PRIMA PARTE: COMPARSA
DEI PERSONAGGI; IMPOSTAZIONE DEL TEMA (CHE COSA È LA CONOSCENZA?); OSSERVAZIONE
SULLA MAIEUTICA
Premessa
Euclide e Terpsione si incontrano mentre il secondo di ritorno dai campi ed
Euclide ha accompagnato per un tratto Teeteto reduce malconcio da una
battaglia. Ciò è occasione per ricordare le virtù di Teeteto e un dialogo da
lui avuto con Socrate, dialogo che lo stesso Euclide ha trascritto nei suoi
appunti. Così i due personaggi decidono di leggerlo con l'aiuto di uno
schiavo.
Entrata in scena dei personaggi
Il testo ha come protagonisti Socrate, Teeteto e il matematico Teodoro.
Euclide dice di aver scelto la forma drammatica e non epica perché non dare
noia al lettore e, diciamo, per essenzialità. Noi sappiamo che tale forma
descrive la comunità ideale dei filosofi come oggetto compiuto senza bisogno di
abbellimenti che rendano la scena più etica (143c). Si inizia con un elogio di
Teeteto fatto da Teodoro. Questi dice che il ragazzo è stupefacente per
capacità ed è in grado di apprendere ciò che ad altri è difficile. Tra le
tante qualità, possiede anche quella di essere generoso nel maneggiare il
denaro. Socrate comincia a parlare della somiglianza tra lui e Teeteto, così
come l'aveva adombrata Teodoro. Tuttavia, siccome Teodoro non ne sa molto di
somiglianza, non essendo un disegnatore, non bisogna dargli troppa retta.
Teeteto viceversa deve dar prova delle lodi che gli ha fatto Teodoro. Il
ragazzo si mostra disposto a imparare da Teodoro e da chiunque sappia e sia
esperto in qualche disciplina. Questo discorso suscita la domanda su che cosa
significhi imparare. La risposta di Socrate in forma dubitativa allude al
processo per cui si accresce la propria sapienza, laddove la sapienza rende gli
altri sapienti. E che cos'è la sapienza se non la conoscenza? Certamente la
sapienza (sofia) è conoscenza (episteme - 145 e): a questo punto si può
ulteriormente domandare che cosa sia la conoscenza.
Prima di parlare del tema: la necessità dell’essenza e la maieutica
E qui (145 e) inizia la prima parte del dialogo con la prima risposta che
dà Teeteto, solo preceduta da un'affermazione che viene subito superata: le conoscenze
sono le varie tecnai, le arti, i saperi e le abilità di cui è possibile
un’enumerazione. Enumerare le conoscenze, tuttavia, non vuol dire
definire la conoscenza in sé e per sé. Se si citano le conoscenze senza
sapere che cosa è la conoscenza, cioè la sua essenza, non si capisce di
che cosa si parla a proposito delle singole conoscenze. In effetti, durante
una lezione di Teodoro sul concetto di quadrato, a Teeteto viene in mente di
individuare l'esempio matematico di come si raduna una molteplicità di numeri
diversi sotto un unico genere e un'unica definizione, quella appunto di
quadrato. Ebbene, la stessa cosa si dovrebbe poter fare attorno al tema della
conoscenza, dato il fatto che i dialoganti concordano che il problema sia degno
di un’indagine approfondita.
Ciò è occasione per un'altra premessa di Socrate. Egli precisa di
esercitare la stessa arte di sua madre Fenarete (colei che fa apparire la
virtù). Egli riporta anche una diceria sulla sua presunta eccentricità e
sul fatto che mette al vaglio certezze agli altri (facendole crollare). Questo
perché non fornisce conoscenze ma al contrario consente agli altri, che ne sono
pregni, di partorire le proprie. Socrate, insomma, fa la stessa cosa che
fa una levatrice, solo che nei confronti di uomini, di anime, e relativamente
al pensiero dei giovani e ai suoi frutti, cioè la verità o la falsità. Chi sta
con Socrate, e lo ascolta, ha quindi le doglie e questo è il dolore che si
accompagna al parto della verità. Ed è proprio questo che sospetta Socrate nei
riguardi di Teeteto: che abbia le doglie. Così il maestro chiede al ragazzo se
è disposto a parlare con lui per valutare se è in procinto di partorire una
verità oppure una qualche falsità, e questo lo si farà mettendo alla prova le
sue conoscenze nel dialogo.
SECONDA PARTE:
DISCUSSIONE SUL RAPPORTO CONOSCENZA-SENSAZIONE; TRATTAZIONE DEL RELATIVISMO DI
PROTAGORA E DEL MOBILISMO DI ERACLITO
Prima risposta di Teeteto: la conoscenza è sensazione (riferimenti a
Protagora ed Eraclito)
Ecco allora che alla risposta positiva di Teeteto inizia la vera e propria
argomentazione a partire da una definizione di conoscenza che nel dialogo viene
fatta risalire a Protagora (151 e): chi sa, sente quel che sa, dunque la
conoscenza è sensazione. Ma la sensazione è qualcosa che appartiene al
singolo uomo, pertanto "ciascuna cosa è per me quel che appare a me, ma è
per te quel che appare a te: uomo sei tu, uomo sono io". Ciò conferma
quell'assunto fondamentale secondo cui, per il sofista, "l'uomo è misura
di tutte le cose: di quelle che sono per come sono, e di quelle che non sono
per come non sono" (152 a). Esempi che si possono avanzare di sensazioni
che sono diverse a seconda dei diversi individui confermerebbero la tesi di
Protagora. Siccome, però, per ognuno le cose sono tali quali uno le sente, e su
questo non è possibile alcuna forma di confutazione, per ciascuno, la
conoscenza, per mezzo della sensazione, è assolutamente infallibile.
Ma qui comincia una prima osservazione: Protagora, dice Socrate, presenta
la sua tesi come una verità, e quindi non in modo relativistico, come dovrebbe
essere in relazione al suo assunto di partenza sull'uomo misura. Sembra allora
che tale dottrina abbia un fondamento esoterico non relativistico, diverso dal
relativismo che egli ha manifestato a prima vista. Tale fondamento
esotericamente non relativistico è la verità secondo cui tutto ciò che
esiste è in continuo movimento: dallo spostamento, dal moto e dalla
mescolanza delle cose fra loro vengono fuori tutte le cose che noi, con parole
scorrette, diciamo che esistono. Nulla, infatti, mai esiste: le
cose sono sempre in divenire"(152 d). A favore di questo mobilismo
c'è l'argomento secondo cui il moto, la vita e l'essere sono fenomeni
strettamente legati. In particolare, il moto dell'anima è l'apprendimento e con
esso l'anima migliora la sua condizione. Ed è propriamente nel moto che si
generano le sensazioni che stanno alla base dell'apprendimento.
Come si generano le sensazioni?
Ma qual è il loro modo di generarsi? (154 a). Le sensazioni non vengono né
dall'oggetto, né dal soggetto, ma precisamente dalle qualità che l’oggetto viene
ad avere nell'impatto con i sensi. In questo impatto diverso è il soggetto
cui appaiono le cose, perché sempre in divenire; diverso è l'oggetto della
sensazione; ossia: la sensazione è prodotta da un oggetto in divenire che si
“scontra” con un soggetto parimenti in divenire che possiede gli organi di
senso. Così "ogni cosa che chiameremmo colore, per esempio, non sarà né il
soggetto, né l’oggetto dell'impatto, ma qualcosa venuto fuori nel mezzo e
diverso per ognuno" (154 a). Quindi, come accade per il soggetto, anche un
oggetto non esiste con una qualità fissa.
L’obiezione dei dadi: essi assumono caratteri diversi pur rimanendo in sé
immutati
Contro questa prospettiva Socrate fa il famoso esempio dei dadi (154 c).
Prendiamo un insieme di dadi: essi sono in un certo numero, per esempio sei ma,
se vengono accostati a un insieme di quattro, si direbbe che sono di più;
mentre accostati a uno di dodici, si direbbe che sono di meno. Quindi,
rimanendo immutati, essi sarebbero al tempo stesso più e meno.
Nondimeno questa è una prospettiva solo apparentemente vera, ma in realtà di
carattere sofistico. L'esempio dei dadi dimostrerebbe che non sono veri i seguenti
assiomi:
1) ciò che è uguale non può essere maggiore o minore;
2) ciò che non accresce o diminuisce rimane uguale;
3) è impossibile il passaggio dal non esistere all'esistere senza un
divenire.
Teeteto rimane sgomento
da questo ragionamento, ma Socrate ribatte che la meraviglia è il sentimento
del filosofo (155 d). Dal mobilismo di Protagora/Eraclito si possono dedurre i
seguenti elementi: tutto è moto, l'essere visibile infatti si muove, dal sensibile
viene la sensazione e il sensibile nasce insieme alla sensazione. In questa
nascita sia l'organo di senso sia l'oggetto della sensazione sono in moto.
Sicché "da tutto questo risulta proprio quello che dicevamo al principio:
niente esiste in sé e per sé, ma sempre diviene in relazione a qualcosa e
l'esistere va estirpato da ogni luogo" (157 a-b). In questa logica il
rimanere sei dei dadi è solo apparente, perché nell'infinita trama delle cose
essi realmente non hanno una propria consistenza bensì il loro essere è dato
dal loro divenire nelle relazioni. Dunque, in tale logica l’obiezione non
funziona perché, se è la relazione a definire l’insieme dei dadi, tale insieme
mutando le sue relazioni con i diversi insiemi cui viene accostato, non rimane
lo stesso (cfr. ibidem).
L’argomento della fallacia delle sensazioni nei soggetti malati o dormienti
o collocati in particolari circostanze, e la sua confutazione
Teeteto afferma che il discorso "sembra filare a meraviglia"
(157d), cioè che il mobilismo di Protagora e la visione della
conoscenza-sensazione sempre vera funzioni. Tuttavia, Socrate fa presente
alcuni problemi: i sogni, le malattie, quando si dice di sentire le voci, o di
avere le traveggole sono testimonianze che in questi momenti si viene traditi dai
sensi. Quindi esistono sensazioni false. O addirittura non vi è possibilità di
distinguere, tant'è vero che nel sogno e nella veglia ugualmente l'anima
sostiene che i suoi pareri siano veri, pareri che peraltro non vi è possibilità
di distinguere sotto il profilo quantitativo, perché il tempo del sonno e della
veglia è più o meno lo stesso. Il problema si risolve, secondo Socrate, in
questa maniera: una cosa che sia completamente diversa da un'altra non può mai
avere qualcosa di uguale a questa (158 e). Ma quando le cose in diverse
relazioni con altre si assimilano di volta in volta agli oggetti con cui
entrano in relazione e in questo modo divengono esse stesse diverse, questo
genera un infinito numero di soggetti e di oggetti che si mescolano in infinite
combinazioni. Dunque, Socrate ammalato è diverso da Socrate sano
(159b): essi sono due diverse identità perché in essi Socrate si è assimilato
di volta in volta alla malattia e alla salute, diventando prima una cosa e poi
un'altra. Allo stesso modo nella sensazione i diversi elementi attivi, cioè gli
oggetti (attivi perché provocano le sensazioni), incontrandosi con diversi
elementi passivi, cioè i soggetti (passivi perché ricevono le sensazioni negli
organi di senso) come, per esempio, di volta in volta Socrate sano e Socrate
malato, genereranno cose diverse, cioè diverse sensazioni. Dunque, per
Socrate sano il vino sarà dolce, per Socrate malato il vino sarà amaro (159
d-e; e ciò vale anche per Socrate sveglio e Socrate dormiente, n.d.r.). Di
conseguenza rimane confermato che se accade sempre che l'oggetto è per il
soggetto, esso è sempre tale e quale il soggetto lo sente, quindi ognuno di noi
è giudice insindacabile delle cose che sono per come sono e di quelle che non
sono per come non sono. Infine, rimane anche vero che non sia possibile alcun
errore.
Nuovi argomenti contro l’uomo misura e l’equivalenza conoscenza-sensazione:
anche gli animali hanno sensazioni, udire parole in altre lingue, ricordare
cose conosciute di cui non si ha sensazione
Sembra allora che si possa concludere che la conoscenza è sensazione.
Questo è il parto che Socrate ha fatto avvenire. Tuttavia, egli ritiene
necessario ulteriormente provarlo con discorsi, per appurare definitivamente la
sua verità o falsità.
Innanzitutto, si potrebbe domandare perché Protagora ha detto che misura di
tutte le cose è l'uomo e non un altro animale capace di sensazione, degradando
l'uomo al cane o al girino (161 c-d). Inoltre, se nessuno può valutare il
parere di un altro, perché la conoscenza è sempre vera, allora ciascuno può
giudicare solo le sue esperienze e anche Protagora non potrebbe affermare le
sue idee come migliori di quelle di qualsiasi interlocutore (161 d-e). Insomma,
se l'uomo è misura, è inutile dialogare. In realtà sembra che, nella sua
inconfutabilità, la misura di Protagora renda indifferenti e parifichi dei e
uomini (162 c), e Teeteto ha creduto alla tesi della conoscenza-sensazione solo
perché è giovane e dà troppo ascolto a discorsi fatti per la folla e un po'
sofistici.
Tuttavia, Socrate si immagina che Protagora lo rimproveri di
superficialità, perché le argomentazioni opposte sono piuttosto affermazioni
paradossali che non prove cogenti. Per rispondere a Protagora bisognerebbe
riprovare ad analizzare il tema nuovamente e rivedere le proprie posizioni. A
questo punto vengono fuori le argomentazioni per cui noi cogliamo con la
sensazione le parole dei barbari ma non le conosciamo e se degli analfabeti
vedono delle lettere, pur avendone sensazione, in realtà non le conoscono (163
b-c).
Inoltre, se avere sensazioni, come per esempio il vedere, significa
conoscere, e non averle significa non conoscere (164 a-b), ci si troverebbe
nella condizione per cui chi ricorda qualcosa ad occhi chiusi, quindi non
vedendo, non avrebbe conoscenza della cosa che pur ricorda, e questa sarebbe
una mostruosità. Di conseguenza il conoscere non può coincidere con la
sensazione.
Socrate difende Protagora: chi si mette dalla parte di Protagora deve stare
attento ai mercenari della parola (164 e ss)
Soccorrendo Protagora, Socrate sottolinea come i suoi avversari, giocando
con le parole, possano accusarlo di ammettere cose impensabili, per esempio,
l'enormità secondo la quale è possibile che chi conosce non conosce quel che
conosce. Infatti l’avversario di Protagora dirà al sostenitore della
conoscenza-sensazione che se uno chiude gli occhi a Tizio e gli chiede se vede
il suo mantello, Tizio risponderà che vede (con un occhio) ciò che non vede
(con l'altro). Ma, se vedere equivale a conoscere, e il non vedere è non
conoscere, uno si troverebbe a conoscere ciò che non conosce e a non conoscere
ciò che conosce. Questi ed altri sono i possibili agguati di quelli che
chiameremmo mercenari della parola cui si espongono quelli che sostengono
l'equivalenza di conoscenza e di sensazione.
Socrate difende Protagora
Di fronte agli argomenti che abbiamo ora portato, prima di tutto Protagora
noterebbe che, se è vero come è vero, che è impossibile che un ricordo
rappresenti esattamente l'oggetto quale era nella sensazione originaria, allora
è anche vero che il ricordo è diverso strutturalmente dalla sempre vera
sensazione originaria (166 b), ciò perché dalla sensazione al ricordo è passato
del tempo che può aver modificato la verità della sensazione. Questi
cambiamenti possono determinare l’evento apparentemente paradossale per cui uno
sa e non sa la stessa cosa. In realtà non è lo stesso soggetto che sa e non sa,
ma sono due soggetti diversi cioè il soggetto-che-sa è quello che ha avuto la
sensazione; quello che-non-sa è colui che ricorda a distanza di tempo e non ha
presente i caratteri originariamente comunicati dalla sensazione (166 b-c).
Infine Protagora dirà che le cose sono come appaiono a ciascuno, ma il
sapiente sarà in grado di mutare questa apparenza, facendo in modo che le cose
che appaiono e sono cattive, appaiano e siano buone (166 d). Essere sapienti,
infatti, significa favorire una condizione migliore, non stabilire
teoreticamente ciò-che-è, perché su questo tema ognuno ha la sua idea vera.
Così come il medico favorisce la salute del corpo mediante i farmaci, allo
stesso modo il sofista favorisce la salute dell'anima mediante i discorsi e,
sempre mediante i discorsi, il retore capace e sapiente produce pareri giusti
in luogo di quelli cattivi. Quindi le conoscenze non sono mai più o meno vere,
ma sono più o meno utili. Ciò vale anche per l'educazione: bisogna educare non
al vero ma al meglio. Infatti, quello che fa Protagora non è cercare
l'oggettività nella correzione all'interno del dialogo e in vista del mutamento
di opinione dell'interlocutore, non è indagare una verità conoscitiva, ma è un
reindirizzamento pratico del soggetto. A quest'ultimo proposito Protagora
ribadirebbe la sua tesi, chiedendo che sia discussa seriamente (168 c).
Ripresa delle tesi di Protagora e loro confutazione (peritropé)
Bisogna allora ricominciare a fare sul serio riguardo alle tesi di
Protagora. In questo frangente Socrate chiede a Teodoro di farsi coinvolgere
nuovamente nel dialogo (169 a-d). Dunque, prosegue con lui. Egli vuole
sincerarsi di trattare realmente un argomento protagoreo e prende dunque spunto
dalla tesi secondo cui quel che sembra a ciascuno è per lui anche vero. Egli
nota che in alcune situazioni di difficoltà è normale affidarsi a chi si
ritiene più sapiente e che questo implica un giudizio e una differenza tra la
sapienza e l'ignoranza. Ciò implica che non tutti i pareri sono veri e che di
fronte a un certo parere (doxa) è sempre possibile che qualcuno lo
giudichi falso. Se tuttavia uno pensa che ciascuno ha la sua verità e una certa
tesi è vera per una certa persona, egli si troverà in difficoltà quando molte
persone avranno una tesi contraria alla propria. Perché, se per ognuno è vera
la sua verità, allora è vera la verità di chi ha parere opposto al suo. Dunque,
dovrebbe ammettere che l'opinione falsa è la sua. Se chi dice l'opposto di
Protagora ha un parere vero, nessuno può essere misura di nulla perché la sua
misura scomparirà di fronte al parere opposto. E questo accadrà a maggior
ragione se la verità di Protagora fosse criticata da tutti: essa non potrebbe
essere vera per nessuno, né per qualcun altro né per lui stesso (172 c).
Inoltre, se nelle sensazioni immediate la verità è ciò che appare al soggetto,
nelle cose più importanti, come la salute gli affari della città anche i
seguaci di Protagora finiscono per ammettere che vi debbano essere pareri
vincolanti, come quello della intera città nel momento in cui si forma e per
tutto il tempo che rimane saldo (173 b).
Digressione sui filosofi e i loro avversari
Teodoro e Socrate hanno evocato un tema assai importante ma, ciònonostante,
osserva Socrate, i filosofi se dovessero parlare in un tribunale finirebbero
per fare la figura di parlatori ridicoli. I filosofi, infatti, sono coloro che
con calma e agio non saltano le tappe e giungono, pur lentamente, alla verità.
I retori, viceversa, nei tribunali, incalzati, ansiosi e fatti meschini da una
sorta di lotta per la vita (dalla vittoria nelle cause, infatti, molto spesso
dipende la vita) non hanno modo di sviluppare ragionamenti complessi e
veritieri. I filosofi non risultano servi dei loro discorsi che vengono
conclusi quando a loro stessi pare giusto, e non secondo la volontà di un
giudice o di uno spettatore (173 c). A questa prospettiva esplicitata da Socrate
e su cui Teodoro converge, Socrate stesso aggiunge l’enunciazione di
un’opinione comune sul filosofo astratto e fuori dal mondo, di cui il distratto
Talete sarebbe un prototipo e che mostrerebbe grande goffaggine e incapacità
nei tribunali. Costui si attirerebbe anche l'astio dei cittadini per la sua
tendenza a non tenere conto delle opinioni comuni e del prestigio degli
antenati. Il filosofo, contro tale opinione, si volge invece alle cose che
contano veramente: la giustizia in sé, l'ingiustizia e la loro reale
differenza, la felicità, l’infelicità e come perseguire l'una e fuggire
l'altra. Di fronte a questi argomenti, il filosofo si esprime con competenza,
facendo apparire ridicoli e meschini il leguleio e l'oratore dei tribunali.
Teodoro sostiene che sarebbe molto bello se Socrate persuadesse di questi
argomenti la generalità delle persone. In questo modo si diminuirebbe il numero
dei mali (176 a). Socrate ribadisce che non è possibile eliminare le figure
negative e il male degli uomini. Ma proprio per questo bisogna proporre loro il
modello più veritiero di vita, che consiste "nel farsi simile a Dio nella
misura del possibile" (176 b), elevandosi agli dei, laddove non esiste il
male. Questa è la vera virtù che manifesta tutta la sua superiorità su tutte le
abilità e le conoscenze apparenti che si manifestano nel potere politico. Le
finte conoscenze sono al contrario fatte proprie dai furbi e dai praticoni che
accusano i filosofi di essere imbecilli mentre invece lo diventano essi stessi,
loro malgrado. Costoro cadono in una pena inevitabile data dalla loro stessa
ignoranza e dal fatto che hanno scelto, tra il paradigma divino felice e quello
senza Dio e sommamente infelice, il secondo. La loro sfrontatezza e le loro
astuzie li portano a considerare i filosofi pazzi ma in una conversazione
privata la loro retorica crolla, "al punto che fanno la figura dei
bambocci" (177 c).
Le questioni della città e il loro peso
Riprendendo il discorso di prima, dopo la dichiarazione, Socrate nota che
se Protagora ha detto che il parere per ciascuno è quello vero, nelle questioni
relative alla città le cose sono più delicate e complesse: non basta la convinzione
dell'utilità di un provvedimento, ma bisogna andare oltre le questioni
puramente retoriche e nominali e giudicare la cosa stessa. Che l'opinione possa
sbagliare è confermato dal fatto che le leggi per la città hanno come scopo
l'utilità e tale obiettivo a volte si raggiunge a volte no. In generale si può
dire che i provvedimenti decisi nelle città sono rivolti al futuro. Funziona il
criterio di Protagora per il futuro? È vero anche in questo caso che di tutte
le cose l'uomo è misura? Riguardo agli eventi futuri, risulta molto chiaramente
che conviene affidarsi a chi è esperto, perché il suo parere ha molte più probabilità
di essere confermato. In questo caso è evidente che il medico sarà più sapiente
del non medico circa la salute e l'agricoltore sarà più sapiente del citarista
circa la dolcezza del vino. Nella città, in particolare, solo il sapiente sarà
considerato misura e sarà più facile cogliere la falsità di chi fonda la
propria convinzione solo sulle sensazioni (179c). Di conseguenza risulterà
difficile ammettere che tutti i pareri sono veri.
Verso una critica ontologica: l'eraclitismo (179c)
Andando più a fondo, bisogna mettere alla prova l'ontologia che sta alla
base del discorso di Protagora e riferirsi a Eraclito. Tuttavia, non è
possibile discutere con i pensatori che fanno capo al gruppo di Efeso che
sembrano tarantolati e mancano di metodo, presi dentro come sono nel loro
mobilismo assoluto. Essi sono esperti in paroline enigmatiche e rifiutano
l'obiettivo di pareri stabili, poiché conducono una lotta senza esclusione di
colpi contro la stabilità stessa. Questo impedisce loro di formare una scuola,
perché non trasmettono una dottrina con una sua identità, ma ognuno di loro è
preso come da un invasamento divino. Pertanto, è inutile parlare con loro ma
bisogna, dice Socrate, che noi stessi ci facciamo carico di discutere le loro
posizioni. "Tutto si muove" è la loro prospettiva, divenuta ormai
popolare e apparentemente confermata da antichi e moderni.
La loro è una posizione opposta è quella degli eleati secondo cui tutto è
uno e sta fermo in se stesso. Bisognerà pertanto prendere in esame sia i
mobilisti sia gli immobilisti e, se poi ci sembrerà che né gli uni né gli altri
dicano qualcosa di sensato, ci copriremo di ridicolo perché avremmo scartato
uomini antichissimi e sapientissimi. Vedi un po' se ci conviene avanzare verso
un simile pericolo, afferma Socrate. Che cosa intendono i mobilisti quando
dicono che tutto si muove? Muoversi può voler dire spostamento locale o alterazione.
Tutte le cose si muovono per spostamento, cioè cambiamento di luogo, e
alterazione, cioè mutamento delle proprie caratteristiche, oppure qualcosa per
spostamento e alterazione, qualcosa per spostamento e infine qualcosa solo per
alterazione? Bisogna dire che tutto si muove in entrambi i sensi, altrimenti si
finirebbe per affermare che le cose si muovono e stanno ferme nello stesso
tempo (ciò di cui mutano i caratteri e che è immobile nello spazio, muta e sta
fermo al tempo stesso, n.d.r.). Abbiamo altresì detto che la sensazione emerge
nell'incontro tra soggetto e oggetto: se tutto si muove, dal punto di vista
dell'oggetto non vi sarà alcuna sua qualità data e stabile, come per esempio la
bianchezza, ma una solo sentita, come per esempio il bianco; dal punto di vista
del soggetto, egli non sarà un sensibile bensì solo un senziente (non c’è
un’identità definita dell’oggetto come “cosa”, né una del soggetto come ente
sostanziale che ha determinate facoltà, le quali poi si mettono in relazione
con l’oggetto, esisterebbe viceversa solo il
soggetto-in-relazione-con-l’oggetto n.d.r.). Se il moto consistesse solo nello
spostamento potremmo dire le qualità che hanno gli oggetti nel cambiare luogo,
perché rimarrebbero gli stessi oggetti. Ma il moto è anche trasformazione e
allora ciò non sarà possibile. Per esempio, non sarà possibile nominare il
colore di qualcosa, giacché esso sempre cambia, senza parlare in modo
scorretto. Anche dal punto di vista del soggetto la sensazione del vedere e
dell'udire non rimane mai ferma. Di nessuna cosa allora si potrà dire “vedere”,
piuttosto che “non vedere”. Se pertanto nulla è qualcosa piuttosto che il suo
contrario allora anche la conoscenza non è sensazione piuttosto che il suo
contrario, e ogni risposta è ugualmente giusta. I sostenitori di questa
dottrina dovrebbero anche fondare una lingua nuova, perché non esiste un
linguaggio che descriva le cose in movimento (183 B).
Parmenide e l’eleatismo immobilista
Quanto a coloro che sostengono l'immobilità del tutto, Socrate ha ritegno a
esaminare le loro opinioni, in particolare quella di Parmenide (l’opinione di
Parmenide sarà affrontata nel Sofista, n.d.r.). Infatti, egli ritiene
che sia troppo complesso e trattarne ora potrebbe fuori tema. Dunque, propone
di riprendere la tematica della conoscenza come sensazione (184 B).
Ripresa della questione conoscenza/sensazione: protagonista della
conoscenza è l’anima quindi la conoscenza non è sensazione
Ci si domanda se nella sensazione, per esempio nella vista, quest'ultima è
quella parte di noi che vede, oppure è il mezzo che permette a noi che vediamo
di vedere. Gli occhi, dunque, sono la cosa con cui vediamo, oppure quella
attraverso cui vediamo? La risposta è che in realtà l'anima si serve della
vista per vedere. Gli organi di senso appartengono al corpo e ogni organo ha il
suo oggetto specifico. Così è per l'udito e la vista che hanno per oggetto il
suono e il colore. Di tutti e due - suono e colore - si può dire che
esistono, che sono ciascuno diverso dall'altro, che insieme sono due e
separatamente sono uno e si può vedere se sono simili o dissimili fra loro.
Questi caratteri comuni al suono e al colore come si definiscono? Se la
conoscenza è sensazione, ciò è impossibile. Al contrario l'esame dei caratteri
comuni sarà condotto con l'anima, quella facoltà che si esprime attraverso la
lingua e con la quale veniamo appunto a conoscenza dei caratteri comuni
stabilendone l'esistenza. È proprio l'anima che attraverso se stessa, sembra,
indaga quel che a tutte le cose è comune, conclude Teeteto (185 e). Socrate
precisa che l'anima, attraverso se stessa, indaga alcune proprietà (non
corporee), come per esempio l'essere, il pari e il dispari, e attraverso i
sensi indaga le proprietà corporee, come per esempio il duro e la durezza
(mediante il tatto). Le proprietà sensibili si colgono in modo più facile e
immediato sin dall'infanzia; gli altri caratteri, per esempio l'esistenza e
l'utilità, sono più difficili da conoscere e da elaborare. Ma senza cogliere
questi ultimi sarà impossibile cogliere la verità. "Non nelle affezioni
risiede quindi la conoscenza, ma nel ragionamento che ci si costruisce attorno.
È qui che si possono toccare essere e verità, mentre là (nella sensazione)
risulta impossibile" (186 d). Pertanto, bisogna concludere che il sentire
e la sensazione (aisthesis) non permettono di cogliere la verità (aletheia) né
l’essenza (ousia) e nemmeno dunque sono conoscenza (episteme, 186 e).
TERZA PARTE LA
CONOSCENZA COME PARERE VERO CONTRAPPOSTO A UNO FALSO: COM’È POSSIBILE UN PARERE
FALSO?
La conoscenza non-sensibile e il parere falso (I parte)
La conoscenza va quindi cercata nel campo del non-sensibile. Quando l'anima
si arrovella, lavora, si affatica su ciò che esiste, questo si chiama doxazein,
cioè formulare un parere. Che cosa è la conoscenza? Dire che è un parere
qualsiasi non è possibile, visto che esistono pareri falsi (187 d), invece
potrebbe essere conoscenza il parere vero contrapposto a quello falso.
Come accade che ci si possa formare un parere falso? "Giocoforza chi si forma
un parere lo farà a proposito di qualcosa che sa [del tutto] o non sa [per
niente]" (188 a-b). L'apprendimento e l’oblio come stati intermedi fra
questi [cioè come stati intermedi tra il sapere tutto e il non sapere niente]
Socrate li lascia da parte in quanto essi non hanno rilevanza per il suo
discorso. Nel parere falso vengono ad accadere i seguenti fenomeni che lo
rendono problematico: 1) chi formula il parere penserà che ciò che egli sa sia
un'altra cosa, scambiando una cosa con l’altra, cosicché l'una e l'altra al
tempo stesso le sa e le ignora. 2) Oppure egli penserà che ciò che non sa sia
un'altra cosa di quelle che non sa, come se non conoscendo né Teeteto né
Socrate, potesse confondere Teeteto con Socrate e viceversa. 3) In terzo luogo,
egli penserà che quel che sa sia quel che non sa o viceversa. Il che sarebbe
ancora una "mostruosità" (188 c). Quindi, date tali premesse, cioè
che ogni cosa o la sappiamo o non la sappiamo, il parere falso appare
impossibile. Tale ragionamento non funzionerebbe invece ammettendo una
conoscenza parziale.
Il parere falso su ciò che non esiste (II parte)
In alternativa il discorso falso si può definire nel seguente modo:
"Formulare un parere riguardo una cosa che non è" indipendentemente
dalla condizione di sapere o non sapere in cui ci si trova. Ma
- siccome, dando per scontato il fatto che l'uno esiste, chi formula
un parere su un qualcosa implica sempre che questo qualcosa sia almeno uno e
l'uno sicuramente esiste,
- allora chi formula un parere su un qualcosa formula sempre un
parere su qualcosa che esiste.
- Di conseguenza, chi formula un parere su ciò che non esiste formula un
parere su nulla e chi non formula nulla in nessun modo formula pareri (189
a).
Pertanto formulare un parere falso è altra cosa rispetto al formularne uno
su ciò che non esiste.
Il parere falso come scambio di oggetti nel discorso interiore (III parte)
Allora, un'ulteriore possibilità sarebbe che il falso parere sia uno
scambio di qualcosa che esiste con qualcos'altro che pure esiste: "L'atto
di mancare quel che si stava cercando potrebbe a buon diritto chiamarsi falso
parere" (189 c). Quando il pensiero fa questo pensa due cose o insieme, o
una per volta. Ma che cos'è l'atto di pensare? "È un discorso che l'anima fa
con se stessa intorno a ciò che prende in esame" (189 e). Propriamente il
formulare pareri è un discorso compiuto fatto a se stessi in una sorta di dialogo
interiore. In questo caso scambiare l'oggetto del pensiero significa dire a
se stessi che una cosa è un'altra. Tuttavia, nessuno dice mai a se stesso cose
che sa essere false come per esempio che il bue è un cavallo o il due è uno.
Ciò non è possibile se queste cose sono entrambe abbracciate con l'anima. Se il
parere è invece formulato su una cosa sola non si può scambiare una con l'altra
e quindi il falso parere non può essere uno scambio.
Il plastico di cera (191 c)
Però, per evitare paradossi, in qualche modo bisogna ammettere l'esistenza
di un discorso falso. E quindi bisogna proseguire nell'analisi. In realtà, dice
Socrate, non è vero in senso assoluto che è impossibile che quel che si sa
possa essere invece quel che non si sa: infatti si può sapere qualcosa
parzialmente, così come accade quando si sta imparando qualcosa e si impara in
un secondo tempo qualcosa che prima non si sa (191 c). Questo può essere
considerato uno stadio intermedio tra il conoscere e il non conoscere. Per
verificare questa ipotesi supponiamo che l'anima ospiti un plastico di cera
(191 c). Tale plastico trattiene conserva le immagini sensibili in modo
ineguale a seconda della purezza della cera e della sua malleabilità. Nel
plastico si imprimono sensazioni e pensieri. Ciò che rimane impresso si conosce
e si ricorda; ciò che viene cancellato o non riesce a rimanere impresso
plasmando il plastico, si dimentica e non si conosce. Su questa base si possono
ipotizzare i seguenti casi, in cui però il parere falso sembra impossibile,
eccetto che in tre occasioni.
Oggetto X |
Conoscenza nell’anima |
Conoscenza sensibile |
Ricordo (impressione nella cera) |
Oggetto y |
Conoscenza nell’anima |
conoscenza sensibile |
Ricordo (impressione nella cera) |
|
1) L’oggetto X |
Che si sa |
che non si sente |
E si ricorda |
Non può essere scambiato con l’oggetto Y |
Che pure si sa |
Che non si sente |
Ma comunque si ricorda |
Casi che trattano della sola conoscenza |
2) L’oggetto X |
Che si sa |
Non può pensare essere scambiato con l’oggetto y |
Che non si ricorda |
|||||
3) L’oggetto X |
Che non si sa |
Non può essere scambiato con l’oggetto Y |
Che pure non si sa |
|||||
4) L’oggetto X |
Che non si sa |
Non può essere scambiato con l’oggetto Y |
Che si sa |
|||||
5) L’oggetto X |
Che si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che pure si sente |
Casi che trattano della sola sensazione
|
||||
6) L’oggetto X |
Che si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto Y |
Che non si sente |
|||||
7) L’oggetto X |
Che non si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che non si sente |
|||||
8) L’oggetto X |
Che non si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto Y |
Che si sente |
|||||
9) L’oggetto X |
Che si sa |
Che si sente |
Che si ricorda (secondo la sensazione) |
Non può essere scambiato con l’oggetto Y |
Che si sa |
Che si sente |
Che si ricorda (secondo la sensazione) |
Casi che trattano di conoscenza e sensazione |
10) L’oggetto X |
Che si sa |
Che si sente |
Che si ricorda (intellettivamente) |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che pure si sa |
|||
11) L’oggetto X |
Che si sa |
Che si sente |
E così via |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che si sente |
|||
12) L’oggetto X |
Che si sa |
Che si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che non si sa |
Che non si sente |
|||
13) L’oggetto X |
Che non si sa |
Che non si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che non si sa |
||||
14) L’oggetto X |
Che non si sa |
Che non si sente |
Non può essere scambiato con l’oggetto y |
Che non si sente |
||||
15) L’oggetto X |
Che si sa |
PUÒ ESSERE SCAMBIATO
CON L’OGGETTO Y |
Che si sa |
Che si sente |
È il caso in cui si
scambia qualcosa che si percepisce, non importa se conosciuta o no, con
qualcosa che si conosce (rapporto
conoscenza-sensazione) |
|||
16) L’oggetto X |
Che si sa |
PUÒ ESSERE SCAMBIATO CON L’OGGETTO Y |
Che non si sa |
Che si sente |
||||
17) L’oggetto X |
Che si sa |
Che si sente |
PUÒ ESSERE SCAMBIATO CON
L’OGGETTO Y |
Che si sa |
Che si sente |
(rapporto conoscenza sensazione) |
||
1) esempio Teeteto |
Lo conosco |
Non lo sento |
Me lo ricordo |
Non può essere scambiato con Teodoro |
Lo conosco |
Non lo sento |
Me lo ricordo |
Esempi |
2) esempio: se uno di voi |
Lo conosco |
Non lo sento |
Non posso scambiarlo con l’altro |
Che non conosco |
Che non sento |
|||
3) esempio: se nessuno di voi |
Lo conosco |
Né lo sento |
Non posso scambiare ciascuno con l’altro |
Che non conosco |
In sostanza non si possono formulare pareri falsi, cioè scambiare tra loro
due oggetti se:
1) li conosco entrambi o non li conosco entrambi;
2) ne conosco uno solo;
se:
1) li sento entrambi o non li sento entrambi;
2) ne sento uno solo.
Invece si possono formulare pareri falsi, cioè scambiare tra di loro due
oggetti,
se:
1) conosco un oggetto e me ne ricordo, ma lo confondo con un altro,
confrontandolo con la sensazione di quest'ultimo.
Quindi ci può essere parere falso solo quando vengono accostate conoscenze
e sensazioni e quando un oggetto sconosciuto viene scambiato con un altro
sentito, o viceversa, quindi quando la "conoscenza che ho non combacia con
sensazione" (193 d) oppure, detto in altre parole, si possiede una
conoscenza ma non si riesce a riferirla alla sensazione corretta, oppure ancora
si riferisce una sensazione alla rappresentazione sbagliata. Pertanto, non ci
si confonde mai tra rappresentazioni, cioè tra oggetti conosciuti ma solo
quando c'è un rapporto tra rappresentazioni e sensazioni. Quando invece si
collegano fronte a fronte e rettamente l'impressione e le impronte appropriate,
cioè le rappresentazioni nella nostra anima, allora vi è un parere vero.
Quando la qualità dell'anima è buona, cioè la cera è malleabile e al tempo
stesso raccoglie durevolmente le impressioni, allora vi saranno corretti
ricordi, pareri veri e quindi sapienza. Quando vi sarà un difetto nella cera o
per scarsa o eccessiva malleabilità, oppure per impurità, l'anima sarà meno
buona: chi ha cera (troppo) malleabile è perspicace ma smemorato, chi invece ha
cera (troppo) dura il contrario. Le anime più meschine sommeranno questi
difetti.
Socrate sembra aver dunque scoperto che "il falso parere non risiede
nel rapporto reciproco fra le sensazioni e neppure fra i pensieri, ma nel
contatto fra sensazione pensiero" (195 c-d) … ma ne siamo proprio sicuri?
Scambio tra pensieri: autoconfutazione di Socrate
Socrate conviene che è molto difficile pensare a un uomo, considerarlo tale
e al tempo stesso pensare a un cavallo, considerandolo tale, e confondere i due
(195 d). Ma diversamente accade quando si pensi alla rappresentazione dei
numeri. Nell'operazione 5 + 7 = 12 è proprio vero che nessuno si sia mai
sbagliato? Facendo la somma mentale di questi numeri, quando piccoli, è
difficile sbagliarsi, ma quando grandi è molto più facile. In questo caso
accade proprio che si pensa che ciò che si sa sia un'altra cosa dalle cose che
pure si sanno. Allora bisogna dire che il falso parere in realtà non risiede
solo nel rapporto pensiero-sensazione. “Se fosse questo non potremmo mai cadere
in errore nell’ambito degli oggetti del pensiero” (196 C), allora bisogna
escludere che il falso parere risieda nel rapporto pensiero-sensazione. Ma se
l’errore è nell’ambito stesso del pensiero accadrà, in modo inaccettabile, che
non si sa quello che pur si sa. Il ragionamento è preso in un’alternativa
impossibile: o non esiste il parere falso perché è impossibile confondersi nel
proprio pensiero, oppure si finisce per non sapere ciò che è pure nostro
possesso di pensiero.
L'unica alternativa sembra che sia rifiutare la possibilità di un parere
falso. Teeteto dice sconsolato che Socrate gli propone una strada senza via d'uscita.
Nondimeno, secondo Socrate, si possono fare passi avanti, ma li si fa solo se
si chiarisce che cosa è l'atto del conoscere. Finora, infatti, si sono usati
termini come “conosciamo”, “sappiamo” o “non sappiamo”, senza aver chiarito
fino in fondo il presupposto concettuale necessario cioè la conoscenza, ossia
l'atto del conoscere.
La colombaia
Qui Socrate introduce la distinzione tra possedere una conoscenza e averla
a disposizione, facendo il parallelo tra possedere un mantello e indossarlo.
Sulla base di questa distinzione egli propone l'immagine dell'anima come se in
essa ci fosse una colombaia con dentro uccelli di tutti i tipi, che
rappresentano le conoscenze. Dunque, le conoscenze acquisite sono stipate
nell’anima, così come lo sono gli uccelli nella colombaia. Successivamente chi
le vorrà aver effettivamente a disposizione, le cercherà lì dentro come colui
che nella sua colombaia va a prendere un uccello che vuole avere fra le
mani.
Il matematico, per esempio, conosce tutti i numeri. Poi quando fa di conto
va in cerca dei numeri che gli interessano nella sua anima. Allora
relativamente alla conoscenza si può costruire l'immagine della caccia (thera)
e del possesso in parallelo con quello delle colombe. La caccia è di due
specie: la prima ha per fine il possesso stesso; la seconda interessa colui che
è già possessore e ha per fine il prendere e tenere fra le mani quel che si
possedeva già da tempo, cioè l'avere a disposizione effettivamente. Così è per
la conoscenza: prima c'è l'apprendimento, poi c'è la ripresa e la gestione
effettiva di quel che già si era appreso (198 d).
In questo modo, se rimane impossibile non conoscere ciò che già si sa, è
possibile, tra le proprie conoscenze, afferrare un falso parere: “Si può
infatti avere in mano non la conoscenza giusta, ma una diversa da quella
richiesta: a caccia di conoscenze che svolazzano qua e là, uno può fallire il
colpo e prenderne una per un’altra” (199b). A questo punto sorge un altro
problema, anche ammessa la differenza tra una conoscenza attuale (quella
catturata) e una latente (la colombaia), quando la conoscenza latente diventa
attuale ci si dovrebbe ben accorgere che non è quella giusta e quindi evitare
di proferire un falso parere, ossia un giudizio. Com’è che questo non avviene?
E se questo non avviene il falso giudizio continua ad essere un non conoscere
ciò che in realtà si dovrebbe conoscere. La soluzione potrebbe essere quella
che nella colombaia ci siano conoscenze e non-conoscenze concernenti lo stesso
oggetto. Cosicché il falso parere sarebbe l’afferrare una non conoscenza. Ma
qui ritorna nuovamente il problema di chi è consapevole di formulare un falso
parere, come può essere consapevole di qualcosa che nemmeno conosce? Si ritorna
cioè ad alcuni casi della tabella riconosciuti come impossibili (credere che
una cosa conosciuta sia un’altra che però non è conosciuta; credere che una
cosa che non si sa sia una che pure non si sa, non conoscendo entrambe) oppure,
pensando che conoscenze e non conoscenze siano oggetto di altre conoscenze, si
ritiene che chi possiede tali (meta)conoscenze è come se possedesse un’altra
(meta)colombaia di conoscenze, che però sono tali solo in forma latente e mai
in forma attuale (200 b-c), riproducendo sostanzialmente le stesse aporie della
prima colombaia. Si tratta di un ginepraio di contraddizioni da cui non si esce
se non si sa che cosa è conoscenza.
QUARTA PARTE: RITORNO AL
TEMA DELLA CONOSCENZA: IL PARERE VERO
Che cosa è la conoscenza? A tale domanda Teeteto risponde ipotizzando che essa coincida con il parere vero, non soggetto a errore, da cui derivano conseguenze sempre belle e buone (200e). Socrate risponde con una prima confutazione. I giudici in tribunale, ascoltando retori e testimoni non si formano un parere, anche vero, sulla base di una conoscenza (diretta dei fatti), ma di rapporti altrui. Quindi può esistere un parere vero senza che questo sia conoscenza. Allora Teeteto modifica il tiro: la conoscenza, diceva un tale (forse un richiamo ad Antistene, forse, con un po’ di ironia, ad una precedente dottrina socratico/platonica), è un parere vero sorretto da una spiegazione (logos).
A questo punto sul tema del logos c’è un excursus. Socrate approfondisce la questione del logos come un intero, cioè un discorso, composto di elementi primi, le parole. Su questo tema egli fa un’ipotesi al posto di Teeteto e questa ipotesi è così ardita che coincide con un “SOGNO”. Dunque, ammettendo che la conoscenza sia una doxa accompagnata da logos, bisogna constatare, dice Socrate, che comunque gli elementi primi di cui sono composte tutte le cose non ammettono spiegazione, ma solo il loro nome, diversamente da quelli composti che si spiegano con l’intreccio degli elementi primi e dei loro nomi . Insomma i nomi degli elementi primi, intrecciandosi formano un discorso, che è ciò che noi chiamiamo spiegazione (logos - 202 b): “Perciò l’intreccio dei nomi è la sostanza del discorso”. Gli elementi primi non si conoscono e sono oggetto di sensazione, mentre le loro combinazioni sono “dicibili e passibili di parere vero” (202c). Ci può essere un parere vero su qualcosa, ma senza spiegazione (cioè senza un intreccio di nomi che lo spieghi), in modo che uno è nel vero senza capire, dunque ha un parere vero, ma senza conoscenza. E viceversa ci può essere un parere vero cui si aggiunge la conoscenza, cioè la spiegazione attraverso l'intreccio dei nomi. Come è possibile però che gli elementi non siano conoscibili, ma lo siano le loro combinazioni (202e)?
Sillabe e lettere
Proviamo a esaminare le parole e le sillabe e vedere se ciò funziona
(202e). Se le sillabe spiegano le parole, le lettere dovrebbero spiegare le
sillabe. La lettera S + la lettera O spiegano infatti la sillaba SO di Socrate.
Ma si possono allo stesso modo spiegare le singole lettere? Evidentemente no.
Ma se si capisce la sillaba si dovrebbero capire anche le sue lettere. Se ciò è
vero, come è possibile che si capisca qualcosa, le lettere, di cui abbiamo
prima detto che, in quanto elementi primi, non vi è spiegazione?
Se la sillaba invece non si riducesse alle lettere, ma ad una loro
configurazione (eidos), con una sua propria forma (idea) diversa dalle lettere?
Ma se c’è un intero, come la sillaba, esso non può che essere la somma delle
sue parti, a meno di non affermare che l’intero è diverso dalla somma delle sue
parti. Potrebbe essere il tutto somma delle parti e non l’intero,
diversificando tutto (pan) e intero (olon - 204b). Ma definendo
appropriatamente il tutto come ciò cui non manca nulla, esso viene a coincidere
con l’intero, che ha la stessa definizione (205a). Pertanto se la sillaba non
coincide con le sue parti, allora è diversa da un intero/tutto e le lettere non
saranno le sue parti. Se invece coincide con l’intero tutto, le lettere saranno
le sue parti ed esse dovranno essere conoscibili quanto l’intero. Ma se la
sillaba ha parti, queste non possono essere che le sue lettere.
Se la sillaba è una forma unica e indivisibile e dei primi elementi non vi
è logos, allora tale forma unica e indivisibile è come un elemento, cioè priva
di logos.
Quindi si danno queste due possibilità:
1) la sillaba coincide con le sue lettere e forma un intero di cui le
lettere sono parti. Se le sillabe sono conoscibili, lo devono essere anche le
parti, essendo le parti identiche all’intero.
2) La sillaba è un’unità priva di parti e sarà inconoscibile, in quanto
elemento primo, esattamente come la lettera.
Quindi non è possibile dire che la sillaba è conoscibile, ma non lo sono le
sue parti. Non è possibile separare il destino della sillaba e delle sue
parti.
Ciò che accade nella realtà è che per conoscere un intero, come la scrittura o la musica, bisogna partire dalle sue parti, le lettere e i suoni, sapendole gestire nella loro corretta collocazione. Pertanto gli elementi hanno per esperienza una conoscibilità molto più grande delle loro combinazioni (206b). Quindi non si può dire che la combinazione è conoscibile e non lo sia l’elemento primo (206b). Di conseguenza non funziona l’idea di una spiegazione logos che sia un intreccio di nomi le cui componenti siano inconoscibili.
La dottrina espressa nel sogno non funziona e deve pertanto procedere a trovare un altro concetto di spiegazione
Significato del termine spiegazione
Ma che cosa vuol dire spiegazione? Vi sono tre possibilità:
1) immagine del pensiero impressa nella voce: quando la voce esprime un
certo pensiero;
2) rassegna degli elementi che portano all’intero
3) indicazione del carattere distintivo di qualcosa (207c)
1) Se è questa, allora spiega chiunque sappia parlare e il logos non
aggiunge nulla di esplicativo alla cosa e non ci potrà mai essere un parere
senza spiegazione e dunque senza conoscenza (206e).
2) Si possono enumerare le parti senza averne conoscenza, mediante una pura
arte combinatoria, mentre la vera conoscenza è percorrere l’essenza attraverso
le parti (207b), cosa che non si fa e non è necessario fare quando si
apprendono le parti di qualcosa, come per esempio le parti del linguaggio intese
come corretta dizione delle parole e ortografia. Queste ultime cose si imparano
esattamente come una semplice arte combinatoria (208a). Quindi ci può essere un
retto parere con spiegazione, cioè enumerazione delle parti, ma questa
spiegazione non trasforma il retto parere in conoscenza.
3) Indicare un tratto distintivo di una cosa lo si può fare senza
conoscenza. Come quando per esempio formulo un parere su Tizio, che, essendo su
Tizio e non su Caio, deve implicare l’indicazione della differenza tra Tizio e
Caio, ma non comporta necessariamente la conoscenza di Tizio (209 b-d). In
questo modo l’aggiunta di una spiegazione al retto parere non sarebbe altro che
l’aggiunta di qualcosa che è già contenuta nel retto parere, e risulta quindi
una pura tautologia (210a).
Conclusione
Riassumendo la conoscenza non potrà essere né una sensazione, né un parere
vero, né una spiegazione che accompagna un parere vero. Riguardo al tema della
conoscenza, pur avendo detto molto, si è ancora “gravidi e in preda alle
doglie”. Grazie a tale indagine Teeteto potrà rimanere “incinto” di altri e
migliori pensieri. Se invece non vorrà svilupparla, rimarrà vuoto, ma non
penserà di sapere ciò che non sa (ouk oiomenos eidenai a me oistha - 210 c).
Questo è in fondo lo scopo dell’arte ostetrica che unisce la mamma di Socrate e
lui stesso, l’una con le donne incinte, l’altro per i giovani nobili e per
coloro che sono belli.
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