venerdì 15 novembre 2019

Idee per una filosofia del gusto (manifesto semiserio, teorico-pratico)




I fondamenti
La gastronomia soffre oggi di due malattie:
1) la porneia televisiva che espropria il gusto e l’odorato in favore della vista e dell’udito; che riduce l’arte della cucina, e la sua esigenza di tempi, attenzione  e dedizione sereni, in competizione sguaiata dove prevale l’ansia da prestazione e la necessità della sua misurazione quantitativa … dove c’è classifica e non classe;
2) l’edonismo crasso, ignorante e materiale che insegue il piacere dei sensi come godimento aleggiante sull’abisso di un nulla di valori, di cultura, di distinzione spirituale. Il cibo rilucente, iper elaborato, raffinatamente scarso, stucchevolmente decorato e impiattato dipende dall’appeal sociale e lo mescola con l’illusione della funzione emancipatrice e terapeutica dell’abbondanza, oppio dell’angoscia, morfina del pungolo psichico, anestesia del senso interno.
Di fronte alla deriva dello chef stellato e stellare che pretende di guarnire la propria pochezza con misere salsine colorate, bisogna ricorrere all’arma della critica. Intanto si potrebbe notare che la grandezza dell’uomo in cucina si avverte non appena esce dalla cucina. L’uomo fa grande il cuoco e non viceversa. E nella grandezza dell’uomo sta quella dose di umile consapevolezza che gli fa esercitare il potere derivantegli dalle sue abilità con misura, temperanza e saggezza. Ovunque nella vita - insomma -  egli cerca lo stile, sapendo che mai nessuno può dire di possederlo veramente … poiché ciò è indice della sua mancanza.
Di fronte alla corsa al lusso e alla moltiplicazione delle ricercatezze, si dica che l’esclusività che ciò implica è il contrario del principio del nutrimento e della varietà. Un modo di prelibatezze è meno prelibato di un mondo dove le prelibatezze convivono con la quotidiana semplicità del cibo e della bevanda che si limitano a calmare la fame.
Di fronte all’esclusivismo alimentare che travalica i confini delle incapacità e dei disturbi fisiologici, bisogna affermare che l’unica nutrizione etica è quella che accetta tutto quello che viene messo nel piatto, come san Francesco comandava ai suoi seguaci: dai biscottini di donna Jacopa fino alla minestrina sciapa dell’ospedale, tutto accolto con gratitudine, tutto buono per chi ha fame. Rispettare chi ha fame è l’unica etica che si addice all’uomo che ha smesso di patirne i morsi.
Eppure bisogna godere. Una vita dedita all’intelligenza senza un po’ di piacere nessuno la sceglierebbe, dice Platone. Ma i piaceri senza intelligenza caratterizzano “la vita di un mollusco, non di un uomo” (Platone, Filebo 21c). E il piacere è piacere, benché possano a buon diritto essere distinti piaceri naturali, necessari, non naturali, non necessari (Epicuro), o piaceri veri e piaceri falsi (Platone), o piaceri catastematici, calmi sereni regolari, e cinematici, intensi, violenti, imprevedibili (Epicuro), benché la vita estetica sia pur’essa ricca di seducenti sfumature, contrappunti, variazioni. A tavola non vale l’ascesi, come a calcio non valgono le mani: è una regola del gioco.
Eppure bisogna godere disattivando la rincorsa della sensazione, l’abbaglio della ripetizione, la promessa della liberazione. La sobrietà del godimento non sta però nella diminuzione della sua intensità e durata ma nella disattivazione della sua pretesa di centralità. Non ci sono “ricette”, ma forse è possibile marginalizzare la cucina nella forma del capriccio, del divertissement, dell’occasionale, della leggerezza svolazzante allegra nelle periferie della nostra vita.
Come l’arte si è emancipata dal dovere della bellezza, snaturandosi nella capricciosa insensatezza dell’happening o nella povertà estetica del mezzo pubblicitario, così la gastronomia si deve liberare dal dovere di rappresentanza di un certo (dis)valore: la competizione, la distinzione sociale, la fama, il consumo, la democrazia, l’ecologia, la modernità e chi più ne ha più ne metta … rinunciando a essere portatrice di significati che la sovrastano … per fare kenoticamente spazio a ciò che sta più in là e più in alto. L’arte tornerà grande smettendo di  rinunciare a sé, la gastronomia sarà arte solo rinunciando a sé, alle sue illusioni, decostruendosi come disciplina e reinventandosi come gioco (perciò questo è un manifesto semiserio). Un gioco che esce dalla sensatezza verso il non-senso del piacere senza interessi e ideologie, che proprio essendo uscita dalla sensatezza la presuppone e la implica.
La cucina come pretesto per altro. La cucina come metafora che si costruisce sulla sostanza più vera del reale. La cucina come linguaggio della diversione. La cucina come differanza. La cucina ermeneutica del marginale. La cucina come vocazione perimetrale.
La tavola come occasione: è risaputo quello che conta è la relazione umana. Magari anche la sapienza … che è sempre dialettica, cioè nasce nel dialogo. Il dialogo a tavola è deipnosofia … e non è sapienza leggera e frivola, ma si nutre della leggera frivolezza del gusto per liberare l’intelligenza dai pesi della vita e consentirle l’accesso ai grandi spazi e all’aria pura.

Alcune note tecniche
Del condimento e della grassezza. Il grasso in cucina è fondamentale. Necessario non è vivere ma ingrassare. Il grasso è nei cibi la relazione, la proteina la sostanza, il carboidrato la materia e,   purificato e digerito come zucchero, la forma. Ora, data la necessità di un equilibrio tra tutti, cosa che però è di competenza dei nutrizionisti, il grasso è la civiltà della cucina perché condisce - cioè mette in relazione pietanze diverse, attenuando le asperità, sciogliendo, sfumando talora ed esaltando talaltra i sapori – e cuoce, cioè comunica il calore, ricevendo a sua volta con il calore i principi saporiti e redistribuendoli nella pietanza con equilibrio e giustizia. Cuocere senza grassi è come far correre un magnifico cavallo con l’handicap … il più delle volte si perde la gara, ma se vinci sei davvero bravo, perché significa che hai raggiunto con l’arte ciò che normalmente è ottenuto dalla natura.
Della quantità e della qualità. In cucina sono entrambi indispensabili. Bisogna opporsi in tutti modi ai piattini striminziti che fanno solo venire la voglia senza soddisfarla. Sono donne seducenti che lasciano il vuoto. Sono spiriti senza carne. Sono evanescenze ingannevoli. Sono kallopìsmata òrfnes: ornamenti dell’oscurità. Lasciamoli ai pretenziosi, ai ristoranti di classe ma senza classe, agli  "addio caro", agli "r gorgés" e alle puzze sotto il naso. Per favore fateci mangiare – benissimo – ma fateci mangiare! Il popolo ha fame, e bisogna riempire la sua pancia, se anche lo facciamo con le brioches nessuno si scandalizzerà, purché lo facciamo. Sulla quantità in solitudine possiamo sorvolare… l’umanità è infatti naturale nemica della pasta in bianco!
Della modalità. Est modus in rebus. La mamma insegna a stare a tavola, ascoltarla. Quindi su le mani. Impugnare bene le posate. Bocca chiusa. Niente gomiti sul tavolo. Vino alle signore. La scarpetta solo in rarissimi casi, quando cioè il sugo lo chiede imperiosamente ed è peccato mortale lasciarlo nel piatto (in questo caso è meglio ubbidire a Dio che agli uomini). Finire quello che c’è nel piatto: si ricordi che l’avanzo è sempre della mala creanza. Non fare gli schizzinosi. Conversare. Non essere né troppo lenti né troppo veloci. E se si è a conoscenza di qualche debolezza in questo campo, ascoltare le mogli!
Nazionalismo e internazionalismo. In cucina, come dappertutto, è cosa buona l’orgoglio nazionale. Ma nemmeno stonano la consapevolezza regionale e financo il campanilismo locale. Noi siamo sempre in quanto apparteniamo. Tuttavia la gastronomia è il regno del gusto e su tutto il gusto domina. Esso è come la musica per la poesia: se la musica qui ha sempre ragione, là il sapore trascende ogni altra considerazione. Quindi … dall’hamburger al kebab, dal sushi alla tempura, dall’adobo alla cheesecake, dal bratwurst alle moules: tutto va bene quando sia fatto bene. Ogni piatto, per quanto umile, se sia ben eseguito tende alla bontà e adorna la nostra vita.

Disposizione transitoria e finale
Vogliamo dire basta alla volgarità della recensione: “Cibo fresco, ben cotto, ottimo servizio, prezzo onesto, da provare!”. Credi di dire tutto e non dici niente. E magari dimentichi anche qualche apostrofo, litighi con i congiuntivi e fai sterminio di accenti. Basta! Per descrivere l’esperienza di una buona mangiata, bisogna in qualche modo elevare le cose dello stomaco e dell’intestino alle altezze del palato e del cervello. Se no rimane una mangiata. Il buono del gusto è in sé già un tropo. Dunque per descriverlo è necessario l’uso di immagini, di metafore. Ci deve essere la qualità estetica di un piccolo racconto. Non si può dimezzare la lingua. Se la usi per gustare, devi imparare a usarla per parlare. Non si può assaporare qualcosa senza un linguaggio per descriverla, perché ciò finirebbe per scindere piacere e intelligenza. Quindi recensire un ristorante o raccontare un’esperienza gastronomica deve essere oggetto di cura ed esigere sapienza. La recensione veloce e funzionale è semplicemente sottomessa alle esigenze di velocità e funzionalità del mercato, che tutto trasforma e rovina nella logica del consumo e del profitto. Questa è un’autentica, ributtante e nauseante schifezza. La recensione volgare è l’unico caso che in gastronomia legittima la parola schifo!

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

domenica 6 ottobre 2019

Il nuovo volume di "Contro Corrente. Saggi contro la deriva antropologica" dedicato all' "Educazione"


Insegnare non è una tattica. Non si gioca a scacchi. Non si seduce. Non si mente. Ci si fa guidare dalla “cosa”. L’unico interesse è la “cosa” da sapere, da apprendere, da conoscere. Trasmettere umilmente ciò che conta: verità e bellezza. Questo è l’unico compito. Noi dobbiamo semplicemente ripetere ciò che abbiamo capito. Con fatica e ripetendo, tutto faremo nuovo, diverso, più profondo. Non siamo competenti. Chi è competente? Chi sa. Chi sa veramente? Nessuno: il sapere ama nascondersi e si concede in piccolissime porzioni a colui che sa coglierne il valore … e vi tende con dolore e fatica … e anche un pizzico di ironia … e di allegra spensieratezza. Così, da un lato, il compito di insegnare è soggettivamente di una straordinaria e difficilissima bellezza, dall’altro, per sua natura e oggettivamente, non sopporta i paludamenti, gli svilimenti, gli svuotamenti del suo grande tesoro, del patrimonio che ogni insegnante, trasmettendo, vivifica e dunque incrementa.
 Di tutto questo ho discusso con alcuni amici e colleghi e ho trovato che il vissuto di ciascuno di noi si intrecciava in alcuni nodi essenziali: conoscenza prima e al di là di ogni fumosa competenza; tradizione prima che furia dell’innovare e del dileguare; cultura prima che tecnica; sapere prima che fare; teoria prima che prassi benché mai senza prassi; vero prima che utile; etica prima che economia, metafisica prima che etica, teologia prima che metafisica. Da questi punti fermi è venuto lo spunto per una riflessione libera e sinfonica, guidata da un’anima comune ma autonoma nella determinazione degli stili e degli obiettivi. Nasce così un libro che vuole essere antipedagogico non per sfizio ma per obbligo e fedeltà ai compiti dell’insegnamento che l’odierna pedagogia ha falsato … pedagogia delle università … pedagogia da professori dei professori di pedagogia … che dopo essersi replicata di facoltà in facoltà e di cattedra in cattedra, è stata imposta con corso forzoso nella scuola: in quella scuola in cui nessun pedagogista ha mai messo piede.
Competenze, saper fare, co-costruzione dei saperi, cooperative learning, facilitazioni, inclusività, autoeducazione: ecco i nuovi slogan del pedagogicamente corretto che il potere ha fatto propri perché ha bisogno di risultati, di uomini adeguatamente addestrati, di gente che svolge benino il suo lavoro. Noi non solo li critichiamo severamente e con argomenti, ma proponiamo, senza superbia, ma con la forza che viene da una meditata esperienza, l’alternativa di sempre: studio e impegno. Senza moralismi, né ipocrisie, studio e impegno sono l’unica ricetta. Dati questi è dato tutto. E quando l’educazione è buona, c’è spazio per tutto il resto. Creatività, libertà, autonomia, critica … sono il naturale esito dello studio e dell’impegno. La scuola mette i primi, i suoi “abitanti” il resto. Questo libro è l’articolazione di questa semplice evidenza: a scuola si va per studiare; insegnanti e studenti sono coinvolti in questa bellissima e faticosa impresa. Niente medici, niente psicologi, niente ‘relazioni’, niente dialoghi, niente patti, niente accudimenti, niente scartoffie, niente azzeccagarbugli, niente che non passi dalla grande e universale mediazione del compito culturale, che è l’unico compito della scuola.  Semplice … ed evidente!

Per acquistare il volume in formato cartaceo o elettronico:

https://amzn.to/2oVT25r

I proventi derivati dalla vendita del libro verranno devoluti alla famiglia del compianto Mario Palmaro, docente universitario grande levatura, fine uomo di cultura, profondo apologeta cattolico e fervente militante pro-vita.
Chiunque voglia fare una donazione, in aggiunta o a prescindere dall'acquisto del testo, può trovare tutte le indicazioni al seguente link:

https://www.sangiuseppeassociazione.com/

Ecco l'indice del volume

Massimo Maraviglia  
Che cosa vuoi imparare? Come vuoi vivere? Scuola ed educazione: alcuni spunti critici

Alessandro Benigni
Dimmi come educhi e ti dirò quale mondo stai preparando .
Appendice
Meglio un pilota d’aereo che abbia fatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia?
Postilla non- conclusiva
Qual è il fine della didattica per competenze?

Dominique Tavormina
Considerazioni sull’educazione  

Michele Silvi
Tra sincerità e libertà. Perché per educare occorre prendersi la colpa ma non la pena

Fabio Fuiano
Educare alla vita è educare all’amore

Lorenzo Boccanera
1. Le insidie tecnologiche dei Social Network alla coscienza e alla libertà
Minori e Social Network
Gli stati d'animo sono stati perfettamente classificati
Solo in Australia e Nuova Zelanda, o in tutto il mondo?
Le scuse, ma non il rimedio
Per cui, minorenni, alla larga dai Social Network! Lo dice anche il GDPR dell'unione Europea e lo confermerà il Governo Italiano
2. La Microsoft spinge a pubblicare contenuti personali, anche di minori, sul WEB  
3. Minorenne bannato per errore da un server Minecraft. O per fortuna!  
I possibili pericoli
Consigli finali
4. Parental Control: un affiancamento tecnologico condiviso tra genitori e figli

Stefano Nembrini e Mauro Ghilardini
Educazione come introduzione alla realtà totale

Massimo Maraviglia
Materiali contro la setta pedagogica: Ricardo Moreno Castillo e Inger Enkvist
Introduzione
Ricardo Moreno Castillo e il Panfleto antipedagogico
L’insegnamento della religione cattolica
La buona e la cattiva educazione
Educazione alla cittadinanza
Inger Enkvist e la setta pedagogica
Conclusioni: una filosofia del senso comune… ma non troppo

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

venerdì 27 settembre 2019

La parole obscure du paysage intérieur - Poème à 4 voix ... di Julius Evola

Versione italiana vintage di E. Cascione, battuta a mano in tecnologia obsoleta anni '90, ritrovata da M. Maraviglia dentro cartelletta polverosissima accanto a originali in inchiostro BIC, dadaisticamente pubblicata senza revisioni ("perché l'errore è solo una verità debole"), servita in un letto di pitture evoliane grazie a modernissima arte grafica di F. Cucchi, auspicabilmente da inserire in catalogo archeo-avanguardia DADAJPEG.








giovedì 19 settembre 2019

Nietzsche e i Soviet (Daniel Halévy)




titolo originale: Ce que penserait  Zarathoustra de l'U.R.S.S., in  “La Petite Gironde” (19/9/ 1931),  p. 1; ristampato con il titolo Nietzsche et les Soviets in Idem, Courrier d'Europe, Paris, Grasset, 1933.

Ringrazio Francesco Ingravalle per avermi fornito una copia del testo e per l'interessante e dotta conversazione con cui mi introdotto ai vasti orizzonti di Halévy

traduzione italiana di Bernadette Ceolin


Daniel Halévy (1872-1962), romanziere (Storia di quattro anni), filosofo (Saggio sull'accelerazione della storia), storico delle idee e biografo (Nietzsche), grande, diremmo oggi, promotore culturale, amico di Marcel Proust, dei Bizet, di Edgar Degas (Degas parla), è un gigante della cultura francese della prima metà del Novecento. Sempre profondo e anticonformista, è una fucina di pensieri e immagini che penetrano a fondo nel significato delle vicende umane, con i loro trionfi e le loro tragedie. Presentiamo qui un testo di grandissimo spessore che, nella sua brevità, illumina al tempo stesso il grande filosofo di  Röcken e uno degli eventi fondamentali del secolo XX ... un filosofo che oggi più che mai affascina, un evento che ancora oggi interroga e inquieta. (MM)

Che cosa penserebbe Nietzsche della rivoluzione russa?
Non mi piace questa domanda, non mi piace che si facciano parlare i morti, che si sostituiscano le loro invenzioni con ipotesi, citazioni, frasi riprese e incollate le une dopo le altre. “Una voce manca, ha scritto Péguy, nulla la supplisce.” Ed è vero. Ma poiché il problema lo hanno posto altri, poiché Jean Guéhenno nella sua rivista Europa, e non distante da lui Charles Andler, interrogandolo e approvandolo, hanno proposto e trovato delle consonanze tra il dramma della rivoluzione russa e le prospettive tragiche scoperte da Nietzsche, tocca a noi e a modo nostro riprendere la ricerca, provare a trovare nei dedali dell’opera di Nietzsche gli elementi di una risposta.

Che Nietzsche abbia trovato necessaria, prossima, ineluttabile, la gestione unitaria del globo; che abbia per di più dichiarato necessario per la riuscita di una tale gestione, l’avvento di una élite inaccessibile alla pietà, capace di spezzare, di annientare tutto ciò che ha perso il diritto di esistere, ciò non lascia il minimo dubbio. C’è di più: Nietzsche ha scritto che tale élite distruttrice verrebbe da quella Russia in cui sonnecchia un’antica volontà da secoli a riposo.  “Quella Russia”, scriveva, “dove una prodigiosa riserva di volontà conquistatrice si accumula oggi, deve diventare padrona dell’Europa e dell’Asia...”

Vi sono dei tratti di profezia, ma di una profezia molto lontana, molto ignorante dei tempi in cui viviamo. Nietzsche non sospettava che potesse esistere una Russia marxista. Avrebbe ammirato l’entità e l’energia delle distruzioni compiute dai rivoluzionari russi? E’ quanto Jean Guéhenno si azzarda ad affermare ed è ciò che io non penso. L’avrebbe forse presa in considerazione un attimo per la forza che testimonia, ma l’applicazione di questa forza, l’avrebbe detestata. Una delle sue caratteristiche è la ripugnanza che gli ispirano sempre i movimenti massivi che costituiscono la storia. Egli ammirava il fuggevole risplendere di qualche individuo, Napoleone, Cesare, o di qualche gruppo di individui, una tale scuola, una tale corte, una tale casta in un tale secolo; e per ammirarli, li separava dalle masse che essi dominavano per un po’. Aveva abbandonato Wagner quando Wagner aveva accettato di diventare il grande uomo dei patrioti del Reich; aveva vilipeso l’impero tedesco, era fuggito da esso, preferendo la solitudine, la vita oscura, al contatto con l’immenso Stato vincitore che gettava la sua ombra sull’Europa. Possiamo pensare che oggi ammirerebbe lo Stato sovietico? Che aderirebbe o consentirebbe la minima approvazione a quella forza vittoriosa? E perché? A causa della violenza dei colpi inferti a società disprezzate, alle democrazie borghesi del mondo moderno? Certo, Nietzsche amava la spada, ma egli aveva l’anima esigente, guardava alle mani che portavano l’arma, egli voleva che un giustiziere le avesse assolutamente belle. Ora lo Stato sovietico, con il suo dogmatismo fanatico, il suo americanismo ingenuo, sarebbe apparso a Nietzsche molto poco moderno, e una maschera di crudeltà non avrebbe affatto ammansito il filosofo.
Sì, Nietzsche aspettava la catastrofe. Questo essere stupendamente sensibile che indovinava il temporale, ne soffriva a due giorni di distanza, non aveva alcun dubbio sul destino dell’Europa. Lucido come una Cassandra, egli scorgeva i baratri. La catastrofe, soprattutto nelle sue ultime opere, ha un posto considerevole, ha la forza di una ossessione. Egli pensa che un castigo enorme si trova in capo a questa decadenza. Castigo, catastrofe, sono solo parole. Sotto queste parole che cosa metteva Nietzsche, possiamo saperlo?
Lo possiamo, visto che spesso ha cercato di discernere le grandi linee dell’evento, le ha scritte in molti appunti, i più importanti dei quali datano nel 1888. Prima di tutto verrà il socialismo; la sua venuta è inevitabile; si insedierà nelle grandi città, dominerà le folle urbane. Tutto ciò avverrà senza catastrofe: è un progredire naturale sulla china verso la quale scivoliamo. La catastrofe verrà dopo la vittoria del socialismo, ne sarà l’effetto. Il socialismo concluderà la rovina già così inoltrata dell’energia umana. Allora imperverseranno le grandi nevrosi, allora avrà luogo un accasciarsi, un annientamento degli individui. Saranno maturi per essere castigati, e il castigo sarà la conclusione della catastrofe. Quali saranno gli uomini energici che restaureranno le gerarchie? Saranno quelli che saranno scampati alle nevrosi, che avranno saputo trovare, aldilà del nichilismo stesso e dei suoi cedimenti, delle certezze, dei valori e delle nuove virtù.
Da dove verranno? Anche su questo Nietzsche aveva elaborato delle idee che non possiamo conoscere. Durante le sue meditazioni, le sue passeggiate solitarie, si divertiva a immaginare una storia più brillante e più spirituale della storia vera in cui il tetro e il basso quasi sempre prevalgono; con mano rapida annotava le sue fantasie, e noi oggi leggiamo fino al minimo pezzo di carta dell’instancabile scrittore. Prussiano e in fondo, io credo, fiero di esserlo, Nietzsche ammirava il corpo degli ufficiali prussiani. Egli stimava che in esso sussistesse una energia utile. Ma la sua stima non era senza riserve. Egli stimava che gli ufficiali prussiani avessero un’intelligenza limitata, triste, priva di grazia e d’ingegnosità. Le loro donne, soprattutto, non possedevano alcun genio. Ed ecco il rimedio, Nietzsche lo ha ben presto trovato: i gentiluomini prussiani sposeranno delle belle ebree, ardenti, nervose e abili. Probabilmente, c’è l’imbarazzo di una prevenzione, di un pregiudizio. Ma diamine, “la salvezza dell’Europa vale bene   il sacrificio di un pregiudizio.” Si deve osservare che qui Nietzsche è d’accordo con Bismarck, il quale, signorotto esperto di allevamento, trovava molto interessanti i risultati ottenuti con l’incrocio di uno stallone germanico e una giumenta ebraica.
Ecco dunque Nietzsche un attimo divertito da questa visione di una Europa punita, dominata, da una casta originale, giudeo-prussiana, e interamente di sua invenzione. Ma era solo un divertimento. Talvolta, più volentieri e più spesso, pensava agli Slavi, alla loro violenza, alla loro raffinatezza, al loro mistero, alle loro donne così seducenti. Siamo nel 1888, non c’erano popoli rivoluzionari nella Russia di quell’epoca, ma alcuni settari capaci di abnegazione, di sacrifici assoluti, e di fronte ad essi una dinastia, una alta amministrazione, una Okrana altrettanto temuta quanto oggi la Ceka. Andiamo avanti di qualche anno, immaginiamo Nietzsche vivo nel 1905; egli ha sessant’anni, un’età vigorosa ancora; ascolta Stravinsky, guarda Nijensky, la Karsavina, i meravigliosi balletti; accoglie con entusiasmo quel fulgore di bellezza, di grandiosità, di gioia, quella esaltazione carnale che stupisce l’Europa come il segno di un futuro inatteso, di un secondo Rinascimento. Immaginiamo la sua gioia, in essa dimentica per un attimo la sua cara Carmen, che egli oppone all’onda wagneriana. Quei Russi, quegli Slavi non tolstoiani, quella razza inebriata; quella Petersburg, quella Mosca di Diaghilef e di Stravinsky, che scoperta, che promessa! Ci sono così tante aurore che non hanno ancora brillato…. Nietzsche era un cacciatore di aurore.
Ed ora la catastrofe. L’avrebbe vista se avesse vissuto la vita di un uomo un pò più lunga, settantacinque anni. Avrebbe composto per lui l’ultimo atto della tragedia.

E l’avrebbe osservata all’opera quell'antica volontà slava che egli aveva indovinato, che aveva sviluppato una potenza che per un attimo avrebbe forse ammirata. Ma in che senso rovesciata e da chi?! In che senso degradata, pervertita?. Esercitata non da nobili, ma da plebei, settari, spiriti senza luce, senza promessa, capi di masse fanatiche. Le masse che soffocano un’ arte, ultima gioia dell’Europa, e che impone, con la spada ed i supplizi, il materialismo più corto, che odiosa impresa! E colui che le ispirò, quel Karl Marx, quel dottrinario al quale Nietzsche non aveva mai fatto caso, di cui, se non erro, non aveva mai scritto il nome; quell’uomo che a causa delle origini del proprio essere faceva affidamento su fonti che egli detestava, l’ebrea, la hegeliana, la tedesca. Quegli Ebrei, quanto male hanno fatto con la loro Bibbia: hanno rovinato il mondo antico; hanno, suggerendo  Luther, abbattuto Leone X e la sua Roma paganizzata, rovinato la speranza ostinata di un umanesimo cattolico; suggerendo le rivoluzioni, hanno abbattuto l’aristocrazia francese, ed ora, con il loro Marx, l’ultima aristocrazia del vecchio mondo, quella russa. Questi hegeliani, plebe professorale, pronta a giustificare con la sua dialettica storica tutti i  suggerimenti, imperiali, clericali, popolari, quanta responsabilità ricade su di essi! E quei Tedeschi infine, (mi attengo sempre strettamente a Nietzsche e alle sue invettive ) quanto hanno pesato sull’Europa, con il loro eterno ritardo, la loro  incultura  psicologica mascherata sotto nebulose fantasticherie e vane erudizioni! Marx, ebreo, hegeliano e tedesco, costituisce da solo una triplice cospirazione, e ora si sa, con l’esempio russo, di quali distruzioni, di quali assoggettamenti, di quali istupidimenti, il suo genio sia capace.
Fermiamoci , è stato abbastanza dimostrato in che direzione vanno gli affetti di Nietzsche e le sue ire, quando egli degna occuparsi della Città.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.


martedì 27 agosto 2019

Ephraem latinus, DISCORSO SULLA FINE DEL MONDO (Sermo de fine mundi) [cfr. Migne PL 4 supplementum coll 608-613] Traduzione italiana di F. Cucchi e S. Lucchesi. Note a cura di Massimo Maraviglia



Dopo la sua prima pubblicazione nel lontano 2006 sulla sito-rivista telematica Ekpyrosis, il testo è scomparso dal web (almeno così mi pare). Ne ho parlato ieri per caso con un amico e mi è di nuovo tornato in mente. Così ho deciso di riproporlo. Buon lettura!

Presentiamo qui la prima traduzione italiana di un testo apocalittico, risalente forse al VII secolo, pervenutaci in latino (probabilmente da un originale greco), opera di un autore che si appoggia all'autorità di sant’Ephraem di Nisibi o di Edessa, noto padre orientale del IV secolo, famoso per i suoi Inni che gli valsero il soprannome di “arpa dello Spirito Santo”. Si tratta di un discorso che è sintomatico di una mentalità diffusa tra le é l i t e s cristiane altomedievali e che, nella sua brevità e semplicità, ci pare significativo in quanto riassume e condensa in poche pagine e con una certa sobrietà molteplici tradizioni patristiche relative ai tempi ultimi. Le note — che vogliono esclusivamente introdurre a dette tradizioni senza alcuna pretesa di  esaustività filologica anzi senza propriamente  volersi sostituire al lavoro proprio dei filologi  sull’inquadramento storico dello scritto — faranno emergere anche i temi che secondo noi sono maggiormente degni di nota (il katéchon; l’Anticristo “buono” etc.). Nel redigere il piccolo apparato di commento al testo sono risultati di grande aiuto i testi curati da Fausto Sbaffoni (Testi sull’anticristo, 2 voll., Nardini, Firenze 1992) e da Gianluca Podestà e Marco Rizzi (L’Anticristo, il nemico dei tempi finali, vol. I, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2005) che segnalo a chiunque voglia approfondire l’argomento.

Cap. 1
 Fratelli carissimi, credete allo Spirito Santo che parla in noi. Già prima abbiamo detto che la fine del mondo è molto vicina e il compimento si approssima. Forse che la fede originaria non è venuta meno negli uomini? Quanto se ne vedono gli effetti nei fanciulli ... le azioni infamanti nei capi, le azioni ingannatrici nei sacerdoti, gli spergiuri nei leviti, i malefìcii dei ministri, le passioni adultere nei vecchi, gli istinti lussuriosi nei giovani, lo sguardo menzognero nelle donne, le passioni lascive nelle giovani. E in mezzo tutte queste cose vi sono le guerre dei Persiani, e il minacciare incombente di popoli diversi e l’insorgere di regno contro regno (Mt 24,7); e quando comincerà la distruzione militare dell’impero dei Romani, sarà imminente l’avvento del male. Infatti nel compiersi del declino dell’impero romano è necessario che finisca questo mondo (1). In quei giorni saliranno al potere due fratelli (2), comanderanno senza dubbio con un solo proposito, ma poiché uno prevaricherà l’altro, ci sarà dissidio fra loro. E così sarà liberato l’Avversario e inciterà l’odio tra il regno dei Persiani e quello dei Romani (3). In quei giorni in molti si leveranno insieme contro l’impero romano, e suo avversario sarà il regno dei Giudei. Vi saranno movimenti di popoli e circoleranno storie malvagie e vi saranno pestilenze, carestie, terremoti in vari luoghi (Mt 24,7) e saranno fatti dei prigionieri in tutte le popolazioni (Lc 21,24), vi saranno guerre e rumori di guerra (Mt 24, 6-8) molte cose distruggerà la spada da un confine all’altro della terra. E ci saranno tempi troppo pericolosi che non consentiranno alla mente di pensare a cose migliori per la paura e il disordine, quando si avvicineranno le molte afflizioni e desolazioni delle  terre.
Cap.2
 Dobbiamo pertanto, fratelli miei, comprendere che cosa si avvicina e incombe. Già si sono abbattute carestie e pestilenze, migrazioni di popoli, e sono ormai compiuti i segni che erano stati predetti dal Signore, e non resta altro se non il sopraggiungere del male alla fine dell’impero romano. Perché dunque ci occupiamo di affari terreni e la nostra mente è tutta intenta alle concupiscenze del mondo e alle preoccupazioni profane? Perché dunque non allontaniamo da noi tutte le preoccupazioni per le attività terrene e non prepariamo noi stessi all’incontro con Cristo Signore affinché ci salvi dalla confusione che opprime il mondo intero? Credetemi, fratelli carissimi, perché la venuta del Signore è vicina, credetemi, perché la fine del mondo è prossima, credetemi, perché i tempi sono gli ultimi. Oppure se non vedete con i vostri occhi non crederete (Gv 20, 25-27)? Badate che non si compia in voi la sentenza del profeta che dice: “Guai a quelli che desiderano vedere il giorno del Signore”(Am 5,18) (4). Infatti tutti i santi e gli eletti di Dio, prima della tribolazione che verrà, si riuniranno e saranno accolti dal Signore affinché quando verrà affinché non vedano la confusione che distruggerà il mondo intero a causa dei nostri peccati (5). E così, fratelli a me carissimi, è giunta l’ora undicesima (Mt 20, 1-16) e la fine di questo mondo verrà per la mietitura, e gli angeli attrezzati e pronti, terranno le falci in mano, aspettando il comando del Signore. E noi per cieca infedeltà al mattino riteniamo che esiste un mondo che arriva alla sera. Si genereranno agitazioni, incomberanno guerre fra genti diverse, battaglie e incursioni di barbari, le nostre terre si spopoleranno e noi saremo molto spaventati di non aver ascoltato e di non aver fatto penitenza in ogni modo: anche a noi incuteranno timore, e neppure a tal punto vorremo essere convertiti, quando avremo particolarmente bisogno di penitenza per i nostri misfatti!
Cap. 3
 Quando allora si avvicinerà la fine del mondo scoppieranno numerose guerre, ovunque agitazioni, orribili terremoti, sommovimenti di popoli, tempeste in ogni dove, pestilenze, carestie, sete lungo i cammini, enormi pericoli per mare e per terra, frequenti persecuzioni, uccisioni e massacri ovunque, timore nelle case, paura nelle città, terrore durante i viaggi, sospetti ad andar per mare, preoccupazioni nelle piazze. Nel deserto gli uomini diverranno insensibili, nelle città le anime si struggeranno. L’amico non si preoccuperà dell’amico, il fratello per il fratello, i genitori per i figli, il servo fedele per il suo signore, ma una sola necessità occuperà tutti quanti e non potrà essere trovato in quel tempo alcuno che non sia tutto rivolto al pericolo, ma tutti, costretti dalla paura, si logoreranno per il male incombente.
Cap. 4
 E quando la terra sarà scossa da popoli bellicosi, gli uomini si nasconderanno sui monti e tra le rocce, in spelonche e caverne della terra, in sepolcri e monumenti funebri, e lì, consumati dal terrore, spireranno perché non ci sarà ove fuggire ma sarà ovunque scompiglio e afflizione insopportabili (6). Chi è in Oriente fuggirà in Occidente, chi invece in Occidente fuggirà in Oriente, e non vi sarà luogo abbastanza sicuro poiché il mondo sarà ricoperto da genti assai dissolute, il cui aspetto sembrerà essere più quello di bestie che di uomini. Infatti quelle genti straordinariamente terribili, nemicissime di Dio e impure, che non rispettano né i vivi né i morti (spaventano i vivi e divorano i morti), mangeranno carne di cadaveri, berranno il sangue delle giumente, profaneranno la terra, contamineranno tutte le cose e non vi sarà chi potrà resistere (7). In quei giorni non saranno seppelliti gli uomini, né cristiani né eretici, né Giudei né pagani, perché, per paura e timore, non ci sarà chi li seppellirà; infatti, tutti intenti a mettere in salvo se stessi, li ignoreranno.
Cap. 5
 E quando saranno compiuti i giorni dei tempi di quelle genti, dopo che avranno devastato la terra, si avrà una tregua; il regno dei romani sarà ormai tolto di mezzo (8), e l’impero dei cristiani sarà consegnato a Dio e al Padre (9); e allora verrà la fine, quando verrà soppresso il regno dei Romani e saranno distrutti tutti i principati e le potestà. Allora apparirà quel nefandissimo e abominevole serpente, quello stesso che Mosè indicò nel Deuteronomio dicendo: “Dan è un leoncello che si accuccia e si slancia da Basan” (Dt 33,22). Infatti si accuccia per ghermire, distruggere e uccidere. Un giovane leone, in verità, non come il leone della tribù di Giuda, ma ruggente per l’ira e per divorare (10). Viceversa da Basan si slancia in avanti. Basan certo va interpretato come confusione. Egli emerge dalla confusione della sua iniquità. E questi come una pernice, raccoglierà a sé i figli della confusione, e accrescerà la sua azione, e chiamerà quelli che non ha generato, così come dice il profeta Geremia. Sebbene essi nell’ultimo giorno lo abbandoneranno lasciandolo confuso.
Cap. 6
 Dunque, quando sarà venuta la fine del mondo, quel bugiardo e assassino nascerà della tribù di Dan. Sarà concepito dal seme di un uomo e di una vergine immonda e turpissima, seme misto a uno spirito malvagio e assai iniquo. Ma quello scellerato, seduttore più di anime che di corpi, da giovane, prima di prendere il potere, sembrerà, subdolo serpente, dimorare sotto un’aura di giustizia. Scaltramente sarà mite con tutti, dal momento che non accetterà doni, non farà preferenza per alcuno, sarà amabile con tutti, pacifico verso tutti quanti, non chiederà regali, apparendo cortese verso i vicini, al punto che gli uomini lo magnificheranno dicendo: “Questo è un uomo giusto”, non sapendo che in lui si sarebbe nascosto un lupo sotto le sembianze di un agnello e un uccello rapace dentro la pelle di una pecora (11).
Cap. 7
 Ma quando inizierà ad avvicinarsi il tempo del suo abominio e della sua desolazione, reso legittimo, assumerà il potere e, come si dice nel salmo: “Sono venuti in aiuto ai figli di Loth” (Sal 82,9), a lui accorreranno per primi i Moabiti e gli Ammoniti (12) quasi come al loro re. Quindi quando avrà preso il regno, ordinerà loro di riedificare il tempio di Dio che è in Gerusalemme; e questi, una volta entrato lì, vi si sederà come Dio e ordinerà di essere adorato da tutte le genti pur essendo carnale e immondo e un impasto di spirito iniquo e carne. Allora si adempirà quella parola del profeta Daniele che dice: “Egli non si darà alcun pensiero del dio dei padri suoi, né conoscerà i desideri del dio amato delle donne” (Dan 11,37). Infatti egli, serpente tutto iniquo, rivolgerà a sé ogni culto. Inoltre proporrà un editto perché gli uomini siano circoncisi secondo il rito dell’antica legge. Allora si congratuleranno con lui i Giudei, giacché da lui sarà restituita loro la consuetudine dell’Antico Testamento; allora tutti da ogni parte accorreranno a lui nella città di Gerusalemme e la città santa sarà calpestata dai popoli per 42 mesi, come dice il Santo Apostolo nell’Apocalisse, i quali saranno tre anni e mezzo, cioè 1.260 giorni (13).
Cap. 8
 In questi tre anni e mezzo il cielo tratterrà le sue gocce; infatti non vi sarà pioggia sulla terra e le nubi cesseranno di solcare il cielo e le stelle difficilmente saranno viste in cielo prima della straordinaria siccità, che accadrà nel tempo del ferocissimo serpente. Si prosciugheranno infatti tutti i grandi fiumi e le fonti d’acqua più importanti che zampillano da sé, i torrenti lasceranno inaridire le loro vene d’acqua a causa di un calore intollerabile, e ci saranno grandi tribolazioni di entità tale quale non vi fu da quando gli uomini cominciarono ad abitare la terra, e vi saranno fame e sete insopportabili. I figli verranno meno nel seno delle loro madri e le mogli sopra le ginocchia dei loro uomini, non avendo cibo da consumare. Infatti in quei giorni ci sarà penuria di pane e di acqua e nessuno potrà vendere o comprare il frumento del tempo della caducità, se non colui che porterà in mano o in fronte il sigillo del serpente (14). Allora nelle piazze giaceranno in rovina oro e argento, indumenti preziosi e pietre di grande valore e ogni genere di perla per le strade e i vicoli delle città e non vi sarà chi allungherà la mano e prenderà o desidererà prendere ma ogni cosa sarà considerata un nulla per la straordinaria siccità e della mancanza di pane, perché la terra non sarà alimentata dalle piogge del cielo, né vi sarà più sulla terra rugiada né umidità di venti. Ma quelli, che vagheranno per i deserti, fuggendo dall’immagine del serpente, piegheranno le loro ginocchia a Dio, a quello stesso modo che è degli agnelli al seno delle madri, camminando nella salvezza di Dio, errando per luoghi deserti, mangeranno erba.
Cap. 9
 Allora, quando questa necessità avrà costretto tutti, giusti e empi, i giusti per essere giudicati dal loro Signore, al contrario gli empi per essere dannati in eterno con il loro diavolo istigatore, Dio vedendo il genere umano in pericolo e sconvolto dal soffio dell’orribile dragone, manderà loro una predicazione di conforto attraverso i suoi sacerdoti, i profeti Enoch ed Elia (15), i quali, non assaporando ancora la morte, saranno stati preservati per proclamare la seconda venuta di Cristo e accusare il nemico.

NOTE

(1) Qui vi è un accenno esplicito al tema, molto diffuso nella letteratura patristica, dell’impero romano come katéchon, cioè come quella forza al tempo stesso personale e impersonale che viene evocata da san Paolo (2 Tess 2, 6-8) quale soggetto che trattiene (katéchein) la manifestazione dell’Anticristo e dunque il precipitare degli eventi verso la fine escatologica di questo mondo: “Non ricordate quando ero ancora tra voi e venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce [tò katéchon] la sua manifestazione [dell’Anticristo, ndr.] che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene [o katéchon]. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca...”. Tra gli autori che hanno proposto l’identificazione di questa misteriosa figura (di cui Agostino ammetteva la sostanziale impossibilità di una spiegazione certa e incontrovertibile) con l’impero e/o l’imperatore si annoverano Tertulliano (Apologeticum, XXXII e XXXIX), Lattanzio (Divinae Institutiones VII, 15), Gerolamo (Ad Algasiam, 11,9 ss.) Giovanni Crisostomo (In II epistolam ad Thessalonicenses homilia IV ). Tale visione dell’impero convive in epoca patristica con quella che vede nello stesso impero una forza anticristica, sulla base soprattutto di Daniele e dell’Apocalisse. Nel medioevo romano-germanico i ruoli si chiarificheranno: Roma-katéchon avrà una connotazione esclusivamente positiva e l’Anticristo assumerà di volta in volta le sembianze dell’eretico, del giudeo, del pagano, del nemico di turno della Chiesa cattolica. Per una rassegna delle interpretazioni antiche, medievali e moderne delle pericope paolina mi permetto di rinviare a M. Maraviglia, La penultima guerra. Il concetto di katéchon nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Università degli Studi di Milano, 2002-2003, pp. 138-179. La questione del katéchon è stata ripresa nella nostra contemporaneità ed è uscita dal ristretto ambito degli studi biblici e patristici, diventando il concetto di “forza che trattiene” una categoria importante della filosofia politica e della storia (cfr., per esempio, oltre al citato C. Schmitt, M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 621-638).
(2) Singolare questa citazione di due fratelli, dai quali sarebbe emerso l’Avversario. Forse per simmetria con la nascita di Roma e con il mito di Romolo e Remo, l’Autore vuole porre alla fine dell’arco storico della città imperiale due fratelli in dissidio tra loro. Commodiano (Carmen, 805-985) riporta la vicenda di una coppia di Anticristi, formata da Nerone redivivo e da un condottiero orientale parimenti in lotta fra loro, e dai quali emerge vittorioso l’Anticristo venuto da Oriente alla testa di Medi, Persiani, Caldei e Babilonesi. Non si può tuttavia porre una relazione tra il nostro testo e il poema commodianeo se non a livello di pura suggestione. Non è stato peraltro possibile esaminare i trattati escatologici di sant'Ephraem di Edessa che forse in questo e in altri casi sarebbero stati d'aiuto.
(3) Questa fase del racconto è un po’ confusa. Prima il regno dei Persiani è incitato all’odio per i Romani da uno dei fratelli (forse è ancora ravvisabile una suggestione commodianea, laddove nel Carmen, 910-926, il secondo Anticristo muove guerra a Roma e la distrugge), poi sono i Giudei ad essere, fra i molti nemici dell’impero, l’avversario principale di quest’ultimo. Probabilmente la citazione dei Persiani e l’allusione ad un loro ruolo nei tempi escatologici hanno a che fare con i grandi problemi che nel terzo secolo questo popolo guidato da re Sapor I diede ai Romani, giungendo fino a prendere prigioniero l’imperatore Valeriano e a rappresentare la maggiore minaccia per la compagine imperiale. Il diacono Ephraem, con cui il nostro autore si identifica e del quale probabilmente conosce alcuni scritti, nel secolo IV conobbe da vicino le lotte tra i Romani e gli eserciti persiani di Sapor II per la conquista di Nisibi, sua città natia, le vicende della quale sono riportate nei suoi Carmina nisibena. Nella leggenda del Nero redivivus (che ha origini pagane: Tacito, Historiae I,2; Svetonio, Nero, 40-47, ma che è stata poi variamente ripresa, attraverso gli Oracula sibyllina VIII 139-159, dai Padri, tra cui Cirillo di Gerusalemme, Vittorino di Pettau, In Apocalypsim, 17, 9-16; Commodiano, Carmen, 825 ss.; Instructiones I, 41,7 e Lattanzio) secondo la quale, come si è visto nella nota precedente, l’imperatore Nerone sarebbe ricomparso alla fine del mondo nelle vesti dell’Anticristo stesso, i Persiani hanno un ruolo specifico: o sono coloro presso quali l’imperatore malvagio sarebbe stato ospitato prima di ricomparire fra i vivi, oppure, come in Commodiano, sono gli avversari crudeli e potenti del primo Anticristo, Nerone, il quale sarà appunto soppiantato dal loro condottiero, che si proclamerà immortale e si proporrà agli stessi Giudei come Messia, tendendo loro una trappola mortale. La menzione dei Persiani ha anche una funzione importante per la datazione del testo (cfr. infra, nota 5).
(4) Nel testo biblico si allude ai peccatori per il quale la giustizia divina comporterà l’allontanamento definitivo da Dio: “Guai a coloro che attendono il giorno del Signore. Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebre e non luce” (Am 5, 18). Il “voi”, qui sottointeso, si riferisce in Amos al popolo di Israele che insiste nel suo peccato. Così il significato della citazione risulta intelligibile, dato che in generale l’attesa del giorno del Signore rappresenta una delle basi fondamentali della fede prima giudaica e poi cristiana e riguarda normalmente un evento fausto, anzi, di più, l’ingresso nell’assoluta beatitudine del Regno.
(5) V’è qui uno strano prologo in cielo delle vicende escatologiche in cui, alimentando un dibattito a noi abbastanza estraneo, alcuni autori americani hanno voluto vedere la testimonianza di una sorta di pre-tribulational rapture dei cristiani, affinché non restino partecipi delle vicende più dolorose dei tempi penultimi (cfr. Grant R. Jeffrey, Final Warning, Frontier Research Publications, Toronto 1995; Timothy Demy e Thomas Ice, The Rapture and an Early Medieval Citation, “Bibliotheca Sacra” 152 (1995), pp. 300-311; Grant R. Jeffrey, A Pretribulational Rapture Statement in the Early Medieval Church, in Thomas Ice e TimothyDemy (eds.), When the Trumpet Sounds: Today’s Foremost Authorities Speak Out on End-Time Controversies, Harvest House, Eugene (Or) 1995; Tim Warner, Pseudo-Pseudo Ephraem. Grant Jeffry II, The Sequel, 2001, www.lasttrumpet.com: quest’ultimo articolo contiene anche la traduzione integrale in inglese del nostro testo). L’idea mi sembra un po’ complicata e contraddice le numerosissime e sostanzialmente universali (cioè ravvisabili in tutte le aree geo-culturali e in tutte le epoche della cristianità) paure dei fedeli riguardo alle immagini cupe che descrivono, nella letteratura biblica e presso i più autorevoli padri della Chiesa, i tempi immediatamente precedenti la parusia di Cristo (paure che seguendo l’interpretazione pre-tribulational non avrebbero ragione di essere). Il nostro testo, peraltro, afferma, da un lato, che nel tempo della desolazione sia i cristiani, sia i pagani o gli eretici non saranno seppelliti, e così dà per scontato che anche i cristiani vivranno e morranno durante questo periodo. Dall’altro lato sostiene che alla fine sia i giusti sia gli ingiusti “saranno costretti” a subire le angustie dei tempi penultimi, prima che il Signore salvi gli uni e danni gli altri. Tenendo conto anche solo di questi due elementi narrativi (tra gli altri che si possono intravvedere) si può escludere con buona sicurezza questa sorta di scorciatoia dei credenti verso la salvezza, che eviterebbe loro di vivere la tribolazione. In ambito anglosassone si è occupato dello Ps. Ephraem anche P-J. Alexander, The Byzantine Apocalyptic Tradition, University of California Press, Berkeley 1985.
(6) Questo passo corrisponde ad uno dello Pseudo-Metodio, Sermo de Regnum cantium et in novissimis temporibus certa demonstratio, 13, in E. Sackur, Sibillinische Texte und Forschungen, Max Niemeyer, Halle 1898, pp. 91-92: «Tunc reserabuntur portae aquilonis et egredientur virtutes gentium illarum, quas conclusis intus Alexander et concutietur omnis terra a conspectu eorum et expaviscent homines et fugientes conterriti abscondent se in montibus et speluncis et in monumentis et mortificabuntur a timore et corrumpentur prae pavore quamplurimi et non erit qui corpora sepeliat». Stabilire quale sia il rapporto tra il nostro testo e lo Ps. Metodio è questione complessa da lasciare ai filologi. Io rilevo soltanto che il Sackur (ivi, p. 93 n. 3 e p. 95 n. 2 in cui usa il verbo schöpfen=attingere) sostiene che lo Ps. Ephraem abbia attinto in diversi punti allo Ps. Metodio, e ciò implicherebbe una datazione del primo posteriore al secondo, quindi verso la fine del sec. VII o l’inizio dell’VIII (lo Ps. Metodio è datato nella seconda metà del sec. VII). Al contrario il primo editore del Sermo de fine mundi, Carl Paul Caspari, Briefe, Abhandlungen und Predigten, Malling, Christania 1890, sostiene che l’originale greco del testo sia stato abbozzato tra il 565 e il 628, cioè anteriormente alla vittoria definitiva dell’imperatore Eraclio sui Persiani guidati da Cosroe II e Kawad e alle invasioni arabe (le prime avrebbero reso poco plausibile la citazione dei Persiani come nemici dei tempi finali, mentre le seconde — con le loro conseguenze catastrofiche per il cristianesimo orientale — difficilmente sarebbero potute passare sotto silenzio) e di conseguenza anche allo scritto dello Ps. Metodio. In ciò sostanzialmente concorda l’Alexander (op. cit., p. 145), che ritiene comunque inaccettabile una datazione posteriore all’avvento dell'Islam.. Bousset (Der Antichrist in der Überlieferung des Jundentums, des Neuen Testaments und der Alten Kirche, Göttingen 1895) ritiene invece che il Sermo sia databile attorno al 375, con argomenti che, secondo quanto afferma il Migne stesso, sono “aliquo modo flaccidis” (PL supplementum, IV, col. 606). La datazione del codice Barberinus 671 (XIV, 44) da cui è stato tratto il testo (presente anche in un più tardo codice Sangallensis 108), è indubbiamente collocata da Wilmart nel sec. VIII (che concorda su questo argomento con Caspari e con Migne). Questi afferma anche di conoscerne un altro manoscritto antico: Paris. BN 13348. s. VIII, f. 89r-93v: cfr. D.A. Wilmart, Le discours de saint Basile sur l’ascèse en latin, “Revue Bénédectine” XXVII (1910), pp. 226-233, qui pp. 226-227.
(7) Chi sono questi “popoli bellicosi” e “genti dissolute”? L’ipotesi che l’Autore si riferisca alla tradizione biblica di Gog e Magog mi è confermata dal confronto con lo Ps. Metodio che tra i popoli “immondi e dall’aspetto orribile” (Sermo cit., 8, p. 72) “rinchiusi da Alessandro” (cfr. citaz dello Ps. Metodio nella nota precedente) e di nuovo liberi di compiere le loro malefatte negli ultimi tempi, include le genti di Gog e Magog (ivi, 74) secondo ciò cui allude appunto il testo del Sermo citato nella nota precedente. Questa tradizione ha inizio con Ezechiele (38,2 ss.) che indica nelle genti capeggiate da Gog nella regione di Magog (un coacervo di popoli tenuti assieme dalla ferocia e dalla volontà di conquista) i più pericolosi nemici della teocrazia d’Israele; essi, dice Jahwe, nella profezia saliranno “contro il mio popolo Israele come nube che copre la regione” (Ez, 38-16) ma Dio interverrà in soccorso del suo popolo, ne abbatterà le schiere e darà in pasto i soldati nemici agli uccelli rapaci (cfr. Ez, 39,1-5). Il tema sarà ripreso in Ap 20, 7-10 — in cui le genti di Magog guidate da Gog diventeranno le nazioni di “Gog e Magog” — e di qui verrà la sua rilevanza escatologica.
(8) Riferimento letterale a 2 Tess 2, 6, laddove si parla del katéchon che deve essere “tolto di mezzo” (ek mésou gènetai) prima della manifestazione del “mistero dell’iniquità” (cfr. nota 1).
(9) Come in Paolo [1 Cor 15,24] Cristo “rimetterà il regno a Dio, il Padre, dopo aver distrutto ogni principato e ogni dominazione e potenza”, così l’imperatore, in una situazione ben diversa, cioè consapevole della sconfitta delle forze umane di fronte alla preponderanza degli eserciti del male, riconsegnerà il suo regno mondano, che fino ad allora aveva avuto un fondamentale ruolo katéchontico, a Dio e al Padre, aspettando solo la finale parusia del Cristo che, solo, può distruggere l’iniquità dilagante. Tale episodio è riportato con maggiore dovizia di particolari dallo Ps. Metodio: «Et cum apparuerit filius perditionis, ascendit rex Romanorum sursum in Golgotha, in quo confixum est lignum sanctae crucis. In quo loco pro nobis Dominum mortem sustenuit, et tollit rex coronam de capite suo et ponet eam super crucem, et expandit manus suas in caelum et tradit regnum christianorum Deo et patri» (ps. Metodio, Sermo, 14 cit., in E. Sakur, Sibillinische, cit., p. 93). A tale fonte attingerà in epoca altomedievale anche Adso di Montier en Der, Epistola ad Gerbergam reginam de ortu et tempore Antichristi, ivi, p. 110: «Et ipse erit maximum et omnium regum ultimus. Qui postquam regnum feliciter gubernaverit, ad ultimum Ierosolimam veniet et in monte Oliveti sceptrum et coronam suam deponet. Hic erit finis et consummatio Romanorum christianorumque imperii».
(10) Ireneo di Lione (Adversus haereses 30.2) è il primo tenere conto di una tradizione del giudaismo che in base a Gdc 18, 30-31, 1 Re 12,29-30; Am 8.14 e altri testi apocrifi, considerava il cedimento della tribù di Dan all’idolatria una sorta di marchio d’infamia. Questo sarebbe stato il motivo principale del fatto che in Ap 5,8 tale tribù non fosse contemplata tra le tribù di Israele e, conseguentemente, del ruolo negativo che tutta l’apocalittica successiva avrebbe attribuito a Dan: cfr. Ippolito, Benedizioni di Giacomo, 22; Benedizioni di Mosé; Benedizione di Dan in PO 27, coll. 183-185; Gerolamo, In Danielem, XI;  Ambrogio, De benedictionibus Patriarcharum;  Agostino, Quaestio 22 in Josuè.
(11) In Ap 13,11 si dice che la seconda bestia “aveva due corna simili a quelle di un agnello, e parlava come un dragone”. Già qui è delineata una caratteristica tipica dell’Anticristo che questo passo inquadra con grande lucidità: colui che agisce in nome di Satana tende a presentarsi come un agnello, ossia come Cristo, sebbene parli propriamente come un dragone, ossia come un diavolo. Lo ps. Ephraem dà qui una magistrale descrizione di questa duplice veste dell’Anticristo e dell’inganno che vi è sotteso, descrizione che avrà successo nel Novecento, dopo che Carl Schmitt — a sua volta indirizzato verso un tema simile dalla letteratura di Soloviev e Benson — ne avrà ripreso i termini nel suo commento al Nordlicht del poeta Theodor Daubler (cfr. Carl Schmitt, Aurora Boreale, trad. it . di V. Bazzicalupo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 89). L’applicazione di questa tradizione all’umanitarismo ateistico dei nostri tempi costituisce il naturale sbocco di una riflessione sulla secolarizzazione da un punto di vista cristiano, la quale ha buon gioco nell’individuare le conseguenze estremamente negative di un’ideologia politica che, ponendosi sotto le insegne di una generica e universalistica bontà, persegue fini di potenza facilmente assimilabili a quanto il Cristianesimo e i suoi interpreti attribuiscono al progetto di dominio secolare dell’Anticristo.
(12) I Moabiti sono gli abitanti di Moab, a oriente del Mar Morto, il cui capostipite, secondo la Bibbia, nacque da un incesto di una figlia di Loth con suo padre (Gen 29,37; me’ abha significa “dal padre mio”). Storicamente parlando, il popolo era di stirpe assai affine agli Ebrei e con essi si trovò spesso in relazioni conflittuali. Dopo l’esilio babilonese non si hanno più notizie del popolo moabita, probabilmente distrutto e deportato da Nabucodonosor poco dopo la distruzione di Gerusalemme. Gli Ammoniti invece erano stanziati ad est del corso inferiore del Giordano e nella parte settentrionale del Mar Morto. Secondo il racconto biblico essi derivarono da un incesto della figlia minore di Loth con il padre (Gen 29,38) – Ben-‘Amma significa “figlio del mio parente”. Noti per la loro crudeltà (Am 1,13), adoravano, come i Moabiti, il dio Melek, e come questi ultimi ebbero notevoli e durevoli contrasti con il popolo ebraico. Di qui la cattiva fama biblica di entrambi, e il ruolo negativo attribuito loro dal nostro Autore nei tempi escatologici.
(13) Cfr. Dn 7, 25; 9, 27; 12,7; 12,11 e Ap 11,3 e 13,5. A partire da Daniele quella di 1.260 giorni o 42 mesi o tre anni e mezzo è divenuta una costante che indica la durata “canonica” della persecuzione escatologica.
(14) Tradizione risalente ad Ap 13,16-17, ove si allude ad un marchio che la seconda Bestia — lo pseudoprofeta per antonomasia di cui l’idea di un Anticristo personale è naturale esito — fa imprimere sulla fronte o sulla mano destra di tutti, marchio che rappresenta il “nome della fiera o il numero del suo nome”.
(15) Cfr. Enoc ed Elia sono i nomi che l’autore, seguendo una consolidata tradizione, attribuisce ai due testimoni del Signore di Ap 11, 3-13 mandati predicare l’estrema resistenza all’Anticristo nei tempi ultimi: «Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni. Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada la pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche il potere di cambiar l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno. E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà [...]. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: “Salite quassù” e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici». L’identificazione di questi due testimoni con i profeti Enoc ed Elia si appoggia a testi molto autorevoli come per esempio l’Apocalisse di Pietro, cap. 2; Ippolito, De Antichristo, 46-47, In Danielem, IV, 35; Tertulliano, De Resurrectione carnis, XXII, 2, 10, De anima, L, 4-5; Commodiano, Carmen 833 ss.: Elia, con allusione ad Enoc in 856 (in F. Sbaffoni, Testi sull’Anticristo, vol. I [secc. I-II], Nardini, Firenze 1992, pp. 200-201) e costituisce, direi, un topos della letteratura apocalittica di epoca patristica e medievale.


N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

sabato 24 agosto 2019

Curiosità francesi (Italia, Europa, populismo, politica e cultura)


Forse il mio destino è quello di non piacere ai francesi, anche ai francesi che mi piacciono. Nella fattispecie si tratta di un gruppo di cattolici autentici, giovani, dinamici, che compie un'opera di formazione culturale e politica meritoria e interessante. Quando, attraverso un carissimo amico, mi hanno chiesto di rispondere ad alcune domande sull'attualità politica italiana, ho quindi risposto subito positivamente e con entusiasmo mi sono fatto mandare  i quesiti, ci ho pensato, ho scritto, ho re-inviato il tutto al mio amico il quale ha fatto un eccellente lavoro di traduzione, prima di riconsegnare il testo al responsabile del sito ... Dopo di ciò: una lunga attesa e infine una risposta evasiva sulla presunta difficoltà del mio scritto, che mi è sembrato un modo per dire: "Ci spiace ma non ci piaci...". Beh, che devo dire? Mi spiace di non piacere! Rimane il fatto che il sito in questione è ben concepito e lo consiglio (www.academiachristiana.org). Rimane il fatto che i suoi promotori fanno un ottimo lavoro. Prima che l'intervista invecchi troppo, però, la sottopongo al giudizio di  qualcuno dei miei amici che avrà voglia di perdere qualche minuto del suo tempo. Argomento: Italia, Europa populismo, politica e cultura. Buona lettura!
OGGI: 2 ottobre 2019 sono molto contento di smentire l'affermazione con cui ho esordito presentando l'intervista. Infatti è stata pubblicata al seguente link https://www.academiachristiana.org/single-post/2019/10/02/Les-faux-conservateurs-Salvini-et-limp%C3%A9ratif-culturel-entretien-avec-Massimo-Maraviglia .  Mi si conferma dunque  che la mia amicizia e stima nei confronti dei promotori di Academia christiana è ricambiata...ottimo!


1) Al di là del “fenomeno populista” (l’esistenza di vari capi di Stato, dall’Ungheria al Brasile, che pretendono difendere gli interessi del popolo di fronte a un élite del mondialismo) cosa Le ispira la parola “populismo”?
Populismo dice di un rapporto disarmonico tra popolo ed élite e della volontà di superare questa condizione sentita come ingiusta e/o oppressiva. In tal senso il populismo esalta il popolo contro le élites, esigendo di far sentire la propria voce nelle piazze, nelle istituzioni e nei luoghi dove si prendono decisioni per dare sostanza a una democrazia che nella sua versione formale e liberale tende a tradire in modo sempre più evidente il principio della “sovranità popolare”. Il termine è tuttavia denso di ambiguità, sia per il suo uso polemico, sia per la strutturale indeterminazione del concetto di popolo. Da un lato, infatti, “populismo” potrebbe essere definito come “tutto ciò che alla gauche caviar non piace” e che tale fazione politica bolla come insopportabile, incivile, retrogrado, reazionario, fascista etc. Quindi in tale ottica “populista” potrebbe essere il militante cattolico antiabortista, il piccolo imprenditore che protesta contro l’eccessiva tassazione, il dottrinario anticonformista alla Molnar o alla De Benoist, il politico conservatore, il politico progressista che dissente sui diritti civili per privilegiare quelli sociali, il prete, il padre di famiglia che vuole educare i suoi figli in modo tradizionale etc.  Le fantasie paranoiche della sinistre potrebbero nondimeno lasciarci abbastanza indifferenti se, per l’appunto, si potesse giungere ad una determinazione di che cosa sia “popolo”, offrendo alla nozione di populismo una definizione positiva più precisa e politicamente fruibile. Se  infatti il populismo non assume un’identità autonoma rispetto alle etichette dei suoi nemici, finisce col rappresentare un fantoccio da abbattere, sostanzialmente funzionale alla vis polemica e alla sete di potere dei difensori dello status quo. Allora in questo campo bisogna procedere oltre, proprio alla ricerca di un significato pregnante della parola “popolo” e della determinazione della sua funzione politico-culturale.

2. Da insulto lanciato dalla sinistra, è diventata una bandiera come quando Salvini evoca la necessità di un “internazionale populista”. Pensa che il termine “populista” sia recuperabile dalla destra radicale e cattolica e utilizzabile politicamente?
Ricollegandomi alla risposta precedente, è necessario secondo me procedere a un inquadramento teorico più profondo della questione. Un grandissimo intellettuale cattolico, che è al tempo stesso un notevole maître à penser della destra politica, Carl Schmitt, nel suo testo intitolato “La dittatura” ha trattato di una questione fondamentale per comprendere le declinazioni moderne del potere. Riferendosi a Emmanuel Joseph Sieyès, egli ha magistralmente rilevato la funzione del popolo: esso è il potere costituente cui ogni volta ci si può appellare quando il potere costituito risulta inefficace, ingiusto, incapace di produrre quell’ordine politico senza il quale le comunità degli uomini sono attraversate da un conflitto potenzialmente distruttivo. Ma che cos’è nello specifico un  pouvoir constituant? Esso "non si capisce se non come una ricerca del principio organizzatore non organizzabile" di tutta la vita associata. "Il rapporto tra pouvoir constituant e pouvoir constitué ha la sua perfetta analogia sistematica e metodologica nel rapporto tra natura naturans e natura naturata" e, aggiungerei, nel rapporto tra l'Uno e le sue ipostasi, tra la potentia absoluta Dei e il mondo, tra la Volontà e la sua oggettivazione, tra il Pensiero e il pensato, tra l'Essere e l'ente. In tale rapporto "il popolo, la nazione, forza originaria di ogni entità statuale, costituisce organi sempre nuovi. Dall'abisso infinito e insondabile del suo potere sorgono forme sempre nuove, che essa può infrangere quando vuole e nelle quali essa non cristallizza mai definitivamente il proprio potere. Essa può esprimere quando e come vuole la propria volontà il cui contenuto ha sempre il medesimo valore giuridico del contenuto di un dettame costituzionale; può quindi intervenire quando e come vuole con la legislazione, la giurisdizione o atti puramente fattuali. Esso diventa il soggetto illimitato e illimitabile degli iura dominationis, non necessariamente da circoscrivere al caso di emergenza. Non è mai autocostituentesi, ma sempre costituente altro da sé (in ciò la sua potenza ha un tratto razionale e non appare completamente informe: Dio può tutto, ma non può moltiplicarsi, n.d.r.); perciò il suo rapporto giuridico con l'organo costituito non si pone mai in termini di reciprocità. La nazione è sempre nello stato di natura, come dice il celebre motto di Sieyés...e tale affermazione ci parla ... del rapporto della nazione con le proprie forme costituzionali e con tutti i funzionari che agiscono a suo nome. La nazione è unilateralmente nello stato di natura, ha solo diritti e niente doveri; il pouvoir constituant non è vincolato a nulla, mentre i pouvoirs constitués hanno solo doveri e niente diritti. Donde la sorprendente conclusione che una parte rimane sempre nello stato di natura, mentre l'altra nello stato di diritto (o meglio di dovere). (Cfr. Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell'idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria,  tr, it, di A, Caracciolo, Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 179-180). Questo approfondimento schmittiano ha tre pregi:  in primis ci riconduce al modo di essere del popolo con una strategia apofatica (cioè mediante una definizione per negazione: il popolo è ciò che non si può costituire, costituisce sempre l’altro da sé, ossia è  la fonte inoggettivabile e incostituibile di legittimazione di ogni costituzione; è muto ma rappresenta la fonte di ogni linguaggio politico; è inerte ma è la scaturigine di ogni azione…) che evita gli errori proiettivi di chi confonde la soggettività individuale con quella collettiva (ammesso che questa possa esistere), cioè di tutti coloro che parlano del popolo semplicemente amplificando le proprietà dell’individuo e facendone una sua ipostasi; in secondo luogo  coglie un aspetto fondamentale della modernità, ossia  la democrazia come avvenimento epocale della storia mondiale,  giacché la dottrina del popolo come pouvoir constituant rappresenta la massima valorizzazione giuridico-politica del  demos;  infine tale argomento possiede implicazioni  profondamente antimoderne perché allude a  una forza sorgiva del politico che, come ho accennato, è interpretata in modo schiettamente teologico-politico: il popolo non è che la secolarizzazione politica del concetto di Dio. Ora, l’appello al potere costituente del popolo, come fonte di legittimazione teologico-politica di ogni costituzione, mentre aveva una funzione rivoluzionaria nella polemica borghese contro la monarchia di diritto divino (solo Dio può essere posto contro Dio), acquisisce un valore controrivoluzionario rispetto alle forme più estreme di liberalismo tecnocratico. Come nella tradizione dell’Europa sive christianitas a Dio si poteva ricorrere contro il potere costituito quando esso tendeva ad assumere una veste tirannica, allo stesso modo il popolo nella modernità laica diviene oggetto di un appello ultimativo, quando il potere moderno a sua volta si fa tirannico. Ma l’appello al popolo, e Sieyès non se ne accorge, è tutt’altro che laico: come evidenzia una rilevante parte della riflessione politico-filosoifca medievale (si veda a titolo di esempio la sua recezione in F. Suarez  nei suoi  Tractatus de legibus e Defensio Dei), l’auctoritas venit a Deo per populum”. Lungi da rimanere confinato negli angusti limiti dei miti del ’89, il fatto di riferirsi al popolo diviene dunque un mezzo per riferirsi a Dio. La chiamata in causa di Dio nella sfera politica implica la convinzione che ogni sistema politico vigente non esaurisce mai le possibilità della convivenza e della ricerca della giustizia. Rispetto ad ogni sistema immanente Dio è la trascendenza. Il senso della sua entrata in gioco per populum è allora tutto da individuarsi nella ricerca di una trascendenza rispetto alla dimensione politica quando essa si presenti come onnipervasiva e oppressiva. Contro lo Stato a una dimensione, contro l’orizzonte totalitario del grande apparato oclocratico mondialista, il populista, dunque, chiama il popolo a riaffermare i suoi diritti, che sono al tempo stesso i diritti di Dio e di tutti noi.

3. Le sembra sensato il concetto di ”internazionale populista”?
Diffido delle “internazionali”, ma non per questo ritengo inutile che lo sguardo di chi fa politica attivamente superi i ristretti confini delle nazioni, anche e soprattutto quando si tratta di riaffermare il ruolo, la giustizia e la necessità dei confini stessi. Diceva Romano Guardini che l’essere è unito da quello stesso fattore che lo divide (cfr. L' opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente). Così vale anche per la politica. Tutti i populisti sono uniti da ciò che li divide, cioè dalla difesa di un modo multipolare, diverso, libero e dinamico, in cui non vi siano superstati , super-tribunali e psicopoliziotti internazionali. Essi sono uniti, cioè, dalle loro identità diversissime che ognuno vuole preservare e alle quali ciascuno vuole garantire un destino storico. L’assunto di fondo è che l’umanità non esiste se non nei popoli: se si cancellano i popoli avremo qualcosa di diverso dall’uomo. Vincerebbe in questo malaugurato caso il modello antiumano del burattino globalizzato, uniforme, monoculturale. Sarebbe veramente il disperante apparire dell’ultimo uomo, dell’uomo veramente a una dimensione.

4. Cosa pensa dell’opera di Salvini?
Ho grande ammirazione per il nostro ministro del interni che in condizioni di accerchiamento mediatico e giudiziario compie la sua opera di difesa dell’identità e delle prerogative dell’Italia e degli italiani in modo deciso, convinto ed efficace. Credo tuttavia che egli abbia bisogno di comprendere che la sua opera non potrà compiersi senza che il seguito popolare si traduca nella stabile formazione di una mentalità diffusa. Ciò significa che il tema dell’egemonia nel campo della cultura è ineludibile. Pertanto quando Salvini dice che nelle elezioni europee la Lega manderà in Europa agricoltori, imprenditori, ingegneri e non filosofi, compie un madornale errore. Non ne faccio ovviamente una questione corporativa. Il problema è che il ministro mostra con questa dichiarazione quanto scarsa sia la sua considerazione della battaglia delle idee.. Ciò accade mentre il possesso monopolistico della produzione di cultura da parte della sinistra internazionale e globalista le consente di mettere in atto una serie di strategie sleali che, approfittando ogni volta in modo indebito dell’occupazione di posizioni di governo, promuove uno spostamento dell’asse della politica a sinistra squalificando tutte le possibili alternative. Quindi ogni volta l’opposizione di destra, comunque la si voglia definire, si trova costretta a moderarsi e ad accogliere pregiudizi, ideologie, e modi di pensiero dell’avversario, nel frattempo diventati dominanti. Questo diviene il prezzo per la rispettabilità ideologica quindi per l’agibilità politica in ogni settore. Di qui nascono i finti conservatori come Berlusconi, Tajani e Alfano in Italia, Rajoi in Spagna, i gollisti in Francia, la Merkel in Germania: tutta gente che fa politiche di sinistra grazie a un elettorato non di sinistra e a una sigla partitica “moderata”. Costoro poi rivelano il loro volto autentico, non appena sorge una contestazione radicale alla Weltanschauung progressista. In tali occasioni si trovano invariabilmente schierati a favore di quella sinistra che li sfrutta come utili idioti contro i “populismi”, i “rigurgiti fascisti, reazionari, razzisti etc.”, per poi ridigerirli con il premio di un potere o di un sottopotere alle sue strette dipendenze.  Ora per spazzare via questi idioti e per rompere veramente le uova nel paniere al progetto mondialista c’è bisogno di cultura e la cultura deve essere considerata un fattore politicamente centrale, se non si vuole cadere nei difetti di superficialità e sterilità che già negli anni Sessanta Thomas Molnar rimproverava  ai cosiddetto campo controrivoluzionario (cfr. Th. Molnar, La controrivoluzione). Che Salvini non si sia reso conto di ciò lo dimostrano non solo le sue dichiarazioni elettorali, ma la personalità assolutamente non all’altezza da lui scelta per svolgere l’importantissima funzione di ministro dell’istruzione. I primi atti di tale ministro dimostrano una rozzezza, una mancanza progettuale, una scarsità di consapevolezza culturale e quindi una resa ai dogmi del pensiero dominante assolutamente preoccupanti. Il caso del ministro Bussetti dimostra che senza cultura non c’è comprensione della realtà e ciò rende impossibile governare efficacemente, imprimendo una certa direzione alla società ed evitando di rimanere una simpatica e apprezzabile bolla di sapone in un incombente e divorante universo di sporcizia.

5. Come vede il futuro del Suo Paese e dell’Europa?
La  politica internazionale del governo sembra orientata difendere le ragioni dell’Italia in Europa. Ma ciò deve ricevere il carattere di un progetto di ampio respiro. Bisogna ripensare le relazioni internazionali nel nostro continente e definire il senso dello slogan circa “l’Europa dei popoli”. Quest’ultimo appare una suggestione interessante e del tutto condivisibile, ma senza darvi una declinazione economica, giuridica, politica e costituzionale  si rimane nel campo dei castelli in aria… e mentre noi ci accontentiamo dei castelli in aria, qualcuno qui in terra lavora indefessamente per il re di Prussia. Per ovviare a tutto ciò si deve ritornare a quanto detto prima: serve cultura. Non dico di abbandonare al loro destino gli ingegneri, ma cominciare ad ascoltare anche  qualche filosofo potrebbe essere un’opzione augurabile.








































N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

1.Populisme fait référence à un rapport disharmonique entre peuple et élite et à la volonté de dépasser cette condition perçue comme injuste et oppressive. Dans ce sens le populisme exalte le peuple contre les élites, exigeant de faire entendre sa voix dans les rues, dans les institutions et dans les lieux où on prend les décisions pour donner substance à la démocratie qui dans sa version formelle et libérale tend à trahir en manière de plus en plus évidente le principe de «souveraineté populaire». Le terme est toutefois dense d’ambiguïté, dans son usage polémique comme dans la structurelle indétermination du concept de peuple.  D’un coté en effet «populisme» pourrait être défini comme « tout ce que la gauche caviar n’aime pas » et que cette faction politique étiquette comme insupportable, incivile, rétrograde, réactionnaire, fasciste, etc. Dans cette optique «populiste» pourrait être le militant catholique anti-avortement, le petit entrepreneur qui proteste contre l’excessive taxation, le doctrinaire anticonformiste du type Molnar ou De Benoist, le politique conservateur, le politique progressiste qui n’est pas d’accord sur les droits civils et veut privilégier les droits sociaux, le prêtre, le père de famille qui veut éduquer ses enfants en manière traditionnelle, etc.  Les fantaisies paranoïaques des gauches pourraient nous laisser assez indifférents si on pouvait arriver à une détermination de ce qu’est le «peuple», offrant à la notion de populisme une définition positive plus précise et politiquement utilisable. Si en effet le populisme n’assume pas une identité autonome par rapport aux étiquettes de ses ennemis, il finit par représenter une marionnette à abattre, substantiellement fonctionnelle  à la vis polemica et à la soif de pouvoir des défenseurs du status quo. Alors dans ce domaine il faut aller au-delà, à la recherche d’une signification éloquente de la parole «peuple» et de la détermination de sa fonction politico-culturelle. 

2.En me référant à ma réponse précédente il est nécessaire selon moi de proceder à un encadrement théorique plus profond de la question. Un très grand intellectuel catholique qui est aussi un considérable maître à penser de la droite politique, Carl Schmitt dans son texte intitulé La dictature a traité d’une question fondamentale pour comprendre les déclinaisons modernes du pouvoir. En se référant à Emmanuel Joseph Sieyès il a magistralement relevé la fonction du peuple: il est le pouvoir constituant a qui ont peut s’appeler chaque fois que le pouvoir constitué résulte être inefficace, injuste, incapable de produire cet ordre politique sans lequel les communautés des hommes sont traversées par un conflit potentiellement destructeur. Mais qu’est-ce que c’est en fait un pouvoir constituant ? On «ne le comprend pas en dehors d’une recherche du principe organisateur non organisable » de toute la vie associée. Le rapport entre pouvoir constituant et pouvoir constitué a sa parfaite analogie systématique et méthodologique dans le rapport entre natura naturans et natura naturata», et j’ajouterais dans le rapport entre l’Un et ses hypostases, entre la potentia absoluta Dei et le monde, entre la Volonté et  son objectivation, entre Pensée et ce qui est pensé, entre l’Être et l’étant. Dans un tel rapport «le peuple, la nation, la force d’origine de chaque corps étatique constitue des organes toujours nouveaux. De l’abysse infini  et insondable de son pouvoir surgissent des formes toujours nouvelles qu’elle peut briser quand elle le veut et dans lesquelles elle ne cristallise jamais définitivement son propre pouvoir. Elle peut exprimer quand et comme elle le veut sa propre volonté dont le contenu a toujours la même valeur juridique du contenu d’une règle constitutionnelle; elle peut donc intervenir quand et comme elle le veut avec la législation, la juridiction ou actes purement factuels. Il devient le sujet illimité et illimitable des iura dominationis, pas nécessairement à circonscrire au cas d’émergence. Il n’est jamais auto-constituant mais toujours constituant d’autre que soi (en cela sa puissance a un caractère rationnel et n’apparâit pas complètement informe: Dieu peut tout mais ne peut pas se multiplier, NDLR); son rapport juridique avec l’organe constitué ne se met jamais en termes de réciprocité. La nation est toujours dans l’état de nature, comme dit le célèbre maxime de Sieyès…et telle affirmation nous parle…du rapport de la nation avec ses propres formes constitutionnelles et avec tous les fonctionnaires qui agissent en son nom. La nation est unilatéralement dans l’état de nature, a seulement des droits et pas de devoirs; le pouvoir constituant n’est lié a rien, tandis que les pouvoirs constitués ont seulement des devoirs et pas de droits. D’où la surprenante conclusion qu’une partie reste toujours à l’état de nature, tandis que l’autre dans l’état de droit (ou mieux de devoir)» (cf. Carl Schmitt, La dictature. Des origines de l’idée moderne de souveraineté à la lutte de classe prolétaire, tr, it de A. Caracciolo, Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 179-180). Cet approfondissement schmittien a trois mérites: in primis il nous reconduit à la façon d’être du peuple avec une stratégie apophatique (c’est-à-dire à travers une définition par la négation: la peuple est ceux que on ne peut pas constituer, il constitue toujours l’autre de soi, c’est-à-dire la source non objectivable et non constituable de légitimation de chaque constitution; il est muet mais représente la source de chaque langage politique; il est inerte mais il est l’origine de chaque action…) qui évite les erreurs projectives de qui confond la subjectivité individuelle avec celle collective (en admettant que celle-ci puisse exister), c’est-à-dire de tous ceux qui parlent du peuple simplement en amplifiant les propriétés de l’individu et en faisant  une hypostase à lui; en deuxième lieux il saisit un aspect fondamental de la modernité, c’est-à-dire la démocratie comme avènement capital de l’histoire mondiale, puisque la doctrine du peuple comme pouvoir constituant représente la plus grande valorisation juridique-politique du demos; en fin tel argument possède des implications profondément antimodernes puisque il fait référence a une force de source du politique qui, comme j’ai fait allusion, est interprété de façon sincèrement théologique-politique: le peuple n’est autre que la sécularisation politique du concept de Dieu. L’appel au pouvoir constituent du peuple, comme source de légitimation théologique-politique de chaque constitution, tandis qu’il avait une fonction révolutionnaire dans la polémique bourgeoise contre la monarchie de droit divin (seulement Dieu peut être mis contre Dieu), acquiert une valeur contrerévolutionnaire par rapport aux formes plus extrêmes de libéralisme technocratique.  Comme dans la tradition de l’Europa sive Christianitas on pouvait recourir à Dieu contre le pouvoir constitué quand il tendait ad avoir une veste tyrannique, de la même façon le peuple dans la modernité laïque devient objet d’un appel ultimatum quand le pouvoir moderne se fait à son tour tyrannique. Mais l’appel au peuple, et Sieyès ne s’en aperçoit pas, est tout autre que laïc: comme le met en évidence une part considérable de la réflexion politico-philosophique médiévale (voir à titre d’exemple sa réception dans F. Suarez dans ses Tractatus de legibus et Defensio Dei), l’auctoritas venit a Deo per populum. Loin d’être confiné dans les étroites limites des mythes de ’89, le fait de se référer au peuple devient un moyen pour se référer à Dieu. L’appel de Dieu dans la sphère politique implique la conviction que chaque système politique en vigueur n’exauce jamais les possibilités de la cohabitation et de la recherche de justice. Par rapport a chaque système immanent Dieu est la transcendance. Le sens de son entrée en jeu per populum est alors tout à individuer dans la recherche d’une transcendance  par rapport à la dimension politique quand elle se présente comme pénétrante partout et oppressive. Contre l’Etat a une dimension, contre l’horizon totalitaire du grand apparat d’ochlocratie mondialiste, le populiste appel donc le peuple à réaffirmer ses droits qui sont au même temps les droits de Dieu et de nous tous.            

3.Je me méfie des « internationales », mais ce n’est pas pour cela que je considère inutile que le regard de qui fait de la politique activement dépasse les frontières étroites des nations, aussi et surtout quand il s’agit de réaffirmer le rôle, la justice et la nécessité des mêmes frontières. Romano Guardini disait que l’être est uni par ce même élément qui le divise (cf. La Polarité. Essai d'une philosophie du vivant concret). Il en va de même pour la politique. Tous les populistes sont unis pas ce qui les divisent, c’est-à-dire par la défense d’un monde multipolaire, différent, libre et dynamique, où il n’y ait pas de super Etats, super tribunaux e psycho policiers internationaux.   Ils sont donc unis par leurs identités très différentes que chacun veut préserver et aux quelles chacun veut garantir un destin historique.  L’assertion est que l’humanité n’existe pas si non dans les peuples: si on efface les peuples on aura quelque chose de différent de l’homme. Dans ce malheureux cas gagnerait le modèle antihumain de la marionnette globalisée, uniforme, mono culturelle.  Ce serait vraiment la désespérante apparition du dernier homme, de l’homme vraiment à une dimension. 

4. J’ai grande admiration pour notre Ministre de l’Intérieur qui dans des conditions d’encerclement médiatique et judiciaire accomplit son œuvre en défense de l’identité et des prérogatives de l’Italie et des italiens en manière décidée, convaincante et efficace. Je crois toutefois qu’il ait besoin de comprendre que son œuvre ne pourra pas s’accomplir sans que le soutien populaire ne se traduise dans une stable formation d’une mentalité diffuse. Cela signifie que le thème de l’hégémonie dans le domaine de la culture est inévitable. C’est pourquoi quand Salvini dit que aux les élections européennes la Lega enverra en Europe agriculteurs, entrepreneurs, ingénieurs et pas des philosophes il commet une erreur colossale. Je n’en fait évidemment pas une question corporative. Le problème est que le Ministre montre avec cette déclaration combien est faible sa considération pour la bataille des idées…Cela advient pendant que la possession monopolistique de la production de culture de la part de la gauche internationale et globaliste  permet à cette même gauche de mettre en acte une série de stratégies déloyales qui, en profitant chaque fois en manière indue de l’occupation de positions de gouvernement promeut un déplacement de l’axe de la politique à gauche en disqualifiant toutes les possibles alternatives. Donc chaque fois l’opposition de droite, indépendamment de comment on veuille la définir, se trouve contrainte à se modérer et à accueillir des préjugés, idéologies, et façons de penser de l’adversaire, devenus entre temps dominants.  Cela devient le prix pour la respectabilité idéologique et donc pour la praticabilité en chaque secteur de la politique. De là naissent les faux conservateurs comme Berlusconi, Tajani et Alfano en Italie, Rajoy en Espagne, les gaullistes en France, Merkel en Allemagne: toutes personnes qui font des politiques de gauche grâce à un électorat qui n’est pas de gauche et à une affiche de parti « modéré ». Ces personnes révèlent leur vrai visage dès qu’apparait une contestation radicale à la Weltanschauung progressiste. En de telles occasions ils se trouvent invariablement positionnés en faveur de cette gauche qui les exploite comme idiots utiles contre les « populismes, les résurgences fascistes, réactionnaires, racistes, etc. », pour les rediriger avec une récompense d’un pouvoir ou d’un sous-pouvoir à ses étroites dépendances. Maintenant pour balayer ces idiots e pour casser vraiment les œufs dans le panier au projet mondialiste il y besoin de culture et la culture doit être considérée un facteur politiquement central, si on ne veut pas tomber dans les défauts de superficialité et de stérilité que déjà dans les années ’60 Thomas Molnar reprochait au soit disant camp contrerévolutionnaire (cf. Th. Molnar, La contrerévolution). Que Salvini ne se soit pas rendu compte de cela le démontrent non seulement ses déclarations électorales, mais aussi la personnalité qu’il a choisie pour la très importante fonction de Ministre de l’Instruction, absolument pas à la hauteur de cette fonction. Les premiers actes de ce Ministre démontrent une grossièreté, un manque de projet, une faiblesse de conscience culturelle et donc un abandon aux dogmes de la pensée dominante absolument préoccupante. Le cas du Ministre Bussetti démontre que sans culture il n’y a pas de compréhension da la réalité et cela rend impossible gouverner efficacement, en imprimant une certaine direction à la société et évitant de rester une sympathique et appréciable queue de poisson dans un imminent et dévorant univers de saletés.

5.La politique internationale du Gouvernement semble être orientée à défendre les raisons de l’Italie auprès de l’Union Européenne.  Mais cela doit avoir le caractère d’un projet de grande envergure. Il faut revoir les relations internationales dans notre Continent et définir le sens du slogan concernant « l’Europe des peuples ». Cela semble une suggestion intéressante et tout à fait acceptable, mais ne pas lui donner une connotation économique, juridique, politique et constitutionnelle, équivaut à rester dans le concept de bâtir des châteaux en Espagne… et pendant que nous nous contentons de bâtir des châteaux en Espagne il y a quelqu’un qui sur la terre travaille pour le Roi de Prusse. Pour remédier à tout cela il faut revenir à ce qui a été énoncé précédemment: il faut la culture. Je ne dis pas d’abandonner à leur destin les ingénieurs, mais que commencer à écouter aussi quelques philosophes pourrait être une option souhaitable.   

Tr. fr. di Marco Giori