mercoledì 24 novembre 2021

Pedro Páramo

 

Juan Rulfo, Pedro Páramo, tr. it, di P. Collo, Einaudi, Torino 2004, e. 15.00

“- Sarebbe stato meglio che non fossi uscito dal tuo paese. Cosa sei venuto a fare qui?

- Te l’ho già detto all’inizio. Sono venuto a cercare Pedro Páramo, che a quanto pare era mio padre. Mi ha portato qui l’illusione.

- L’illusione? Costa cara”.

Inseguire un’illusione non significa farsi paladini di qualche ideale, o di una potente convinzione morale, pur difficile da realizzare. L’illusione è proprio un’evanescenza. Per Juan Preciado, cresciuto dalla madre, Pedro è un’illusione come la strada che porta a Comala, il paterno paese delle illusioni.

Giunto a Comala, nel Messico nord-occidentale, non vedrà nessuno ma ascolterà tutto. Comala è un paese di morti che parlano e mormorano. Essi raccontano le loro storie. La storia di come la loro vita è passata e va, di come sono arrivati tutti in questo Sheol, sospesi in una caligine di particelle e di vite consunte.

Giunto a Comala, Juan è risucchiato dalla non-vita dei morti.

Il padre è un notabile del paese, latifondista e mafioso, violento e violentatore. La relazione con la madre è stata un piccolo, insignificante episodio…nulla ha contato nella sua vita Dolores Preciado che, in punto di morte, gli invia il figlio “a fargli pagare l’oblio in cui li aveva lasciati”.

I crimini di Páramo si intrecciano con le storie di Miguél, l’unico figlio riconosciuto, di Abundio, l’altro abbandonato, di Dorotea la serva compiacente e trafitta dal dolore di un altro figlio mai avuto.

E poi c’è il suo struggente amore per l’ultima moglie Susana. Il criminale ama ma, per nemesi imperscrutabile, lei si strugge nel ricordo di Florencio, passato e morto, e ne muore, lasciando a Pedro solo il rancore e la vendetta contro coloro che non capiscono, contro il paese, contro tutti.

E poi c’è Fulgor Sedano, lo scaltro amministratore, ucciso dai rivoluzionari; la coppia incestuosa con la sorella che si disfa e consuma nella putrefazione; doña Eduviges, locandiera amica della madre e caronte che traghetta Juan nel regno dei morti che mormorano.

E tante altre storie scritte per frammenti, accennati e ripresi. Capitoletti che sono sopravvissuti ai tagli del loro Autore. Frammenti di scrittura e fili difficili da annodare. Molteplici accenni, molteplici allusioni, del tutto coerenti con i frammenti di morte che attraversano il passato e il futuro per entrare nel presente indifferente della storia di Comala.

 Juan stesso finisce nel tritacarne della vita-morte di Comala, dove il mondo si sdoppia senza trascendersi. Egli compie il cammino dalla vita alla non vita. Passa dall’aldiquà all’aldilà assente su cui nulla può il Dio morto della Chiesa e dei preti.

Padre Rentería, l’ultimo personaggio di cui voglio accennare, è il becchino di Dio: esponente di una Chiesa mondana, simoniaco per abitudine e debolezza, è il testimone finale di un’assenza. Questo mondo, nato dalla fantasia potente ed ermetica di Juan Rulfo sembrerebbe la realizzazione di una teologia inversa, come quella di Mainländer che, sollevando il sudario della creazione, vi scopre il cadavere di Dio. A Comala sono tutti morti, ma vivono la morte di Dio, come membra ancora verminose e dunque mobili della sua putrefazione. Non c’è alcun inferno lì, ma un purgatorio perenne, la perenne e disperata indecisione di chi vive continuamente e indefinitamente la sua morte.

Non c’è vendetta più grande che il grande scrittore messicano abbia potuto consumare contro il “cristero” che aveva ucciso suo padre: scrivere il monumento dell’ateismo perfetto, un ateismo che vive di sottrazioni, come dice Ernesto Franco. O meglio di spazi bianchi. Di differenza. Comala è letterariamente uno spazio bianco, un vuoto: il vuoto tra le parole, la differenza che si situa in mezzo tra il nulla della negazione e la pienezza di ciò che è negato. È lo Sheol che non riesce ad essere né vita, né morte; né silenzio, né parola; né essere né nulla. Comala è questo Sheol della differenza, dove solo una cosa è negata recisamente, senza appello e senza ambiguità: la speranza.

Pedro morente, si alza, fa pochi passi: “E dopo pochi passi cadde, supplicando dentro di sé, ma senza dire una parola. Diede un colpo secco contro la terra e si sgretolò come se fosse un mucchio di pietre”.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.



martedì 9 novembre 2021

Romantici nichilismi


 Mario Bernardi Guardi, La morte addosso, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2021, E. 14

Nel proliferare contemporaneo di romanzi storici si può trovare di tutto e non tutto di qualità. Per scrivere romanzi storici bisogna avere senso storico, merce che in Europa, complici le numerose malattie culturali provenienti dal mondo anglosassone, risulta sempre più rara. Nemesi luminosa: proprio quel mondo, nelle sue produzioni migliori, viene valorizzato da questo geniale testo di Mario Bernardi Guardi. Vi si tratta della vicenda di un protagonista del soggiorno di Villa Diodati a Ginevra, uno degli episodi cruciali del romanticismo inglese, con la famosa tenzone letteraria sorta nella compagnia di George Gordon Byron, Mary e Percy Shelley, John Polidori e Claire Clermont. Chi scriverà la storia più intrigante di spettri, fantasmi, mistero e orrori di un’umanità da sviscerare nei suoi aspetti più profondi e perciò anche più oscuri? La notte del 16 giugno 1816 fu indetta questa sfida ai cieli e agli inferni letterari, che fu poi al centro di numerose leggende, leggende gotiche, ça va sans dire, ma anche di opere di altissimo livello e di uguale notorietà, anzitutto il Frankenstein di Mary Shelley, ma poi anche The vampire di Polidori e La sepoltura di George Byron.

 Bernardi Guardi assume su tale vicenda il punto di vista originale e interessante della tragedia di John Polidori, medico italiano e segretario-amante di Byron, che, a stare ai resoconti di polizia, si suiciderà nell’agosto 1821, a qualche anno dal soggiorno svizzero e dal suo successivo, brusco licenziamento. La triste e tormentata traversia del medico venticinquenne diviene argomento di discussione, recriminazione, rivisitazione critica e ripresa polemica da parte dei suoi amici. Lo sfondo è quello della notte del mistero e delle relazioni morbose e appassionate che si erano allacciate nelle stanze di villa Diodati, nell'estate senza sole del 1816, l’anno dell’eruzione del vulcano Tambora. La morte addosso ne presenta una sinfonia gotica a più voci: il padre di John che rivede nel legame del figlio con Byron la sua altrettanto tormentata vicenda di segretario di Vittorio Alfieri; Mary Shelley, fragile e idealista, per un momento amante, oltre che confidente, di John; Claire Clermont, avvelenata concubina di Byron, che decostruisce e disincanta i romanticismi della sorellastra Mary; Byron stesso che avanza dubbi sulle sue ex amanti divenute amiche di John, ma rimane ancorato alle sicurezze sullo stile ineguagliabile della propria vita e del proprio genio … e infine John e i suoi diari, confessione di colui che si offre quale olocausto per le sue stesse trasgressioni il cui peso non sa reggere, esploratore e al tempo stesso vittima dei sortilegi esistenziali praticati dai suoi sodali.

La bellezza delle trame oscure evocate da Bernardi Guardi attorno a John e alla sua fragilità non risiede solo nel loro milieu gotico, fatto di vampiri assetati di sangue e mostri partoriti dalle più ardite fantasie prometeiche e scientifico/religiose, ricostruito perfettamente pur a rapide e sparse pennellate, ma nell’allusione alla sua radice romantica. Sono i miti del romanticismo a diventare vita e tragedia nelle pagine de La morte addosso, i miti di una natura vivente e animata da misteriose presenze spirituali, del genio indagatore dell’oltre e dell’ infinito, dell’insoddisfatto Streben di superare se stessi, dell’isterica insoddisfazione di chi vede l’infinito sempre dissolversi fra mani e piedi, della bava maleodorante e nichilistica che lascia l’odio per ogni ordine e armonia della vita, considerati acerrimi nemici della vaga grandezza di cui si sente bruciante la nostalgia… L’abbandono definitivo del bello per il sublime, senza alcuna legge morale a dominare la sua sproporzione, che trova nella sproporzione del desiderio sessuale il suo simbolo più trasgressivo, trasforma le relazioni, le impregna di sé, e genera la grande comunità degli egoisti (l’Unico non avrebbe certo sfigurato nella compagnia). Polidori ne rimane vittima, egoista incompiuto, le cui esperienze trasgressive non sono accompagnate dal cinico distacco di una superiore ma disumana libertà, come quella del suo mentore e padrone Byron.

Questo romanticismo è la modernità in statu nascenti. Tutto vi è contenuto: l’illuministica fiducia nel progresso della scienza e l’oscuro presentimento dei suoi esiti distruttivi; il libertinismo di ascendenza sadiana e l’amoralismo antiegualitario del genio; la distruzione delle strutture mentali ed etiche della tradizione cristiana e il vagheggiamento di un'età dell’oro selvaggia e incontaminata; l’idea di una civiltà libera e di una libertà politica in cui il mito dell’uguaglianza e dell’antiautoritarismo convive con la dittatura del risvegliati e degli illuminati … E il tutto converge nella sintesi sovrumanista della volontà di potenza negatrice di Dio e del mondo e incarcerata tuttavia nella prigione senza muri dell’Io. Qui troverà la morte Polidori, e la sua morte potrebbe divenire immagine della morte di un’intera civiltà, il cui luogo di senescenza furono le profondità anarchiche dell’inconscio emotivo, romanticamente devote al Lustprinzip, appena illuminate dalla luce fioca dell’utopia e del libero amore, seduttiva come un’atmosfera, intrigante come un chiaroscuro, promettente come una carezza, crudele come un coltello che trafigge le carni e le illusioni.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

martedì 2 novembre 2021

Destra, liberalismo e fascismo

 

Una risposta a Carlo Gambescia:

http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2021/11/massimo-maraviglia-un-non-conformista.html

 Ringrazio l’amico Carlo Gambescia che dedica una così attenta critica a un mio scritto e con essa lo valorizza, peraltro sintetizzando molto bene, da vero studioso delle idee, i tratti salienti delle mie opzioni politiche e onorandomi con una locuzione che mi piacerebbe veramente fosse corrispondente alla realtà: “Non conformista degli anni Venti del XXI secolo”. La discussione con Carlo è sempre feconda, anzitutto per la natura sociologica del suo approccio al dibattito pubblico e poi per il suo realismo politico, che si trova ad essere al tempo stesso una componente essenziale del pensiero reazionario e un pilastro di quello liberale. Entrambi poi hanno i loro cieli utopici da guadagnare: uno la sua età dell’oro, eroica, tradizionale, sacrale; l’altro la sua società matura, libera dove l’individuo si autogoverna sin dove può e dove per il resto ci si affida alla santità del nomos basileus e alla razionalità non costruttivista delle élites. Dove finisce la realtà, dove inizia l’utopia? Questo è il nostro terreno di incontro e di scontro.

È un territorio molto vasto, dove si incontrano numerosissimi problemi sociologici, filosofici e storici. Giocoforza bisogna scegliere. Ed io voglio giocare questa partita in casa dell’avversario, quindi mi voglio concentrare sulla questione della libertà. Un teorico del conservatorismo sionista, Yoram Hazony ha argomentato molto bene dicendo che è falso dire che la libertà sia un problema individuale. Esiste un’empatia della libertà, tale per cui non si gode della propria se tutti gli altri individui con cui abbiamo legami portatori di senso parimenti non ne godono. D’altronde la qualità del legame non può fiorire nella sua pienezza senza la libertà complessiva del gruppo. Non posso sentirmi libero se non sono liberi i membri della mia famiglia, del mio clan, della mia tribù, della mia nazione e infine se famiglia, clan, tribù, nazione non sono liberi; la schiavitù singola, infatti, è diversa dalla schiavitù del gruppo, perché nella schiavitù del gruppo ciascuno soffre per la propria schiavitù e insieme per quella degli altri. Parimenti la schiavitù collettiva impedisce quelle forme dell’agire comune che appartengono alla natura umana come le individuali, che pure in talune occasioni di oppressione comunitaria ne risentono pesantemente. Oggi viviamo nella condizione per la quale la difesa dei diritti individuali è ritenuta sufficiente per esaurire la sfera della libertà, solo perché la negazione della libertà individuale colpisce in modo più diretto ed evidente, anche se non più profondo di quella collettiva.

La grande disputa tra Gentile e Croce come noto riguardava anche simili tematiche. Ma come mai, anche Gentile si poteva ritenere un liberale? Il liberalismo di Gentile è quello della libertà dello spirito, che genera lo Stato dentro di sé, in interiore homine: “Ogni individuo agisce politicamente, è uomo di Stato, e reca in cuore lo Stato, è lo Stato. Ciascuno a modo suo, ma ciascuno tuttavia concorrendo in uno Stato comune, in virtù dell’universalità che è propria della sua stessa personalità…Lo Stato, perciò non è inter homines, ma in interiore homine”. La chiave per capire il senso dello Stato è l’universalità inerente alla personalità, un’universalità che nasce da dentro e si realizza fuori, nell’agire politico concreto che non può prescindere dalla propria comunità, pena lo scadere in una nichilistica autoreferenzialità. Si deve costruire così l’equilibrio tra il singolo e il tutto, un singolo che nel tutto si realizza e che nondimeno il tutto mantiene nella sua ragion d’essere più autentica. Lo Stato liberale ottocentesco assolveva a tale compito? No, perché, almeno nel caso italiano, il Risorgimento incompiuto lascia fuori dallo sviluppo etico la nazione e lo riserva a una élite di privilegiati economici. Il fascismo vorrebbe dare compimento al Risorgimento con una dose massiccia di antidoto, cioè di libertà nazionale, cioè di potenza e grandezza. Fatalmente l’individuo ne rimane schiacciato. Realizzato nell’Italia imperiale, l’uomo nuovo non può più affermarsi contro lo Stato. Ma se non può farlo, la sua integrazione nello Stato smetterà di essere autentica, ossia libera, e finirà nel 1943, al primo rovescio.

Alla fine del “liberalismo fascista” di Gentile sorge in Italia il liberalismo anglosassone, cioè individuale e procedurale. L’individuo si riprende il palcoscenico e, seguendo la lezione inglese, per prima cosa attacca lo Stato. Come? Secondo la strategia anarchica di sempre: depotenziandone la potestas mediante la trasformazione degli atti di comando personali in complesse procedure burocratiche, dove si esercita l’inesausta fantasia del peso e del contrappeso e l’antica vocazione alla dilazione dibattimentale. Rinasce insomma con vigore l’ingegneria costituzionale e la clasa discutidora. Con essa si ambisce alla neutralizzazione totale del politico e del conflitto: è pronto il regime degli ultracorpi che alla fine vince anche sul più agguerrito avversario bolscevico. Quest’ultimo aveva già immaginato e promosso l’utopia delle cose che si governano da sé, ma aveva pensato in modo insufficiente l’estinzione dello Stato. Il liberalismo invece offre la società in sacrificio allo Stato per placare definitivamente la sua ira. Lo Stato assorbirà la società fino ad assumere come unica ragione di esistenza la sua vocazione economica. Lo Stato-azienda fagociterà allora la società, diventando esso stesso società, cioè attività economica. Torna dunque l’imperativo di Guizot: arricchitevi! A scuola e nell’università si ragiona per crediti. Gli ospedali diventano aziende sanitarie. Banchieri e industriali prima diventano autonomi dai governi poi vanno al governo. Infine, la libertà politica viene totalmente assorbita nell’unica libertà pensabile in questa logica, la libertà d’impresa.

Ma siccome con la sola prosa non si vive e questo grande apparato manca sostanzialmente  di legittimazione, cioè di un perché, di uno scopo … siccome per tale motivo esso è soggetto alla grande malattia nichilista che finirebbe per eroderne le fondamenta e disgregarne il tessuto … siccome tutto ciò urge e impone la ricerca di un rimedio … allora arriva il soccorso rosso dei diritti …  si rispolverano antichi dogmi, si ripropongono antiche e mai sopite utopie, che del resto fanno parte dell’album di famiglia liberale.. si mescolano Thomas More, Oliver Cromwell, con Fourier e Marx e si propone una nuova formula accattivante per la società, il godimento universale nella proteiforme veste della pace, della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Ma è chiaro che qui la vittima è proprio la libertà. Lo ha detto il nostro Ford, recita il funzionario del Brave New World: bisognava scegliere e si è scelto di essere felici, non si può al tempo stesso essere liberi. O meglio l’unica libertà può essere quella di godere e contribuire al sistema del godimento … il resto è … vietato … in forza di legge … direbbe Agamben. Ma Agamben non dice che la sua sinistra famiglia politica, convolata a nozze con quella liberale, è la vessillifera e la grande co-protagonista di tale “democrazia governamentale”.

Ecco, come si vede la libertà è una questione serissima. Direi anzi che è il tema fondamentale del futuro. E l’equilibrio tra la sua dimensione individuale, sociale e politica non si risolve con antiche formule. Direi nemmeno con un anticostruttivismo radicale che a mio parere sottostà un’interna contraddizione. Chi lascia fare e lascia passare? Chi lascia fare e lascia passare è il sovrano. E può decidere che cosa lasciar fare e passare. Ma se vogliamo che nessuno decida, tutto si fa e passa. Ma ciò che si fa e passa, si fa e passa proprio perché qualcuno lo concede. Qualcuno, fosse anche l’impossibile agorà di tutti gli uomini di tutti i tempi e i luoghi, qualcuno l’ha concesso. Dialettica della libertà: lasciare che si esprima una libertà significa sottomettersi alla potenza che quella libertà esprime e ritirarsi dal limite che era in nostro potere opporle, oppure cadere di fronte alla sua irresistibile violenza. Chi concede la libertà è colui che è veramente libero. Chi vince di fronte al limite, è colui che afferma la sua forza, ossia è ancora il soggetto autenticamente libero. Entrambi sono l’evoliano “individuo assoluto”.

Ma torniamo al concreto. Ci può essere una sfera che l’individuo concreto, il membro della società politica, il cittadino insomma, può non veder toccata? Ci può essere una soglia che il potere non può scavalcare? Questo è infatti il liberalismo concreto, quello che porta con sé un’evidenza difficilmente scavalcabile. La risposta è sì e no, dipende dal punto in cui uno si colloca. È relativamente facile capire quali sono gli elementi nevralgici di un sistema politico e sociale, quali sono i crinali del conflitto e le crepe infilandosi nelle quali l’edificio può cominciare a traballare. Ebbene, la prudenza vuole che ci si tenga lontano da quei luoghi e in tempi normali si potrà stare relativamente tranquilli. Non fare l’estremista, intimava mio padre con la saggezza di chi sa come cavarsela nella vita. Con estremista egli intendeva l’ostinato rompicoglioni che continuamente insiste nel mettere alla prova con argomentazioni e prassi radicali le concessioni di libertà offerte dentro i confini del senso comune. La compagnia telefonica ti dà i minuti illimitati, ma ti intima di non approfittarne. C’è chi invece prende la logica come una clava e pretende dall’istituzione compassionevomente dominante una coerenza che arrivi fino al disprezzo di sé. Così, adeguatamente stimolato il suo sistema immunitario, cioè l’autodifesa liberale che blinda la democrazia, reagisce e si comporta come tutti gli altri, mettendo in moto i suoi anticorpi killer.

Allora contro tale possibilità si può ancora far valere la logica liberale. Contro le degenerazioni del liberalismo vale solo l’appello al liberalismo? L’amico Carlo, se con pazienza mi seguisse sin qui, amichevolmente e cavallerescamente ammettendo e non concedendo tutto il ragionamento fatto sin qui, direbbe di sì. Io dico di no. Io dico con Feyerabend: “Tutto va bene”, per metodo, per definizione… e qui il diligente inquisitore tornerebbe a vedere l’inizio del fascismo.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

domenica 31 ottobre 2021

Perché la destra non può e non deve essere antifascista

 

L’abiura è tecnicamente “la rinuncia solenne alla propria confessione religiosa”. Potrebbe essere l’esito di un travagliato percorso di revisione della propria vita. Ma in questo caso l’elemento della solennità non appare necessario. La solennità per lo più si situa all’incrocio dell’interesse di chi la proclama e di chi la auspica, desidera, o addirittura la impone dall’alto con la forza del potere, del ricatto, della minaccia o della tortura. Quindi se io minaccio Tizio per farlo abiurare, dalla sua abiura ottengo un vantaggio e genero in lui un interesse ad abiurare per evitare danni maggiori. Un incrocio di interessi, appunto: le guerre di religione vedono il proliferare di questi atti, come pure le guerre ideologiche, che ne sono il riflesso secolarizzato.

 La nostra epoca post religiosa non è diventata post ideologica, anzi! La recrudescenza del conformismo sociale attorno a tre-quattro dogmi politico-sanitari oggi più che mai lo conferma. La carenza di legittimazione delle democrazie liberali  - che, nel nome dell’individuo e dei suoi “diritti” hanno segato le gambe a ogni etica condivisa e al concetto stesso di bene comune - necessita improvvisamente di dosi massicce di credenze artificiali con cui sostituire l’appartenenza di un popolo alla sua storia etico-culturale e per mezzo delle quali impedire l’inevitabile disgregazione del tessuto sociale. Ecco allora la mitopoiesi neo-liberale e neo-democratica, le cui centrali di elaborazione sono le università statunitensi e il cui megafono è Hollywood, che genera una sua dottrina, un suo catechismo e infine, poiché si tratta pur sempre di ideologie e miti politici, un suo nemico.

Naturalmente il nemico non può che essere il fascismo, ossia il collettore di tutte le fantasie apocalittiche e di tutti gli incubi gotici del mondo anglosassone e della sua connaturata allergia per la storia e la complessità.

Il fascismo è oggi lo strumento di caccia prediletto del sofista politico, l’esca da gettare in mezzo alle tonnare dei fridays for future, dei sindacati, del variegato mondo LGBT, degli elettorati democratici, dei salotti che contano … per fare sempre gran bottino a beneficio della conservazione dell’esistente. Perché il pastone "violenza, oscurantismo, machismo, bellicismo, dittatura" ha un’incredibile attrattiva per i palati poco esigenti: il fascismo è l’all you can eat della ristorazione politica, per chi ha fame di carriera, certezze e soldi… e per chi teme con tutte le possibili tremarelle i menu nuovi e la fine dei cibi spazzatura.

Questo si sa.

Meno scontato è che, qui da noi, qualcuno, a destra, sia disposto a entrare in quest’ottovolante del pensiero e della politica, in questo festival del girare e rigirare, del negare e rinnegare, del giurare e spergiurare concetti, posizioni, identità per smania di accreditarsi, per smania assoluta di entrare, di partecipare al banchetto nella veste di cane cui il padrone ogni tanto getta l’avanzo da spolpare.

Questo non va.

Anzitutto diciamo che c’è un martirologio da rispettare. L’antifascismo ha mietuto vittime. Tutte regolarmente rivendicate, tutte regolarmente e periodicamente insultate da qualche caporale, sergente o colonnello di qualche brigata, in qualche occasione, in qualche modo ignobile e repellente. Antifascisti no, mai, per rispetto ai morti, ma anche, certo secondariamente, ma obbligatoriamente, allo stile, a quel minimo di educazione dell’anima e dei sentimenti che chiede silenzio per il proprio dolore e lo offre al dolore altrui. E invece no. Qualcuno vuole ricordare con pubbliche cerimonie i morti altrui e accetta il vituperio sui propri. Non ci siamo!

A ciò aggiungiamo che non si violenta la storia. Che siamo stufi delle trite e ritrite versioni terzinternazionaliste del fascismo. Che i libri che ci vogliono svelare, a settant’anni di distanza, dopo sette e più volumi di De Felice, la nascosta verità sul fatto che il fascismo ha fatto tutto il male, solo il male, nient’altro che il male, sono delle sonore stronzate. E le stronzate le rimandiamo al mittente soprattutto quando le proclamano da qualche cattedra presidenziale, specializzata in luoghi comuni a sollievo e protezione delle proprie trippe.

Infine, ci soffermiamo sulla cosa stessa. Dobbiamo parlare di idee. Stando alle idee non v’è dubbio che in Italia il fascismo ha liberato la destra dalle sue cupezze, dal suo vecchiume, dal reazionarismo delle conventicole nobiliari, dal vizio sempiterno di coprire con l’alto ideale della Patria e dello Stato il privilegio, l’arroganza del ricco, l’insipienza del parvenu. Il fascismo è stata la destra costretta nel fango delle trincee della Grande Guerra a riscoprirsi popolo e nazione. Certo ci si è portati dietro un pizzico di Ottantanove (a Fiume, diceva Comisso, si respirava una permanente atmosfera da Quattordici luglio) … ma quanto si è guadagnato in verità sociale! Da quel momento, durante e dopo il fascismo, in Italia non c’è stato più spazio per quella destra. Il fascismo ha fatto fuori per sempre il Bacchettone. Non dovremmo forse essergli grati?

Allora che cosa vogliamo fare? Vogliamo rimanere sudditi, per pagare gli errori dei nostri antenati? Vogliamo continuare a chiedere scusa in eterno perché anche loro hanno sbagliato? Vogliamo cospargerci in eterno il capo di cenere perché l’hanno fatta grossa? O dovremmo chiedere agli inquisitori da quattro soldi – spesso pubblici – di mostrarci la fedina penale dei loro padri per constatare che proprio pulita non è? O dovremmo far presente che qualcuno con le altrui passate miserie sta cercando di coprire le proprie presenti? Perché in fondo è questo il problema: che da Robespierre in poi, il vestito dell’Umanità ha nascosto più di una crosta e il profumo dei Diritti ha coperto più di una puzza…e quindi c’è poco da accusare, pochissimi petti da gonfiare, nessun orgoglio da esibire.

La storia diceva Croce è sempre storia del presente. Ma vale anche l’inverso, per quanto qualcuno tenda negarlo: il presente è sempre un presente storico. Nella lotta politica è inutile esorcizzare il fatto che la storia è componente essenziale. Ciò non significa ammettere alcuna nostalgia. Nessuno sguardo indietro, nessun torcicollo, ma consapevolezza, studio, e una ricca cassetta degli attrezzi storica per vivere il presente in modo pieno e con piena coscienza. Nelle sedi del MSI degli anni Ottanta e Novanta qualcuno  promuoveva questo tipo di superamento della nostalgia e del gagliardetto. Non buttava il passato in discarica, non ci si esercitava alla sottomissione né al masochismo, né si pativa alcuna sindrome di stoccolma antifascista. Si osavano strade nuove, ma nessuno si è mai vergognato del proprio album di famiglia. Critici feroci di antichi errori, lo si è stati fino in fondo, ma per rivendicare nuove possibilità e rinnovate bellezze: tutto ciò che fosse storia e che potesse ancora avere una storia, come la nostra nazione, la nostra giustizia, le idee mediterranee e universali, la sfera sublime dello spirito cui la politica non può mai rinunciare ad attingere…

Un’ultima notazione. Nell’idea di politica che faticosamente ci si è sforzati di promuovere nei momenti migliori della destra vi è la necessaria connessione con la cultura e la riflessione. Non vogliamo dire, con Lenin, che un partito dev’essere l’avanguardia intellettuale di una classe sociale in lotta? Non lo diremmo mai, perché non conserviamo nessun feticcio classista. Dobbiamo però sottolineare che senza un progetto culturale non si va da nessuna parte. Un partito dev’essere avanguardia intellettuale di un movimento sociale, questo sì. Questo, però, ha due corollari: gli intellettuali devono smetterla con la loro puzza sotto il naso e cominciare a elaborare una teoria e una prassi dell’impegno (sperabilmente diversa dall’engagement salottiero e mediatico dei chierichetti di sinistra). I politici, dal canto loro, dovrebbero smettere di vedere nell’intellettuale il cacadubbi che non piglia voti. Metapolitica e politica dovrebbero cominciare a incontrarsi in un partito di militanti consapevoli e non alieni dal lavoro dello spirito. E se qualcuno continua a candidare nani e ballerine, pescando nel sottobosco dell’arrivismo piccolo/medio borghese glielo si dica e si abbia il coraggio di presentare alternative, di farsi avanti, di buttare sul piatto della bilancia, una volta tanto, il peso delle idee.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

venerdì 15 ottobre 2021

Platone, Il Teeteto, la conoscenza e l'opinione



PRIMA PARTE: COMPARSA DEI PERSONAGGI; IMPOSTAZIONE DEL TEMA (CHE COSA È LA CONOSCENZA?); OSSERVAZIONE SULLA MAIEUTICA

 

Premessa

Euclide e Terpsione si incontrano mentre il secondo di ritorno dai campi ed Euclide ha accompagnato per un tratto Teeteto reduce malconcio da una battaglia. Ciò è occasione per ricordare le virtù di Teeteto e un dialogo da lui avuto con Socrate, dialogo che lo stesso Euclide ha trascritto nei suoi appunti. Così i due personaggi decidono di leggerlo con l'aiuto di uno schiavo. 

 

Entrata in scena dei personaggi

Il testo ha come protagonisti Socrate, Teeteto e il matematico Teodoro. Euclide dice di aver scelto la forma drammatica e non epica perché non dare noia al lettore e, diciamo, per essenzialità. Noi sappiamo che tale forma descrive la comunità ideale dei filosofi come oggetto compiuto senza bisogno di abbellimenti che rendano la scena più etica (143c). Si inizia con un elogio di Teeteto fatto da Teodoro. Questi dice che il ragazzo è stupefacente per capacità ed è in grado di apprendere ciò che ad altri è difficile. Tra le tante  qualità, possiede anche quella di essere generoso nel maneggiare il denaro. Socrate comincia a parlare della somiglianza tra lui e Teeteto, così come l'aveva adombrata Teodoro. Tuttavia, siccome Teodoro non ne sa molto di somiglianza, non essendo un disegnatore, non bisogna dargli troppa retta. Teeteto viceversa deve dar prova delle lodi che gli ha fatto Teodoro. Il ragazzo si mostra disposto a imparare da Teodoro e da chiunque sappia e sia esperto in qualche disciplina. Questo discorso suscita la domanda su che cosa significhi imparare. La risposta di Socrate in forma dubitativa allude al processo per cui si accresce la propria sapienza, laddove la sapienza rende gli altri sapienti. E che cos'è la sapienza se non la conoscenza? Certamente la sapienza (sofia) è conoscenza (episteme - 145 e): a questo punto si può ulteriormente domandare che cosa sia la conoscenza. 

 

Prima di parlare del tema: la necessità dell’essenza e la maieutica

E qui (145 e) inizia la prima parte del dialogo con la prima risposta che dà Teeteto, solo preceduta da un'affermazione che viene subito superata: le conoscenze sono le varie tecnai, le arti, i saperi e le abilità di cui è possibile un’enumerazione. Enumerare le conoscenze, tuttavia, non vuol dire definire la conoscenza in sé e per sé. Se si citano le conoscenze senza sapere che cosa è la conoscenza, cioè la sua essenza, non si capisce di che cosa si parla a proposito delle singole conoscenze. In effetti, durante una lezione di Teodoro sul concetto di quadrato, a Teeteto viene in mente di individuare l'esempio matematico di come si raduna una molteplicità di numeri diversi sotto un unico genere e un'unica definizione, quella appunto di quadrato. Ebbene, la stessa cosa si dovrebbe poter fare attorno al tema della conoscenza, dato il fatto che i dialoganti concordano che il problema sia degno di un’indagine approfondita. 

Ciò è occasione per un'altra premessa di Socrate. Egli precisa di esercitare la stessa arte di sua madre Fenarete (colei che fa apparire la virtù). Egli riporta anche una diceria sulla sua presunta eccentricità e sul fatto che mette al vaglio certezze agli altri (facendole crollare). Questo perché non fornisce conoscenze ma al contrario consente agli altri, che ne sono pregni, di partorire le proprie. Socrate, insomma, fa la stessa cosa che fa una levatrice, solo che nei confronti di uomini, di anime, e relativamente al pensiero dei giovani e ai suoi frutti, cioè la verità o la falsità. Chi sta con Socrate, e lo ascolta, ha quindi le doglie e questo è il dolore che si accompagna al parto della verità. Ed è proprio questo che sospetta Socrate nei riguardi di Teeteto: che abbia le doglie. Così il maestro chiede al ragazzo se è disposto a parlare con lui per valutare se è in procinto di partorire una verità oppure una qualche falsità, e questo lo si farà mettendo alla prova le sue conoscenze nel dialogo. 

 

SECONDA PARTE: DISCUSSIONE SUL RAPPORTO CONOSCENZA-SENSAZIONE; TRATTAZIONE DEL RELATIVISMO DI PROTAGORA E DEL MOBILISMO DI ERACLITO

 

Prima risposta di Teeteto: la conoscenza è sensazione (riferimenti a Protagora ed Eraclito)

Ecco allora che alla risposta positiva di Teeteto inizia la vera e propria argomentazione a partire da una definizione di conoscenza che nel dialogo viene fatta risalire a Protagora (151 e): chi sa, sente quel che sa, dunque la conoscenza è sensazione. Ma la sensazione è qualcosa che appartiene al singolo uomo, pertanto "ciascuna cosa è per me quel che appare a me, ma è per te quel che appare a te: uomo sei tu, uomo sono io". Ciò conferma quell'assunto fondamentale secondo cui, per il sofista, "l'uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono per come sono, e di quelle che non sono per come non sono" (152 a). Esempi che si possono avanzare di sensazioni che sono diverse a seconda dei diversi individui confermerebbero la tesi di Protagora. Siccome, però, per ognuno le cose sono tali quali uno le sente, e su questo non è possibile alcuna forma di confutazione, per ciascuno, la conoscenza, per mezzo della sensazione, è assolutamente infallibile.

Ma qui comincia una prima osservazione: Protagora, dice Socrate, presenta la sua tesi come una verità, e quindi non in modo relativistico, come dovrebbe essere in relazione al suo assunto di partenza sull'uomo misura. Sembra allora che tale dottrina abbia un fondamento esoterico non relativistico, diverso dal relativismo che egli ha manifestato a prima vista. Tale fondamento esotericamente non relativistico è la verità secondo cui tutto ciò che esiste è in continuo movimento: dallo spostamento, dal moto e dalla mescolanza delle cose fra loro vengono fuori tutte le cose che noi, con parole scorrette, diciamo che esistono. Nulla, infatti, mai esiste: le cose sono sempre in divenire"(152 d). A favore di questo mobilismo c'è l'argomento secondo cui il moto, la vita e l'essere sono fenomeni strettamente legati. In particolare, il moto dell'anima è l'apprendimento e con esso l'anima migliora la sua condizione. Ed è propriamente nel moto che si generano le sensazioni che stanno alla base dell'apprendimento.

 

Come si generano le sensazioni?

Ma qual è il loro modo di generarsi? (154 a). Le sensazioni non vengono né dall'oggetto, né dal soggetto, ma precisamente dalle qualità che l’oggetto viene ad avere nell'impatto con i sensi. In questo impatto diverso è il soggetto cui appaiono le cose, perché sempre in divenire; diverso è l'oggetto della sensazione; ossia: la sensazione è prodotta da un oggetto in divenire che si “scontra” con un soggetto parimenti in divenire che possiede gli organi di senso. Così "ogni cosa che chiameremmo colore, per esempio, non sarà né il soggetto, né l’oggetto dell'impatto, ma qualcosa venuto fuori nel mezzo e diverso per ognuno" (154 a). Quindi, come accade per il soggetto, anche un oggetto non esiste con una qualità fissa. 

 

L’obiezione dei dadi: essi assumono caratteri diversi pur rimanendo in sé immutati

Contro questa prospettiva Socrate fa il famoso esempio dei dadi (154 c). Prendiamo un insieme di dadi: essi sono in un certo numero, per esempio sei ma, se vengono accostati a un insieme di quattro, si direbbe che sono di più; mentre accostati a uno di dodici, si direbbe che sono di meno. Quindi, rimanendo immutati, essi sarebbero al tempo stesso più e meno. Nondimeno questa è una prospettiva solo apparentemente vera, ma in realtà di carattere sofistico. L'esempio dei dadi dimostrerebbe che non sono veri i seguenti assiomi:

1) ciò che è uguale non può essere maggiore o minore;

2) ciò che non accresce o diminuisce rimane uguale;

3) è impossibile il passaggio dal non esistere all'esistere senza un divenire.

Teeteto rimane sgomento da questo ragionamento, ma Socrate ribatte che la meraviglia è il sentimento del filosofo (155 d). Dal mobilismo di Protagora/Eraclito si possono dedurre i seguenti elementi: tutto è moto, l'essere visibile infatti si muove, dal sensibile viene la sensazione e il sensibile nasce insieme alla sensazione. In questa nascita sia l'organo di senso sia l'oggetto della sensazione sono in moto. Sicché "da tutto questo risulta proprio quello che dicevamo al principio: niente esiste in sé e per sé, ma sempre diviene in relazione a qualcosa e l'esistere va estirpato da ogni luogo" (157 a-b). In questa logica il rimanere sei dei dadi è solo apparente, perché nell'infinita trama delle cose essi realmente non hanno una propria consistenza bensì il loro essere è dato dal loro divenire nelle relazioni. Dunque, in tale logica l’obiezione non funziona perché, se è la relazione a definire l’insieme dei dadi, tale insieme mutando le sue relazioni con i diversi insiemi cui viene accostato, non rimane lo stesso (cfr. ibidem).

L’argomento della fallacia delle sensazioni nei soggetti malati o dormienti o collocati in particolari circostanze, e la sua confutazione

Teeteto afferma che il discorso "sembra filare a meraviglia" (157d), cioè che il mobilismo di Protagora e la visione della conoscenza-sensazione sempre vera funzioni. Tuttavia, Socrate fa presente alcuni problemi: i sogni, le malattie, quando si dice di sentire le voci, o di avere le traveggole sono testimonianze che in questi momenti si viene traditi dai sensi. Quindi esistono sensazioni false. O addirittura non vi è possibilità di distinguere, tant'è vero che nel sogno e nella veglia ugualmente l'anima sostiene che i suoi pareri siano veri, pareri che peraltro non vi è possibilità di distinguere sotto il profilo quantitativo, perché il tempo del sonno e della veglia è più o meno lo stesso. Il problema si risolve, secondo Socrate, in questa maniera: una cosa che sia completamente diversa da un'altra non può mai avere qualcosa di uguale a questa (158 e). Ma quando le cose in diverse relazioni con altre si assimilano di volta in volta agli oggetti con cui entrano in relazione e in questo modo divengono esse stesse diverse, questo genera un infinito numero di soggetti e di oggetti che si mescolano in infinite combinazioni. Dunque, Socrate ammalato è diverso da Socrate sano (159b): essi sono due diverse identità perché in essi Socrate si è assimilato di volta in volta alla malattia e alla salute, diventando prima una cosa e poi un'altra. Allo stesso modo nella sensazione i diversi elementi attivi, cioè gli oggetti (attivi perché provocano le sensazioni), incontrandosi con diversi elementi passivi, cioè i soggetti (passivi perché ricevono le sensazioni negli organi di senso) come, per esempio, di volta in volta Socrate sano e Socrate malato, genereranno cose diverse, cioè diverse sensazioni. Dunque, per Socrate sano il vino sarà dolce, per Socrate malato il vino sarà amaro (159 d-e; e ciò vale anche per Socrate sveglio e Socrate dormiente, n.d.r.). Di conseguenza rimane confermato che se accade sempre che l'oggetto è per il soggetto, esso è sempre tale e quale il soggetto lo sente, quindi ognuno di noi è giudice insindacabile delle cose che sono per come sono e di quelle che non sono per come non sono. Infine, rimane anche vero che non sia possibile alcun errore.

 

Nuovi argomenti contro l’uomo misura e l’equivalenza conoscenza-sensazione: anche gli animali hanno sensazioni, udire parole in altre lingue, ricordare cose conosciute di cui non si ha sensazione

Sembra allora che si possa concludere che la conoscenza è sensazione. Questo è il parto che Socrate ha fatto avvenire. Tuttavia, egli ritiene necessario ulteriormente provarlo con discorsi, per appurare definitivamente la sua verità o falsità. 

Innanzitutto, si potrebbe domandare perché Protagora ha detto che misura di tutte le cose è l'uomo e non un altro animale capace di sensazione, degradando l'uomo al cane o al girino (161 c-d). Inoltre, se nessuno può valutare il parere di un altro, perché la conoscenza è sempre vera, allora ciascuno può giudicare solo le sue esperienze e anche Protagora non potrebbe affermare le sue idee come migliori di quelle di qualsiasi interlocutore (161 d-e). Insomma, se l'uomo è misura, è inutile dialogare. In realtà sembra che, nella sua inconfutabilità, la misura di Protagora renda indifferenti e parifichi dei e uomini (162 c), e Teeteto ha creduto alla tesi della conoscenza-sensazione solo perché è giovane e dà troppo ascolto a discorsi fatti per la folla e un po' sofistici.

Tuttavia, Socrate si immagina che Protagora lo rimproveri di superficialità, perché le argomentazioni opposte sono piuttosto affermazioni paradossali che non prove cogenti. Per rispondere a Protagora bisognerebbe riprovare ad analizzare il tema nuovamente e rivedere le proprie posizioni. A questo punto vengono fuori le argomentazioni per cui noi cogliamo con la sensazione le parole dei barbari ma non le conosciamo e se degli analfabeti vedono delle lettere, pur avendone sensazione, in realtà non le conoscono (163 b-c). 

Inoltre, se avere sensazioni, come per esempio il vedere, significa conoscere, e non averle significa non conoscere (164 a-b), ci si troverebbe nella condizione per cui chi ricorda qualcosa ad occhi chiusi, quindi non vedendo, non avrebbe conoscenza della cosa che pur ricorda, e questa sarebbe una mostruosità. Di conseguenza il conoscere non può coincidere con la sensazione.

 

Socrate difende Protagora: chi si mette dalla parte di Protagora deve stare attento ai mercenari della parola (164 e ss)

Soccorrendo Protagora, Socrate sottolinea come i suoi avversari, giocando con le parole, possano accusarlo di ammettere cose impensabili, per esempio, l'enormità secondo la quale è possibile che chi conosce non conosce quel che conosce. Infatti l’avversario di Protagora dirà al sostenitore della conoscenza-sensazione che se uno chiude gli occhi a Tizio e gli chiede se vede il suo mantello, Tizio risponderà che vede (con un occhio) ciò che non vede (con l'altro). Ma, se vedere equivale a conoscere, e il non vedere è non conoscere, uno si troverebbe a conoscere ciò che non conosce e a non conoscere ciò che conosce. Questi ed altri sono i possibili agguati di quelli che chiameremmo mercenari della parola cui si espongono quelli che sostengono l'equivalenza di conoscenza e di sensazione.

 

Socrate difende Protagora

Di fronte agli argomenti che abbiamo ora portato, prima di tutto Protagora noterebbe che, se è vero come è vero, che è impossibile che un ricordo rappresenti esattamente l'oggetto quale era nella sensazione originaria, allora è anche vero che il ricordo è diverso strutturalmente dalla sempre vera sensazione originaria (166 b), ciò perché dalla sensazione al ricordo è passato del tempo che può aver modificato la verità della sensazione.  Questi cambiamenti possono determinare l’evento apparentemente paradossale per cui uno sa e non sa la stessa cosa. In realtà non è lo stesso soggetto che sa e non sa, ma sono due soggetti diversi cioè il soggetto-che-sa è quello che ha avuto la sensazione; quello che-non-sa è colui che ricorda a distanza di tempo e non ha presente i caratteri originariamente comunicati dalla sensazione (166 b-c).

Infine Protagora dirà che le cose sono come appaiono a ciascuno, ma il sapiente sarà in grado di mutare questa apparenza, facendo in modo che le cose che appaiono e sono cattive, appaiano e siano buone (166 d). Essere sapienti, infatti, significa favorire una condizione migliore, non stabilire teoreticamente ciò-che-è, perché su questo tema ognuno ha la sua idea vera. Così come il medico favorisce la salute del corpo mediante i farmaci, allo stesso modo il sofista favorisce la salute dell'anima mediante i discorsi e, sempre mediante i discorsi, il retore capace e sapiente produce pareri giusti in luogo di quelli cattivi. Quindi le conoscenze non sono mai più o meno vere, ma sono più o meno utili. Ciò vale anche per l'educazione: bisogna educare non al vero ma al meglio. Infatti, quello che fa Protagora non è cercare l'oggettività nella correzione all'interno del dialogo e in vista del mutamento di opinione dell'interlocutore, non è indagare una verità conoscitiva, ma è un reindirizzamento pratico del soggetto. A quest'ultimo proposito Protagora ribadirebbe la sua tesi, chiedendo che sia discussa seriamente (168 c).

 

Ripresa delle tesi di Protagora e loro confutazione (peritropé)

Bisogna allora ricominciare a fare sul serio riguardo alle tesi di Protagora. In questo frangente Socrate chiede a Teodoro di farsi coinvolgere nuovamente nel dialogo (169 a-d). Dunque, prosegue con lui. Egli vuole sincerarsi di trattare realmente un argomento protagoreo e prende dunque spunto dalla tesi secondo cui quel che sembra a ciascuno è per lui anche vero. Egli nota che in alcune situazioni di difficoltà è normale affidarsi a chi si ritiene più sapiente e che questo implica un giudizio e una differenza tra la sapienza e l'ignoranza. Ciò implica che non tutti i pareri sono veri e che di fronte a un certo parere (doxa) è sempre possibile che qualcuno lo giudichi falso. Se tuttavia uno pensa che ciascuno ha la sua verità e una certa tesi è vera per una certa persona, egli si troverà in difficoltà quando molte persone avranno una tesi contraria alla propria. Perché, se per ognuno è vera la sua verità, allora è vera la verità di chi ha parere opposto al suo. Dunque, dovrebbe ammettere che l'opinione falsa è la sua. Se chi dice l'opposto di Protagora ha un parere vero, nessuno può essere misura di nulla perché la sua misura scomparirà di fronte al parere opposto. E questo accadrà a maggior ragione se la verità di Protagora fosse criticata da tutti: essa non potrebbe essere vera per nessuno, né per qualcun altro né per lui stesso (172 c). Inoltre, se nelle sensazioni immediate la verità è ciò che appare al soggetto, nelle cose più importanti, come la salute gli affari della città anche i seguaci di Protagora finiscono per ammettere che vi debbano essere pareri vincolanti, come quello della intera città nel momento in cui si forma e per tutto il tempo che rimane saldo (173 b).

 

Digressione sui filosofi e i loro avversari

Teodoro e Socrate hanno evocato un tema assai importante ma, ciònonostante, osserva Socrate, i filosofi se dovessero parlare in un tribunale finirebbero per fare la figura di parlatori ridicoli. I filosofi, infatti, sono coloro che con calma e agio non saltano le tappe e giungono, pur lentamente, alla verità. I retori, viceversa, nei tribunali, incalzati, ansiosi e fatti meschini da una sorta di lotta per la vita (dalla vittoria nelle cause, infatti, molto spesso dipende la vita) non hanno modo di sviluppare ragionamenti complessi e veritieri. I filosofi non risultano servi dei loro discorsi che vengono conclusi quando a loro stessi pare giusto, e non secondo la volontà di un giudice o di uno spettatore (173 c). A questa prospettiva esplicitata da Socrate e su cui Teodoro converge, Socrate stesso aggiunge l’enunciazione di un’opinione comune sul filosofo astratto e fuori dal mondo, di cui il distratto Talete sarebbe un prototipo e che mostrerebbe grande goffaggine e incapacità nei tribunali. Costui si attirerebbe anche l'astio dei cittadini per la sua tendenza a non tenere conto delle opinioni comuni e del prestigio degli antenati. Il filosofo, contro tale opinione, si volge invece alle cose che contano veramente: la giustizia in sé, l'ingiustizia e la loro reale differenza, la felicità, l’infelicità e come perseguire l'una e fuggire l'altra. Di fronte a questi argomenti, il filosofo si esprime con competenza, facendo apparire ridicoli e meschini il leguleio e l'oratore dei tribunali. Teodoro sostiene che sarebbe molto bello se Socrate persuadesse di questi argomenti la generalità delle persone. In questo modo si diminuirebbe il numero dei mali (176 a). Socrate ribadisce che non è possibile eliminare le figure negative e il male degli uomini. Ma proprio per questo bisogna proporre loro il modello più veritiero di vita, che consiste "nel farsi simile a Dio nella misura del possibile" (176 b), elevandosi agli dei, laddove non esiste il male. Questa è la vera virtù che manifesta tutta la sua superiorità su tutte le abilità e le conoscenze apparenti che si manifestano nel potere politico. Le finte conoscenze sono al contrario fatte proprie dai furbi e dai praticoni che accusano i filosofi di essere imbecilli mentre invece lo diventano essi stessi, loro malgrado. Costoro cadono in una pena inevitabile data dalla loro stessa ignoranza e dal fatto che hanno scelto, tra il paradigma divino felice e quello senza Dio e sommamente infelice, il secondo. La loro sfrontatezza e le loro astuzie li portano a considerare i filosofi pazzi ma in una conversazione privata la loro retorica crolla, "al punto che fanno la figura dei bambocci" (177 c).

 

Le questioni della città e il loro peso

Riprendendo il discorso di prima, dopo la dichiarazione, Socrate nota che se Protagora ha detto che il parere per ciascuno è quello vero, nelle questioni relative alla città le cose sono più delicate e complesse: non basta la convinzione dell'utilità di un provvedimento, ma bisogna andare oltre le questioni puramente retoriche e nominali e giudicare la cosa stessa. Che l'opinione possa sbagliare è confermato dal fatto che le leggi per la città hanno come scopo l'utilità e tale obiettivo a volte si raggiunge a volte no. In generale si può dire che i provvedimenti decisi nelle città sono rivolti al futuro. Funziona il criterio di Protagora per il futuro? È vero anche in questo caso che di tutte le cose l'uomo è misura? Riguardo agli eventi futuri, risulta molto chiaramente che conviene affidarsi a chi è esperto, perché il suo parere ha molte più probabilità di essere confermato. In questo caso è evidente che il medico sarà più sapiente del non medico circa la salute e l'agricoltore sarà più sapiente del citarista circa la dolcezza del vino. Nella città, in particolare, solo il sapiente sarà considerato misura e sarà più facile cogliere la falsità di chi fonda la propria convinzione solo sulle sensazioni (179c). Di conseguenza risulterà difficile ammettere che tutti i pareri sono veri.

 

Verso una critica ontologica: l'eraclitismo (179c)

Andando più a fondo, bisogna mettere alla prova l'ontologia che sta alla base del discorso di Protagora e riferirsi a Eraclito. Tuttavia, non è possibile discutere con i pensatori che fanno capo al gruppo di Efeso che sembrano tarantolati e mancano di metodo, presi dentro come sono nel loro mobilismo assoluto. Essi sono esperti in paroline enigmatiche e rifiutano l'obiettivo di pareri stabili, poiché conducono una lotta senza esclusione di colpi contro la stabilità stessa. Questo impedisce loro di formare una scuola, perché non trasmettono una dottrina con una sua identità, ma ognuno di loro è preso come da un invasamento divino. Pertanto, è inutile parlare con loro ma bisogna, dice Socrate, che noi stessi ci facciamo carico di discutere le loro posizioni. "Tutto si muove" è la loro prospettiva, divenuta ormai popolare e apparentemente confermata da antichi e moderni. 

La loro è una posizione opposta è quella degli eleati secondo cui tutto è uno e sta fermo in se stesso. Bisognerà pertanto prendere in esame sia i mobilisti sia gli immobilisti e, se poi ci sembrerà che né gli uni né gli altri dicano qualcosa di sensato, ci copriremo di ridicolo perché avremmo scartato uomini antichissimi e sapientissimi. Vedi un po' se ci conviene avanzare verso un simile pericolo, afferma Socrate. Che cosa intendono i mobilisti quando dicono che tutto si muove? Muoversi può voler dire spostamento locale o alterazione. Tutte le cose si muovono per spostamento, cioè cambiamento di luogo, e alterazione, cioè mutamento delle proprie caratteristiche, oppure qualcosa per spostamento e alterazione, qualcosa per spostamento e infine qualcosa solo per alterazione? Bisogna dire che tutto si muove in entrambi i sensi, altrimenti si finirebbe per affermare che le cose si muovono e stanno ferme nello stesso tempo (ciò di cui mutano i caratteri e che è immobile nello spazio, muta e sta fermo al tempo stesso, n.d.r.). Abbiamo altresì detto che la sensazione emerge nell'incontro tra soggetto e oggetto: se tutto si muove, dal punto di vista dell'oggetto non vi sarà alcuna sua qualità data e stabile, come per esempio la bianchezza, ma una solo sentita, come per esempio il bianco; dal punto di vista del soggetto, egli non sarà un sensibile bensì solo un senziente (non c’è un’identità definita dell’oggetto come “cosa”, né una del soggetto come ente sostanziale che ha determinate facoltà, le quali poi si mettono in relazione con l’oggetto, esisterebbe viceversa solo il soggetto-in-relazione-con-l’oggetto n.d.r.). Se il moto consistesse solo nello spostamento potremmo dire le qualità che hanno gli oggetti nel cambiare luogo, perché rimarrebbero gli stessi oggetti. Ma il moto è anche trasformazione e allora ciò non sarà possibile. Per esempio, non sarà possibile nominare il colore di qualcosa, giacché esso sempre cambia, senza parlare in modo scorretto. Anche dal punto di vista del soggetto la sensazione del vedere e dell'udire non rimane mai ferma. Di nessuna cosa allora si potrà dire “vedere”, piuttosto che “non vedere”. Se pertanto nulla è qualcosa piuttosto che il suo contrario allora anche la conoscenza non è sensazione piuttosto che il suo contrario, e ogni risposta è ugualmente giusta. I sostenitori di questa dottrina dovrebbero anche fondare una lingua nuova, perché non esiste un linguaggio che descriva le cose in movimento (183 B).

 

Parmenide e l’eleatismo immobilista

Quanto a coloro che sostengono l'immobilità del tutto, Socrate ha ritegno a esaminare le loro opinioni, in particolare quella di Parmenide (l’opinione di Parmenide sarà affrontata nel Sofista, n.d.r.). Infatti, egli ritiene che sia troppo complesso e trattarne ora potrebbe fuori tema. Dunque, propone di riprendere la tematica della conoscenza come sensazione (184 B). 

 

Ripresa della questione conoscenza/sensazione: protagonista della conoscenza è l’anima quindi la conoscenza non è sensazione

Ci si domanda se nella sensazione, per esempio nella vista, quest'ultima è quella parte di noi che vede, oppure è il mezzo che permette a noi che vediamo di vedere. Gli occhi, dunque, sono la cosa con cui vediamo, oppure quella attraverso cui vediamo? La risposta è che in realtà l'anima si serve della vista per vedere. Gli organi di senso appartengono al corpo e ogni organo ha il suo oggetto specifico. Così è per l'udito e la vista che hanno per oggetto il suono e il colore. Di tutti e due - suono e colore -  si può dire che esistono, che sono ciascuno diverso dall'altro, che insieme sono due e separatamente sono uno e si può vedere se sono simili o dissimili fra loro. Questi caratteri comuni al suono e al colore come si definiscono? Se la conoscenza è sensazione, ciò è impossibile. Al contrario l'esame dei caratteri comuni sarà condotto con l'anima, quella facoltà che si esprime attraverso la lingua e con la quale veniamo appunto a conoscenza dei caratteri comuni stabilendone l'esistenza. È proprio l'anima che attraverso se stessa, sembra, indaga quel che a tutte le cose è comune, conclude Teeteto (185 e). Socrate precisa che l'anima, attraverso se stessa, indaga alcune proprietà (non corporee), come per esempio l'essere, il pari e il dispari, e attraverso i sensi indaga le proprietà corporee, come per esempio il duro e la durezza (mediante il tatto). Le proprietà sensibili si colgono in modo più facile e immediato sin dall'infanzia; gli altri caratteri, per esempio l'esistenza e l'utilità, sono più difficili da conoscere e da elaborare. Ma senza cogliere questi ultimi sarà impossibile cogliere la verità. "Non nelle affezioni risiede quindi la conoscenza, ma nel ragionamento che ci si costruisce attorno. È qui che si possono toccare essere e verità, mentre là (nella sensazione) risulta impossibile" (186 d). Pertanto, bisogna concludere che il sentire e la sensazione (aisthesis) non permettono di cogliere la verità (aletheia) né l’essenza (ousia) e nemmeno dunque sono conoscenza (episteme, 186 e).

 

TERZA PARTE LA CONOSCENZA COME PARERE VERO CONTRAPPOSTO A UNO FALSO: COM’È POSSIBILE UN PARERE FALSO?

 

La conoscenza non-sensibile e il parere falso (I parte)

La conoscenza va quindi cercata nel campo del non-sensibile. Quando l'anima si arrovella, lavora, si affatica su ciò che esiste, questo si chiama doxazein, cioè formulare un parere. Che cosa è la conoscenza? Dire che è un parere qualsiasi non è possibile, visto che esistono pareri falsi (187 d), invece potrebbe essere conoscenza il parere vero contrapposto a quello falso. Come accade che ci si possa formare un parere falso? "Giocoforza chi si forma un parere lo farà a proposito di qualcosa che sa [del tutto] o non sa [per niente]" (188 a-b). L'apprendimento e l’oblio come stati intermedi fra questi [cioè come stati intermedi tra il sapere tutto e il non sapere niente] Socrate li lascia da parte in quanto essi non hanno rilevanza per il suo discorso. Nel parere falso vengono ad accadere i seguenti fenomeni che lo rendono problematico: 1) chi formula il parere penserà che ciò che egli sa sia un'altra cosa, scambiando una cosa con l’altra, cosicché l'una e l'altra al tempo stesso le sa e le ignora. 2) Oppure egli penserà che ciò che non sa sia un'altra cosa di quelle che non sa, come se non conoscendo né Teeteto né Socrate, potesse confondere Teeteto con Socrate e viceversa. 3) In terzo luogo, egli penserà che quel che sa sia quel che non sa o viceversa. Il che sarebbe ancora una "mostruosità" (188 c). Quindi, date tali premesse, cioè che ogni cosa o la sappiamo o non la sappiamo, il parere falso appare impossibile. Tale ragionamento non funzionerebbe invece ammettendo una conoscenza parziale.

 

Il parere falso su ciò che non esiste (II parte)

In alternativa il discorso falso si può definire nel seguente modo: "Formulare un parere riguardo una cosa che non è" indipendentemente dalla condizione di sapere o non sapere in cui ci si trova. Ma 

 - siccome, dando per scontato il fatto che l'uno esiste, chi formula un parere su un qualcosa implica sempre che questo qualcosa sia almeno uno e l'uno sicuramente esiste,

-  allora chi formula un parere su un qualcosa formula sempre un parere su qualcosa che esiste. 

- Di conseguenza, chi formula un parere su ciò che non esiste formula un parere su nulla e chi non formula nulla in nessun modo formula pareri (189 a). 

Pertanto formulare un parere falso è altra cosa rispetto al formularne uno su ciò che non esiste.



Il parere falso come scambio di oggetti nel discorso interiore (III parte)

Allora, un'ulteriore possibilità sarebbe che il falso parere sia uno scambio di qualcosa che esiste con qualcos'altro che pure esiste: "L'atto di mancare quel che si stava cercando potrebbe a buon diritto chiamarsi falso parere" (189 c). Quando il pensiero fa questo pensa due cose o insieme, o una per volta. Ma che cos'è l'atto di pensare? "È un discorso che l'anima fa con se stessa intorno a ciò che prende in esame" (189 e). Propriamente il formulare pareri è un discorso compiuto fatto a se stessi in una sorta di dialogo interiore. In questo caso scambiare l'oggetto del pensiero significa dire a se stessi che una cosa è un'altra. Tuttavia, nessuno dice mai a se stesso cose che sa essere false come per esempio che il bue è un cavallo o il due è uno. Ciò non è possibile se queste cose sono entrambe abbracciate con l'anima. Se il parere è invece formulato su una cosa sola non si può scambiare una con l'altra e quindi il falso parere non può essere uno scambio. 

 

Il plastico di cera (191 c)

Però, per evitare paradossi, in qualche modo bisogna ammettere l'esistenza di un discorso falso. E quindi bisogna proseguire nell'analisi. In realtà, dice Socrate, non è vero in senso assoluto che è impossibile che quel che si sa possa essere invece quel che non si sa: infatti si può sapere qualcosa parzialmente, così come accade quando si sta imparando qualcosa e si impara in un secondo tempo qualcosa che prima non si sa (191 c). Questo può essere considerato uno stadio intermedio tra il conoscere e il non conoscere. Per verificare questa ipotesi supponiamo che l'anima ospiti un plastico di cera (191 c). Tale plastico trattiene conserva le immagini sensibili in modo ineguale a seconda della purezza della cera e della sua malleabilità. Nel plastico si imprimono sensazioni e pensieri. Ciò che rimane impresso si conosce e si ricorda; ciò che viene cancellato o non riesce a rimanere impresso plasmando il plastico, si dimentica e non si conosce. Su questa base si possono ipotizzare i seguenti casi, in cui però il parere falso sembra impossibile, eccetto che in tre occasioni.

 

Oggetto X

Conoscenza nell’anima 

Conoscenza sensibile

Ricordo

(impressione nella cera)

Oggetto y

Conoscenza nell’anima

conoscenza sensibile

Ricordo

(impressione nella cera)

1) L’oggetto X

Che si sa 

che non si sente

E si ricorda

Non può essere scambiato con l’oggetto Y

Che pure si sa

Che non si sente

Ma comunque si ricorda

Casi che trattano della sola conoscenza

2) L’oggetto X

Che si sa 

Non può pensare essere scambiato con l’oggetto y

Che non si ricorda

3) L’oggetto X

Che non si sa 

Non può essere scambiato con l’oggetto Y

Che pure non si sa

4) L’oggetto X

Che non si sa 

Non può essere scambiato con l’oggetto Y

Che si sa  

5) L’oggetto X

Che si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che pure si sente

Casi che trattano della sola sensazione







6) L’oggetto X

Che si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto Y

Che non si sente

7) L’oggetto X

Che non si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che non si sente

8) L’oggetto X 

Che non si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto Y

Che si sente

9) L’oggetto X

Che si sa

Che si sente

Che si ricorda (secondo la sensazione)

Non può essere scambiato con l’oggetto Y

Che si sa

Che si sente

Che si ricorda (secondo la sensazione)

Casi che trattano di conoscenza e sensazione

10) L’oggetto X

Che si sa

Che si sente

Che si ricorda (intellettivamente)

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che pure si sa

11) L’oggetto X

Che si sa

Che si sente

E così via

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che si sente

12) L’oggetto X

Che si sa

Che si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che non si sa

Che non si sente

13) L’oggetto X

Che non si sa

Che non si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che non si sa

14) L’oggetto X

Che non si sa

Che non si sente

Non può essere scambiato con l’oggetto y

Che non si sente

15) L’oggetto X

Che si sa

PUÒ ESSERE SCAMBIATO CON L’OGGETTO Y

Che si sa

Che si sente

È il caso in cui si scambia qualcosa che si percepisce, non importa se conosciuta o no, con qualcosa che si conosce

(rapporto conoscenza-sensazione)

16) L’oggetto X

Che si sa

PUÒ ESSERE SCAMBIATO CON L’OGGETTO Y

Che non si sa

Che si sente

17) L’oggetto X

Che si sa

Che si sente

 PUÒ ESSERE SCAMBIATO CON L’OGGETTO Y

Che si sa

Che si sente

(rapporto conoscenza sensazione)

1) esempio Teeteto 

Lo conosco

Non lo sento

Me lo ricordo

Non può essere scambiato con Teodoro 

Lo conosco

Non lo sento

Me lo ricordo

Esempi

2) esempio: se uno di voi

Lo conosco

Non lo sento

Non posso scambiarlo con l’altro

Che non conosco

Che non sento

3) esempio: se nessuno di voi

Lo conosco

Né lo sento

Non posso scambiare ciascuno con l’altro

Che non conosco

 

In sostanza non si possono formulare pareri falsi, cioè scambiare tra loro due oggetti se:

1) li conosco entrambi o non li conosco entrambi;

2) ne conosco uno solo;

se:

1) li sento entrambi o non li sento entrambi;

2) ne sento uno solo.

Invece si possono formulare pareri falsi, cioè scambiare tra di loro due oggetti,

se:

1) conosco un oggetto e me ne ricordo, ma lo confondo con un altro, confrontandolo con la sensazione di quest'ultimo.

Quindi ci può essere parere falso solo quando vengono accostate conoscenze e sensazioni e quando un oggetto sconosciuto viene scambiato con un altro sentito, o viceversa, quindi quando la "conoscenza che ho non combacia con sensazione" (193 d) oppure, detto in altre parole, si possiede una conoscenza ma non si riesce a riferirla alla sensazione corretta, oppure ancora si riferisce una sensazione alla rappresentazione sbagliata. Pertanto, non ci si confonde mai tra rappresentazioni, cioè tra oggetti conosciuti ma solo quando c'è un rapporto tra rappresentazioni e sensazioni. Quando invece si collegano fronte a fronte e rettamente l'impressione e le impronte appropriate, cioè le rappresentazioni nella nostra anima, allora vi è un parere vero.

Quando la qualità dell'anima è buona, cioè la cera è malleabile e al tempo stesso raccoglie durevolmente le impressioni, allora vi saranno corretti ricordi, pareri veri e quindi sapienza. Quando vi sarà un difetto nella cera o per scarsa o eccessiva malleabilità, oppure per impurità, l'anima sarà meno buona: chi ha cera (troppo) malleabile è perspicace ma smemorato, chi invece ha cera (troppo) dura il contrario. Le anime più meschine sommeranno questi difetti.

Socrate sembra aver dunque scoperto che "il falso parere non risiede nel rapporto reciproco fra le sensazioni e neppure fra i pensieri, ma nel contatto fra sensazione pensiero" (195 c-d) … ma ne siamo proprio sicuri?

 

Scambio tra pensieri: autoconfutazione di Socrate

Socrate conviene che è molto difficile pensare a un uomo, considerarlo tale e al tempo stesso pensare a un cavallo, considerandolo tale, e confondere i due (195 d). Ma diversamente accade quando si pensi alla rappresentazione dei numeri. Nell'operazione 5 + 7 = 12 è proprio vero che nessuno si sia mai sbagliato? Facendo la somma mentale di questi numeri, quando piccoli, è difficile sbagliarsi, ma quando grandi è molto più facile. In questo caso accade proprio che si pensa che ciò che si sa sia un'altra cosa dalle cose che pure si sanno. Allora bisogna dire che il falso parere in realtà non risiede solo nel rapporto pensiero-sensazione. “Se fosse questo non potremmo mai cadere in errore nell’ambito degli oggetti del pensiero” (196 C), allora bisogna escludere che il falso parere risieda nel rapporto pensiero-sensazione. Ma se l’errore è nell’ambito stesso del pensiero accadrà, in modo inaccettabile, che non si sa quello che pur si sa. Il ragionamento è preso in un’alternativa impossibile: o non esiste il parere falso perché è impossibile confondersi nel proprio pensiero, oppure si finisce per non sapere ciò che è pure nostro possesso di pensiero. 

L'unica alternativa sembra che sia rifiutare la possibilità di un parere falso. Teeteto dice sconsolato che Socrate gli propone una strada senza via d'uscita. Nondimeno, secondo Socrate, si possono fare passi avanti, ma li si fa solo se si chiarisce che cosa è l'atto del conoscere. Finora, infatti, si sono usati termini come “conosciamo”, “sappiamo” o “non sappiamo”, senza aver chiarito fino in fondo il presupposto concettuale necessario cioè la conoscenza, ossia l'atto del conoscere.

 

La colombaia

Qui Socrate introduce la distinzione tra possedere una conoscenza e averla a disposizione, facendo il parallelo tra possedere un mantello e indossarlo. Sulla base di questa distinzione egli propone l'immagine dell'anima come se in essa ci fosse una colombaia con dentro uccelli di tutti i tipi, che rappresentano le conoscenze. Dunque, le conoscenze acquisite sono stipate nell’anima, così come lo sono gli uccelli nella colombaia. Successivamente chi le vorrà aver effettivamente a disposizione, le cercherà lì dentro come colui che nella sua colombaia va a prendere un uccello che vuole avere fra le mani. 

Il matematico, per esempio, conosce tutti i numeri. Poi quando fa di conto va in cerca dei numeri che gli interessano nella sua anima. Allora relativamente alla conoscenza si può costruire l'immagine della caccia (thera) e del possesso  in parallelo con quello delle colombe. La caccia è di due specie: la prima ha per fine il possesso stesso; la seconda interessa colui che è già possessore e ha per fine il prendere e tenere fra le mani quel che si possedeva già da tempo, cioè l'avere a disposizione effettivamente. Così è per la conoscenza: prima c'è l'apprendimento, poi c'è la ripresa e la gestione effettiva di quel che già si era appreso (198 d).

In questo modo, se rimane impossibile non conoscere ciò che già si sa, è possibile, tra le proprie conoscenze, afferrare un falso parere: “Si può infatti avere in mano non la conoscenza giusta, ma una diversa da quella richiesta: a caccia di conoscenze che svolazzano qua e là, uno può fallire il colpo e prenderne una per un’altra” (199b). A questo punto sorge un altro problema, anche ammessa la differenza tra una conoscenza attuale (quella catturata) e una latente (la colombaia), quando la conoscenza latente diventa attuale ci si dovrebbe ben accorgere che non è quella giusta e quindi evitare di proferire un falso parere, ossia un giudizio. Com’è che questo non avviene? E se questo non avviene il falso giudizio continua ad essere un non conoscere ciò che in realtà si dovrebbe conoscere. La soluzione potrebbe essere quella che nella colombaia ci siano conoscenze e non-conoscenze concernenti lo stesso oggetto. Cosicché il falso parere sarebbe l’afferrare una non conoscenza. Ma qui ritorna nuovamente il problema di chi è consapevole di formulare un falso parere, come può essere consapevole di qualcosa che nemmeno conosce? Si ritorna cioè ad alcuni casi della tabella riconosciuti come impossibili (credere che una cosa conosciuta sia un’altra che però non è conosciuta; credere che una cosa che non si sa sia una che pure non si sa, non conoscendo entrambe) oppure, pensando che conoscenze e non conoscenze siano oggetto di altre conoscenze, si ritiene che chi possiede tali (meta)conoscenze è come se possedesse un’altra (meta)colombaia di conoscenze, che però sono tali solo in forma latente e mai in forma attuale (200 b-c), riproducendo sostanzialmente le stesse aporie della prima colombaia. Si tratta di un ginepraio di contraddizioni da cui non si esce se non si sa che cosa è conoscenza.

QUARTA PARTE: RITORNO AL TEMA DELLA CONOSCENZA: IL PARERE VERO

 La conoscenza

Che cosa è la conoscenza? A tale domanda Teeteto risponde ipotizzando che essa coincida con il parere vero, non soggetto a errore, da cui derivano conseguenze sempre belle e buone (200e). Socrate risponde con una prima confutazione. I giudici in tribunale, ascoltando retori e testimoni non si formano un parere, anche vero, sulla base di una conoscenza (diretta dei fatti), ma di rapporti altrui. Quindi può esistere un parere vero senza che questo sia conoscenza. Allora Teeteto modifica il tiro: la conoscenza, diceva un tale (forse un richiamo ad Antistene, forse, con un po’ di ironia, ad una precedente dottrina socratico/platonica), è un parere vero sorretto da una spiegazione (logos). 

A questo punto sul tema del logos c’è un excursus. Socrate approfondisce la questione del logos come un intero, cioè un discorso, composto di elementi primi, le parole. Su questo tema egli fa un’ipotesi al posto di Teeteto e questa ipotesi è così ardita che coincide con un “SOGNO”. Dunque, ammettendo che la conoscenza sia una doxa accompagnata da logos, bisogna constatare, dice Socrate, che comunque gli elementi primi di cui sono composte tutte le cose non ammettono spiegazione, ma solo il loro nome, diversamente da quelli composti che si spiegano con l’intreccio degli elementi primi e dei loro nomi . Insomma i nomi degli elementi primi, intrecciandosi formano un discorso, che è ciò che noi chiamiamo spiegazione (logos - 202 b): “Perciò l’intreccio dei nomi è la sostanza del discorso”. Gli elementi primi non si conoscono e sono oggetto di sensazione, mentre le loro combinazioni sono “dicibili e passibili di parere vero” (202c). Ci può essere un parere vero su qualcosa, ma senza spiegazione (cioè senza un intreccio di nomi che lo spieghi), in modo che uno è nel vero senza capire, dunque ha un parere vero, ma senza conoscenza. E viceversa ci può essere un parere vero cui si aggiunge la conoscenza, cioè la spiegazione attraverso l'intreccio dei nomi. Come è possibile però che gli elementi non siano conoscibili, ma lo siano le loro combinazioni (202e)? 


Sillabe e lettere

Proviamo a esaminare le parole e le sillabe e vedere se ciò funziona (202e). Se le sillabe spiegano le parole, le lettere dovrebbero spiegare le sillabe. La lettera S + la lettera O spiegano infatti la sillaba SO di Socrate. Ma si possono allo stesso modo spiegare le singole lettere? Evidentemente no. Ma se si capisce la sillaba si dovrebbero capire anche le sue lettere. Se ciò è vero, come è possibile che si capisca qualcosa, le lettere, di cui abbiamo prima detto che, in quanto elementi primi, non vi è spiegazione?

Se la sillaba invece non si riducesse alle lettere, ma ad una loro configurazione (eidos), con una sua propria forma (idea) diversa dalle lettere? Ma se c’è un intero, come la sillaba, esso non può che essere la somma delle sue parti, a meno di non affermare che l’intero è diverso dalla somma delle sue parti. Potrebbe essere il tutto somma delle parti e non l’intero, diversificando tutto (pan) e intero (olon - 204b). Ma definendo appropriatamente il tutto come ciò cui non manca nulla, esso viene a coincidere con l’intero, che ha la stessa definizione (205a). Pertanto se la sillaba non coincide con le sue parti, allora è diversa da un intero/tutto e le lettere non saranno le sue parti. Se invece coincide con l’intero tutto, le lettere saranno le sue parti ed esse dovranno essere conoscibili quanto l’intero. Ma se la sillaba ha parti, queste non possono essere che le sue lettere.

Se la sillaba è una forma unica e indivisibile e dei primi elementi non vi è logos, allora tale forma unica e indivisibile è come un elemento, cioè priva di logos.

Quindi si danno queste due possibilità:

1) la sillaba coincide con le sue lettere e forma un intero di cui le lettere sono parti. Se le sillabe sono conoscibili, lo devono essere anche le parti, essendo le parti identiche all’intero.

2) La sillaba è un’unità priva di parti e sarà inconoscibile, in quanto elemento primo, esattamente come la lettera.

Quindi non è possibile dire che la sillaba è conoscibile, ma non lo sono le sue parti. Non è possibile separare il destino della sillaba e delle sue parti. 

Ciò che accade nella realtà è che per conoscere un intero, come la scrittura o la musica, bisogna partire dalle sue parti, le lettere e i suoni, sapendole gestire nella loro corretta collocazione. Pertanto gli elementi hanno per esperienza una conoscibilità molto più grande delle loro combinazioni (206b). Quindi non si può dire che la combinazione è conoscibile e non lo sia l’elemento primo (206b). Di conseguenza non funziona l’idea di una spiegazione logos che sia un intreccio di nomi le cui componenti siano inconoscibili. 

La dottrina espressa nel sogno non funziona e deve pertanto procedere a trovare un altro concetto di spiegazione

Significato del termine spiegazione

Ma che cosa vuol dire spiegazione? Vi sono tre possibilità:

1) immagine del pensiero impressa nella voce: quando la voce esprime un certo pensiero;

2) rassegna degli elementi che portano all’intero

3) indicazione del carattere distintivo di qualcosa (207c)

1) Se è questa, allora spiega chiunque sappia parlare e il logos non aggiunge nulla di esplicativo alla cosa e non ci potrà mai essere un parere senza spiegazione e dunque senza conoscenza (206e).

2) Si possono enumerare le parti senza averne conoscenza, mediante una pura arte combinatoria, mentre la vera conoscenza è percorrere l’essenza attraverso le parti (207b), cosa che non si fa e non è necessario fare quando si apprendono le parti di qualcosa, come per esempio le parti del linguaggio intese come corretta dizione delle parole e ortografia. Queste ultime cose si imparano esattamente come una semplice arte combinatoria (208a). Quindi ci può essere un retto parere con spiegazione, cioè enumerazione delle parti, ma questa spiegazione non trasforma il retto parere in conoscenza.

3) Indicare un tratto distintivo di una cosa lo si può fare senza conoscenza. Come quando per esempio formulo un parere su Tizio, che, essendo su Tizio e non su Caio, deve implicare l’indicazione della differenza tra Tizio e Caio, ma non comporta necessariamente la conoscenza di Tizio (209 b-d). In questo modo l’aggiunta di una spiegazione al retto parere non sarebbe altro che l’aggiunta di qualcosa che è già contenuta nel retto parere, e risulta quindi una pura tautologia (210a).

 

Conclusione

Riassumendo la conoscenza non potrà essere né una sensazione, né un parere vero, né una spiegazione che accompagna un parere vero. Riguardo al tema della conoscenza, pur avendo detto molto, si è ancora “gravidi e in preda alle doglie”. Grazie a tale indagine Teeteto potrà rimanere “incinto” di altri e migliori pensieri. Se invece non vorrà svilupparla, rimarrà vuoto, ma non penserà di sapere ciò che non sa (ouk oiomenos eidenai a me oistha - 210 c). Questo è in fondo lo scopo dell’arte ostetrica che unisce la mamma di Socrate e lui stesso, l’una con le donne incinte, l’altro per i giovani nobili e per coloro che sono belli.

 N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.