giovedì 27 ottobre 2022

Zeev Sternhell e la nascita dell’ideologia fascista. Una sintesi.

 


Siamo al tempo degli Scurati e degli Ovadia. È l’età del ferro (ferro borghese e molle) in cui la storia si ritira di fronte al dilettantismo pseudo letterario o attorale. E quando i liquami post-moderni incontrano l’altro, diverso e incompatibile non possono che fare una sola cosa: sporcare. Perché non c’è una questione storica, un problema, qualcosa da capire e da comprendere: già tutto è dato nelle sicurezze oclocratiche di guitti e buffoni, i veri padroni del nostro tempo. Dunque, bisogna diffondere odori di fogna. Lo scopo di bassa cucina politica? Proteggere e occultare le puzze del presente.  C’è chi viceversa vuole respirare e cerca aria migliore. Fuor di metafora c’è chi ha sempre creduto nella necessità di una storicizzazione autentica del fascismo, non in quella dei “mai più” che lo fanno sopravvivere in eterno come fantoccio dei voodoo costituzionali. C’è qualcuno per il quale vale ancora il precetto weberiano dell’avalutatività e la chiamata della razionalità e del metodo storico. L’unico mezzo per superare le contrapposizioni violente di una guerra civile interminabile, e interminabilmente rinfocolata da istituzioni politiche e culturali moralmente e civilmente vuote, risiede proprio lì, nella sfida della ricerca e di una verità che non è mai un possesso definitivo e che difficilmente, nella sua complessa articolazione, si fa strumentalizzare. Oggi a cento anni dal fattaccio, andando un po’ controcorrente, mi piacerebbe dissotterrare l’ascia della scienza, andando a riprendere il capitolo iniziale di un testo fondamentale, Nascita dell’ideologia fascista di Zeev Sternhell (tr. it. Baldini &Castoldi, Milano 1989, pp. 9-52).  Lo faccio in modo divulgativo e didattico, rispolverando gli appunti di una mia lezione, che al testo aggiunge liberamente notazioni personali e spiegazioni,  mentre cerca una sintesi da offrire allo sforzo dei miei ragazzi, e di tutti gli interessati, di conoscere e di crescere. Buona lettura!

Il concetto di fascismo

“Di tutte le grandi ideologia del Novecento, l’ideologia fascista è la sola che nasca con il secolo. Terza via tra liberalismo e socialismo marxista, il fascismo propone una soluzione alternativa ai problemi posti, nell’Europa a cavallo tra i due secoli, dalla rivoluzione tecnologica e da quella intellettuale”. Tale movimento non può essere ridotto a parentesi o anomalia, ma è parte integrante della storia del Novecento. Pur provenendo in certa misura da un dibattito all’interno del marxismo, non può esserne considerato un sottoprodotto, né può essere letto, al contrario, come una semplice reazione antiproletaria di fronte all’avanzare del movimento operaio, come vuole la storiografia terzinternazionalista. Esso piuttosto appare un’autonoma “forza di rottura capace di partire all’assalto dell’ordine costituito e di porsi in diretta concorrenza con il marxismo nel tentativo di procacciarsi il favore tanto degli intellettuali quanto delle masse”. Qui si prende in considerazione il suo pensiero, nella genesi e nello sviluppo che si determina tra Francia e Italia e che ne rappresenta una radice differente e autonoma rispetto a quella del nazismo. Quest’ultimo infatti trae la sua originale ispirazione da una tradizione deterministica e biologistica che sorregge le sue più radicali propensioni razziste. Al contrario i motivi ideologici fondamentali del fascismo vanno rintracciati in una forma di revisionismo rivoluzionario, antirazionalista e antimaterialista, del marxismo che incontra il nazionalismo e il futurismo e promuove una sintesi. La pars destruens si rivolge alla filosofia dell’illuminismo, alla teoria dei diritti naturali, all’internazionalismo e al pacifismo e, con esso, all’egoismo di classe borghese, nonché a quello proletario. Quella construens ad una presa di coscienza dell’identità  nazionale che va a sostituirsi alla coscienza di classe come fattore rivoluzionario; al permanere della questione sociale, risolta non con un’internazionalizzazione delle masse, ma con una loro nazionalizzane interclassista e organicista (secondo la quale la società si sviluppa un’interazione gerarchica di parti che collaborano al tutto, non essendo da quest’ultimo separabili né senza quest’ultimo concepibili), come processo che offre una diversa via alla partecipazione delle stesse masse alla vita sociale, inaugurata dalla modernità rivoluzionaria. Attorno a questi nuclei si sviluppano i temi che via via si aggregano quali conseguenze deduttive dell’ideologia fascista e/o integrazioni dovute a motivi storici o strategico-politici. Tutto nasce in ogni caso con un processo di revisione del marxismo.

Il dibattito di fine Ottocento nel contesto del marxismo: Bernstein, Kautsky, Lenin

La revisione del marxismo operata dagli intellettuali che avrebbero contribuito alla nascita del fascismo si produce sulla scia di un grande dibattito a fine Ottocento, dal quale sarebbero sorti da un lato il revisionismo socialdemocratico e riformista di Bernstein, dall’altro la prospettiva democratico-rivoluzionaria di Kautsky. Eduard Bernstein (1850-1932) è teorico del revisionismo che, constatando la vitalità del capitalismo, giunge alla conclusione che la previsione della sua inevitabile crisi, sviluppata da Marx, sia erronea e che dunque sia necessario cambiare strategia, promuovendo gli interessi dei lavoratori con una politica riformista nel quadro del sistema capitalistico borghese. Karl Kautsky (1854-1938) è un importante teorico del marxismo, collaboratore di Engels e curatore dell'edizione del quarto volume (postumo) del Capitale di Marx.  Entra in polemica con Bernstein, accusandolo di riformismo piccolo borghese e di favorire un'accettazione del sistema di oppressione capitalista, fondamentalmente contrario agli interessi del proletariato. Inoltre, egli contrasta Bernstein quando costui sostiene l’idea di una neutralità del sindacato rispetto al partito dei lavoratori. L'opera del sindacato deve, al contrario, essere rivoluzionaria e non può limitarsi a rivendicazioni economiche, poiché è chiamata a determinare il processo eversivo con cui il proletariato è destinato a soppiantare la borghesia e a prendere il potere. Dopo la Rivoluzione d'ottobre, entra in conflitto ideologico con Lenin, affermando che la dittatura del proletariato non poteva essere sganciata dall'effettivo consenso popolare che i bolscevichi, nel momento in cui avevano sciolto l'assemblea costituente del 1917-18, avevano deciso di considerare ininfluente. Per Lenin tali posizioni risultano essere di fatto un sostegno alla controrivoluzione: Kautsky, nell’opinione del capo bolscevico, diventa un esecrabile “rinnegato”.

Se dunque Bernstein accetta una prospettiva di riforme a favore del mondo operaio, anche dentro il quadro della monarchia costituzionale, Kautsky ritiene che non si possa dissociare il socialismo da una forma di governo democratico-radicale e repubblicana. Entrambi, tuttavia, si trovano d'accordo sulla situazione tedesca: bisogna lottare per una progressiva democratizzazione dello Stato (per Bernstein nel quadro monarchico, per Kautsky fuori di esso).

Kautsky a Erfurt

Secondo Kautsky le tappe di tale sviluppo dovevano essere le seguenti: a) il movimento socialista prende il potere in modo rivoluzionario; b) Dopo aver instaurato un regime democratico, tutti gli ulteriori progressi dovrebbero essere lasciati al libero corso della democrazia verso modalità di gestione dell'economia e convivenza civile sempre più giuste. Non bisogna dimenticare che Kautsky era stato il protagonista del congresso di Erfurt (1891) del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD, che riuniva tutti i socialisti tedeschi). In tale congresso era stata stabilita la necessaria convivenza, entro il progetto politico del partito, di un programma massimo, rivoluzione sociale e ribaltamento repentino dei rapporti di classe, come aveva indicato Marx, e di un programma minimo, le lotte economiche per il miglioramento delle concrete condizioni operaie nel presente.

Ciò aveva generato una peculiare contraddizione tra un partito che in campo dottrinale/teorico si dimostrava fedelissimo a Marx (programma massimo), e che di fatto, nella pratica, con la fine delle leggi antisocialiste di Bismarck, veniva accolto nella legalità e si disponeva a diversi compromessi col regime esistente, pur nell'intento di democratizzarlo (programma minimo). Si trattava di una evidente dissociazione tra teoria e pratica (una teoria rivoluzionaria e una pratica riformista).

Riformisti e rivoluzionari tra teoria e prassi

A tale dissociazione reagiscono i revisionisti di Bernstein che vogliono renderla coerente dal lato della pratica, modificando la teoria in senso riformista ("Se la pratica è riformista bisogna rendere riformista anche la teoria"); dal canto loro, i marxisti ortodossi vogliono risolverla dal lato della teoria, rendendo pratica coerente con la teoria e puntando a che l'azione diventi rivoluzionaria (“Se la teoria è rivoluzionaria, bisogna rendere rivoluzionaria anche la pratica").

Kautsky e Rosa Luxemburg

Ma c'è dibattito anche nel gruppo dei marxisti ortodossi in cui si oppongono

1) la prospettiva di Kautsky secondo cui la lotta di classe non deve introdurre una dittatura del proletariato, ma un regime completamente democratico (tutto va demandato alle assemblee elette che rappresentano le esigenze e gli interessi popolari, e non alla dittatura di un partito rivoluzionario e del suo gruppo dirigente). Dalla progressiva democratizzazione della vita sociale ed economica, in modo automatico e quasi fatale, sorgerà il socialismo;

2) la prospettiva di Rosa Luxemburg e degli altri rivoluzionari dell'est europeo, come Lenin, che, pur con diverse sfumature, ritengono che la rivoluzione debba distruggere completamente e dalle fondamenta il capitalismo anche nella sua versione democratica (che rimane pur sempre gestita e guidata dalla borghesia). Kautsky, aspettando il socialismo dagli sviluppi della democratizzazione del regime capitalistico, pecca di fatalismo. Al contrario i marxisti come la Luxemburg e altri non perdono mai di vista il fine del movimento operaio, la rivoluzione anticapitalista, il suo protagonista, il proletariato industriale, e la sua strategia rivoluzionaria.

Tutti, malgrado queste differenze, in ogni caso rimarranno fedeli, sotto il profilo filosofico, al contenuto materialistico, razionalistico ed hegeliano del marxismo.

I latini e Sorel: un terzo incomodo

 Nel medesimo ambito marxista, si svilupperà tuttavia un nuovo disomogeneo gruppo, che potremmo chiamare “i rivoluzionari latini”, cioè di nazionalità francese e italiana, il cui rappresentante più famoso diventerà Georges Sorel. Dopo aver intrapreso la carriera di ingegnere civile, ritiratosi dalla professione nel 1892, egli comincia a occuparsi di filosofia, storia, scienze sociali e politica. Tra il 1893 e il 1897 il suo orientamento marxista lo induce a partecipare al dibattito sulla revisione della dottrina di Marx ed Engels, offrendo un’interpretazione volontaristica e antipositivistica del socialismo, secondo la quale alla rivoluzione proletaria avrebbero condotto la volontà e la capacità di azione del proletariato, e non una più o meno rigida necessità storica. Sempre più critico verso i partiti socialisti e le loro tendenze parlamentari e riformistiche, Sorel compie tra il 1905-08 il tentativo di recuperare la sostanza rivoluzionaria del socialismo, fuori della cultura positivistica della socialdemocrazia europea, quella che mischiava speranze di palingenesi sociale e fiducia nel progresso tecnologico secondo un andamento lineare della storia dal peggio al meglio, quasi affidando ai processi immanenti della storia la possibilità di emancipazione delle masse operaie. Fedele al suo attivismo rivoluzionario e all’idea marxiana della violenza come levatrice della storia, egli finisce per individuare nella guerra di classe il nucleo vitale del socialismo e diviene sostenitore di una prospettiva sindacalista rivoluzionaria. Il sindacato è considerato il principale soggetto rivoluzionario perché organizza le energie proletarie che si manifestano nella concreta prassi di ribellione allo sfruttamento delle fabbriche e del lavoro. A muovere e a incanalare la rabbia proletaria devono esserci dei miti, cioè delle narrazioni che strappano l’uomo a se stesso e lo inducono ad agire. Al vertice dei miti rivoluzionari vi è quello dello «sciopero generale», inteso come strumento di educazione e di lotta (Réflexions sur la violence, 1908). L’idea di un dinamismo energetico ed aggressivo, al quale sottomettere la ragione e la prudenza, comporta una nuova concezione della politica in cui l’agire è considerato primario e indispensabile: una mistica dell’azione che non dispiacerà ai futuristi. Ormai estraniatosi dal socialismo ufficiale, Sorel si impegna a percorrere nuove vie di azione rivoluzionaria, accostandosi all’Action Française e collaborando alla rivista nazionalista L’indépendance (1911-13), cui lo avvicinavano le comuni convinzioni antiliberali, avverse alla democrazia parlamentare, ai suoi fondamenti filosofici ed etici. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si ritira dalla vita politica per dedicarsi agli studi filosofici, rivolgendo nuovamente le sue speranze verso la rivoluzione bolscevica e mostrando un curioso interesse verso il fascismo nascente.

Un’altra revisione di Marx

Complessivamente si può dire che con Sorel e gli altri socialisti “latini” si determinerà una revisione del marxismo in grado di andare oltre le posizioni in campo fino all’inizio del Novecento. Infatti, mentre i marxisti tedeschi e orientali fanno il possibile per non rinunciare alle dottrine economiche di Marx sullo sviluppo del capitalismo e sulle sue contraddizioni, così come al suo impianto deterministico, legato cioè allo sviluppo necessario della storia secondo ferree leggi dialettiche verso la rivoluzione e la società senza classi, i “latini” vogliono rivedere il marxismo, anzitutto riconoscendo gli errori economici di Marx e i difetti del suo materialismo.

In questo campo risulta importante la critica della teoria del plusvalore portata dall'economista austriaco Eugen Ritter von Böhm-Bawerk (1851-1914) nel suo volume Capitale e interesse sul capitale (1884). Tale critica prosegue in Zum Abschluss des Marxschen Systems (La fine del sistema marxiano, 1896) mediante la sottolineatura di alcune contraddizioni all’interno della maggiore opera marxiana, Il Capitale, su temi economici rilevanti come valore, profitto, prezzo. Quanto a tale ultimo argomento, esiziale è agli occhi di Böhm-Bawerk la sottovalutazione del processo di domanda e offerta nella determinazione del prezzo, tema fondamentale per comprendere i processi economici propri del capitalismo. A questa critica si associa nel socialismo “latino” il peso del grande studioso italiano Vilfredo Pareto che, pur non avendo aderito al marxismo, è ricercatore ascoltato anche in ambienti socialisti. Costui si dedica a ricerche di economia matematica (Corso di economia politica - 1897-98) e in sociologia è noto per la teoria della circolazione delle élites, secondo cui in ogni società le minoranze al potere si rinnovano continuamente a causa della degenerazione di coloro che vi appartengono e dell'ascesa di elementi superiori ed eccellenti formatisi all'interno delle classi sociali subordinate (Trattato di sociologia generale - 1920). Ebbene, Pareto difende la libera concorrenza come fattore di sviluppo, ritiene che si debba limitare l'intervento dello Stato nel campo economico e considera erronea la visione marxista della storia.Sono suggestioni critiche importanti che si associano a quelle di un altro attento studioso del marxismo, di scuola liberale, come Benedetto Croce, filosofo idealista e protagonista di primissimo piano della prima metà del Novecento filosofico e culturale italiano, che parimenti insiste sull'inconsistenza della teoria del plusvalore, pur riconoscendo la pregnanza dell’interpretazione economica della storia proposta dal filosofo di Treviri.

Un liberalismo di classe

Tali piste di approfondimento ricche di spunti critici originali e provocatorii costituiscono un milieu importante per il socialismo soreliano che rifiuta Marx come economista e ne fa un sociologo della violenza cioè un teorico della rivolta violenta e della conquista violenta dello Stato da parte della classe lavoratrice oppressa. Di qui viene il sindacalismo rivoluzionario che ambisce a restituire ai lavoratori la guida della società, espropriandone la borghesia e dando vita a una sorta di liberalismo di classe: la classe operaia conquista il potere, mantenendo, tuttavia, il sistema del libero mercato. Tutto ciò affonda le sue radici nella constatazione, già formatasi, come si è visto, negli ambienti revisionisti e riformisti di Bernstein, che le previsioni economiche di Marx non si sono avverate e il capitalismo non produce da sé i germi della sua distruzione. Segue una siffatta consapevolezza, però, non l’adeguamento quietista alle condizioni del capitalismo “vittorioso” nella speranza di renderlo meno pesante per la classe operaia, bensì l’idea secondo la quale è necessario promuovere artificialmente la rivoluzione, portando alla massima esasperazione il conflitto di classe e rifiutando ogni compromesso in nome dei bisogni immediati del proletariato (come avevano fatto i riformisti che ai bisogni immediati del proletariato avevano sacrificato la stessa rivoluzione proletaria).

 

Il mito, non la struttura

Così nasce il peculiare revisionismo rivoluzionario di Sorel. Esso si connota per l’accento posto sulla radicalità del conflitto di classe: la cui esasperazione non è il prodotto di condizioni strutturali, che di per sé sono cieche e mute, ma su miti sociali e cesure psicologiche e morali. Bisogna lavorare sulle convinzioni delle masse fornendo miti, immagini e parole d'ordine che, mostrando la malvagità del sistema di oppressione capitalista, spronino alla lotta e alla battaglia. La lotta di classe diventa allora un’etichetta che esprime diversi contenuti: vitalismo (esaltazione delle energie vitali e della forza espansiva dell’esistenza che si afferma e domina il suo ambiente); intuizionismo (rifiuto dei processi razionali ed esaltazione delle intuizioni immediate che colgono la verità in modo non discorsivo e predispongono verso l'azione); pessimismo (la storia non va verso il meglio, ma  tende a produrre decadenza se l'uomo non si oppone con le sue forze); volontarismo (non l'intelligenza governa i destini dell'uomo e cambia la storia, ma la sua volontà); culto dell'energia e del gesto eroico.  Qui parte importante hanno i filosofi francesi Henry Bergson - teorico dello slancio vitale e del valore conoscitivo ed esistenziale dell’intuizione – e Gustave Le Bon studioso di psicologia delle masse – secondo cui le folle sono mosse dalle emozioni e non dalla ragione e le emozioni sono evocate da miti e sistemi di immagini piuttosto che da discorsi coerenti e razionali.

Ma per Sorel e il sindacalismo francese, che presto fa capolino anche in Italia, essere rivoluzionari significa anche non rifiutare le leggi del mercato che ovunque sono cogenti se si vuole emanciparsi dal bisogno, bensì liberarsi dalla sovrastruttura democratico-liberale vera e propria radice di ogni oppressione e di ogni decadenza morale e civile.

Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo

I principi testé delineati portano alla costruzione dell’edificio dottrinale fascista in due tappe: 1) la nascita di una nuova teoria rivoluzionaria che considera la rivoluzione l’effetto di una mobilitazione di massa fondata su miti trainanti e non su leggi economiche; 2) la sostituzione del primato del proletariato con quello della nazione: non una classe, ma la nazione intera, mobilitata dai miti della sua grandezza e della sua potenza, potrà distruggere gli involucri istituzionali del passato e dare vita a nuove forme di Stato e convivenza civile. Tale visione possiede un singolare rapporto con il revisionismo riformista. Da un lato vi si accorda nel ritenere che il capitalismo (=libero mercato e libera impresa) sia un fattore di progresso sociale, dall’altro vi si allontana perché ritiene che la socializzazione della proprietà con la progressiva cancellazione o limitazione di quella privata non sia l'obiettivo dell'azione politica e che il liberalismo politico, anche se democratico, vada rifiutato nettamente. Infine, per quanto attiene alla prassi, un'élite organizzata proveniente dal proletariato urbano sarà l'unico agente del cambiamento, organizzato mediante il sindacato e non mediante un partito di politici professionisti, in attesa del successivo passaggio nazionalista.

Dalla classe alla nazione

 Infatti, all’inizio, il sorelismo investe su strutture sindacali pre-esistenti, poi dà luogo a un suo specifico modello di organizzazione sindacale. Tuttavia, se in Italia e in Francia alla fine degli anni Dieci c'è un quadro teorico e un’organizzazione sindacale (i sindacalisti rivoluzionari), la rivoluzione nondimeno non arriva. Ciò conduce a rilevare i limiti della fiducia nel proletariato come classe rivoluzionaria. Infatti, sulla scorta di Le Bon ci si rende conto che il proletariato è una folla e la folla è per sua natura conservatrice, tanto che non è lecito aspettarsi dal proletariato l'auspicata rivoluzione antiborghese. Pertanto, in mancanza di ipotesi ad hoc per difendere la teoria di Marx di fronte alla sua falsificazione storica, risulta necessario individuare un nuovo agente rivoluzionario. Tale agente è da identificarsi nella grande forza in ascesa del mondo moderno: la nazione. Ciò viene compreso già prima della Grande Guerra e porta i soreliani a cavallo del conflitto verso il fascismo. Ma ciò avverrà grazie all'incontro col nazionalismo che sarà aiutato ad acquisire la consapevolezza secondo la quale nazione avrebbe ritrovato la sua integrità solo inglobando il proletariato, e quindi mettendo al centro del proprio progetto non solo gli ideali patriottici e di appartenenza comunitaria ma anche la questione sociale. Così da una parte si avrà un socialismo non classista e aperto a tutta la collettività, dall'altra avremo un nazionalismo che, rescissi i legami con gli ambienti conservatori, si presenta come sostenitore e fautore dell'unità e dell'unanimità. Tutto ciò alla fine rende più efficace la lotta contro la democrazia borghese in vista dell’avvento di una nuova aristocrazia di produttori, alleata di una gioventù ansiosa di agire, avente come criteri la virilità, l'eroismo, il sacrificio. Questa nuova élite farà propria la forza mobilitatrice di immagini e simboli e riterrà la violenza fonte di una sublime distruzione delle forme decrepite del passato ed energia di edificazione di nuove istituzioni.

Il ruolo della guerra

La Grande Guerra svolge un ruolo determinante nella cristallizzazione dell'ideologia fascista. Essa darà prova della capacità di mobilitazione del nazionalismo e aprirà nuovi orizzonti sulle potenzialità dell'economia di mercato posta al servizio della nazione stessa mediante una contemporanea pianificazione generale, diretta con mano ferma e finalizzata alla mobilitazione totale di tutte le energie produttive. Dalle dinamiche del conflitto emergerà la potenza dello Stato, fondata sull'unanimità spirituale delle masse che chiederanno un capo all'altezza, la loro permanente mobilitazione e la loro completa nazionalizzazione. Al tempo stesso la guerra fa risaltare la debolezza intrinseca di ogni internazionalismo, spazzato via non appena le patrie faranno appella alla sacralità della loro vita e della loro identità.

Insomma, la guerra offre la conferma empirica delle teorie che già prima del suo scoppio circolavano in pubblicazioni soreliano-nazionaliste (in Italia La lupa, o in Francia i Cahiers du Circle Proudhon). Sin dall’inizio del secolo in Italia si era formato un primo nucleo concettuale del fascismo in costante riferimento a Georges Sorel di cui Agostino Lanzillo pubblica una prima biografia intellettuale. Nel 1905 idee soreliane sono propagandate da Enrico Leone e Paolo Mantica nella rivista "Il divenire sociale". Dal 1906 la rivista Pagine libere di Angelo Oliviero Olivetti difende posizioni sindacaliste rivoluzionarie con accenti già nazionalistici. Nel 1908 dopo l'espulsione dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI, l'incontro con i nazionalisti diviene quasi obbligato e avverrà proprio grazie alla rivista "La lupa" che riunisce per la prima volta i nazionalisti legati a Enrico Corradini e i teorici del sindacalismo rivoluzionario ivi compreso Roberto Michels, sociologo esperto studioso dei partiti politici che con Pareto e Mosca porterà al fascismo l'avallo delle scienze sociali. Durante la guerra di Libia (1911) già si elabora la visione interventista della guerra come occasione rivoluzionaria di rinnovamento morale e spirituale (cui non è estraneo lo straordinario intervento del socialista Pascoli con il discorso “La grande proletaria s’è mossa”). Dalla fine del 1912 su L'Avanguardia socialista Arturo Labriola accoglie la dottrina della violenza proletaria di Sorel e diventa faro ideologico del sindacalismo rivoluzionario.

Dopo la guerra mondiale il sindacalismo rivoluzionario si evolve in sindacalismo nazionale e interclassista (Sergio Panunzio, 1921), ma già del 1904-5 Mussolini è in contatto con Olivetti, Panunzio, Alceste De Ambris, Filippo Corridoni. Con questi teorici e militanti il direttore de "L'Avanti" (quotidiano del PSI) polemizza, però su questioni di tattica rivoluzionaria, non su tematiche ideologiche, riconciliandosi nel 1912 e ospitandoli sulla sua rivista "Utopia". In quello stesso periodo matura la crisi spirituale del capo romagnolo che, in occasione del conflitto mondiale, verrà riportato dalla stessa parte della barricata dei sindacalisti rivoluzionari. In tale occasione egli potrà apprezzare la potenza di mobilitazione del nazionalismo, una novità nell'asfittico ambiente del socialismo italiano, addomesticato e addormentato dall'opera di istituzionalizzazione messa in atto da Giolitti. I sindacalisti rivoluzionari e i teorici transalpini, tra cui Sorel e anche il socialista cattolico Peguy, lanciano invettive contro il socialismo riformista di Jaurés e il suo decadente parlamentarismo e costituiscono per Mussolini provocazioni estremamente significative e formative.

Sin qui la riflessione di Sternhell nel testo che abbiamo preso in considerazione.

Poi, mi viene da aggiungere, ci saranno Nietzsche, D’Annunzio e Fiume a completare il quadro, e poi Gentile e Volpe, nottole di Minerva che ricollocheranno questa storia particolare in quella generale dell’Italia e del Risorgimento. Qui si intreccia la storia dell’antifascismo serio e in taluni casi anche eroico.  La Resistenza, da scrivere con la maiuscola, è la contestazione radicale della legittimità risorgimentale del Fascismo, e la rivendicazione di un altro Risorgimento. Il conflitto che ne nasce, dunque, va visto sullo sfondo dell’unità di un solo problema, il problema dell’unità d’Italia e del destino che, unendosi, la nostra patria si è voluto dare. Ciò che ha diviso la nostra nazione è la stessa cosa che la unisce. Forse qui c’è una speranza per il futuro.


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

lunedì 3 ottobre 2022

Sovranità, patriottismo e liberazione in un testo di Leonardo Giordano

 


La sovranità, secondo la classica definizione di Jean Bodin, è “il potere assoluto e perpetuo di una Repubblica” che a sua volta è “un governo giusto di più nuclei familiari e di ciò che è loro comune”. La ragione democratica non toglie la definizione del monarchico Bodin, ma la arricchisce con la dottrina del potere per natura illimitato del popolo quando costituisce lo Stato, appunto il pouvoir constituant. Questo cortocircuito tutto francese tra una prospettiva monarchica e una popolare è il cuore tra Ottocento e Novecento del nazionalismo. Al centro v'è anzitutto l’idea di una sovranità che o è propria o è altrui. Non si condivide, non si spartisce, perché dove non comandi tu, comanda un altro, tertium non datur: è la grande intuizione del pensatore dei Six Livres de la République (e di Hobbes). Poi fa capolino anche la consapevolezza che il potere scaturisce da una volontà comune, che è un’essenza che si esprime immediatamente dal e nel popolo riunito, materialmente o idealmente. Le istituzioni devono a tale essenza la loro vita: questo è il contributo schiettamente democratico. Non temo qui di citare Rousseau…il grande avversario di tutti i dispotismi che non fossero razionali, nazionali e popolari, cioè che non fossero la forma dispotica che un popolo dà a se stesso, contro le sue stesse mollezze e i suoi stessi limiti.

Il nazionalismo respira costantemente con questi due polmoni. E oggi si esprime, correttamente come sovranismo. Il sovranismo è al tempo stesso la cura del Sé popolare e l’affermazione della volontà ab-soluta del popolo medesimo. Quindi lotta contro due derive, quella élitistico-tecnocratica e quella liberale- rinunciataria; cioè, per un verso, non vuole che la sovranità sia tolta al popolo, perché in ciò ne andrebbe della sua stessa identità storica e spirituale e, per l’altro, rifiuta la logica della condivisione, della compartecipazione, della collegialità e della rinuncia, perché questi non sono altro che nomi diversi per il comando altrui.

Mi sono permesso di anticipare una piccola premessa al tema della mia breve recensione all’ottimo testo di  Leonardo Giordano, Sovranità italiana. Il cammino di un’idea da Virgilio ai giorni nostri, Giubilei Regnani, Roma 2021, perché credo sia questo il tema fondamentale dello scritto: la sovranità come identità popolare e l’identità popolare come sovranità, due elementi in costante azione reciproca, oggi inseparabili e impensabili fuori dalla loro intima relazione. Giordano ha il merito di evidenziarla, ma anche di situare tale dinamica sovrano-identitaria nella storia della nostra nazione. “Situare”: questo senso della particolarità situazionale della politica la mantiene lontano dai rischi giacobini di costruire una teoria astratta del potere e del governo. Non c’è una sovranità di cui si possa parlare a priori. Uno dei meriti dell’Autore è che la sua costruzione è rigorosamente politica, cioè a posteriori, cioè dentro la vita, dentro la concretezza storico-spirituale di una nazione, l’Italia.

L’Italia ne emerge come un’esperienza: fondamentale e irrinunciabile insegnamento. Hanno in certo modo ragione i detrattori dell’idea di nazione quando dicono che la nazione non esiste ma è una selezione di ciò che conviene alla sua stessa idea. L’Italia non esisterebbe nella storia. Sarebbe un’invenzione degli italiani che avrebbero cercato a ritroso le testimonianze che confermassero il loro pregiudizio ... nazionale. Cioè sarebbe appunto il premere di un’esperienza, la vita stessa che pone la domanda sulla propria arché, un quesito che, però, non si può ricacciare nell’oblio, che si deve svelare e financo inventare. Ma tale inventio non può che essere un ri-trovamento. L’operazione intellettuale di Giordano è un’opera squisitamente risorgimentale di ri-trovamento. Gli autori, profeti, anticipatori, precursori, erano lì, anche loro nel medesimo gesto di ri-trovare una patria italiana. Tutti uniti in un grande anelito. E cos’è la patria se non “una bambina dalla voce e dai piedi nudi/un germoglio d’infanzia nel sud ventoso/nella sua mano destra riposa quella dell’angelo e nella sua sinistra la mano tentatrice del vento”? (Leopoldo Marechal, Scoperta della patria, tr. it. di M .Maraviglia, https://www.destra.it/home/la-patria-e-un-dolore-non-ancora-battezzato-i-versi-di-leopoldo-marechal-il-cantore-del-peronismo/). Tutti siamo nella condizione dei nascituri quando andiamo alla ricerca di noi stessi, tutti, si parva licet, vogliamo rinascere dall’alto delle nostre radici che sono nella terra angelica del nostro futuro, tutti ci porta il vento di una rivoluzione “radicale” sempre a venire, sempre da immaginare e da sperare.

Il libro di Giordano ci presenta altrettanti luoghi in cui ritrovarci, in cui re-inventarci, in cui ri-nascere e ri-sorgere: Virgilio e Dante: Italia di terra e di cielo, delle radici latine e dell’endecasillabo volgare, nuovo e definitivo orizzonte linguistico comune. Non possono che essere loro ad aprire le danze che vedranno protagonisti nomi obbligatori e ineludibili come Manzoni, e imprevedibili intrusi come Lomonaco (la storia del patriottismo lucano è tutta da scrivere, anzi da divulgare: un oscuro professore di Potenza, Giovanni Boccia, ne ha redatto alcuni capitoli con l’acribia del matematico e l’encomiabile passione di un mazziniano del Novecento). Poi ci sono i personaggi di un secolo tormentato che ha visto la patria trionfare e morire: il grande giurista Costamagna, lo storico Gioacchino Volpe, il filosofo Giovanni Gentile. Interessante è la presenza nella carrellata dedicata alle pietre miliari del sovranismo italiano, di una serie di figure straniere. Il sovranismo patriottico e nazionale è tutt’altro che un occhiuto provincialismo. Nessuno può capire un patriota se non un altro patriota, e ai patrioti italiani serve moltissimo il patriottismo altrui. Non si tratta evidentemente di tifare per lo straniero, per l’amico-alleato-padrone di turno. Chi vende la patria all’Impero degli altri è solo servo. Si tratta invece di dialogare con la passione altrui, in un confronto che dà vita a una comunità di innamorati. L’insieme dei patrioti, infine, come diceva Mazzini, attraverso l’appartenenza di ciascuno salva l’umanità intera, trasformandola da piatto dominio dell’indifferenziato a moltitudine di colori sgargianti che si incontrano e si scontrano e, incontrandosi e scontrandosi, si esaltano e fecondano a vicenda. Quindi non stonano tra Vincenzo Cuoco ed Enrico Mattei (grande martire della sovranità economica), un De Gaulle (perdonato per il brutto affaire Brasillach – il tuo paese a volte ti fa male) e un Wojitila, teologo delle nazioni che significativamente lamenta: “Accade spesso che una Nazione viene privata della sua soggettività, cioè della “sovranità” che le compete nel significato economico e anche politico-sociale e in un certo qual modo culturale, perché in una comunità nazionale tutte queste dimensioni della vita sono collegate tra di loro”. Infine, tra gli altri, tra coloro che amano la patria finendo a volte per amare la tua patria, trova posto anche uno studioso spagnolo a sottolineare la speciale fratellanza che vi è tra Italia e Spagna, già espressasi nel ruolo speciale che Carlo V, Filippo II e Filippo III avrebbero affidato alla Penisola dentro l’universo dell’impero cattolico spagnolo. Si tratta di questioni a me molto care. Credo che una via spagnola, o ispanico-italiana, alla modernità avrebbe rappresentato una validissima alternativa alla tragica opzione anglosassone che poi si è realizzata: l’excursus di Giordano sull’opera dell’insigne storico spagnolo Francisco Elìas De Tejada, lo dimostra ad abundantiam.

Ma accanto ai personaggi vi sono anche i temi: sovranità e patriottismo culturale, educativo, economico, energetico, e financo ludico e dell’intrattenimento. Insomma: una carrellata importante fatta di ritratti originali e profondi e di trattati altrettanto in grado di aprire squarci nuovi e nuove visioni sulla nostra identità nazionale e popolare. È l’opera di un uomo di solidissimi basi e vasti orizzonti culturali, dove, meritoriamente, non si fa dell’ideologia, non si difendono tesi precostituite, ma si mettono insieme in un ordine plausibile, benché in divenire, mattoni di disparata provenienza, ma di grande solidità.

“Non è la patria/ il comodo giaciglio/per la cura e la noia e la stanchezza;/ ma nel suo petto, ma pel suo periglio/ chi ne voglia parlar/ deve crearla”. Così si esprimeva l’amato Carlo Michelstaedter, pure citato e giustamente valorizzato da Giordano. E la creazione della patria è l’opera grande dei suoi uomini, che offrono alla propria comunità la speranza di radice profonde intoccabili dai ghiacci, di una libertà sovrana che distrugge ogni catena, di un amore definitivo che sulla terra già ci fa appartenere al cielo.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.