-87) suggerisce un approccio diverso al problema della conoscenza. Non bisogna pensare che, quando conosce, il soggetto

          recepisca i dati che provengono dall’oggetto, di cui si è avuta esperienza (empirismo);

          consideri l’oggetto come ciò che deve essere raggiunto mediante il pensiero (razionalismo).

Al contrario bisogna ritenere che ogni giudizio sulla realtà provenga dall’adeguamento dell’oggetto alle strutture conoscitive del soggetto, cioè alla sua mente. Proprio perché l’uomo è fatto in un certo modo - essendo dotato di sensibilità e intelletto, cioè di sensi che intuiscono la realtà e di una mente che ragiona -, egli può conoscere i fenomeni oggettivi con universalità e necessità, e produrre scienza. Quest’ultimo è il fine della riflessione e del pensiero: si avverte qui un nuovo ruolo delle scienze naturali che via via assumono indiscussa centralità nel campo del sapere, grazie ai progressi che il metodo sperimentale ha loro garantito. Quindi per Kant il sapere naturale è essenzialmente scientifico, di quelle scienze che da Galileo e Newton hanno rivoluzionato tutte le precedenti conoscenze della natura e hanno consentito notevoli e importanti progressi, anche di carattere tecnologico.

Se dunque si vuole fare scienza, bisogna considerare gli oggetti da conoscere, cioè gli enti naturali, come fenomeni, ossia in modo tale che le loro caratteristiche risultino determinate da come il soggetto umano le comprende con i suoi strumenti e con le sue facoltà di sensibilità e intelletto. La verità dei fenomeni è pertanto data dal loro apparire al soggetto umano (fainomai in greco significa apparire). In ciò consiste la cosiddetta rivoluzione copernicana in gnoseologia: non il soggetto si adegua e registra ciò che accade e quali sono le caratteristiche fondamentali dell’oggetto; bensì l’oggetto, apparendo al soggetto, viene letto, interpretato e giudicato per mezzo degli strumenti conoscitivi del soggetto stesso. Da quest’ultimo dipende in ultima istanza il giudizio conoscitivo finale. Che avrà carattere di universalità e necessità perché universale è la costituzione razionale dell’uomo, cioè perché è tale per cui seguendo un certo metodo, con rigore, si può arrivare a determinare le leggi valide per ogni uomo, in tutti tempi, ovunque e relativamente a qualunque fenomeno. Nella Critica della ragion pura Kant illustra esattamente come avviene il processo conoscitivo e secondo quali dinamiche si verifica la suddetta rivoluzione copernicana.

 

Da Kant a Fichte

Finalmente arriviamo a Fichte, che è il miglior seguace di Kant e al tempo stesso colui che ne radicalizza le istanze, fino a determinare una corrente filosofica autonoma che ha preso il nome di idealismo (benché filosofo idealista sia da considerare anzitutto Berkeley). Suo testo fondamentale è la Dottrina della scienza, un libro che ha avuto molteplici edizioni (la prima del 1794, l’ultima del 1813) lungo tutta l’esistenza e l’attività filosofica del suo Autore che ogni volta l’ha ripensata e riadattata alle acquisizioni che veniva guadagnando durante il suo cammino di ricerca.

Il punto di partenza di Fichte è appunto kantiano. Kant aveva sostenuto che

1) esiste un oggetto (le cose della natura);

2) esso appare al soggetto (l’uomo);

3) il soggetto investe con le sue facoltà conoscitive che

4) ne consentono una determinazione valida per tutti coloro che posseggono le stesse facoltà conoscitive.

Ciò significa, come si è detto, che l’universalità necessità della scienza-conoscenza deriva dal soggetto. Poiché tutti i soggetti posseggono le medesime facoltà, allora possono consentire a un giudizio scientifico universale e necessario. Di conseguenza non l’essere dell’oggetto, ma le capacità del soggetto sono considerate ciò che determina la scienza. In effetti, noi non sappiamo come è veramente un oggetto, sappiamo piuttosto come appare a noi in quanto uomini. Noi conosciamo solo il fenomeno; non conosciamo la cosa in sé, cioè come veramente è, assolutamente e a prescindere da ogni apparire. La cosa in sé è solo l’oggetto che deve esistere per poter apparire a noi che lo conosciamo. Per il resto di essa non si può dire assolutamente niente, perché non appena diciamo qualcosa, essa diviene in realtà cosa-per-noi, cioè determinata da come noi la conosciamo.

Ebbene, Fichte sostiene che il concetto kantiano di cosa in sé è contraddittorio perché, da un lato, si dice che essa deve esistere perché vi sia un fenomeno, dall’altro si dice che di essa non si può dire niente. Ma dicendo che deve esistere, o che esiste, già se ne sta parlando, dunque, benché di una conoscenza minima e basilare, la si sta conoscendo. Così essa non è mai in sé, anche quando se ne afferma l’inconoscibilità; al contrario, in quanto cosa esistente e punto di partenza della conoscenza, è già cosa-per-noi.

Per evitare tale contraddizione bisogna allora dire che tutto l’oggetto dipende da un atto conoscitivo del soggetto il quale, quando conosce qualcosa, conosce ciò che egli stesso ha posto. Allora tutta la conoscenza deriva dall’Io, dal soggetto, da cui ogni oggetto, ossia ogni non-Io, dipende: "Un mondo esterno esistente in se stesso indipendentemente dal conoscere e perciò dall’Io, non è in alcun modo coerentemente affermabile: quindi l’intero universo non è che il sistema del nostro conoscere, cioè non è che in virtù dell’Io e per l’Io"[7]. In questo modo si compie una radicalizzazione soggettivistica della gnoseologia, resa possibile dalla rivoluzione copernicana di Kant che aveva attribuito al soggetto un ruolo attivo e primario nei processi conoscitivi. Il soggetto, divenuto con Kant protagonista, con Fichte è considerato l’unico attore della conoscenza.

 

Kant, Fichte e la morale

Da qui viene anche una particolare dottrina morale, i cui tratti fondamentali sono già determinati da Kant, e che Fichte, come già aveva fatto relativamente ai temi gnoseologici, si limita a ripensare pur con conseguenze notevolissime sotto il profilo teoretico.

Kant aveva fondato l’agire morale esclusivamente sulla ragione. Secondo lui non serve alcun Dio per determinare i comportamenti umani, ma è possibile farlo solo in base alla ragione: si comporta correttamente colui che si comporta in modo tale che ogni essere razionale potrebbe approvarlo, a prescindere dall’oggetto che la volontà stessa vuole. Se la volontà umana si adegua a un criterio razionale, essa vuole in maniera corretta i suoi oggetti, che pertanto debbono essere considerati dei beni. Se invece la volontà rinuncia a farsi guidare dalla ragione, l’intenzione che si rivolge a un certo oggetto ne risulta degradata, e l’azione va considerata come male. Ma come si fa a volere in modo razionale? Quando la volontà si fa guidare dalla ragione? Quando si può dire che essa segua una legge razionale che la rende giusta? Kant, nella sua opera La fondazione della metafisica dei costumi del 1785, offre tre formule che possono consentire di rispondere a queste domande. Sono le cosiddette formule dell’imperativo categorico, dove per imperativo si intende ciò che la ragione comanda di volere, e per categorico si intende che il comando è assoluto e non dipende da altre circostanze. Tali formule così recitano:

1) Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso che divenga legge universale[8].

Qui Kant dice che il proprio criterio di azione (massima) deve poter diventare legge universale, cioè deve appunto essere comprensibile e approvabile da ogni altro essere che sia dotato di ragione. Ogni volta che si agisce ci si deve domandare, pertanto, se la regola che guida l’azione potrebbe essere fatta propria da chiunque possieda la ragione, cioè da un qualunque altro essere umano, ovunque e in ogni tempo. Per esempio, non restituire prestiti come criterio dell’agire non potrebbe essere approvato anzitutto dai creditori, ma poi da qualunque altro essere umano che comprenda che le transazioni e i contratti necessitano la fiducia nel rispetto delle regole, senza il quale una quantità innumerevole di relazioni risulterebbero impossibili e impensabili. Di conseguenza la massima non restituire prestiti non risulta compatibile con un agire razionale secondo questa prima formula dell’imperativo categorico. Come si vede, un piccolo "test di universalizzazione", proprio in virtù dell'universale costituzione razionale degli uomini, è sufficiente a garantire la razionalità dell'intenzione del soggetto agente.

2) Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare, per tua volontà, una legge universale di natura[9]

Nella seconda formula si confrontano implicitamente la massima di un’azione umana e una legge universale di natura. Se è vero che una legge naturale in nessun modo si può trasgredire - per esempio la legge di gravitazione universale vale sempre e ovunque e nessuno può evitare di esservi sottoposto -, allora la legge umana di ragione alla quale si deve sempre adeguare ogni criterio individuale, va considerata come se fosse una legge naturale impossibile a trasgredirsi. Il senso è che un comportamento doveroso non ammette eccezioni: il dovere vale sempre e se a volte gli uomini non ascoltano la sua voce, non per questo smette di valere. Quindi ciò che noi abbiamo compreso come buono e giusto diventerà per noi assolutamente obbligatorio e dobbiamo sempre fare in modo che esso sia rispettato.

3) Agisci in modo da considerare l’essere umano, sia nella tua persona, sia nella persona di qualsiasi altro, sempre anche come fine e mai come semplice mezzo[10].

Nell’ultima formula si dice che l’essere umano non può mai essere strumentalizzato, cioè non può mai diventare il mezzo per un fine superiore. Infatti, adottando la ragione come criterio universale dell’agire, non esiste né può esistere un fine che superi in dignità l’essere che possiede la ragione. La ragione è il proprio dell’uomo, lo caratterizza, lo distingue, lo realizza e gli indica come condurre la propria esistenza. Se la ragione è dunque l’umanità stessa, e la pienezza dell’umanità è il fine dell’uomo, in nessun modo l’umanità può diventare razionalmente un mezzo per un diverso fine.

In questo modo Kant ritiene di aver fondato razionalmente la possibilità di valutare le nostre azioni e di guidarle verso ciò che in ogni luogo in ogni tempo è doveroso, emancipandole dai diversi stimoli che possono venire dalle circostanze. Circostanza, per esempio, è un oggetto che piace, un fine che affascina, una situazione che seduce, per il guadagno o in generale per i vantaggi che può offrire. Rispetto a questi ultimi, se essi rappresentassero un motivo dell'agire, al tempo stesso diventerebbero i padroni della vita dell'agente, perché le circostanze sono esterne e, se diventassero una legge, non sarebbero la legge dell'agente ma la legge di un mondo che lo attrae, lo cattura e infine lo sottomette. Viceversa, la ragione è nell’uomo ciò che è veramente suo. Quindi, per lui seguire la ragione significa seguire se stesso. E se le circostanze esterne, da Kant chiamate stimoli sensibili, sono sempre eteronome (legge proveniente da altro), la legge razionale è sempre autonoma (legge proveniente da ). Seguendo la legge dell’imperativo categorico, dunque, noi diventiamo liberi; seguendo al contrario gli stimoli sensibili noi diventiamo schiavi. Se facciamo qualcosa perché ci piace, perché crediamo di ottenerne un vantaggio, perché semplicemente non pensiamo, allora siamo schiavi, se invece seguiamo il dovere che proviene dalla nostra razionalità, rispettandone la legge, allora diventiamo liberi perché rimaniamo i soli legislatori di noi stessi.

Ebbene, Fichte accoglie la riflessione morale di Kant, enfatizzando l’elemento soggettivo della morale, cioè il fatto che il fondamento razionale dell’agire umano proviene dall’Io, cioè dal soggetto. Quell’Io che pone tutta la realtà, a maggior ragione pone a se stesso la regola, è regola e fine a se stesso.

Ecco allora che nel primo capitolo-conferenza della Missione del dotto[11] (intitolato Sul destino dell’uomo in sé) egli esordisce, sulle basi della Dottrina della scienza, sostenendo che il mondo dipende dall’Io. Ma che cos’è l’Io? Non è il singolo individuo, ma la razionalità che ogni singolo individuo possiede. L’Io infinito, come ha ben colto Nicola Abbagnano, “non è cosa diversa dall’io finito: è la sua sostanza, la sua attività ultima, la sua natura assoluta”[12]. Quindi l’Io è sostanza razionale dell’uomo, così che “l’io di ciascuno” diviene al tempo stesso, grazie alla sua razionalità, “l’unica sostanza suprema”[13].

E che cos’è il mondo, cioè la natura? La natura è il non-Io, ciò che sta davanti all’Io come suo oggetto e che, però, egli ha prodotto. Io e non-Io sono due “succhi”, due “concentrati”: il succo di ciò che è soggetto conoscente e il succo di ciò che è oggetto conosciuto.

Proviamo noi a elaborare un piccolo esempio. Pensiamo ad un signore qualsiasi che fa il botanico e che chiameremo Giuseppe, il quale studia il funzionamento di una qualsiasi pianta. Giuseppe è un soggetto empirico. È un individuo singolo di cui si può fare esperienza, che si può incontrare per strada, che ha la sua vita e il suo lavoro. La pianta è uno dei tanti possibili oggetti esterni, appartenenti alla natura empirica, di cui si può fare esperienza, in cui l’uomo si trova immerso. Qual è la sostanza, l’essenza, il senso ultimo di Giuseppe? La sua ragione. Qual è la sostanza, l’essenza, il senso ultimo della pianta? Il suo essere natura esterna. Quando Giuseppe ha veramente conosciuto una pianta? Quando questa natura esterna non ha più segreti per lui. Quando la sua ragione ha compreso come è fatta la pianta in modo tale che prende coscienza che la sua natura esterna in realtà non è più esterna, ma dipende in toto dalla ragione stessa. Così l’Io empirico di Giuseppe “raggiunge” la sua sostanza: per quella pianta che ha di fronte e che ha pienamente conosciuto con i suoi strumenti razionali, egli diviene allora Io puro che ha posto il suo oggetto, cioè ne è la ragione. In quanto ne è la ragione, egli non aspetta più che la pianta cresca libera nella natura, ma la coltiva e la modifica del suo essere, affinché l’oggetto-pianta risponda esattamente ai fini razionali che egli, come soggetto-Io ha posto.

 

La missione del dotto

Ecco per Fichte, sempre nel primo capitolo della Missione del dotto, qual è la destinazione dell’uomo, considerato come tale a prescindere dalla società: signoreggiare tutto ciò che è senza ragione (natura) in accordo con la propria legge (ragione). Cioè rendere razionale tutto ciò che è a prima vista esterno, oggettivo, appunto senza ragione. Affermare dunque il primato dell’Io su tutto ciò che è non-Io. E questo avviene sia sul piano conoscitivo, quando si tratta di comprendere la realtà, sia sul piano morale quando si tratta di dominarla e modificarla mediante la propria azione, derivante a sua volta dalla volontà razionale.

Per fare ciò, afferma Fichte, non bisogna tralasciare la funzione della cultura. Infatti, qui non si tratta solo di una determinazione generale delle prerogative dell’Io, ma di chi cosa ogni singola persona deve fare per vivere bene in armonia con la propria essenza razionale. Quindi non c’è mai un soggetto avulso da un contesto e non esiste una razionalità che agisca nel vuoto. Sempre calati nei contesti della nostra vita naturale e sociale, per noi individui empirici esiste sempre anche un mondo di saperi dentro i quali siamo immersi, e tale mondo è la cultura. La funzione della cultura è estremamente importante per la nostra prassi concreta e per la nostra crescita personale. Essa è un patrimonio altrui che spiana la strada all’esercizio della nostra ragione. Prima che la ragione si dispieghi autonomamente, la cultura, cioè il patrimonio degli sforzi razionali sono stati compiuti da altri, ara il terreno, per poi diventare una specie di codice, un libretto di istruzioni che facilita il compito di modificare il mondo naturale e sociale secondo i nostri concetti. Quindi se la ragione è sempre, inscindibilmente legata con la prassi, perché non esiste una conoscenza che non voglia rimodellare il non-Io mentre lo conosce, allo stesso modo la cultura, che introduce all’esercizio della ragione, pure introduce all’esercizio della prassi, perché il mondo diventi effettivamente docile ai nostri fini.

Una volta preliminarmente stabilito il fine dell’uomo in quanto tale, e gli strumenti culturali di cui è dotato perché detto fine sia perseguito nella sua effettiva esistenza, si passa, nella seconda conferenza (intitolata Sulla missione dell’uomo nella società), a indagare la destinazione dell’uomo nella società.

Dentro la nostra esperienza, in cui tutto il non-Io deriva dal Io, come faccio a sapere che non ci sono solo oggetti ma anche altri soggetti razionali? A rigore si dovrebbe dare una soluzione solipsistica (c’è solo il soggetto), infatti se tutta la realtà è dentro il soggetto conoscente, tutto quanto esiste non è che una sua rappresentazione e, all'interno di quest’ultima, tutto è oggetto. Quindi per ogni essere umano varrebbe la medesima prospettiva: egli, e solo lui, è soggetto, mentre tutto il mondo è oggetto. Il fatto che esistano altri soggetti sarebbe totalmente indifferente, se gli altri soggetti esistessero solo in quanto conosciuti dal soggetto, solo perché il soggetto li considera tali nella sua rappresentazione della realtà.

Ma l'intento di Fichte è anzitutto dedurre razionalmente la società a partire dal principio dell’Io e per fare ciò deve escludere una prospettiva solipsistica che, a prima vista, parrebbe l’orientamento più ovvio sotto il profilo idealistico. Bene, Fichte ammette che non c’è modo di operare tale distinzione - tra un oggetto qualsiasi e un soggetto dentro la rappresentazione conoscitiva umana - sotto il profilo puramente teoretico, ovvero appunto puramente conoscitivo. L’esistenza di altri uomini razionali, cioè di altri Io, non è un fatto di esperienza, non si può affermare all’interno del processo conoscitivo. Essa è bensì un’esigenza morale. Fichte cerca di dimostrarlo notando che non si potrebbe raggiungere il fine della riconduzione della natura alla nostra ragione, cioè il fine proprio dell’uomo, se non alla seguente condizione: che la nostra aspettativa di trovare nella natura un riscontro a tutti i nostri concetti sia l’esito inevitabile e quasi la testimonianza dell’effettiva realizzazione dei processi di razionalizzazione e soggettivizzazione della natura stessa. È come se il non-Io non fosse mai adeguatamente ridotto ai fini posti dall’Io se l’Io non trovasse nel non-Io tracce, immagini, testimonianze, riscontri, attestazioni della quella stessa razionalità a cui egli vuole ricondurlo. E non potrebbe esservi alcun riscontro della razionalità nel fenomeno se non si potesse rinvenire in esso una causalità libera e razionale, cioè non solo oggetti, ma altri soggetti. La presenza nel mondo dell’uomo come libera causalità razionale di ciò che accade costituisce allora la cartina al tornasole del fatto che la natura è docile ai fini dell’uomo: essa è soggettivizzabile perché ha di per sé una componente soggettiva, cioè è in qualche maniera già soggetto. Dunque, il rinvenimento nella natura di altri soggetti è un’esigenza nata dallo stesso compito morale che la ragione dà a se stessa. Altrimenti ci sarebbe solo un dogmatico muro contro muro tra un soggetto e una natura estranea, che in tale estraneità non potrebbe essere ricondotta alla ragione: il compito morale della razionalizzazione e soggettivizzazione sarebbe impossibile. Ma il fatto che un compito morale sia in sé contraddittorio, cioè comandi cose impossibili non si dà.

Quindi si deve concludere che esistono uomini come soggetti liberi e razionali attorno a noi, e che ciò che nella nostra esperienza è un semplice oggetto di conoscenza umano deve moralmente essere considerato un ente soggettivo con cui entrare in una relazione totalmente diversa. Questa relazione diversa Fichte determina come un agire vicendevole mediante concetti. La società non è altro che la reciproca relazione tra gli uomini mediante la razionalità. Così come l’uomo è fine a se stesso - perché oltre la ragione non si dà alcun fine, e la ragione è la sostanza dell’umanità - la società è parimenti fine a se stessa in quanto relazione tra esseri razionali. Nella società, formata da molti soggetti, caratterizzata dalla diversità delle disposizioni, delle vite, dei caratteri, delle vocazioni, ciascuno eleva gli altri al suo ideale. La naturale inclinazione alla socievolezza al miglioramento reciproco - implicita nello stesso agire vicendevole mediante concetti - esige che chiunque trovi un suo simile, cioè un altro soggetto, in condizioni di una qualsiasi forma di inferiorità rispetto sé, o rispetto all’ideale di uomo che egli abbraccia, si adoperi per elevare l’altro alla propria condizione o a quell’ideale. Ma ciò deve avvenire in accordo con la legge morale, cioè rispettando il fine umano di ciascuno che consiste nel libero dispiegamento della sua ragione-libertà. Ciò esclude la coazione e la servitù. Nessuno può essere costretto contro la sua volontà a migliorare. Nell’uomo ogni miglioramento deve procedere da una persuasione razionale, altrimenti non è un miglioramento e, se opera di qualcun altro, non si accorda con la dignità che quest'ultimo deve riconoscere ad ogni soggetto razionale.

Nel terzo capitolo conferenza (intitolato Sulla diversità delle classi nella società) Fichte sottolinea che i processi di vicendevole soccorso finalizzati alla vicendevole elevazione puntano in ultima analisi all’unità delle differenze tra gli uomini nel comune fine della pienezza e della perfezione. Precisamente nel libero e pieno dispiegamento della razionalità di ciascuno in pieno accordo con se stesso e nella piena riconduzione alla sovranità della ragione di tutto ciò che è irrazionale risiede lo scopo della società. Il raggiungimento di questo scopo livellerebbe verso l’alto tutte le differenze, perché nella perfezione assoluta e nell’attualità realizzata di tutte le potenzialità, il genere umano si troverebbe a coincidere in un punto: l’unità del compiuto accordo di tutto con se stesso e con tutto. Tale unità, che rimane evidentemente un’ideale regolativo, non si ottiene contro le differenze ma per loro mezzo. È particolarmente interessante notare che, mentre Fichte enuncia una sorta di utopia escatologica quale sommo ideale dello sviluppo dell’intera umanità, egli realisticamente sostenga che le differenze fra gli uomini ossia, detto in altri termini, la storia con le sue dinamiche particolari, vadano rispettate e che il loro superamento debba avvenire dal loro interno e non dalla forza di una imposizione livellatrice.

 In accordo con tale prospettiva il nostro Filosofo rileva che la natura offre a ciascuno diverse disposizioni, stimolando in modo diverso la ragione di ciascuno. È questa la matrice delle differenze. La varietà dell’empiria agisce diversamente e determina le diverse empiriche declinazioni dell’unica sostanza umana, dell’unico intelletto agente che sostanzia le nostre singole facoltà individuali. Quindi, radicalmente diversi nelle diverse circostanze della vita, gli uomini scelgono dalla periferia della loro condizione empirica la via che li porta verso il centro della loro realizzazione razionale. In queste scelte essi si uniscono, si associano, trovando tra loro affinità, sostegno reciproco e possibilità di reciproco miglioramento.

Sulla base di un concetto che definirei ancora tradizionale e addirittura medievale di corporazione, ossia di associazioni di mestiere, Fichte pensa l’associazione degli uomini a seconda delle loro diverse vocazioni professionali, esistenziali, culturali in diversi ceti (Stände). I ceti-corporazione costituiscono la sostanza della vita economica e delle relazioni degli uomini all’interno della società civile. Essi, nella loro diversità, vengono integrati per mezzo del tutto della società, dopo aver a loro volta integrato le disposizioni dei singoli nei loro gruppi, mediante quello che Fichte chiama l’istinto sociale a dare e a ricevere. La società si avvale così delle più diverse attitudini e del loro vicendevole agire su ciascuno per promuovere il miglioramento di tutti. In questo contesto, ognuno sviluppa una libera e personale vocazione (si sceglie il suo ceto) e, grazie all' azione in tale ceto a beneficio di tutti, ricambia ciò che gli altri, ossia la società, gli hanno fornito in termini di avanzamento morale e materiale. Così ognuno nel suo ceto partecipa all'opera della società: la nobilitazione dell’uomo e la sua libertà. Il ceto intellettuale pone al centro del suo interesse esplicitamente tale fine ed evidenzia la necessità che l'avanzamento di ciascuno costituisca al tempo stesso l'avanzamento di tutti. In questo modo il ceto intellettuale si propone di determinare il dominio della ragione umana di tutti su tutti e su tutto.

 L'intellettuale ha dunque un ruolo centrale, che viene ulteriormente indagato nel quarto capitolo-conferenza (intitolato Sulla missione del dotto). Infatti, per suo mezzo si valorizza il ruolo della conoscenza e una società non avanza se non conosce la realtà, ma soprattutto se non conosce l’uomo stesso. L'uomo è oggetto di indagine nei suoi istinti, nelle sue inclinazioni e nei suoi bisogni, e per conoscere tali fattori nell’essere razionale bisogna indagare la ragione come fondamento di tutto. D'altro canto, gli stessi istinti, inclinazioni, bisogni costituiscono insieme la tendenza a un fine, il fine ultimo della realizzazione dell'umanità come genere razionale. Tale scopo va soddisfatto in tutte le maniere. Così si corrisponderà alla vocazione più profonda dell’umanità. L'uomo è conosciuto solo se si posseggono solidi principi razionali cioè la filosofia, ma per soddisfare i suoi bisogni non si può prescindere dall’esperienza cioè dalle diverse situazioni in cui si trovano i diversi individui, quindi alla filosofia va aggiunta la storia. Per completare tale conoscenza bisogna pure valutare il livello di sviluppo della società, il suo grado culturale e questa è una meta che è capace di raggiungere solo una disciplina squisitamente storica. Quindi, da un lato, la filosofia, dall'altro, una filosofia che si avvale di supporti storici, e infine, dall’altro ancora, la storia: sono queste le componenti fondamentali dell'erudizione propria dell’intellettuale che, dal canto suo, si esprime nella specializzazione in diversi rami del sapere e tende al sommo controllo sul reale avanzamento della razza umana nella sua globalità. Ecco il ruolo dell’intellettuale, il quale nella sua opera di ricerca e comunicazione del sapere, non solo si adopera per un ininterrotto incitamento a tale avanzamento, ma ammaestra senza mentire, senza falsificare e far violenza, cioè rispettando la libertà di ciascuno. Così egli educa il genere umano a perseguire il fine che gli è proprio. 

L'intellettuale diviene, dunque, maestro ed educatore dell’umanità, avendo la verità come unico criterio (Fichte vi allude come a un vero e proprio sacerdozio della verità) e l'esempio come strumento privilegiato: non può indicare agli altri il bene chi a sua volta non è buono.

Nella quinta e ultima conferenza (intitolata Critica delle affermazioni del Rousseau intorno all’influenza delle arti e delle scienze sul benessere dell’umanità) Fichte sottolinea che per l'intellettuale non può essere oggetto da perseguire il ritorno a un ideale e incorrotto stato di natura: non può essere questo il fine dell'uomo cui egli deve continuamente incitare. In ciò il nostro Autore critica, pur con una certa comprensiva benevolenza, Rousseau quando rifiuta di riconoscere appunto l'influenza delle arti e delle scienze sul benessere dell’umanità e anzi considera la costituzione della società, dei suoi costumi, e dei saperi al suo interno, come fonte di corruzione della naturale, integra e originaria condizione umana. Non nella natura l'uomo trova compimento, dice Fichte, ma nella sua totale e sempre da compiersi soggettivazione, che implica uno sforzo continuao per  portare il non-Io naturale all'altezza del Io, l'irrazionale all'altezza del razionale, ri-plasmando la natura con l'impegno della volontà razionale in costante tensione verso il compimento. 

Giunto a ribadire questo leit-Motiv della sua opera, l'Autore  può concluderla, rivolgendosi in particolare al suo pubblico giovane, con le seguenti parole: “Avete imparato ora, per mezzo di indagini filosofiche, come dovrebbero essere gli uomini, coi quali però non siete ancora entrati finora in rapporto stretto, intimo, indissolubile; voi in tale rapporto entrerete, e troverete gli uomini assai diversi da quello che la vostra morale esige. Quanto più nobili e migliori voi sarete, tanto più dolorose saranno le esperienze che vi attendono. Ma non lasciatevi sopraffare da questo dolore; vincetele con le vostre azioni. Ricordatevi che esso è calcolato e previsto nel vasto disegno del perfezionamento del genere umano. Perdersi in lamenti sulla corruzione degli uomini, senza muovere un dito per combatterla, è da effeminati. Castigare e schernire amaramente, senza indicare agli uomini il modo di migliorarsi, non è atto da amici. Agire! Agire! Ecco il fine per cui esistiamo. Con quale ragione potremmo adirarci, perché gli altri non sono così perfetti come noi, se noi stessi di ben poco solamente siamo di lor migliori? E non è forse questa nostra maggiore perfezione un monito che ci dice essere noi chiamati a lavorare per il perfezionamento degli altri? Esultiamo alla vista del campo sterminato che siamo chiamati a coltivare! Esultiamo di sentirci forti e di avere un compito, che è infinito!”[14].  

 

Il costrutto della modernità

La scelta della Missione del dotto come una sorta di testo simbolo della filosofia moderna ha un motivo preciso. Mi è sembrato che in questo breve scritto si potessero ritrovare alcuni tra i temi maggiormente significativi della sua epoca filosofica, e pure molto stimolanti per la nostra. Non alieno dalla passione della conoscenza, dallo sfondo del tema squisitamente moderno del soggetto gnoseologico, anzitutto salta all’occhio il profondo afflato umanistico fichtiano. Esso si situa nella scia del De hominis dignitate di Pico della Mirandola e offre adeguate formulazioni al sentimento tutto laico e mondano della grandezza della specie umana, che già aveva fatto capolino nell’illuminismo kantiano, al tempo stesso ricollegandosi all’umanesimo cristiano, di cui mantiene il ricordo nella trasposizione laica della trascendenza entro la categoria di infinito. In questa Stimmung si colloca anche una certa tensione utopica, che riecheggia le speranze palingenetiche che - da Th. Moore, a Bacone, a Müntzer, a Godwin ed altri - hanno attraversato i tempi moderni, riportando talora in auge antiche eresie millenariste e gioachimite, che tornano in quella che rimane una sorta di costante escatologica occidentale[15]. Rispetto all’illuminismo che nella sua ansia di rinnovamento razionalistico scadeva talvolta in una vera e propria letteratura filosofica fantasy, tanto era il suo distacco dalla realtà, in Fichte si avverte la lezione della storia e la preoccupazione di rimanervi ancorato per evitare le costruzioni a tavolino che tanto avevano caratterizzato la riflessione francese. Naturalmente ciò non cambia una virgola del suo giudizio, nell’ultimo decennio del Settecento ancora entusiastico, per gli eventi rivoluzionari di Parigi.  C’è grande ammirazione da parte sua per tutto l’armamentario ideologico e per le parole d’ordine della rivoluzione. Ciò che qui più interessava, lo si vede anche dalla Missione del dotto, era il tema della libertà. La libertà si lega strettamente alla prassi: la libertà è la ragione legislatrice (Kant), ma in essa è contenuta logicamente anche l’idea di una trasformazione del mondo. Il dovere si realizza  nell’urto con ciò che è solamente dato, per affermare la sua forza liberante: ma il dato non sono eslusivamente gli stimoli sensibili, cioè la tendenza individuale ad adagiarsi e a scadere nell’eteronomia della volontà, bensì la realtà politica con le sue strutture di potere. 

Ecco la prospettiva fichtiana della prassi, tratto esso pure distintivo del pensiero moderno, che ritornerà purificato nell’undicesima tesi su Feuerbach, un po’ ingenerosa riguardo alla tradizione di filosofi appassionati trasformatori del mondo, almeno dal momento in cui si scoprirono scienziati sperimentali. Nella modernità l’uomo europeo viaggia con il pensiero e con le navi, scopre spazi vuoti da occupare, pensa una temporalità rigorosamente lineare che permette di spostare costantemente in avanti la meta dell’umanità, ha una scienza per avere sempre qualcosa da fare, ha un sapere che sempre costantemente guida la sua mano. Qui è il suo segreto: un progetto prometeico che O. Spengler, nel suo Tramonto dell’Occidente[16] ha goethianamente definito civiltà faustiana, in nome di quello stesso Faust che, traducendo il primo versetto del Vangelo di Giovanni, dice: “Sta scritto: ‘In principio era il Verbo’. Eccomi già fermo! Chi m’aiuta a proseguire? M’è impossibile dare a ‘Parola’ (das Wort) tanto valore. Devo tradurre altrimenti, se mi darà giusto lume lo Spirito. Sta scritto: ‘In principio era il Pensiero’. Medita bene il primo rigo, ché non ti corra troppo la penna. Quel che tutto crea e opera è il pensiero? Dovrebbe essere: ‘In principio era l’Energia’. Pure mentre trascrivo questa parola, qualcosa già mi dice che non potrò fermarmi Mi dà aiuto lo Spirito! Ecco che vedo chiaro e, ormai sicuro, scrivo: ‘In principio era l'Azione (die Tat)’”[17]: l’azione, cioè la prassi… nella frenesia della prassi, lungo tutta la modernità, “l’industria occidentale ha spostato le vie del commercio già seguite da altre civiltà. Le correnti della vita economica si spostano verso le sedi del ‘re carbone’ e le aree ricche di materie prime: la natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto specie di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana…”[18].

Così da Fichte alla volontà di potenza, il passo è breve, direbbe genealogicamente Heidegger, mentre oggi la sua scolastica ripeterebbe il lamento romantico del ponte sul Reno che l’occhio della tecnica moderna riprogetterebbe come una centrale idroelettrica[19]. La civiltà faustiana muore nell’industrialismo sfrenato e nella fagocitazione sistematica delle risorse da offrire in olocausto alla civiltà dei consumi. In ultimo finisce per generare la sua antitesi dialettica, l’ecologismo lamentoso di coloro che cercano di risvegliare sotto mentite spoglie il mito nostalgico del buon selvaggio, contro il quale Fichte si era scagliato nell’ultimo capitolo della Missione del dotto

Se leggiamo la sua opera seriamente, cogliendovi lo spirito della modernità, non si può non rilevare la profonda serietà del progetto moderno, la stessa che Bauman chiamerebbe solidità[20]. La modernità è profondamente civilizzatrice e trascina con sé gli uomini che, contro le cattedrali del passato, ambivano bensì a costruire nuove cattedrali, ugualmente belle e imponenti, benché dalle più deboli fondamenta. Il costrutto moderno è un’ambiziosa architettura della civiltà, che possiede un nucleo spirituale ancora vitale nel ricordo dell’antico precetto divino di soggiogare la Terra. Esso deve far riflettere tutti coloro che nuotano nel mare indifferenziato della liquidità post-moderna, tempo della dissoluzione e del ritorno alla matrice, tempo della fine della creatività e della reiterazione del godimento istantaneo, tempo a-progettuale dell’attesa e della consegna a domicilio, tempo della resa della ragione e del ritorno del basso ventre. Anche il ruolo della cultura e del pensiero filosofico non deve rimanere fuori da tale riflessione. La prassi avrà generato il dominio distruttivo della natura, il fuoco di Prometeo avrà bruciato la terra, ma l’umidità della matrice genera e riproduce solo muffe. L’intellettuale engagé si è seduto e si è perso sulle sponde del riflusso, ma il topo di biblioteca finisce per rosicchiare la cultura separandola dalla sua vocazione alla via, alla verità e alla vita. Allora la Missione del dotto e le sue parole dicono ancora qualcosa di sensato, esibendo quello che era il cuore pulsante della modernità, le sue speranze e i suoi valori. Dicono di un atteggiamento verso la realtà che, per quanto criticabile, vede nella prassi l’unica forma di salvezza, anche dai suoi errori, anche da sé stessa, suggerendo che quello che conta è ancora trovare le forme dell’agire, senza smarrire l’agire quale norma etica fondamentale dell’uomo di cultura.

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[1] Agostino, La città di Dio, 11,26.

[2] La formula, con l’annesso ragionamento è presente in tre opere: il Discorso sul metodo (1637); le Meditazioni metafisiche (1641) e i Principi di filosofia (1644).

[3] Infatti, tra le perfezioni di un oggetto non può non essere contenuta l’esistenza, qualcosa che esiste ha una qualità in più, cioè è più perfetto di qualcosa che non esiste; Cartesio, Meditazioni metafisiche, V, 9 e Anselmo, Proslogion, XV segg.

[4] “Hegel fu il primo a caratterizzare con razionalismo l’indirizzo che va da Cartesio a Leibniz, contrapponendolo all’empirismo, che fa capo a Locke” N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Tea, Milano, 1993, sv Razionalismo, p. 730 (G. W. F. Hegel, Storia della filosofia, III,2).

[5] “Questo è l’ordine che in proposito ho seguito. In primo luogo ho cercato di trovare in generale i Principi o Prime Cause di tutto ciò che è o può essere nel mondo senza considerare a questo fine nient’altro se non Dio che l’ha creato, né traendoli da altra fonte che da certti germi di Verità che riposano naturalmente nelle nostre anime. In secondo luogo ho esaminato quali erano i primi e più comuni effetti deducibili da queste cause e mi pare di aver trovato per questa via Cieli, Astri, una Terra e su di essa Acqua, Aria, Fuoco e Minerali e alcune cose tra le più comuni e più semplici di tutte, e quindi tra le più facili a conoscere…” Descartes, Discorso sul metodo, 6. Ecco una sorta di manifesto del metodo razionalistico-deduttivo. Poi Cartesio ammette che è necessaria, quando si vuole analizzare la realtà nei particolari, anche l’esperienza, benché dopo avere “fatto esperienza”, giunge alla conclusione che nella natura non ha trovato “nulla che non potess(e) facilmente spiegare mediante i (suoi) Principi” (ibidem), considerando l’esperienza solo un utile coadiuvante che rende il compito deduttivo più facile, data l’immensa varietà degli oggetti naturali.

[6] Questa ulteriore definizione manualistica poterebbe essere d’aiuto: “Con empirismo, dal greco empeirìa, esperienza) si intende qualsiasi dottrina filosofica che basi la conoscenza umana sull’esperienza che proviene dai sensi. L’idea di fondo dell’empirismo è che la nostra osservazione del mondo ci consente di ottenere tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, eliminando così la possibilità dell’esistenza di qualsiasi principio razionale evidente a priori (cioè prima di fare esperienza, n.d.r.). Come corrente filosofica vera e propria si impone nel XVII secolo: fra gli empiristi inglesi ricordiamo Hobbes (ma la sua collocazione in tale gruppo è controversa, n.d.r.), Locke, Berkeley e Hume”: F. Mombelli in G. Reale - D. Antiseri, Il nuovo. Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. 2°: Dall’umanesimo a Vico, La scuola, Brescia 2016, p. 506.

[7] J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Mediterranee, Roma 2006, p. 30. In tale opera, pubblicata per la prima volta nel 1925, questo filosofo neoidealista ha riassunto in modo estremamente efficace, sintetico e didattico i temi fondamentali dell’idealismo, a partire anzitutto dalla lettura approfondita e analitica di Fichte.

[8] I Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr.it. di A.Volpicelli, Vallecchi, Firenze 1925, p. 76

[9] Ibidem.

[10] Ivi, pp. 85-86.

[11] Faccio riferimento qui sia alla prima traduzione italiana di Elsa Roncali per Carabba di Lanciano edita nel 1936, sia all’ultima di Diego Fusaro, per Bompiani di Milano nel 2013, con una pregevole introduzione storico-filosofica del medesimo Fusaro.

[12] N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. IV: Dal Romanticismo a Nietzsche, Utet - Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2006, p. 93.

[13] J.G. Fichte, Dottrina della scienza (1794), tr. it. di A. Tilgher, Laterza, Bari 1925, p. 82.

[14] J.G. Fichte, Sulla missione del dotto, tr. it. di E. Roncali, cit., pp. 124-125.

[15] Studiata da molti, tra i quali è naturalmente da segnalare J. Taubes, Escatologia occidentale, tr. it. Garzanti, Milano, 1997.

[16] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it., Guanda, Parma 1991.

[17] J. W. Goethe, Faust, I, 1223-1237, tr. it. di F. Fortini, Mondadori, Milano 1965, p.95.

[18] O. Spengler, cit., p. 1394-1395.

[19] “La centrale elettrica è impiantata (gestellt) nelle acque del Reno. Questo è richiesto a fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine perché girino e così spingano quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un certo distretto e la sua rete sono impiegati a produrre per soddisfare la richiesta di energia. Nell’ambito di questo successivo concatenarsi dell’impiego dell’energia elettrica, anche il Reno appare qualcosa di bestellte, di ‘impiegato’. La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all’essere della centrale. Per misurare, sia pur approssimativamente tutta l’enormità inquietante che qui domina prestiamo attenzione per un momento al contrasto che si rivela tra le espressioni ‘il Reno’, inteso come fiume incorporato nella centrale (Kraftwerk, opera-di-potenza, n.d.r.) e ‘il Reno’ di un’opera d’arte (Kunstwerk, opera-di-arte, n.d.r.), l’inno di Hölderlin che porta questo titolo. Si obietterà che il Reno rimane pur sempre il fiume di quella regione. Può darsi, ma come? Solo come oggetto ‘impiegabile’ per le escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su (bestellt) una industria delle vacanze”: M. Heidegger, La questione della tecnica, tr. it. in Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, pp. 5-27, qui pp.11-12.

[20] Z. Bauman, Modernità liquida, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2011, p. 13: che cosa è la liquidità della nostra condizione odierna? Essa è “riconducibile soprattutto a ciò che è compendiato nel termine ‘deregolamentazione’: alla separazione del potere (capacità di fare) dalla politica (capacità di decidere cosa fare), e di conseguenza a un’assenza o debolezza delle agenzie (cioè a un’inadeguatezza degli strumenti rispetto agli obiettivi) e al ‘policentrismo’ dell'azione in un pianeta integrato da una fitta ragnatela di interdipendenze. In parole povere, in condizione di ‘liquidità’ tutto è possibile, ma nulla può essere fatto con certezza. L'incertezza è il risultato combinato del sentimento di ignoranza (impossibilità di sapere ciò che accadrà) e di impotenza (impossibilità di evitare che accada) e di una paura sfuggente e diffusa, definita in modo vago e difficile da localizzare: una paura che fluttua alla disperata ricerca di un punto fermo”; Che cosa è la solidità? evidentemente il contrario che si potrebbe riassumere nei concetti di certezza, fermezza, stabilità, coerenza, razionalità ed efficacia del pensiero e dell’azione.  

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

mercoledì 23 dicembre 2020

Il Gorgia: retorica, giustizia, bene. Platone cala gli assi della sua filosofia…(e ancora ci sfida a giocare le nostre carte)

 


Il Gorgia è un importante dialogo della prima maturità di Platone, composto verosimilmente attorno 387-85 (Dodds), più o meno all’epoca del suo primo viaggio in Sicilia (389-388). Accanto a Socrate, esso vede avvicendarsi tre personaggi. Il primo è il noto e longevo (480/5-380) retore e filosofo sofista Gorgia di Leontini, autore del famoso Encomio di Elena e dell’altrettanto importante scritto Sul non essere. A lui è dedicata la parte iniziale del dialogo, quantitativamente la più esigua, ma importante in quanto imposta il problema oggetto e filo conduttore della discussione: qual è il senso dell’arte retorica, il suo rapporto con la giustizia e più in generale con il valore etico? Una volta avviata la conversazione, sarà il giovane retore Polo, anch’egli siciliano di Agrigento, a portarla avanti con impeto giovanile, ma con minor rigore teorico. Mentre con Gorgia, Socrate deve convenire che vi deve essere una qualche relazione tra la retorica e la giustizia, con Polo può esprimere quella che appare realmente la sua opinione: la retorica è una tecnica di seduzione essenzialmente amorale, che non dà né potere né felicità. Però nei tribunali, essa potrebbe essere posta al servizio della giustizia per liberare, mediante la pena, l’ingiusto dalla sua colpa. In questo caso potrebbe avere una certa utilità. L’ultima e più cospicua parte del dialogo vede Socrate incrociare le armi con l’agguerrito Callicle. Di lui non si sa niente eccetto quello che lo stesso dialogo ci dice - apparteneva al demo di Acarne, a nord di Atene; aveva una relazione con Demo, figlio di Pirilampi, fratellastro di Platone; aveva altri amici noti ad Atene. La sua presenza esclusiva nel Gorgia ha portato alcuni a pensare che Callicle sia un personaggio fittizio, cosa ben strana in un Platone non uso a introdurre simili stratagemmi letterari nelle sue opere, normalmente popolate di personaggi storici e ben conosciuti. In ogni caso, Callicle è il più radicale degli interlocutori di Socrate e arriva a sostenere la tesi nietzschiana secondo cui la legge è lo stratagemma dei più deboli per imbrigliare i più forti e la moralità è una forma di pensiero meschino. Questo per sostenere una più profonda legittimità della retorica, proprio in quei punti che invece Socrate considerava più problematici: la possibilità di argomentare indifferentemente per il giusto e per l’ingiusto e le sue virtù seduttive in grado di trascinare le persone, ingannandole, dove il retore o il politico desiderano condurle. Di fronte a ciò, Socrate argomenta invece a favore di una netta distinzione tra il bene e il piacere e della superiorità del primo. A tale superiorità è connessa una nuova perorazione della giustizia, che riprende l’argomento secondo il quale è meglio subire ingiustizia che commetterla. Si tratta di un punto di vista di fondamentale importanza per una più precisa elaborazione e argomentazione dei principi etici della filosofia platonica, in chiave fortemente anti-sofistica. La retorica, coerentemente con tale posizione, si può salvare solo se legata alla giustizia e al bene, che sono elementi assai diversi dal piacere e dalla soddisfazione del desiderio. Socrate anticipa che non crede molto alla possibilità che di fatto tale disciplina venga così interpretata e sviluppata da coloro che la praticano. Tuttavia, alla fine del dialogo, lascia aperto uno spiraglio, proprio in funzione della sottolineatura, contro Callicle, del primato della virtù che, quando presente, redime anche discipline di per sé ambigue. Analogamente alla definizione di giustizia come ordine, armonia e misura sia tra gli uomini sia tra le parti dell’anima, anche il mito escatologico sul destino delle anime dopo la morte, trattato in conclusione, contribuisce a fare del Gorgia un testo che anticipa temi fondamentali della complessiva filosofia di Platone, che saranno sviluppati e approfonditi nella Repubblica (dove è da notare anche l’evidente parallelismo tra la figura di Trasimaco e quella di Callicle, cosa che evidenzia il medesimo intento polemico contro lo spregiudicato amoralismo dei sofisti).

È inutile sottolineare quanto i discorsi del Gorgia ancora coinvolgano la nostra sensibilità. Siamo oggi collocati, nostro malgrado, nella società e nel tempo della postmodernità liquida, orientata al godimento superficiale e al piacere transeunte. Callicle ci fa notare che è necessario assumere tale orientamento in maniera radicale e coerente. Se bisogna essere amorali, lo si sia fino in fondo … se godimento deve essere, lo sia in modo profondissimo; se piacere deve essere lo sia fino alla propria consumazione: questa grandezza ha colto Nietzsche. Siamo a mille miglia dal pensiero deboluccio della fluttuazione insulsa tra i luccichii delle vetrine del centro: le passioni hanno un massimo e ti sfidano a praticarlo…vediamo se ne hai il coraggio, dice Callicle. D’altro canto, ciò vale anche per la virtù: essa non si applica da sola, ha bisogno di uomini per i quali non sia importante vivere, ma come si vive! E non vuole moralisti d’accatto che appellano alla presunta autoevidenza dei valori…ma dell’intelligenza attenta di coloro che li abbracciano con consapevolezza e profondità intellettuale … tutte cose di cui oggi si sente grande mancanza. Sembrerà strano, ma quest’epoca di uomini e regimi senza qualità mette d’accordo le prospettive più distanti: sembra infine che Callicle e Socrate stiano dalla stessa parte quando per loro mezzo si afferma la valenza primaria che in ogni decisione vitale hanno l’equazione personale, la consistenza esistenziale e morale, lo stile di vita, il tipo di persona che si è e che si vuole essere.

Per le notizie qui riportate e per la traduzione italiana del dialogo mi sono riferito all’ottima edizione curata dallo stimato collega Paolo Scaglietti e alla sua pregevole introduzione (Platone, Gorgia, P. Scaglietti (cur.), La vita felice, Milano 2013).

 

 

Socrate-Gorgia

Socrate si è attardato con Callicle e Cherofonte in piazza e non ha fatto tempo a sentire un discorso di Gorgia. Ma Gorgia si esibirà nuovamente a casa di Callicle, così Socrate potrà rivolgergli delle domande, in particolare sull’efficacia della sua arte e su che cosa sia ciò che egli professa e insegna. Gorgia, una volta a casa di Callicle, invita a fare domande, dichiarandosi in grado di rispondere a tutto. Socrate chiede a Cherofonte di domandare a Gorgia chi egli sia. Gorgia afferma che nessuno gli ha mai fatto una domanda il cui contenuto è per lui una novità. 

Si intromette Polo, dicendo che, siccome Gorgia è stanco, è disposto a rispondere lui stesso alla domanda. La domanda è la seguente: “In che tipo di arte è esperto Gorgia?”. Ci sono infatti molte arti che procedono dall’esperienza. L’arte potrebbe essere interpretata come una sorta di organizzazione razionale dell’esperienza che promuove e orienta una vita condotta non a caso. Gorgia possiede l’arte più bella. Questo dice Polo, che tuttavia viene accusato da Socrate di aver risposto da retore, senza esaudire la problematica sollevata dalla domanda, perché non ha detto in che arte Gorgia sia esperto. Sì, è la più bella, ma quale?, dice Socrate. Gorgia interviene sostenendo di essere un buon retore è anche un buon insegnante di retorica. Socrate allora gli propone di non tenere un discorso lungo ma uno breve e di rispondere alle sue domande per approfondire che cosa significhi essere retore. Gorgia accetta, anche se sottolinea che alcune argomentazioni richiedono discorsi più lunghi. Tuttavia, egli è bravo anche nei discorsi concisi. Infatti, la retorica è scienza dei discorsi. Ma quali?, obietta Socrate, anche perché tutte le scienze in generale usano discorsi.

 Per Gorgia la retorica prescinde dall’attività e dall’oggetto delle singole arti, per esempio medicina o ginnastica, e si concentra sull’efficacia verbale. Ci sono infatti arti che fanno uso sistematico della parola, ma non si risolvono nella parola stessa, bensì hanno un oggetto specifico, come per esempio il pari e dispari per la matematica o la salute per la medicina, o gli astri per l’astronomia. La retorica, invece, si risolve essenzialmente nella parola, e i suoi discorsi hanno per oggetto quelle che Gorgia chiama le più grandi fra le cose umane e le più nobili. Socrate obietta che anche la medicina o la ginnastica possono rivolgersi a oggetti e contenuti importanti. Qual è dunque il grande bene di cui la retorica è artefice? Esso, dice Gorgia, è “la causa per cui gli uomini sono liberi e al tempo stesso per cui ciascuno riesce a dominare gli altri nella propria città”. Insomma, si tratta della persuasione in campo pubblico e politico, nelle assemblee in cui, per mezzo della parola, si tengono in schiavitù tutti gli altri, anche il medico, anche il maestro di ginnastica e tutti gli esperti nelle diverse arti. Allora Socrate domanda che cosa sia la persuasione e su che cosa verta. E poi: la retorica è la sola arte in grado di produrre persuasione? Gorgia conviene all’osservazione di Socrate che anche l’aritmetica persuade sul pari e il dispari, e così le altre arti relativamente ai propri ambiti di studio e e ricerca. Come si differenziano allora dalla retorica? Gorgia dice che la retorica persuade nei tribunali e nelle altre adunanze di folla e che tratta in modo privilegiato i temi del giusto e dell’ingiusto. 

A questo punto Socrate sostiene di voler proseguire nell’indagine con un ulteriore approfondimento e comincia a domandare se Gorgia ritiene che sapere sia lo stesso di credere o se ci sia una diversità tra scienza e credenza-convinzione. Gorgia ammette che la scienza è diversa dalla convinzione, perché non può essere vera o falsa, a differenza della convinzione, benché entrambi - sia quelli che credono sia quelli che sanno - ritengono di essere persuasi. Allora c’è una persuasione che produce scienza e una che produce convinzione. A quale delle due fa riferimento la retorica nei tribunali e nelle piazze? Socrate risponde che la retorica produce credenza e non sapere, cioè non la conoscenza del giusto e dell’ingiusto ma una illusione circa i due suddetti concetti. Questo perché il retore non ha competenze specifiche per le scelte veramente importanti della città. Gorgia, tuttavia, ribatte che i retori consigliano sulle scelte oggetto della politica e i politici non sono tecnici. Insomma, la retorica sarebbe superiore alla tecnica perché orienterebbe le decisioni al di là della tecnica. Infatti, il retore, conferma Gorgia, è più persuasivo del competente di fronte a una folla, benché egli sia chiamato ad un uso oculato della retorica, cioè a non approfittare ingiustamente di tale superiorità. Del cattivo uso di un’arte, d’altro canto, non si possono incolpare i maestri di quell’arte. In particolare, compito della retore non è spogliare i medici e gli altri professionisti del credito di cui godono, ma servirsi con giustizia della retorica per persuadere le folle meglio di chiunque altro. Quindi, conclude Gorgia, è giusto bandire, uccidere, odiare chi della retorica faccia un uso distorto, non chi l’abbia insegnata. Socrate ribatte che in una discussione c’è il rischio che si ritenga che l’interlocutore sia animato solo dalla voglia di vincere e non dalla ricerca della verità. Se Gorgia ritiene che Socrate voglia solo vincere, si smetta di discutere, se no, si vada avanti con la confutazione socratica delle affermazioni di Gorgia, se il pubblico ovviamente, come appare, approva la prosecuzione della discussione.

 Quindi Socrate rileva che il retore persuade davanti a gente che non sa, mentre davanti a chi sa è più persuasivo il tecnico, cioè, si direbbe, l’esperto in una certa disciplina/arte (tèchne). Se si nega ciò, si deve ammettere che la retorica non ha bisogno di conoscere le cose come stanno, ma solo di trucchi per convincere, senza realmente sapere. Insomma, per Socrate il retore, pur non sapendo, escogita un trucco per apparire agli ignoranti più sapiente di coloro che sanno. L’alternativa sarebbe che il retore invece sappia ciò di cui parla e abbia cognizione di causa. Gorgia ribatte che sui temi del giusto e del bene, chiunque non li conosca, andando da lui li conoscerà, e finisce per ammettere che è comunque necessario, per esercitare bene la retorica conoscere il bene e il giusto. Ma, osserva a sua volta Socrate, se chi conosce la retorica deve essere giusto, com’è possibile che uno si serva della retorica in modo ingiusto, come prima affermava il suo interlocutore? Infatti, il retore, se deve conoscere il giusto, non può agire ingiustamente e quindi servirsi male della retorica. Questa è la contraddizione in cui cade Gorgia: prima ammettere che bisogna servirsi della retorica in modo giusto, e bandire coloro che se ne servono in modo ingiusto, e poi affermare che per esercitare la retorica bisogna conoscere il giusto, e quindi implicitamente sostenere che è impossibile per il retore agire in modo ingiusto. Qui finisce il dialogo con Gorgia, con il tentativo, riuscito da parte di Socrate, di riassorbire e annullare l’arte del persuadere nella conoscenza del giusto.

 

Socrate-Polo

Inizia il dialogo con Polo. Polo accusa Socrate di intrappolare le persone con le sue domande fino al punto di diventare scortese. Socrate dice che è disposto a farsi interrogare a patto che Polo accetti suo metodo delle brevi domande e risposte. Quindi Polo comincia col domandare che definizione Socrate darebbe di retorica. Per Socrate non è un’arte (tèchne) ma una pratica (empeirìa) che provoca attrattiva e piacere, come la culinaria non è l’arte del cibarsi, bensì di rendere piacevoli cibi. Insomma, è una forma di adulazione che non richiede vera sapienza ma solo esperienza ed esercizio. Inoltre, appare essere una sorta di spettro di una parte della politica, cioè una sua degenerazione.

Approfondendo, Socrate comincia un discorso sul corpo e sull’anima. Sia il corpo sia l’anima possono apparire sani senza esserlo. L’arte che sanifica l’anima egli la chiama politica, quella relativa al corpo può distinguersi in due parti, la ginnastica e la medicina. In generale, nella politica la legislazione corrisponde alla ginnastica, mentre la medicina corrisponde in politica alla giustizia. La contraffazione adulatoria di tutte le arti e tecniche avviene quando esse prendono di mira il piacere al posto del bene. E questo accade, per esempio, quando la culinaria produce una contraffazione della medicina, non indicando i cibi migliori per il corpo, ma quelli più piacevoli. Allora essa diventa non un’arte ma una prassi irrazionale, così come la cosmesi, quanto al corpo, appare una prassi irrazionale che produce, mediante un abbellimento solo esteriore, la contraffazione della ginnastica. Ora, nel campo politico, la contraffazione della legislazione è la sofistica; mentre la contraffazione della giustizia è la retorica, benché retori sofisti a volte si confondano gli uni con gli altri. Nella confusione per lo più si affermano facilmente le contraffazioni. Se i retori sono esperti in questa arte della contraffazione, essi nella città non acquisiscono veramente potere, tenendo presente che il potere è la capacità di fare il bene. Anzi i retori, come i tiranni, non fanno ciò che vogliono ma ciò che a loro sembra migliore (senza esserlo). Se il potere è il bene di chi lo possiede, il loro non è potere e ciò è dovuto al fatto che la loro azione è irrazionale e non guadagna alcun bene.

Per dimostrare questo Socrate parte dall’idea che gli uomini vogliono compiere una determinata azione sempre in vista di un fine. Ciò che si vuole realmente non è mai l’immediato oggetto dell’azione ma il fine ultimo, cioè il bene che si consegue con l’azione. Vero oggetto del volere è il fine ultimo. Le cose volute sono buone o cattive, cioè i beni o i loro contrari. E generalmente le cose neutre, come il sedersi, il camminare, il correre, il navigare, le pietre, i legni (o strumenti di questo tipo) si vogliono in vista del bene. Tuttavia, è possibile scegliere qualcosa che pare opportuno ma in realtà risulta essere svantaggioso. Se uno fa ciò che risulta essere svantaggioso, non fa ciò che vuole in vista del bene. E non facendo il bene, non ha potere. Insomma, se uno può fare qualcosa scegliendo il mezzo sbagliato rispetto al fine buono che egli vuole, non persegue il fine voluto, ma un mezzo scelto che lo allontana dalla meta. Quindi, quando vogliamo mezzi sbagliati, non li vogliamo veramente, ma semplicemente scegliamo ciò che solamente sembra opportuno. Ma in questo modo non si fa il bene. Quindi volere in senso pieno significa volere consapevolmente il bene. Per tale motivo chi non fa il bene, ed è ingiusto, non può essere oggetto di invidia, infatti il più grande dei mali è commettere ingiustizia (469 d).

Il potere di fare è tale se è potere di fare il bene, se no, non è nemmeno potere. Se si consegue un vantaggio, il potere di fare è un bene altrimenti no, anzi non è un potere. L’esempio dei tiranni – che operano il male e che sono felici -, come Archelao di Macedonia, non funziona se non si vaglia la loro educazione e giustizia. Polo chiede se Archelao, che da schiavo è diventato tiranno, sarebbe stato più felice rimanendo schiavo. E aggiunge che, se Socrate avesse ragione, egli dovrebbe essere triste per le ingiustizie commesse e invece non lo è. Il metodo di Polo di portare la testimonianza di Archelao, per dimostrare che non è vero che sia meglio subire ingiustizie piuttosto che commetterle, è sbagliato. Infatti, i testimoni falsi non dimostrano nulla. La verità è veramente convincente per mezzo di un ragionamento che è invece ciò che importa e dimostra veramente le tesi. Essa si stabilisce in un contesto dialettico e non dipende dall’accumulo di prove, ma dalla loro articolazione in un discorso appropriato. Il retore accumula prove, il dialettico costruisce un discorso razionale. Ora, alla luce della razionalità, l’unico modo per l’ingiusto di essere felice è quello di essere punito per la sua ingiustizia. Se la testimonianza a favore di tale affermazione fosse portata direttamente dall’interlocutore, in questo caso sarebbe credibile. Anche Polo, allora, ammetterà che commettere ingiustizia è peggio che subirla. In realtà Polo non lo ammette e dice che in generale è peggio subirla anche se, moralmente parlando, è più brutto commetterla. Ma, dice Socrate, se è bello significa utile e piacevole e brutto significa dolore e male, allora nel commettere ingiustizia c’è dolore-male e tra i due prevale il male perché chi commette ingiustizia soffre meno delle sue vittime, quindi per lui c’è meno dolore. Tuttavia, se prevale il male nel commettere ingiustizia, allora questo è peggio che subirla. Perché, quando prevale il male, ciò significa che “è peggio”. Quindi non solo è più brutto, ma appunto è moralmente peggio. Ma, dice Socrate, “né io né tu né nessun altro preferirebbe commettere ingiustizia piuttosto che riceverla giacché si tratta di una cosa peggiore”. Ma siccome pagare una pena per un’ingiustizia significa essere giustamente puniti, e siccome il giusto è bello e all’azione dell’agente corrisponde il subire del paziente, pagare una pena e bellezza sono corrispondenti e proporzionali. Siccome chi subisce soggiace a un’azione della medesima qualità di quell’operata dall’agente, se l’agente opera bene, il paziente subisce bene; se l’agente opera giustamente, il paziente subisce giustamente. E se subisce giustamente la pena, vuol dire che subirla giustamente è bello: bella è l’azione compiuta giustamente, bella è quella subita giustamente. Siccome poi il bello corrisponde al buono, chi viene punito riceve un bene, perché chi viene punito si libera da un male e ne trae giovamento. Il male più brutto è, invece, l’ingiustizia che porta dolore e danno insieme. La pena degli ingiusti è allora la loro medicina che, liberando gli ingiusti e gli intemperanti per mezzo della giustizia, come l’arte degli affari libera dalla povertà, produce ciò che è veramente più bello, quindi più utile e più piacevole. Quindi, essendo la giustizia il valore supremo, è meglio non essere malvagi, ma, essendolo, è meglio essere liberati dalla malvagità dai giudici per mezzo della pena: la giustizia è la terapia contro la malvagità e utilizza lo strumento della pena.

Allora coloro che non vogliono scontare la pena sono come dei malati che non vogliono guarire il loro corpo con la medicina. Ma ciò è più grave perché la malattia dell’anima è superiore in sciagure a quella del corpo. Se scontare la pena è la miglior cosa per l’ingiusto, la retorica, qualora nei tribunali difendesse metodicamente l’ingiusto, non sarebbe affatto utile all’ingiusto stesso. Al contrario quest’ultimo deve essere il primo accusatore di se stesso e dei propri familiari e per questo deve usare la retorica affinché, una volta messe in luce le proprie colpe, si possa liberare dal male più grande, l’ingiustizia (480 e) Quindi qui Socrate sembra concludere, come aveva concluso Gorgia prima, che la retorica va bene solo se alleata della giustizia. Tanta è l’insistenza sull’assoluta preminenza della giustizia che si arriva ad affermare che la peggior vendetta nei confronti di un nemico (ingiusto) è quella di non fargli scontare la pena, magari usando la retorica. Se, invece, la retorica aiuta a far scontare le pene giuste, essa appare utile. Ma per chi non ha in animo di commettere ingiustizia, la sua utilità sembra proprio limitata. Così si conclude il dialogo con Polo (481 b).

 

Socrate-Callicle

A questo punto entra in scena Callicle. Egli sostiene che l’errore di Gorgia sia affermare che è in grado di insegnare la giustizia a chi va da lui senza conoscerla, ammettendo che la giustizia va necessariamente affiancato alla retorica, e quindi che il retore deve conoscere il giusto. Ma chi conosce il giusto non può non praticarlo. Dunque, se il retore conosce il giusto, la retorica non può essere un discorso che ha per contenuto sia il giusto sia l’ingiusto. Polo ha invece sbagliato concedendo a Socrate che commettere ingiustizia è più brutto che subirla (474 a). Da qui ha dovuto ammettere che brutto significa male e il male, quando prevale, è peggio, pertanto commettere ingiustizia è peggio che subirla e la retorica, quando difende l’ingiusto nei tribunali, impedendo la sua guarigione per mezzo della pena, fa il suo male perché commettere ingiustizia è il più grande male e la pena ne è l’unica cura. Quando fa questo discorso, secondo Callicle, Socrate confonde apposta legge e natura per ingannare l’interlocutore. Infatti, in natura ciò che è brutto è anche peggiore. Ma in natura peggiore è patire ingiustizia, quindi più brutto. Per la legge, invece, lo è commetterla. Accettare il subire ingiustizie è, per natura, cosa degna di uno schiavo. Nondimeno i deboli hanno stabilito la legge per spaventare e imbrigliare coloro che naturalmente sono più forti. Perciò la legge dichiara che è vergognoso cercare di librarsi sopra gli altri e ciò viene chiamato ingiustizia. Al contrario, per natura è giusto che chi vale di più abbia la meglio su chi vale di meno. La legge, sotto tale profilo, è una semplice convenzione umana che si aggiunge alla statuizione naturale e divina. Secondo quest’ultima, chi, essendo forte, prevale, lo fa in base ad una legge naturale. Mentre la legge civile è un trucco per domare i forti e renderli più deboli, dicendo che non bisogna avere più degli altri e che questo è bello e giusto. Invece l’uomo forte spezza queste catene facendo risplendere il diritto di natura.

Alla verità di natura si accede abbandonando la filosofia, che va bene da giovani ma, se coltivata anche in età matura, fa perdere il contatto con la realtà e rende incapaci di reagire ad un’ingiusta accusa (si noti il riferimento postumo a Socrate). Contro l’impotenza filosofica, vanno pertanto benissimo la ricchezza, la fama e la ricerca di altri beni.

Socrate replica facendo appello alla franchezza e all’amicizia di Callicle, e al fatto che egli dovrebbe essere disposto a riconoscere gli esiti del discorso sinceramente. Dopo tale appello, Socrate fa notare che se, secondo natura, è giusto che il forte si appropri dei beni e prevalga sul debole, allora, se migliore e più forte coincidono, la massa, che è più forte del singolo e quindi migliore, dovrebbe produrre leggi che sono giuste per natura. Ma allora le leggi dei molti sono le leggi dei più forti e potenti e quindi le leggi più belle. Però in molti sono a favore dell’idea che la giustizia sia equivalente a una certa uguaglianza perché è più brutto commettere ingiustizia che subirla. Dunque, questo non è solo una verità pattuita per legge umana, ma anche una verità di natura. Callicle replica che per lui più potente è la stessa cosa che migliore e ciò che dice un’accozzaglia di schiavi, che sono preponderanti solo per la forza fisica, non può avere valore di legge. Socrate lo incalza sostenendo che allora gli schiavi non sono migliori perché più forti. Dunque, migliore non significa più forte come prima aveva affermato il suo interlocutore. Callicle allora ripiega dicendo che migliore significa colui che vale di più. Socrate chiede se questo può significare più intelligente. Alla risposta positiva di Callicle, Socrate deduce che più intelligente significa dunque più potente e quindi al più intelligente spetta il comando. Pertanto, il migliore deve avere più, come dovrebbe essere in natura. Ma allora i migliori sarti, contadini, calzolai, dovrebbero, proprio in quanto migliori nella loro arte, avere di più.

Callicle rifiuta gli esempi di Socrate e cambia la definizione di migliore, ripensandola come colui che è più dotato nella amministrazione dello Stato avendo più intelligenza e più coraggio. Ciò non coincide, come vorrebbe Socrate, con il dominio di sé e la temperanza, bensì con l’atteggiamento contrario: aumentare e lasciare briglia sciolta alle proprie passioni per massimizzarle, cosa che la maggior parte degli uomini ha timore di fare. In conseguenza di tale timore, gli uomini ordinari s’inventano la morale che limita la libertà dei signori. Al contrario, dice Callicle: “La dissolutezza, l’intemperanza, la licenza, quando vengono favorite, costituiscono la virtù e la felicità” (492 c). Socrate loda Callicle per la sua sincerità e oppone il suo ragionamento. Se la passione significa avere continuamente desideri, tremenda sarebbe la vita in preda al bisogno. L’anima sarebbe come un otre forato che, pur ricevendo continuamente liquido, mai si riempirebbe per la sua insaziabilità. Addirittura, il disordine farebbe dell’anima qualcosa di peggio: un otre forato che si cerca di riempire con un setaccio, con un compito non si sa se più inutile o disperato. Il moderato invece si accontenta di quello che ha e non desidera nulla di più. Ma, conferma Callicle, è proprio questo il piacere della vita: continuare a versare liquidi negli otri. Vivere nella felicità è avere tutti i desideri. Socrate allora si propone di portare all’assurdo tale posizione, facendo notare che allora un malato di scabbia, che continua ad avere prurito, sarebbe felice. Callicle accetta la sfida e risponde che, se si grattasse continuamente, sì, costui passerebbe una vita felice. Socrate non sembra replicare se non mediante la sottolineatura dell’inaccettabilità della conclusione del suo avversario, infatti nessuno ha voglia di passare la vita grattandosi. E non si dica che è lui ad aver condotto il discorso a questo punto e su questi poco nobili argomenti, perché in realtà è Callicle che, facendo apologia del piacere tout court, non distingue quelli nobili da quelli cattivi.

Su quest’ultimo tema Socrate ne approfitta per introduce un ulteriore discorso chiedendo a Callicle se per lui il piacere il bene sono la stessa cosa “oppure se ci sono piaceri non buoni” (495a). Alla risposta positiva di Callicle, Socrate porta il suo interlocutore a esplicitare la sua prospettiva con una certa solennità e chiarezza: se il piacere e il bene sono la stessa cosa, viceversa la scienza e il coraggio sono diversi fra di loro e assieme differiscono dal bene. Ciò è esattamente quanto Socrate rifiuta. Di qui parte il discorso che confuterà punto per punto le opinioni di Callicle.

Il maestro di Platone comincia elencando una serie di contrari salute-malattia, forza-debolezza, velocità-lentezza, bene-male, felicità-miseria. Tali contrari si possono ottenere solo alternativamente: o l’uno o l’altro. Invece le cose che si possono acquisire simultaneamente, non possono essere, a differenza di queste, reciprocamente escludentesi. Se avere sete o fame, comporta dolore; bere con la sete, e mangiare con la fame, comporta piacere. Ma quando uno sta bevendo, essendo assetato, prova contemporaneamente piacere e dolore: dolore perché è ancora assetato, piacere perché sta bevendo. Se nondimeno il piacere è bene e il dolore è male ed è vero che bene e male si escludono reciprocamente, non si potrebbe provare al tempo stesso piacere e dolore.

Socrate, dopo le proteste di Callicle per il metodo a suo dire obliquo e ingannevole delle domande e risposte brevi, sostiene anche che, bevendo, si cessa di avere sete e cessano pure i desideri. Ma, allora, osserva Socrate, piacere e dolore cessano assieme. Per i beni e i mali, invece, non può essere così e non è così (se cessa un bene, viene un male e viceversa). A ciò si può associare un’ulteriore riprova della tesi della diversità tra il bene e il piacere. Sembra che tutti provino piacere e/o dolore, sia i buoni sia i cattivi. Callicle ha detto che i buoni sono tali per i beni, cioè per i piaceri; i cattivi sono invece tali per i mali, cioè per i dolori. Ma se buoni e cattivi soffrono e gioiscono con la stessa intensità, allora buono e cattivo sono la stessa cosa, anzi siccome a volte gioiscono con più intensità, significa che i cattivi sono più buoni dei buoni. A questa conclusione assurda Callicle risponde che la corrispondenza buono/piacere e male/dolore non è totale, ma che è ovvio che esistono piaceri buoni e i piaceri cattivi: quelli buoni portano vantaggi e utili cioè qualche bene, quelli cattivi recano danni cioè qualche male. Ma anche la sofferenza può essere buona, se in vista del bene, e cattiva se in vista del male. Dunque, ciò che è piacevole è compiuto in vista del bene e non viceversa, perché ci può essere anche una sofferenza in vista del bene. Insomma, il bene e il criterio del piacevole e non viceversa, ma è proprio questo quello che Socrate voleva dimostrare contro Callicle.

E allora Socrate può riprendere ricordando ciò che si diceva con Polo sulle arti che puntano al piacere, su quelle che puntano al bene e sulla loro differenza. Tale differenza comporta l’alternativa tra due tipi di vita tra cui scegliere. Le arti sono quelle che rendono ragione delle cose e comportano un bene; le pratiche empiriche sono a-logiche e ricercano piacere sia del corpo, sia dell’anima. Si vedano a questo proposito l’auletica e la citaristica, o la poesia ditirambica e la tragedia: tutte discipline che puntano al piacere. La retorica va compresa tra queste arti adulatorie, a meno che non sia al servizio del bene. Se la retorica ha per scopo il favore popolare e non il bene comune, allora non funziona. Pertanto, esisterebbero due retoriche, una buona e una cattiva? Socrate non ha mai visto una retorica buona perché pochi i retori hanno cercato il bene. Infatti, nessun retore famoso promuoveva la virtù, che significa ordine e buona disposizione in vista del bene. Il retore buono dovrebbe perseguire la giustizia, cioè il bene sia del corpo sia dell’anima, che è diverso dal soddisfare desideri. Infatti, ai malati nel corpo, per il loro bene, si proibiscono cose che si consentono i sani. Nell’anima accade la stessa cosa: non si concede di soddisfare ogni desiderio e la si punisce quando commette un male. Se uno commette il male per piacere, attraverso il contrario del piacere, uscirà dal male. Questa è la ratio della punizione e del contrappasso, cioè la razionalità della pena come retribuzione e redenzione del reo.

Allora il bene rimane diverso dal piacere. Ciò significa che è ammesso il piacevole solo in vista del bene. Il piacere ci fa godere, il bene ci rende buoni. Per essere buoni dobbiamo possedere una qualche virtù che si produce grazie all’ordine e all’arte adatti alla natura della cosa. Da tale arte viene l’armonia e l’ordine che rendono buoni perché ordinare l’anima significa renderla saggia e perciò buona, mentre l’anima cattiva è dissennata e sregolata. L’anima buona è quindi ben disposta verso gli uomini liberi con giustizia, pietà e coraggio. L’uomo saggio persegue, tra i piaceri e i dolori, quelli che debbono essere perseguiti, evita quelli che devono essere evitati e, quando sia necessario, è capace di perseverare e di resistere. Se egli cade in errore, per continuare o per tornare ad essere felice, vorrà essere punito. L’acquisizione della giustizia e della temperanza in vista della felicità devono quindi essere lo scopo del singolo e dello Stato. Ciò implica porre freno alle passioni che impediscono, nella loro sfrenatezza, amicizia e socialità. L’uguaglianza geometrica non è solo la misura del cosmo ma anche la misura dell’etica.

In vista di questo ordine, acquisire giustizia è accettare, anzi volere la punizione per gli errori. Ciò implica la possibilità di giovare a sé e al prossimo. Giova a sé chi non commette ingiustizia e, se la commette, voler essere punito. Infatti, commettere ingiustizia è il primo male, subirla è solo un male secondario e bisogna essere capaci di preservare se stessi e gli altri da tali mali nel loro preciso ordine di gravità. Non vale in questo campo l’assioma che, per non ricevere ingiustizia, bisogna essere amici dei potenti e dei tiranni, perché per essere loro amici bisogna avere la stessa indole e se un tiranno è ingiusto chi lo imita dovrà essere ingiusto, conseguendo in tal maniera il più grande dei mali che consiste nel rendere malvagia la propria anima.

Callicle è in disaccordo perché dice che esiste un potere di colui che imita il tiranno ingiusto e su questo ci si può basare per ottenere vantaggi. Ma Socrate sostiene che se chi rifiuta l’amicizia di un tiranno può essere mandato a morte dallo stesso tiranno o dai suoi amici, ciò non conta. Infatti, non conta quanto si vive ma come. Vivere più a lungo non deve essere l’occupazione principale dell’uomo. A ciò servirebbero, in ugual modo sia la retorica, sia il nuoto sia il pilotare una nave etc. Ma per chi ha un’anima corrotta vivere non vale la pena e le arti che salvano la vita non hanno nessun valore perché non la rendono migliore. Il vero uomo non bada alla vita più lunga, ma si preoccupa di come vivere nel modo migliore il proprio tempo e, di fronte a tale compito diventa anche secondario adeguarsi alla costituzione della propria città e del proprio demo.

Riepilogando, Socrate ricorda a Callicle che hanno distinto due modi di curare rispettivamente il corpo dell’anima: il primo si occupa di essi avendo come fine il piacere, l’altro il bene. Ma il piacere è vile ed è adulazione, mentre il bene consiste nell’essere migliori ed è il fine cui si deve badare. Chi si prende cura della città e dei cittadini deve anch’egli badare al bene. Se uno deve compiere un’opera pubblica, deve prima valutare le proprie competenze e capire se ha avuto buoni maestri, come accade per le altre arti. Prima di ammettere un candidato all’attività politica, bisogna vedere se egli ha già reso migliore qualcuno. Infatti, compito della politica è rendere migliori i cittadini e per farlo bisogna essere buoni cittadini. Pericle è uno di quelli che hanno reso migliori i propri cittadini? Non sembra, egli ha reso gli ateniesi pigri e incivili, amanti delle chiacchiere e avidi di denaro, avendo introdotto per primo un salario per chi si dedicava agli pubblici uffici. Se Pericle è stato condannato, o i cittadini hanno fatto bene a condannarlo, oppure lo hanno fatto ingiustamente. Ciò significa comunque che egli ha fallito nella sua opera di politico, perché non li ha resi migliori ma peggiori e quindi egli non era un buon politico. Sembra che ad Atene, anzi, non ci sia mai stato un buon politico, perché nessuno ha mai costretto i cittadini a fare ciò in seguito a cui sarebbero diventati migliori. I politici di Atene hanno curato il corpo della città (le mura, le strade, l’esercito), non l’anima (la qualità dei cittadini). Alcuni politici famosi, come Cimone, Milziade e Temistocle, hanno parimenti rimpinzato gli ateniesi, riempendoli a sazietà di tutto quanto desideravano, senza preoccuparsi né della saggezza, né della giustizia, e infatti sono finiti male, cosa che non sarebbe successa se si fossero occupati di rendere migliori i propri concittadini. Ma sia i politici, sia i sofisti che si lamentassero di essere stati trattati ingiustamente dal popolo o dai loro allievi, in realtà dimostrerebbero di aver fallito nel compito di renderli giusti, infatti “come è possibile dire che degli uomini, divenuti buoni e giusti grazie un maestro che li ha liberati dall’ingiustizia, possano, una volta in possesso della giustizia, commettere dei torti proprio con quello strumento che non hanno più?” (519d).

Sui sofisti Socrate aggiunge una riflessione sulla questione del farsi pagare. Sofisti e retori sono della stessa razza ma il sofista è meglio del retore nella misura in cui l’arte della legislazione è migliore dell’amministrazione della giustizia e la ginnastica della medicina. In ogni caso i sofisti non devono rimproverare i propri allievi di ingiustizia se non vogliono autoaccusarsi. Anzitutto, se uno vuole formare uomini giusti, non deve stabilire una paga, ma fidarsi della giustizia dei propri allievi. Un pagamento con tariffa anticipata va bene per tutte le altre arti ma non per chi ha di mira la giustizia.

Di fronte a Callicle, che insiste nella sua convinzione secondo cui non bisogna rendere cittadini migliori ma soddisfare i desideri, Socrate afferma di accettare, per contro, che, comportandosi bene, egli possa anche subire ingiustizia. Tuttavia, chi lo portasse in giudizio sarebbe come un bambino che volesse giudicare l’operato del suo medico. All’accusa di corrompere i giovani egli risponderebbe: “Le cose che io dico sono tutte giuste giudici, e quello che faccio, lo faccio nel vostro interesse”. Socrate, in definitiva, dice di non temere un’accusa ingiusta, ma che qualcuno dimostri che gli è stato ingiusto. Non la morte, infatti, si deve temere, ma l’ingiustizia. Sull’argomento, Socrate racconta il mito escatologico del destino dell’anima dopo la morte e del giudizio cui è sottoposta.

Da tale storia egli conclude che la morte è la separazione del corpo dall’anima. Dopo la separazione, ciascuna parte mantiene pressappoco la condizione in cui si trovava quando l’uomo era in vita e il corpo conserva la sua natura e ha ben visibili i segni delle cure ricevute dei patimenti subiti. Lo stesso dicasi per l’anima. L’anima è però deformata dall’ingiustizia. Le anime ingiuste conviene che siano sottoposte una pena, che è apportata da sofferenze e dolore. Le anime irredimibili servono da monito per gli altri. Tra queste anime vi sono quelle dei tiranni e dei re criminali in buon numero a causa del potere, anche perché coloro che sono solo privatamente ingiusti fanno meno danni. Nulla vieta, tuttavia, che fra i re esistano persone giuste: in tal caso essi sono più meritevoli. L’anima malvagia va nel Tartaro dove sconta la pena. Quella di un filosofo, che ha svolto il proprio dovere e non si è intromesso durante la vita in mille faccende non sue, va nell’Isola dei beati. Bisogna dunque ricercare la giustizia per presentarsi in maniera sana ai giudici escatologici. La vita promossa da Socrate è quindi utile sia qui sia nel regno dei morti.

In conclusione: bisogna evitare di commettere ingiustizia, più che di subirla; bisogna essere buoni più che sembrarlo, non preoccupandosi del disprezzo della gente e fuggendo invece tutte le adulazioni “tanto quella rivolta verso se stessi, tanto quella rivolta verso gli altri, tanto quella rivolta verso pochi, quanto quella rivolta verso molti. Ed è sempre in vista del bene che ci si deve servire della retorica, così come di ogni altra attività (pràxis, 527c).


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