sabato 22 agosto 2020

Vincere se stessi (ma non dimenticarsi del mondo). Il manuale di Martin Meadows, le sue possibilità e i suoi limiti

 

Martin Meadows, Come sviluppare l’autodisciplina, Meadows Publishing, s.l., 2017, E. 13,51

 

Cominciamo con una locuzione complicata che mal si adatta all’evidente destinazione popolare del libro. Esiste un’ “assiologia formale”, cioè la possibilità di comprendere i nessi razionali tra i nostri valori. I valori riguardano ciò che “vale”, ossia ciò che consideriamo buono, per noi e in assoluto. Tra i diversi oggetti della volontà – poiché possiamo volere tante cose buone – esiste una gerarchia e una relazione di implicazione o esclusione. Per esempio se ritengo buono un certo scopo, che diventerà oggetto del mio volere, dovrò per forza ritenere altrettanto buono il mezzo per raggiungerlo. Non posso amare la cultura e odiare lo studio. Se sono convinto che l’amore sia una componente della felicità, non potrò essere triste quando troverò il mio fidanzato. Un grande filosofo come E. Husserl dice che molte delle nostre frustrazioni sono dovute al mancato rispetto dell’assiologia formale, cioè del rapporto razionale tra i nostri valori, qualsiasi essi siano. Frustrazione, senso di colpa, rabbia, e altre simili condizioni sono la conseguenza delle contraddizioni etiche in cui spesso cadiamo: volere in modo contraddittorio cose che si escludono a vicenda o non volere cose che si implicano. Pace, soddisfazione, legittimo orgoglio, armonia della propria vita sono invece la conseguenza del rispetto della gerarchia dei nostri valori e dei loro rapporti.

Ora, sotto il profilo psicologico, un potente elemento di disgregazione e deflagrazione del nostro cosmo assiologico è il godimento immediato. Ciò che diviene oggetto immediato del desiderio si presenta, complici anche alcuni meccanismi della chimica del cervello, come un oggetto posto sotto un'enorme lente di ingrandimento, che ce lo fa apparire la cosa migliore per noi in quel momento e gli conferisce il massimo grado di attrattiva a prescindere da ogni nostra altra decisione e da ogni ulteriore progetto. È la “tentazione” che ci fa dimenticare tutti i nostri buoni propositi e si insinua nella volontà, sospendendo la ragione e le categorie in base alle quali avevamo ordinato e pianificato la nostra vita. Quanto la nostra società, con la sua cultura del “tutto subito” e del “vietato vietare” sia diventata il principale agente del godimento immediato e dunque la principale nemica della nostra pace e della nostra ragione potrà facilmente risultare da un esame superficiale della nostra vita.

Ma ciò non costituisce il tema portante del libro di Meadows. Giornalista americano che scrive per americani e in particolari per membri della middle class urbana e “civile”, egli scrive un classico libro di auto-aiuto, come ce ne sono tanti e come piace a un certo pubblico che cerca sicurezze in un mondo sempre meno a misura d’uomo. Tali testi spesso si distinguono per una sostanziale pochezza dei contenuti e per la riproduzione inconsapevole dei più vieti e ridondanti luoghi comuni sociali. Perciò sono da parte mia oggetto di un pregiudizio negativo.

 Nondimeno, a motivo dell’argomento, questa volta ho deciso di prendere in considerazione un esemplare di tale letteratura. In effetti il concetto di autodisciplina o self control contiene di per sé una certa carica innovativa rispetto al mainstream e quando un testo non ti propone felicità a buon mercato, ma il valore dello sforzo e della fatica, si può dire che già una discreta parte delle vacuità del nostro tempo siano poste fuori gioco. In tale senso non può non piacere l’esordio che recita: “La vita è facile quando la viviamo nel modo più duro”, un paradosso fecondo e un’intuizione creativa. Si potrebbero scrivere pagine e pagine per sciogliere l’ossimoro durezza-facilità, e ne verrebbe fuori sicuramente qualcosa di interessante, ma, ancora, non è questo lo scopo del libro. Gli anglosassoni, si sa, sono “pratici” e, se si vuole accostare la loro scrittura, non bisogna pretendere ciò che essi non intendono offrire, cioè una teoresi (quella possiamo metterla noi, eventualmente, quando ci sembra che sia indispensabile a salvare la prassi dai suoi vicoli ciechi). Il testo di Meadows è pertanto un testo di consigli e strategie che invitano a valutare la possibilità di rinunciare ai godimenti immediati per raggiungere “obiettivi a lungo termine”. Le intuizioni devono servire ad una precettistica di buon senso che l’Autore vuole anche arricchire di un certo corredo scientifico. Il suo servizio al lettore sarebbe quello di evitargli propriamente la fatica – e la noia – di leggere articoli e testi tecnici, per tradurre invece le loro conclusioni in indirizzi per la vita quotidiana. Ad essi  va però affiancato l’apporto dell’esperienza e della testimonianza di chi ha assunto come proprio lo stile di vita proposto. Come per altri testi di auto-aiuto, l’auto-testimonianza è fondamentale: “Io ce l’ho fatta, dunque anche tu puoi farcela” (Z. Bauman, nel suo La modernità liquida ha sottoposto a severa critica questo approccio alla Jane Fonda, che spesso non tiene conto della differenza di status e di condizioni tra l’autore e il destinatario del messaggio). D’altro canto con la freddezza di alcuni dati di psicologia sperimentale, individuale e sociale, e di neuroscienza sarebbe assai complicato toccare le corde più profonde dell’esistenza per mezzo di un discorso persuasivo ed efficace. Quindi il nostro Autore, accanto al suo sapere, propone se stesso, benché dentro i confini della pudicizia necessaria a non urtare le sensibilità probabilmente e anzi auspicabilmente diverse dei fruitori della sua opera.

Al suo interno alcuni punti mi hanno colpito e fatto riflettere. Anzitutto l’enfasi sulla motivazione. La volontà rinuncia al godimento immediato solo se adeguatamente motivata. Si fa qualcosa seguendo un certo imperativo, magari difficile ed esigente, solo se si è interiormente convinti. Verissimo, ma se noi disponessimo dei nostri “perché” e delle nostre convinzioni a piacimento, non vi sarebbe necessità di alcuno sforzo della volontà. Le motivazioni agirebbero direttamente e in modo naturale orienterebbero  decisioni e comportamenti. Così tuttavia non accade: noi non agiamo sempre secondo il nostro miglior proposito e coerentemente con le nostre convinzioni. Ecco allora la necessità di una riflessione sui nostri “perché” … che, d’altro canto, potrebbe condurre vicino ad un grande pericolo, quello di mettersi in questione … e se ci si mette in questione, la volontà rischia di andare a carte quarantotto

L’Autore evita accuratamente tale impasse, quando espone le “sue” motivazioni. Qui ogni approfondimento è bandito, anche a costo di cadere in un patente circolo vizioso. Egli ha fatto tantissime cose: digiuni, sforzi fisici estremi in condizioni estreme, docce gelate, lavori a ritmi molto duri etc. Perché? Con quale scopo finale? “Sfidare se stessi”, “testare i propri confini”, dice … e poi così conclude: “Gli esperimenti che faccio mi aiutano a capire meglio me stesso e mi insegnano cose utili sull’autodisciplina”… Ahi ahi, l’autodisciplina con lo scopo … dell’autodisciplina! Ecco il serpente che si mangia la coda, e quello che noi mestieranti di etica filosofica chiamiamo “nichilismo” (i circoli viziosi in logica sono circoli nichilistici in etica). Cioè: nulla … alla fine c’è il vuoto, faccio tante cose e non so perché. Voglio un perché fortissimo, perché altrimenti non riesco a resistere alle tentazioni, ma questo perché, tirate le somme, mi sfugge … rimane solo uno strumento per evitare le tentazioni: un altro circolo vizioso. Ma se un perché serve solo a evitare le tentazioni, non è un perché “forte” e vero, e allora nemmeno evita le tentazioni.

Ci sono un sacco di problemi, dunque, legati alla motivazione. Filosoficamente parlando è la questione inevitabile del valore supremo, di un assoluto che, posto al vertice della nostra scala di valori,  consente di uscire da un’assiologia meramente formale verso un’assiologia sostanziale, cioè di non valutare solo reciproci rapporti tra i propri valori, ma di andare a vedere quale sia il valore ultimo, non negoziabile, assoluto e non superabile che regge tutta la costruzione. Grande questione, forse la più importante della nostra vita. Grande questione dove in agguato è il dubbio, il ripensamento, la necessità di rivedere e rivedersi, la crisi, la caduta, forse l’abisso… Possiamo ritornare quindi alle nostre tecniche di autodisciplina, ma non dimentichiamo lo sfondo abissale che esse evocano e presuppongono.

Se teniamo presente quanto detto, il tema non è più il valore supremo ma la forza motivazionale degli obiettivi a lungo termine. Essi costituiscono appunto l’argomento pratico su cui si sofferma Meadows. Essi diventano un problema quando possono non avere la forza sufficiente a rendersi presenti al momento giusto, cioè nella situazione in cui la “tentazione” si presenta”. Allora, certo bisogna essere motivati, ma di fondamentale rilevanza diventano, da un lato, i modi di richiamo ed evocazione della motivazione, dall’altro, le tattiche di dilazione della soddisfazione. Sono queste le due strade della rinuncia: ricordare i propri fini e i propri buoni propositi, mentre si aspetta a soddisfare il desiderio dell’oggetto attraente qui ed ora.

Tutto ciò diventa più facile nella misura in cui se ne forma dentro di noi un habitus, un’abitudine (ti saluto vecchio Aristotele …  ma non lo fa Meadows che afferma “l’autodisciplina inizia con le abitudini”, e nemmeno ti cita!). In realtà verrebbe da osservare che per acquisire abitudini bisogna già autodisciplinarsi, ma è comunque vero che l’abitudine rafforza e facilita l’autodisciplina in un processo che si consolida nel tempo e con la ripetizione di atti “virtuosi”. Abbiamo detto che questi ultimi iniziano più propriamente con l’evocazione del “perché”: visualizzazione del motivo a lungo termine, immaginazione di “ogni azione in tutti quei piccoli dettagli che vi servono per raggiungere l’obiettivo”, con un costante “allenamento” per prepararsi alle sfide del mondo reale e un monitoraggio costante sul tempo presente e i suoi rischi e le sue seduzioni. Beh, se volete capire meglio tutto ciò dovete leggere il noto Esercizi spirituali e filosofia antica di Pierre Hadot. Potreste così ritornare alle indicazioni che Filone alessandrino trae dalla tradizione stoica e ancor prima da quella del già nominato Aristotele: i processi di deliberazione (farsi il “film” dell’obiettivo finale da raggiungere e da lì, a ritroso, arrivare a tutte le tappe che dal fine conducono alla nostra situazione presente, per stabilire la direzione del nostro cammino), l’immaginazione, la memoria e l’attenzione sono altrettanti esercizi da mettere in atto tutti i giorni, per realizzare il fine ultimo della vita filosofica, per offrire alla propria vita un logos, o meglio una fedeltà al logos cosmico che realizza a fondo la natura dell’uomo. Meadows ci suggerisce di immaginare le situazioni della vita, di prepararsi alle sfide e ai mali (preparatio malorum, la chiamavano gli stoici), di concentrarci sul presente di ciascuna sfida, incrementando ogni volta tenacia e costanza. Così egli si pone alla fine di una lunga tradizione, benché sembri non accorgersene.

Sicuramente il suo punto di forza è la scienza. Ai nostri giorni, non dobbiamo dimenticarlo, essa, volenti o nolenti, offre grande forza alle argomentazioni. La scienza è il punto d’appoggio di Meadows e dobbiamo perdonarlo se egli abbonda con l’espressione “studi scientifici dimostrano”. Dobbiamo ricordargli che gli studi scientifici “suggeriscono che”, “sembrano mostrare che”, “ipotizzano”, e che le dimostrazioni con la loro definitiva cogenza non appartengono all’ambito, sempre congetturale, della scienza. Tuttavia non possiamo non riconoscere che le sue considerazioni sul ruolo della secrezione di dopamina – questa potente fonte di piacere – sono assai interessanti nel delineare il peso della ricerca della soddisfazione edonistica nelle nostre decisioni. Altrettanto interessanti sono le osservazioni di psicologia sperimentale sull’affaticamento decisionale e sul ruolo dello stress nell’affievolire la nostra capacità di resistenza. Nel primo caso Meadows rileva che più si prendono decisioni più diventa difficile assumere quella sobria equidistanza dai fatti che ci fa comprendere bene le circostanze e ci rende capaci, alla bisogna, di opporvi l’energia sufficiente a vincerle. Riguardo allo stress egli nota: “Nel momento in cui il vostro umore peggiora, il cervello inizia la ricerca di una soluzione per farvi sentire meglio. Di solito questo significa la ricerca di un modo semplice per ottenere una ricompensa”. Affaticamento decisionale e stress hanno i loro rimedi, a volte simpaticamente saggi (come quello di prendere le decisioni importanti alla mattina) a volte un po’ scontati (come nel caso del massaggio “antistress”) che vanno ad aggiungersi alla serie di “esercizi” consigliati dal nostro autore, che riportano meritoriamente in auge pratiche dimenticate come il digiuno o la meditazione.

 A tal proposito il testo sconta un po’ la correttezza politica un po’ le mode culturali liberal americane. Sarebbe normale che in Occidente il digiuno fosse associato alle pratiche quaresimali cristiane e al precetto del venerdì, a ricordo della Passione di Cristo. Il medioevo cristiano ne offre una sterminata letteratura, che mostra a volte non solo profonda consapevolezza etico-filosofica ma anche notevole raffinatezza psicologica, oltre che, ovviamente, l’inesausta tensione alla perfezione evangelica (cfr. solo a titolo di esempio Agostino, L’utilità del digiuno;  Tommaso Somma Teologica, II-II, q. 147, a.1, ad 2, Francesco d’Assisi, Regula non bullata, 3,11 e Regula bullata, 3,6). Invece che cosa fa il Nostro? Parla del Ramadan: giusto, per carità, anche lì si tratta di digiuno; giusto ma non pienamente adeguato. La nostra mentalità si è storicamente formata sul cristianesimo e i suoi motivi ci rimangono, nonostante tutto, più familiari e comprensibili rispetto a uno spunto “astratto” preso a prestito da una tradizione lontana ed estranea (benché, agli occhi di un americano, seducente in quanto abbastanza “esotica” e “pittoresca”).

 Anche riguardo al tema della meditazione il riferimento è alle pratiche yoga connesse al “respiro”: tutto molto laico e “corretto”, per carità, ma poco affine alla nostra cultura e quindi più difficilmente assimilabile nel suo spirito autentico. Non si può infatti evitare di falsare una pratica che nasce dentro uno specifico contesto religioso, nella cornice di una specifica visione del mondo, quando semplicemente la si “utilizza” in modo completamente decontestualizzato per valorizzarne aspetti puramente psicologici, che nella tradizione di riferimento sono invece del tutto marginali. Viceversa l’Occidente possiede sue forme di meditazione legate alla tradizione ignaziana, a sua volta radicata nelle filosofie ellenistiche. Gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio risulterebbero una fonte molto fruibile da tutti coloro che ambiscono a “meditare”. Addirittura nel testo di Meadows, quando si tratta di illustrare il processo di “visualizzazione” dei fini, dei mezzi e delle dettagliate contingenze della nostra azione,  per meglio orientarla alle soluzioni migliori, sembra che inconsapevolmente si chiami in causa una modalità di pensiero che è tipica della prassi meditativa ignaziana che è designata con la locuzione “composizione di luogo” e che rappresenta un analogo excursus nel dettaglio del futuro e della condizione escatologica dell’anima, in grado di retroagire sulle emozioni, sui pensieri e quindi infine sulle concrete decisioni relative alla vita quotidiana. Come si vede, siamo talmente dentro ad una tradizione che le nostre riflessioni inconsciamente vi ritornano ogni volta che affrontiamo certi argomenti. È sensato rifiutarla schizzinosamente – magari in nome di qualche malcelato pregiudizio universalista, per cui  l’erba del vicino sarebbe sempre più verde – o abbandonarla nel dimenticatoio semplicemente perché la storia è “difficile”?

 Il passato è sempre una relazione con altri uomini e la relazione aiuta sempre nei propri esercizi e nel costruire le proprie cornici di senso. Basterebbe questo per costringersi a tenerne conto, anche perché, come molto opportunamente sostiene Meadows, l’autodisciplina non è mai un’impresa solitaria, ma è condotta in concreti contesti con concrete persone che possono ostacolare o facilitare il decorso della nostra volontà e dei nostri comportamenti. Qui egli avverte: fate attenzione alle compagnie! Il che è cosa ottima, ma nostra compagnia è anche il nostro passato, la nostra società di ieri e di oggi, la nostra civiltà. Bene: trattare questi temi non può essere la meta di un libro di auto aiuto, ma un piccolo accenno sarebbe utile farlo. Abbiamo, infatti, già menzionato un contesto storico-sociale che, oggi in particolare, ostacola programmaticamente ogni autonomia, anzi ogni positiva autarchia della volontà. Non c’è solo il cedimento individuale al godimento istantaneo, c’è altresì una società del godimento istantaneo che si regge su un’industria del godimento istantaneo. Ciò ha una storia. Gli effetti distruttivi sulla personalità umana e sulla sua capacità di accedere a un senso che dia pienezza e ricchezza alla vita sono sotto gli occhi di tutti e tutti facilmente li condannano. Ma, come ha specificato in sede critica Bauman, questo è il risultato di un processo durante il quale si è delineata una certa maniera e struttura del vivere comune. Coglierne le radici, criticarlo e opporvi altri possibili sviluppi è un compito dell’autodisciplina che, senza nulla togliere alla responsabilità individuale di saper nuotare controcorrente rispetto allo Zeitgeist, farebbe fiorire le sue possibilità nascoste e le potenzialità inaudite che la trasformazione del mondo contiene rispetto alla trasformazione del sé.

L’alternativa è una sorta di riflusso nel privato che può avere due motivazioni: da una parte lo sconforto rispetto a una realtà che non  puoi cambiare, che giunge alla disperazione quando ti accorgi che la realtà ti sta inesorabilmente cambiando; dall’altra la sottile strategia del confinamento nell’individuale come strumento di difesa e perpetuazione dello status quo sociale. In quest’ultimo caso il bell’ideale del dominio di sé diverrebbe ideologia…e sarebbe un peccato! Considerare invece l’auto-disciplina come una porta d’accesso al retroterra filosoficamente profondo e alle ricchissime tradizioni che pur richiama in chiave di visione generale della vita e dei rapporti umani sarebbe invece il suo più naturale e pieno compimento … oltre le chiusure dell’individuo e verso orizzonti più vasti e affascinanti.


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venerdì 14 agosto 2020

Storia popolare di Cristo in dodici capitoli


Dal materiale che usavo qualche anno fa per le mie lezioni di Religione Cattolica, ho estratto questo testo che intende brevemente illustrare la vicenda di Gesù. L'intento è chiaramente introduttivo e didattico, ma penso che non sarà difficile, a motivo dei contenuti, trarvi qualche spunto di riflessione. I lettori più esperti non faranno fatica, di là dalle citazioni, a trovare le fonti cui mi sono ispirato, che non ho potuto per motivi di tempo e spazio indicare sempre in modo analitico. 

Dai quattro Vangeli, contenuti nel Nuovo Testamento è possibile conoscere le vicende fondamentali che hanno caratterizzato la vita di Gesù. Nelle pagine che seguono si vuole fornirne un riassunto complessivo che procuri il materiale necessario a capire il senso che questa luminosa figura ha avuto per gli uomini del passato e ha ancora per noi oggi.

 Premessa: la situazione storico-geografica

La Palestina al tempo di Gesù si presenta frammentata. Dalla morte di Erode il Grande nel 4 a.C. essa era stata divisa tra i figli del re: Archelao aveva ereditato la Giudea; Erode Antipa la Galilea e la Perea; Filippo la Batanea, la Gaulanitide, la Tracotinide e l’Iturea (tutte al nord, mentre la Decapoli costituiva una sorta di confederazione di dieci città-stato di cultura ellenistica, poste sotto la diretta sovranità romana). L’incapacità politica e la crudeltà di Archelao avevano convinto i Romani ad annettersi direttamente la Giudea nel 6 d.C. , zona che governeranno per mezzo di un prefetto dipendente dal potere centrale (prefetto della Giudea negli anni Trenta del I secolo d.C. sarà il noto Ponzio Pilato). Alla nascita di Gesù a Betlemme in Giudea nel 6-7 a.C., la regione è ancora governata da Erode il Grande, mentre imperatore è Augusto.

Cap. I - L’inizio

A testimonianza che i Vangeli non sono testi di storia, ma testi religiosi (pur affidabili da un punto di vista storico), la vicenda di Gesù è narrata a partire da un fatto straordinario, che mostra l’intervento diretto di Dio nella vita di alcune persone a Gerusalemme.

Si tratta di un sacerdote del tempio, Zaccaria, che viene a sapere da un angelo che la moglie Elisabetta, ritenuta sterile fino a quel momento, è incinta. E’ questa una modalità tipica dell’agire divino, testimoniata in molti luoghi dall’AT: sin dall’esordio della storia di Gesù e sin dagli eventi accaduti ad alcuni dei personaggi non principali di questa storia, attorno alla sua persona si concentrano alcuni segni divini che ce ne fanno capire la straordinaria grandezza e la destinazione ad essere il collettore delle speranze e delle profezie elaborate nel passato religioso ebraico.

Elisabetta sarà madre del Precursore, cioè di quel Giovanni il Battista che andrà annunciando la venuta del Messia fino al momento in cui egli stesso lo incontrerà nella sua veste autentica e avrà da Dio conferma della sua identità.

Elisabetta è anche cugina di Maria, il vero personaggio centrale dell’iniziale vicenda di Gesù. Anche Maria riceve da un angelo l’annuncio che sarà incinta e propriamente incinta di Gesù. Ella non è ancora sposata ed è una vergine “che non conosce uomo”. Ma allo spirito di Dio tutto è possibile e Maria ha una fede grande. Ella accetta in tutto quella che è la volontà di Dio. Con la forza che le deriva dalla verità, comunica a Giuseppe, suo promesso sposo, la sua condizione, mettendolo in serio imbarazzo: le leggi giudaiche non andavano per il sottile con le donne che erano sospette di adulterio e il fidanzamento ufficiale era una sorta di pre-matrimonio che già comportava l’essere sottoposti alle leggi inviolabili della condizione coniugale. Giuseppe riflette, si chiede che cosa deve fare, tituba, ma alla fine crede alla ragazza e crede anche a Dio, che lo ispira e lo induce a sposarla e ad accettare veramente come figlio voluto da Dio, il frutto del grembo della fidanzata.

Dove nasce Gesù? Gesù è chiamato il Nazareno, perché ha vissuto a Nazareth, città dove abitavano i suoi e tutti i parenti. Tuttavia la sua nascita viene collocata dalla tradizione evangelica a Betlemme, luogo dal quale, secondo il profeta Michea (Mic 5,1) sarebbe venuto il Messia, a motivo di un censimento istituito dai Romani. Infatti Maria e Giuseppe si devono registrare presso la loro città natale, che è appunto Betlemme, e dunque vi si trasferiscono mentre Maria è all’ultimo mese di gravidanza. Qui viene partorito Gesù, qui viene circonciso e, con il breve tratto di strada che separa Betlemme da Gerusalemme, presentato al tempio dove è riconosciuto Messia da un giusto chiamato Simeone e dalla profetessa Anna. Subito riportato a Betlemme, Gesù riceve la visita di tre misteriosi personaggi orientali di stirpe regale, i magi, i quali hanno letto nelle stelle l’approssimarsi di un grande evento e hanno voluto essere presenti, portando doni a Colui che con la sua nascita avrebbe cambiato la storia del mondo e dell’umanità. L’omaggio di tre re ad uno che nasce con un destino da re e che evoca con la sua nascita le più luminose profezie dell’AT sul Messia che avrebbe liberato Israele da ogni oppressione, preoccupa l’arrogante e sanguinario Erode il Grande, che già non aveva esitato a far uccidere un suo figlio per questioni di potere. Erode, appresa la notizia della nascita di uno che avrebbe potuto mettere in discussione il suo potere, e non sapendo esattamente contro chi scagliarsi, ordina di far uccidere tutti i neonati maschi della città (la strage degli innocenti). Ma Giuseppe e Maria, avvertiti per intervento di un messaggero divino, fuggono in Egitto e salvano la vita al loro figlioletto.

In questo frangente la narrazione evangelica insiste su alcuni elementi simbolici, tralasciando le preoccupazioni più direttamente storiche. Sebbene vi siano notizie certamente storiche relative a Erode e al censimento, l’intento degli evangelisti (Luca e Matteo), infatti, in questo caso non è descrivere esattamente i fatti avvenuti, ma dare al lettore un’indicazione sul senso della nascita di Cristo alla luce delle profezie anticotestamentarie. Si sottolinea qui che Gesù è il Messia preannunciato dai profeti, quel Messia che gli stessi pagani, i magi nella fattispecie, avrebbero riconosciuto, e che questo Messia avrebbe incontrato l’opposizione tenace del potere costituito. Queste pagine dunque annunciano, parlando della nascita di Gesù, quello che effettivamente Gesù sarebbe stato: una persona grande per la sua vicinanza a Dio, capace di essere compresa da tutti gli uomini di buona volontà, sia giudei, sia estranei al giudaismo, e scomoda per i potenti e i malvagi.

 CAP. II - Gesù nel Tempio e il battesimo da Giovanni

 I Vangeli non raccontano altro dell’infanzia di Gesù, eccetto un episodio, narrato da Luca: la famiglia di Gesù da Nazareth dove risiedeva si sposta, come faceva ogni devoto fedele ebreo, a Gerusalemme per le celebrazioni nel tempio della festa di Pasqua (Pesah, cfr. Es. 12), l’annuale festa ebraica che ricorda l’esodo dall’Egitto e il ritorno felice in Canaan. Gesù ha 12 anni. Leggiamo che cosa ci dice Luca:

“I suoi genitori (di Gesù, n.d.r.) si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa della Pasqua. Ora, quando egli giunse all’età di dodici anni, vi salirono secondo l’usanza della festa; e ,trascorsi quei giorni, al momento del ritorno il fanciullo Gesù rimase in Gerusalemme; e i suoi genitori non se ne accorsero. Pensando che egli fosse nella carovana, percorsero una giornata di cammino, cercandolo tra parenti e conoscenti. Ma, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme per ricercarlo. E tre giorni dopo lo ritrovarono al tempio, seduto in mezzo ai dottori ad ascoltarli ed interrogarli. E tutti, tutti quelli che l’ascoltavano si stupivano della sua intelligenza e delle sue risposte. Al vederlo i suoi genitori rimasero sorpresi, e la madre disse: ‘Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io ti abbiamo cercato angosciati’. Rispose loro: ‘Perché mi cercavate? non sapete che io devo attendere alle cose del Padre mio?”. Ma essi non capirono ciò che aveva detto loro’” (Lc 2, 41-50).

Abbiamo qui un tipico atto di disubbidienza adolescenziale, che mette preoccupazione ai genitori di Gesù. Ma la cosa eccezionale è che tale atto già rivela un tratto della personalità di Gesù: l’interesse per le “cose di Dio” che egli chiama “il Padre mio”; qui in un colloquio con i dottori del tempio emerge già la straordinaria intelligenza con cui Gesù parla di Dio, che in età adulta saprà affascinare le folle e sarà accompagnata anche da coraggio e coerenza di vita.

I racconti evangelici dell’infanzia qui si interrompono, per riprendere la narrazione al momento in cui Gesù ha circa trent’anni e comincia la sua vita pubblica. Il primo atto di Gesù è un atto di purificazione e di umiltà. Gesù ha notizia di suo cugino Giovanni, che è diventato un predicatore e ha ideato un nuovo rituale, la cui simbologia egli pur riprende da tradizioni molto antiche. Sin dai primordi della storia di Israele, l’acqua ha avuto un significato simbolico legato alla purezza e alla purificazione: l’acqua è ciò che lava via le sporcizie, dunque come colui che lava il proprio corpo lo rende pulito, simbolicamente colui che vuole lavare il proprio animo deve utilizzare il medesimo elemento come uno strumento di purificazione “spirituale”. Da qui il rito del battesimo, praticato da Giovanni come segno di una volontà di mondarsi dai peccati della propria vita passata per affacciarsi ad una nuova vita che Dio ha promesso ai suoi fedeli e a tutti coloro che hanno la volontà di entrare nel suo regno. La venuta del regno di Dio, in consonanza con la predicazione profetica, è vicina, e sarà preceduta dall’opera di un Messia che, inviato appositamente da Dio, guiderà il popolo di Israele verso una nuova e definitiva liberazione. Bisogna dunque prepararsi. Giovanni invita energicamente gli uomini di Israele ad iniziare una vita di penitenza e purificazione, perché il Messia è vicino, anzi...è proprio lì. Così Gesù si reca da Nazareth, in Galilea, a sud in Giudea, nei pressi di Betania sul fiume Giordano, non molto lontano dal punto in cui il fiume sgorga dal Mar Morto. Gesù compie un atto di umiltà, cioè, sottoponendosi egli stesso, che è il Messia annunciato dai profeti e dallo stesso Giovanni, alla purificazione battesimale, manifesta la volontà di condurre alla salvezza il popolo di Israele, non dall’alto di una posizione “privilegiata”, ma accompagnando i peccatori, passo passo, a partire dalla loro condizione, verso la redenzione, cioè verso la liberazione dal peccato. Giovanni dunque, pur con ritrosia, dovuta appunto al fatto che il battesimo era per i peccatori e colui che aveva di fronte certo non ne avrebbe avuto bisogno, accetta di battezzare Gesù. Giovanni vedendo arrivare Gesù dice: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo!” (Gv, 1,29). Questa affermazione è assai significativa. L’agnello infatti è per gli ebrei un animale sacrificale, secondo Es 12 Dio in occasione della decima piaga d’Egitto, aveva prescritto di immolarlo e mangiarlo arrostito, spargendo il suo sangue sugli stipiti delle porte, le cui case sarebbero così state preservate dall’uccisione di tutti i primogeniti d’Egitto. Dunque il sacrificio dell’agnello preserva gli ebrei dall’ira divina e li consegna alla salvezza. Tale rito diviene momento caratterizzante la festa della Pasqua che appunto ricorda l’uscita dall’Egitto, cioè il dono di una salvezza dagli oppressori egiziani e il cammino di liberazione (esodo) verso la terra promessa. I profeti, in particolare Isaia, utilizzeranno il termine “agnello” come metafora del sacrificio salvifico per eccellenza, che aveva per protagonista il servo sofferente, colui che offre se stesso per la salvezza di tutti (cfr. il tema profetico del “servo sofferente” in Isaia). Evidentemente sin dall’inizio la persona di Gesù assume i connotati dell’agnello sacrificale, anticipando significativamente gli episodi della passione.

Subito dopo il battesimo si assiste ad una tipica teofania, che nel racconto evangelico ricalca ancora schemi letterari tipici dell’AT (Is 42,1; Sal 2,7):

“Appena battezzato, Gesù uscì subito dall’acqua. E ecco il cielo si aprì ed egli vide lo Spirito di Dio in forma di colomba scendere e venire su di lui. E una voce dal cielo diceva: ‘Questi è il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto’” (Mt 3, 16-17). 

Teofania significa “manifestazione di Dio”. Le teofanie, teologicamente parlando, sono segni eccezionali che Dio dà all’uomo, circa la sua presenza nella storia. Essi sono narrati a partire da un’esperienza collettiva dell’irruzione di Dio in un dato tempo e in un dato spazio, con modalità adatte ad essere comprese dagli interlocutori. Il loro scopo è segnalare un evento non-ordinario di cui i partecipanti comprendono chiaramente la natura soprannaturale di messaggio divino, di dono divino agli uomini perché capiscano e credano. In questo caso siamo in presenza di una sorta di legittimazione divina della missione di Gesù: Dio stesso si presenta come colui che si “compiace” del suo figlio prediletto, quel Messia consacrato a Dio, dunque particolarmente vicino a Dio, cui Jahvè affida la missione di ricondurre il suo popolo (e tutta l’umanità) alla salvezza. Giovanni, che per la sua opera di battesimo delle folle, sarà chiamato il Battista, è anche indicato come il Precursore, cioè come colui che poco prima dell’inizio della missione del Messia, lo ha annunciato, aprendogli la via.

Cap. III – Le tentazioni del deserto

Dopo il battesimo Gesù si reca nel deserto per un periodo di digiuno, preghiera e riflessione. Egli vuole fare il vuoto attorno a sé e dentro di sé per meglio accogliere la parola del Padre. Gesù è un uomo come tutti e la sua divinità, l’essere il Verbo incarnato, è tutta dentro la sua umanità. Dunque ha bisogna di pregare, di meditare e di raccogliersi per mettersi in relazione con Dio Padre perché, adesso che egli è uomo, il rapporto con Lui non può non passare attraverso gli strumenti che sono dati agli uomini, con tutti i rischi che gli uomini corrono di non trovare quello che cercano o di cedere alle tentazioni legate alla corporeità bisognosa che caratterizza la nostra esistenza terrena. Proprio su quest’ultima vorrebbe far leva il Diavolo o il Tentatore con cui Gesù nel deserto dà vita ad una vera e propria disputa.

Chi è il Diavolo? Anzitutto il Diavolo non è la personificazione del Male. Non esiste alcun principio del Male, il male non è un anti-Dio contrapposto a Dio, non c’ simmetria, non c’è proporzione. Il Bene e il Male non sono mai sullo stesso piano. Il Bene può infatti stare da solo, il Bene ha una sua autonoma sussistenza, il Bene “è” sempre qualcosa; il Male è sempre un’opposizione, una contrapposizione, una negazione del Bene, che non esiste se non in virtù del Bene che egli vuole avversare. Come dice un grande santo filosofo, Agostino di Ippona, il Male c’è dove manca il Bene, il Male è una mancanza, una privazione, e quindi una negazione di qualcosa di positivo.

Dunque il Diavolo, Satana o il Tentatore, non è un essere divino che si mette contro il Dio del Bene (come credevano i Manichei, seguaci di una religione orientale che ebbe qualche successo nei primi secoli dopo Cristo), bensì semplicemente una creatura spirituale che si è allontanata da Dio e pervicacemente insiste nel voler essere lontana da Dio. Tutta la sua malvagità sta nel preferire se stessa al suo creatore (di qui la sua proverbiale superbia).

Creatura spirituale significa creatura angelica, ma anche qui non bisogna equivocare, facendo troppo caso all’iconografia tradizionale che ha finalità didattiche ed estetiche. Una creatura spirituale è un essere la cui vita appartiene totalmente alla dimensione dell’invisibile, il cui essere è l’essere di un’intelligenza e di una identità non limitata dai confini di un corpo, un’identità posta in un rapporto di visione diretta di Dio.

Esiste un tale tipo di creatura? Certo la sua esistenza è un dato di fede, e noi lo apprendiamo positivamente dalle Scritture, tuttavia, riflettendo, bisogna assolutamente tener conto che non vi è nessuna contraddizione al pensiero della sua esistenza. Noi siamo sicuri di possedere un’identità, cioè di essere delle persone concrete, in virtù non solo del nostro corpo, ma anche e soprattutto del nostro pensare, ragionare, provare emozioni e sentimenti, della nostra immaginazione, della nostra fantasia, delle nostre capacità intuitive, e infine del nostro “sapere di noi stessi” (coscienza). Tutto ciò è riferito a quello che noi chiamiamo, nella tradizione greca e giudaico-cristiana, “anima” o “spirito”, e che oggi i non credenti si limitano ad indicare con il termine “mente”. Dunque non c’è nessun motivo, data la certezza che noi abbiamo della nostra esistenza spirituale, per non ritenere possibile che possano darsi esistenze capaci di svilupparsi in una vita interamente spirituale. Tali sono gli angeli.

 Quando si parla di loro, dobbiamo intendere intelligenze che, malgrado il loro più stretto rapporto con Dio, hanno mantenuto una loro libertà, perché le creature che Dio ha fatto spirituali, ha fatto anche libere. E’ possibile quindi che dalla loro condizione “privilegiata” di vicinanza al Creatore, esse abbiano potuto distogliersi e allontanarsi...cosa che precisamente ha fatto il Diavolo in modo ostinato e invidioso.

 Anche qui non bisogna portare su un piano banalmente narrativo, quello che è invece una vicenda cosmico-spirituale, che va descritta come “lo spirito che si ribella allo spirito”, cioè il sorgere nell’abisso della libertà dello spirito di un sentimento di odio innanzitutto verso se stesso, un odio di sé che diventa opposizione al propria Origine ultima (Dio) e a tutto ciò che viene da Dio. Il processo non è fino alla fine comprensibile (tanto che S. Paolo  parla di mysterion tes anomias, mysterium iniquitatis), ma lo diventa, almeno in parte, se calandolo nella nostra esperienza, riflettiamo sulla possibilità che la nostra libertà, che può tutto e il suo contrario (altrimenti non sarebbe libertà), diventi un’arma che usiamo contro noi stessi e contro gli altri per il solo fatto che possiamo farlo. Non è forse questa l’origine del male?

Da questa libera scelta del male, dalle profondità abissali del suo spirito, ecco allora il livore del Diavolo contro tutto quanto appartiene al mondo di Dio. E da qui il suo voler sedurre, cioè condurre a sé gli altri con l’assurda pretesa che l’essere in tanti nel torto, conferisca al torto l’immagine della ragione e della giustizia.

Ecco allora il malizioso, anche se a ben vedere patetico, progetto di tentare lo stesso Messia in tre fasi. Prima, di fronte a Gesù che prova fame, il Tentatore gli suggerisce di mutare le pietre in pani, poi fa leva sulla possibilità che Gesù possa provare un certo orgoglio di sé, un certo compiacimento per se stesso, dimostrando di essere il Figlio di Dio con il buttarsi dal pinnacolo del tempio senza morire, poiché gli angeli sarebbero accorsi a sostenerlo, infine fa leva sulla volontà di potere che tutti gli uomini hanno, offrendo a Gesù “tutti i regni del mondo e la loro gloria” a patto che egli si prostri ad adorarlo. Gesù risponde sempre con riferimenti biblici che attestano la sua saldezza nel rifiuto della tentazione, in linea con la parola stabile del Padre: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Dt 8,3); “Non tentare il Signore Dio tuo” (Dt 6,16); “Adora il Signore Dio tuo, a lui solo rendi culto” (Dt 6,13). Una volta respinta la tentazione, i Vangeli ci danno un’immagine molto bella di una comunione più grande che Gesù stabilisce con Dio Padre e con tutta la creazione, di un’interiore serenità che solo un rapporto sincero e soddisfacente con il Creatore può garantire: “Allora il diavolo se ne andò ed ecco angeli gli (a Gesù, n.d.r.) si accostarono e lo servivano” (Mt,  4,11, cfr anche per tutto l’episodio, Lc 4).

Cap. IV - La chiamata dei Dodici 

Dopo aver rifiutato le tentazioni e aver passato in preghiera e meditazione quaranta giorni, Gesù torna in Galilea (a nord) e comincia a cercarsi dei compagni di strada. I primi sono Pietro e Andrea, due fratelli, poi Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. Tutti sono pescatori, che risiedono nei dintorni del “mare di Galilea”. La dinamica della chiamata è sempre reciproca: Gesù chiama mentre i suoi lo riconoscono come un personaggio messianico e mostrano una subitanea fede in lui. Così nei Vangeli, in questi episodi si riconosce l’esperienza più generale della fede, che non è mai un atto che parte da un individuo per giungere ad un altro (non parte mai da Dio solo che chiama alla fede, né solo dall’uomo che decide di credere), ma è sempre un movimento duplice, mentre Dio chiama, l’uomo lo riconosce e se ne sente affascinato. Su questo reciproco riconoscimento, che scaturisce dalla chiamata si fonda propriamente la Chiesa, esattamente per questo indicata dalla tradizione come la Sposa di Cristo. Ciò significa anche che il legame tra Cristo e gli apostoli, primo nucleo della Chiesa, è indivisibile come un matrimonio, a prescindere dalla maggiore o minore fedelta della Sposa. Ciò è la radice, altresì, di quella missione affidata dallo Sposo alla Sposa di annunciare con verità il suo Vangelo in tutti gli angoli della Terra, e di difenderne l'integrità dalle insidie del male che opera nella storia. Da qui l'inevitabile conseguenza per la quale "non c'è salvezza al di fuori della Chiesa": essa infatti annuncia e garantisce la via della salvezza, cioè il Vangelo di Gesù e la fede che redime.

Dal lago di Genesaret (il “mare di Galilea”), Gesù si sposta a Cana, vicino a Nazareth, dove lui e Maria sono invitati per un matrimonio. I festeggiamenti durano molti giorni, fino a che l’ospite finisce le bevande e, su richiesta di Maria, Gesù interviene trasformando una grande quantità d’acqua in vino eccellente. E’ questo il primo miracolo di Gesù e non a caso avviene durante un banchetto. Il banchetto è luogo di festa e di relazione, attorno alla tavola si gioisce e cibo e bevande, diremmo oggi con il linguaggio della moderna psicologia, sono oggetti transizionali, cioè sono oggetti che mettono in comunicazione le persone. Festa e relazione sono segni di una realtà futura, segni della realtà piena del regno di Dio che Gesù viene ad annunziare, che non a caso è dalla tradizione indicato appunto con il simbolo del banchetto. Nel banchetto messianico tutti gli uomini potranno sperimentare la felicità di essere in comunione con gli altri, una comunione piena e festosa, non turbata dalla falsità, dall’angoscia, dalla povertà e dalla morte. Il Regno è dunque una festa dell’abbondanza in senso totale, e Gesù nel suo primo miracolo ne dà, come dire, un “assaggio”.

Successivamente Gesù si reca a Cafarnao, nuovamente sulle sponde (nord occidentali) del lago di Genesaret. Qui entra in sinagoga e insegna con autorità. Le sinagoghe erano dei luoghi di preghiera, di lettura della Torah e anche delle scuole in cui venivano impartiti i principali insegnamenti della tradizione religiosa. Erano sorte in tutti quei luoghi in cui per gli Ebrei era materialmente impossibile, a causa della lontananza da Gerusalemme, recarsi al Tempio, l’unico posto dove i sacerdoti potevano compiere i riti sacrificali. Nelle sinagoghe gli Ebrei più o meno lontani da Gerusalemme - ricordiamo che sin dall’esilio è iniziato il processo di dispersione (diaspora) delle comunità ebraiche prima nel Medio-oriente persiano, poi nei territori dei regni ellenistici e poi in quelli dominati da Roma, e quindi molti ebrei risiedevano a grande distanza dalla città santa - potevano riunirsi e, attraverso l’ascolto delle Scritture, mantenere vivo il loro sentimento religioso e la loro identità culturale. Progressivamente la sinagoga diventa un’istituzione diffusa anche in Palestina, come utile elemento che arricchisce la vita religiosa in luoghi che per tutti mantenevano dal Tempio una distanza che, pur non esorbitante, non era normalmente percorribile.

Ebbene, l’insegnamento di Gesù in Sinagoga stupisce per la profondità e per la capacità straordinaria di comprendere il senso più autentico delle Scritture. Oltre a ciò esso sconcerta per il segno da cui è accompagnato: l’esorcismo di uno spirito immondo che esce dal corpo di una persona su comando di Gesù, dopo aver riconosciuto in lui il Santo di Dio. E’ questa una prima guarigione spirituale, cui seguiranno molte altre, ad indicare che il potere del Messia si esercita soprattutto sulle anime, quelle malate per il peccato che consapevolmente compiono, ma anche quelle trascinate nel peccato da una forza interiore più grande di loro (il demone, lo spirito impuro), che le ha conquistate e tratte a sé.

Gesù dopo questo episodio, chiama a sé gli altri Apostoli, fino al numero simbolico di 12, come le 12 tribù di Israele, numero che significa totalità, pienezza, universalità, ad indicare un messaggio che egli rivolge a tutti. Gli altri Apostoli sono Filippo, Bartolomeo (chiamato anche Natanaele), Metteo (o Levi), Tommaso (o Didimo), Giacomo figlio di Alfeo, Simone, Giuda Iscariota e Giuda (o Taddeo). Con loro intraprende un viaggio verso Gerusalemme per la festa di Pasqua, possiamo collocare il trasferimento nell’aprile del 28 d.C. (data puramente congetturale e utile solo per orientarsi). Nel Tempio Gesù si scandalizza del mercato di oggetti e animali per i sacrifici che si è installato al suo interno, pur nel portico più periferico. Così, con gesto risoluto e a sua volta generatore di sorpresa, scandalo e confusione, egli caccia i mercanti “dalla casa del Padre” suo. Con questa azione non vuole condannare lo scambio commerciale in sé, ma l’accostamento irriverente e sacrilego, dell’interesse umano alle cose di Dio, che per loro natura sono scevre da ogni ricerca di guadagno. Non si può lavorare per il proprio profitto proprio là dove Dio dona gratuitamente ed esorta gli uomini a fondare le loro relazioni sulla gratuità. Non si può insomma lucrare sulle cose di Dio, che sono per loro natura impagabili.

Questi episodi preludono al periodo vero e proprio dell’impegno di Gesù in una lunga predicazione itinerante attraverso la Galilea, la Samaria e, in ultimo, la Giudea.

 Cap. V - Da Gerusalemme alla Galilea

Gesù è a Gerusalemme. Dopo aver compiuto il gesto della cacciata dei mercanti dal tempio, arriva la sera. Lo raggiunge un fariseo di nome Nicodemo per porgli alcune domande. Egli è un uomo in vista, appartenente al Sinedrio, curioso, intelligente, ma un po’ pavido. Infatti non si vuole far vedere alla luce del sole con un uomo come Gesù, che già ha dato prova di anticonformismo, attirandosi il sospetto di coloro che per condizione sociale e culturale mal digerivano ogni novità che potesse sconvolgere gli assetti di potere esistenti.

Il dialogo tra Nicodemo e Gesù ruota attorno al concetto di “rinascita dall’alto”. A Nicodemo che gli si rivolge per capire meglio il suo messaggio, Gesù risponde che nessuno può capire il senso delle sue parole, e quindi nessuno può entrare nel Regno di Dio che Gesù viene ad annunciare, se non “rinasce dall’alto”. Rinascere dall’alto è un’espressione simbolica che significa cambiare completamente la propria vita a partire da una nuova e più profonda vicinanza a Dio (che sta nei cieli e dunque, simbolicamente “in alto”). Dio, infatti, consente a chi aderisce al suo messaggio di considerare il proprio passato come se non fosse mai stato, perché ha il potere di rigenerare completamente la vita umana, come appunto se un individuo potesse rinascere. Il termine “rinascita” e la sua interpretazione spirituale non doveva sorprendere Nicodemo visto che era usato dai rabbini per descrivere la nuova vita che i proseliti (pagani convertiti al giudaismo) potevano iniziare una volta conosciuta la legge di Jahvè.

Tuttavia Nicodemo interpreta le parole di Gesù in modo grossolanamente materiale. Le sue domande lo dimostrano chiaramente: "Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?".  Gesù però insiste e parla di una rinascita mediante l’acqua (allusione probabile al battesimo di Giovanni) e lo Spirito, quello Spirito di Dio che si contrappone alla carne. La carne è l’aspetto esteriore della vita, il corpo e basta; lo Spirito è la vita stessa nella sua più alta accezione: intelligenza, emozione, capacità di cogliere il senso del creato e la sua bellezza, libertà, amore. Lo Spirito nel linguaggio giovanneo (l’intero episodio è tramandato solo dal Vangelo di Giovanni - 3, 1-21) è la stessa divinità in quanto capace di attrarre a sé gli uomini e unirli in un vincolo di amore. Se uno ascolta la carne, interpreta le parole di Gesù in senso letterale e materialistico e allora dice: “Come può l’uomo rientrare nel grembo di sua madre”; se viceversa si ascolta lo Spirito, ci si eleva al livello di Dio e si capisce veramente ciò che Dio vuole dire agli uomini. E lo Spirito è come il vento, soffia dove vuole e non essendo altro che la misteriosa e amorevole volontà di Dio, può in qualsiasi momento prendere l’uomo e portarlo con sé, facendo della sua vita qualcosa di completamente diverso da ciò che era prima.

Il Vangelo non ci racconta come reagisce Nicodemo, soprattutto quando Gesù afferma al culmine del suo discorso: “Dio ha talmente amato il mondo che ha dato suo Figlio unigenito, affinché chiunque creda in lui non si perda, ma abbia la vita eterna”. Si tratta qui di un’esortazione a credere che è anche una rivelazione dell’autentica identità di Gesù: il Figlio unigenito venuto a portare la salvezza di Dio Padre. Il livello è adesso forse veramente troppo alto. Probabilmente il contegno di Nicodemo sarà stato quello di un silenzio pieno di stupore e al tempo stesso incomprensione, come di chi fa fatica a capire ma intuisce qualcosa... Ritroveremo Nicodemo subito dopo la morte di Gesù (Gv 19,39-42), a raccogliere il suo corpo e a deporlo nel sepolcro, da dove il Messia sarebbe risorto. Le parole di Gesù a Gerusalemme avrebbero evidentemente fermentato nel suo animo, fino ad una più piena, anche se lenta, conversione.

Dopo l’episodio Gesù soggiorna ancora un po’ di tempo in Giudea e qui apprende dell’arresto di Giovanni da parte di Erode Antipa, re della Galilea.

Al ritorno in Galilea, Gesù passa attraverso la Samaria e si trattiene presso la sua antica capitale Sichem (o Sicar), recandosi ad un pozzo chiamato “il pozzo di Giacobbe”. La Samaria è una regione abitata da coloro che durante l’esilio babilonese non erano stati deportati e si erano mischiati con gli invasori. Al loro ritorno, gli ebrei esiliati cominciano a considerare queste persone non più appartenenti al popolo eletto, anche se in realtà i samaritani avevano mantenuto grossomodo la fede in Jahvè. Da qui un’antipatia ed un latente conflitto che si sarebbe protratto fino ai tempi di Gesù. Dunque, per gli ebrei devoti, i samaritani erano gente impura. Ma a Gesù non importano questi pregiudizi: anzi in un solo episodio ne elimina due, quello appunto nei confronti dei samaritani e quello nei confronti delle donne. Egli, infatti, incontra ad un pozzo una donna samaritana che in più fa la prostituta. Parla con lei, cosa che un rabbi ebreo non avrebbe mai fatto, in primis perché donna e addirittura prostituta, e poi perché samaritana. Gesù la ascolta, la capisce anzitutto sul piano umano, mostra di intuirne anche la vita dissoluta, ma non per questo evita di parlarle. In particolare le espone le ragioni che hanno i giudei nel mantenere l’istituzione del Tempio di Gerusalemme che i samaritani rifiutavano, ma afferma che giungerà un tempo in cui gli uomini adoreranno Dio in Spirito e verità, a prescindere da luoghi e santuari più o meno diversi. Quello è il tempo del Messia. Ma Gesù aggiunge: il Messia è lui stesso che sta parlando. Gesù quindi si rivela ad una donna, ad una prostituta e ad una straniera impura, sconvolgendo tutte le convinzioni moralistiche degli ebrei del tempo. Il suo modo di approcciare l’umanità di quella donna è così stupefacente, profondo e convincente che ella va in giro immediatamente a riferire ai suoi compaesani di quello straordinario incontro e della possibilità di avere veramente incontrato il Messia. A Sicar infatti molti apprezzano ed accolgono ciò che Gesù dice circa il Regno di Dio che lui è venuto ad inaugurare.

Una volta raggiunta la Galilea, Gesù, facendo base a Cafarnao, comincia un giro di predicazione in tutta la regione. Se a Sicar gente straniera e tendenzialmente ostile l’aveva compreso, a Nazareth, nella sua città invece le persone lo rifiutano. Di qui il famoso detto: “Nessuno è profeta in patria”. Al di là della forma proverbiale, bisogna però riflettere sul fatto che a Nazareth tutti conoscevano le origini di Gesù e facevano fatica, data l’immagine ancora grezza e primitiva che avevano del Messia (un re glorioso e potente che spazza via i nemici di Israele), a comprendere la novità del suo atteggiamento, del suo comportamento e del suo messaggio. Meglio accadrà nei villaggi di quella stessa regione, dove Gesù opererà numerose guarigioni e comincerà ad ottenere un vasto seguito.

Cap. VI – Il discorso della montagna

Qualche tempo dopo Gesù, nel corso delle sue peregrinazioni in Galilea, incontrando molto successo con un notevole seguito di folla, decide di riassumere, in un messaggio, chiamato discorso della montagna, il senso della sua concezione del Regno di Dio. In questo frangente egli non descrive le caratteristiche del Regno, abbondantemente specificate dei profeti, bensì indica le persone alle quali è riservato. Indirettamente, dunque, egli dice ai suoi ascoltatori, e a noi, come si deve vivere la nostra vita per potervi far parte. Ecco le parole del Messia, così come ci sono riportate dal vangelo secondo Matteo (5, 1-12).

1Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli.

2Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:

3"Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
5Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

Alcune precisazioni lessicali

Anzitutto dobbiamo capire bene a quali categorie di persone Gesù si rivolga.

Chi sono “i poveri in spirito”? “L’espressione [...] andrebbe resa con ‘povera gente che viene tormentata’; a partire dai testi di Qumran sappiamo, infatti, che il ‘povero in spirito’ è colui che viene tormentato dal punto di vista psichico [...]. Gesù pensa a coloro che soffrono nel corpo e nello spirito, a coloro che assumono volontariamente su di sé il dolore” (K. Berger, Gesù, Queriniana, Brescia, 2006, p.150).

Chi sono i miti? Sono i mansueti, coloro che non rispondono con violenza alla violenza, coloro che vedono in ogni uomo la sua dignità e la rispettano.

Chi sono i misericordiosi? Coloro che sanno perdonare, coloro che non “scagliano la prima pietra”, perché in ogni peccatore vedono l’immensa tristezza del fatto che, con il suo peccato, butta via la sua vita. Essi sono più commossi e rattristati che scandalizzati. La loro reazione è quella di cercare ogni appiglio per risollevare le persone dal loro stato di peccato, di non confinare e rinchiudere le persone nel recinto angusto della loro bruttura, ma non appena possibile di farle scappare fuori, di perdonarle e incoraggiarle ad una nuova vita.

Chi sono i puri di cuore? Sono semplici, ingenui, idealisti. Essi non calcolano, non hanno fiuto per il loro interesse. Non lo vedono perché hanno in mente qualcosa di più grande. Per questo spesso passano per stupidi...un prezzo tutto sommato accettabile, se lo sguardo della mente e della volontà è rivolto a ciò che è massimamente bello, buono, desiderabile.

Chi sono gli operatori di pace? Non bisogna pensare qui ai cosiddetti “pacifisti”. Essi operano, creano pace proprio perché non hanno un’ideologia da affermare. I pacifisti spesso agiscono da arroganti, perché si sentono i portatori dell’ideale più alto e più giusto. Dunque si sentono in diritto di dar lezioni agli altri e di considerare coloro che pacifisti non sono (senza per questo essere dei guerrafondai) alla stregua di ignoranti, corrotti, malvagi da combattere. Il risultato, chiarissimo se badiamo bene alle motivazioni delle ultime guerre che sono state combattute nei nostri tempi, è che in nome della pace si fa la guerra, magari la più crudele, l’ultima guerra che deve cancellare dal mondo i malvagi e quindi la guerra contro tutte le guerre...in fondo una guerra di sterminio. Gli operatori di pace invece considerano la pace il prodotto di una giustizia di cui loro stessi devono essere portatori. Se vuoi la pace anzitutto non offendere e non disprezzare nessuno, togli terreno al conflitto anzitutto nel tuo modo di comportarti, sapendo che chi non ferisce nessuno, ha già fatto molto e ha già realizzato in sé quella pace alla quale gli altri crederanno, perché la vedranno incarnata in un comportamento concreto.

 Beati...qual è il verbo sottointeso?

In ogni frase di Gesù il verbo sottointeso è “sono” (beati sono i poveri, beati sono i misericordiosi etc.). Va notato che il verbo è al presente. Gesù non dice beati saranno, ma beati sono. Ciò significa che la beatitudine, la felicità per tutti coloro che credono nelle sue parole e le mettono in pratica, è adesso, qui e ora. Il regno di Dio promette una felicità eterna che inizia in questa vita, non appena ce ne rendiamo degni, non appena facciamo della nostra vita un’opera al servizio di Dio. Vi è di certo persecuzione, aggressività, dolore e morte in questo mondo, soprattutto per coloro che si comportano seguendo Gesù. Ma quello che trovano è troppo bello e troppo grande: al confronto tutti i mali di questo mondo sprofondano nel nulla e nell’insignificanza. Per chi segue veramente Gesù (opera quanto mai difficile se non si crede in Lui e se non ci si fa da lui aiutare) senza nessuna comodità, senza nessuna indulgenza da parte degli altri, senza nessun successo, senza nessun possesso...si ha tutto, tutto ciò che realizza l’uomo, che è uomo perché ha la capacità di amare. La capacità di amare ci porta oltre, al di là di ogni preoccupazione, ci porta da Dio, nel grembo accogliente della Trinità dove noi siamo finalmente a casa. Dunque la sequela di Gesù, ascoltare e praticare le sue parole è già felicità, è già il Regno. 

Il messaggio

Il messaggio di Cristo sottolinea che la logica della normale vita quotidiana viene ribaltata completamente dal modo di vedere le cose di Dio. Secondo il pensiero corrente, infatti, bisogna vivere cercando di sgomitare per farsi largo nella società, bisogna puntare a guadagnare il sufficiente ma anche, se possibile, di più , molto di più; bisogna lavorare per esprimere il proprio dominio sulla natura e sugli uomini; è meglio comandare che servire; l’ingiustizia subita va vendicata; i reprobi vanno allontanati; i cattivi vanno puniti; chi dà fastidio perché rompe la difficile armonia della nostra esistenza, che con tanta fatica ci siamo costruiti, va escluso dai nostri orizzonti; gli altri si accettano se non disturbano, se ci sono amici, se ci aiutano, altrimenti no. Insomma, ciò che conta veramente siamo noi, la nostra persona, le sue capacità che vanno sempre esaltate, tacendo i difetti, l’immagine che diamo di noi, il prestigio che sappiamo ottenere, la posizione sociale che ci possiamo guadagnare, il benessere che possiamo raggiungere.

Queste qualità ci fanno scalare posizioni nell’ordine di questo mondo, ma in più che cosa ci danno? Siamo veramente convinti che alla fine della nostra vita saremo stati felici se abbiamo fatto tutto quello che il nostro mondo ci ha indicato come bene, utile, interessante?

Un grande cantautore italiano, Giorgio Gaber, ha immaginato in modo molto suggestivo il possibile pensiero, la possibile riflessione di un uomo che ha votato la sua vita ai valori di questo mondo. Questo uomo, facendo un bilancio, così direbbe: 

“Son sempre stato un uomo moderato

Che sa trovare il buono dov’è

Non ho nemici e sono rispettato

Mi son fatto tutto da me:

ho una posizione

penso anche al domani

nella mia vita ho sempre lavorato

sono abbastanza contento di me”

(G. Gaber, Autoritratto di G., in “Il signor G”)

Per quest’uomo, nella sua vita c’è stato anche spazio per la fede, una fede in Dio tranquilla, senza sbalzi, senza inquietudini, una fede che lascia tutto immutato ed è semplicemente un accompagnamento, una consolazione, una decorazione per un vita che individua altrove le cose importanti.

Egli alla fine è “abbastanza” contento di sé. Quell’”abbastanza” significa molto: vuol dire una gioia “così così”, una felicità né grande, né piccola, una conclusione senza infamia e senza lode. La sua vita allora è una vita connotata dall’ “abbastanza”, cioè dal grigiore, da un’anonima via di mezzo. Ebbene la vita contrassegnata dalla mediocrità non è quella che Dio ha in mente per l’uomo.

Se questa è la mentalità del mondo, il Regno di Dio funziona in base ad un'altra ed opposta convinzione. Tutto sprofonda nel nulla di fronte alla felicità presente ed eterna che Dio promette. L’ignavia borghese e tutti gli (pseudo)valori che abbiamo elencato cadono. Siamo all’alternativa netta, o un caduta totale che travolge anche chi si è accontentato, o una gioia infinita.

Gesù dice che se si vuole assaggiare la sua felicità, anzitutto bisogna procurarla agli altri. Non si è mai felici da soli, perché il nostro modo di essere è orientato alla relazione con gli altri senza i quali nessun bene è mai godibile appieno. Inoltre noi non siamo fatti per cercare sempre l’utile, l’interesse per noi stessi.  Noi siamo fatti per la gratuità, perché tutto ciò che abbiamo lo abbiamo ricevuto gratis. Noi non siamo fatti per la lotta angosciosa gomito a gomito per affermare noi stessi contro gli altri: questa è la legge animalesca del branco che dice “mors tua vita mea” (la tua morte è la mia vita). Noi non siamo fatti per votare la nostra vita al comfort, al piacere che passa e se ne va, al denaro che oggi c’è e domani è finito. Noi non siamo neanche fatti per seguire ideali astratti, prodotto delle nostre menti, con cui ci illudiamo di pensare bene, rimanendo liberi, con la scusa dell’eccessiva altezza di quegli stessi ideali, di agire male. La nostra felicità si trova oltre tutte queste illusioni, nel seguire una persona avendo fiducia che egli ci condurrà nel luogo della nostra più piena realizzazione. Gesù, la persona in questione, è colui che dice “seguimi”, ci insegna ad amare Dio e gli altri facendoci vedere come si fa, perché il suo esempio ci istruisca e ci faccia andare avanti.

Insomma il Regno di Dio è là dove le convenzioni borghesi, il modo borghese di concepire il mondo è superato e cancellato nell’amore. Dove questo mondo con la sua pretesa di autonomia, dove gli uomini con la loro presunzione di sapere e di potere, sprofondano nel nulla. Dove al contrario la bellezza di tutto ciò che esiste, delle nostre azioni, dei nostri progetti e delle nostre realizzazioni viene ricondotta alla fonte di ogni bellezza e verità che è il Dio-Amore e solo lì trova il suo senso più pieno.

Per questo ciò che è umile agli occhi del mondo, colui che è maltrattato, colui che è vessato, l’ultimo uomo nella scala finta di questo mondo è il primo nel mondo vero di Dio. Egli è infatti il prediletto di Dio, poiché le sue sofferenze destano l’infinita preoccupazione di Dio, la sua povertà scandalizza Dio, l’ingiustizia che subisce irrita Dio, la sua compassione verso coloro che condividono il suo destino desta la misericordia di Dio.

E Dio, il Dio di Gesù Cristo, allora prepara per lui, che è disposto ad accoglierlo, un destino di grandezza assoluta che nessuna opera solo umana potrà mai eguagliare.

Cap VII - Gesù e il legalismo dei farisei: la legge e la grazia

Nel corso della sua predicazione itinerante, Gesù incontra spesso i farisei, cioè i dottori della legge, coloro che erano gli “specialisti” dell’interpretazione della Torah. Egli spesso critica la loro religiosità ipocrita che, assieme a quella dei sacerdoti, risulta di frequente essere uno strumento di prestigio e di potere piuttosto che una sincera convinzione del cuore. Il suo scopo è quello di liberare il popolo dalla costrizione religiosa, insegnando la realtà profonda del regno di Dio come luogo di una libertà che Jahvè garantisce a ciascuno anche nella sua vita terrena.

Facevano parte di tale costrizione i numerosissimi precetti che, a partire da una lettura puntigliosa della legge contenuta nell’AT, i farisei avevano elaborato, indicando il loro rispetto come un dovere per ogni devoto ebreo.

Ciò accadeva benché le regole e i comandamenti della Torah fossero già di per sé estremamente esigenti, precisi e numerosi.

I Vangeli ci raccontano allora le critiche che Gesù manifesta in particolare sulla questione del sabato e della purezza, quali esempi di un legalismo deteriore del mondo religioso del suo tempo (legalismo significa “insistenza eccessiva sul valore insuperabile della legge e sulla necessità assoluta del suo rispetto integrale e letterale”).

Sul sabato nello specifico DT 5, 11-15, laddove sono elencati i dieci comandamenti, lo indica come giorno di riposo dedicato a Dio: 

Osserva il giorno del sabato per santificarlo, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato. 13Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 14ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. 15Ricòrdati che sei stato schiavo nella terra d'Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore, tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno del sabato.

 Così come Es 20,11

Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. 9Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. 11Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.

Tuttavia la riflessione farisaica aveva specificato che cosa si dovesse intendere per “riposo”, andando a definire caso per caso ciò che era permesso fare e ciò che era vietato:

era necessario:

- recitare ritualmente alcune preghiere in momenti precisi della giornata;

- consumare tre pasti completi;

-studiare la Torah.

Erano invece vietate 39 categorie di azioni: arare, seminare, mietere, formare covoni, trebbiare, ventilare, selezionare, setacciare, macinare, impastare, cuocere, tosare, lavare, cardare, tingere, filare, tendere, costruire un setaccio, tessere, dividere due fili, legare, slegare, cucire, strappare, cacciare, macellare, scuoiare,  salare la carne, disegnare, lisciare, tagliare, scrivere, cancellare, costruire, demolire, spegnere un fuoco, accendere un fuoco, dare l'ultima mano per terminare un lavoro, trasportare al di fuori della propria abitazione.

Orbene, i Vangeli (nel nostro caso Matteo) ci riportano almeno due casi in cui Gesù o i suoi discepoli “fanno qualcosa”, cioè in qualche modo “lavorano” di sabato. Ecco gli episodi e la reazione di Gesù:

 In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: "Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato". 3  Ma egli rispose loro: "Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell'offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7 Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8 Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato".9Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga; 10 ed ecco un uomo che aveva una mano paralizzata. Per accusarlo, domandarono a Gesù: "È lecito guarire in giorno di sabato?". 11Ed egli rispose loro: "Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l'afferra e la tira fuori? 12Ora, un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene". 13E disse all'uomo: "Tendi la tua mano". Egli la tese e quella ritornò sana come l'altra. 14Allora i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.” (Mt 12, 1-14).

Ma, oltre alla questione del sabato, i Vangeli ci descrivono un’altra polemica di Gesù, questa volta sulla questione della purezza e dell’impurità. Purezza e impurità sono due condizioni dell’uomo di fronte a Dio. L’uomo ha il dovere di essere puro e senza macchia, come puro e senza macchia è Dio: “Non si poteva andare davanti a Dio in qualsiasi modo, poiché Dio è Santo. La Legge diceva: "Siate santi, perché Dio è Santo!" (Lv 19,2). Chi non era puro non poteva mettersi davanti a Dio per ricevere da lui la benedizione promessa ad Abramo… Anche nel tempo di Gesù c'erano molte cose ed attività che rendevano impura una persona, impossibilitata a mettersi davanti a Dio: toccare un lebbroso, mangiare con un pubblicano, mangiare senza lavarsi le mani, toccare il sangue o un cadavere, e tante altre cose. Tutto ciò rendeva impura la persona, e qualsiasi contatto con questa persona contaminava gli altri. Per questo le persone "impure" dovevano essere evitate. La gente viveva in disparte, sempre angosciata per le  tante cose impure che minacciavano la sua vita. Le persone normali per tale motivo vivevano preoccupate e timorose di tutto e di tutti”. (http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=7826)

 Gesù affronta i piccati rimproveri dei farisei su questo tema nel modo seguente:

Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate 3

- i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: "Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?"6 Ed egli rispose loro: "Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: 

Questo popolo mi onora con le labbra,

ma il suo cuore è lontano da me.

7Invano mi rendono culto,

insegnando dottrine che sono precetti di uomini. 

8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini". 9E diceva loro: "Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. 10

Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. 11  Voi invece dite: "Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio", 12non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. 13Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte" (Mc 7, 1-11).

Nella prima parte del brano citato Gesù riprende l’idea profetica di un culto spirituale che deve andare oltre i gesti esterni, i quali non significano nulla, se nel cuore, nell’interiorità umana, non vi è stato un cambiamento. Le leggi sulla purezza, dunque, vanno osservate in modo spirituale, bisogna essere anzitutto puri di cuore di fronte a Dio. Se è così, il fatto di lavarsi le mani o di fare altre abluzioni prima dei pasti e in altri momenti della giornata conta veramente poco.

Nella seconda parte del brano, in sostanza Gesù rimprovera ai farisei di accettare la possibilità che un debito non venga pagato, in particolare un debito contratto da un figlio nei confronti dei genitori, qualora il figlio dichiari che ciò che sarebbe dovuto ai genitori è “korbàn” cioè offerta sacra. In realtà questo modo di agire “disonorava” il padre e la madre, cioè trasgrediva direttamente un comandamento di Dio, poiché, normalmente quando ciò avveniva, si trattava quasi sempre di un “trucco” attraverso il quale un figlio, lungi dall’offrire quanto dovuto ai genitori, se lo teneva per sé, a suo vantaggio e a danno di coloro che gli avevano dato la vita. Ecco allora che un figlio, pur rimanendo nella legalità, così come era concepita dai farisei, commetteva un atto ignobile agli occhi di Dio. E questo avveniva grazie all’ossequio di leggi solo umane, e non certo della volontà di Jahvè, che dal modo in cui i farisei l’avevano interpretata veniva completamente stravolta.

Ecco dunque l’atteggiamento di Gesù nei riguardi del legalismo farisaico: esso è fonte di ipocrisia, perché si concentra sulla regoletta e perde di vista l’essenziale, cioè il fatto che si onora Dio con la retta intenzione del cuore. Se si accoglie il messaggio di Gesù, l’importante diviene la conversione interiore, l’amicizia con Dio, la vicinanza convinta a Dio: in sostanza la fede che ciascuno di noi ripone nel Creatore. In presenza di questa, vi è salvezza, come Gesù afferma in diverse occasioni: è la fede che salva (Mc 5, 27-34; Lc 7 36-50), non la regola, non la legge.

Questo è il tema di una delle parti più difficili e al tempo stesso profonde e affascinanti del Nuovo Testamento, il settimo capitolo della lettera di San Paolo ai Romani. San Paolo, apostolo convertitosi alla fede in Gesù dopo essere stato persecutore dei primi cristiani su mandato delle élites ebraiche, rabbino esperto, uomo di cultura e di fede, scrive una lettera alla comunità cristiana di Roma, nella quale affronta esattamente questo tema: bisogna stare attenti al rispetto della Legge (intesa come quel complesso di precetti dati nell’AT da Mosè al popolo ebraico e integrati da tutti i commenti e le precisazioni intervenute con le interpretazioni via via date soprattutto nel mondo farisaico tra I sec. aC. e I sec. d.C.) oppure ciò che conta veramente  è la fede? 

Ora, dice San Paolo, cogliendo appieno il senso dell’avversione dio Gesù per ogni legalismo:

4 Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio. 5Quando, infatti, eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. 6Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata. (Rm 7, 4-6).

 Quando si appartiene a Cristo, cioè a Dio, la legge non conta più, e nemmeno contano le attenzioni continue ed eccessive che gli Ebrei hanno da sempre dato alla lettera della legge, cioè alla sua esecuzione cavillosa e minuziosa. Lo spirito è ciò che conta, cioè l’adesione del cuore a Gesù, che ci permette di compiere opere buone per una forza viva che ci viene da dentro, la forza dell’amore per Dio e per gli altri e la convinzione che “tutto ciò che si fa per amore va al di là del bene e del male” (F. Nietzsche) così come sono stati codificati dalle leggi. Se badiamo bene, poi, porre attenzione ad una legge che si deve osservare solo perché essa comanda, solo in quanto legge esterna, senza voler capire lo spirito che sta dietro e i motivi per i quali la legge esige obbedienza, non fa altro che stimolare il peccato, la sua trasgressione. Quanto più si riempie la vita di regole, tanto più la psiche umana è attratta dalla loro trasgressione, tanto più viene voglia di commettere un peccato contro la legge, quantomeno per gustare per una volta la sensazione di essere liberi da un peso.

Allora, date queste riflessioni, San Paolo può distinguere due tipi di uomini:

Homo sub lege

-attento ad ogni precetto

-attento alla lettera, cioè al significato che si palesa immediatamente ad una comprensione superficiale e grossolana dei termini, e tuttavia si abbarbica a questa apparenza, rifiutando di riflettere ulteriormente sulle motivazioni profonde e sulle reali finalità del testo legislativo.

-precisissimo nel compiere il suo dovere

-rigido con sé ma soprattutto con gli altri

-angosciato dal peso di ciò che deve fare

Homo sub gratia

-agisce gratis, senza sentire obblighi

-agisce perché coglie la bellezza, la grandezza, la bontà e la giustizia di quello che fa senza aver bisogno di una legge che lo imponga

-è misericordioso verso coloro che sbagliano e non si pone nelle vesti di un giudice

-punta a convincere e a convincersi piuttosto che ad obbligare e ad obbligarsi

-agisce per amore di Dio e di Cristo, seguendo una persona, Gesù, piuttosto che un precetto astratto.

-è felice e libero


Qui la parola “grazia” va intesa in duplice modo:

da un lato si tratta della capacità di fare le cose “gratis” e per profonda convinzione interiore; dall’altro tale capacità risulta essere un dono gratuito di Cristo, cioè appunto una sua “grazia”.

Ora, quando si fanno le cose per grazia, e non in virtù di una legge, e quando ciò è effetto della grazia di Cristo, si accede ad una vera, autentica e perfetta libertà.

Di fronte alla libertà del fedele di Cristo, il quale tramite la fede in lui si è aperto alla sua grazia, cioè ha accolto pienamente il suo dono, tutta una serie di imposizioni e di obblighi perdono il loro significato. Parole e locuzioni come “rispetto delle regole”, “disciplina”, “dovere”, “obbligo”, “responsabilità”, “premio e punizione”, non contano più. Gesù ci ha liberato, con il peso leggerissimo della fede in lui, da tutti questi pesanti fardelli umani e anche religiosi (se pensiamo alla religione dell’antico ebraismo, tutta incentrata sul concetto di torah-legge). Ciò che conta è solo la grandezza dell’amore con cui si risponde all’amore di Dio per noi, tanto che Agostino, un grande santo-filosofo del IV-V, secolo ha potuto dire, riassumendo il criterio che ogni cristiano dovrebbe seguire nei suoi comportamenti: “Ama e fa’ ciò che vuoi!”. Quindi non il rispetto di una legge, ma solo la fede giustifica cioè ci rende capaci di ricevere quella grazia che rende giusti agli occhi di Dio, ossia rende l’uomo capace di fare il bene così come Dio vuole, amando in piena libertà e con piena consapevolezza.

La legge, e tutti i comandamenti, anche quelli divini, di cui pure il cristianesimo ribadisce la validità, rimangono vigenti solo con una funzione di controllo. Sopravvivono come “prova del 9”, come verifica del fatto che ciascuno di noi sia o meno rimasto nella grazia di Gesù. Dopo aver agito, con la coscienza pura e con l’interiore consapevolezza di aver agito bene, cioè amando come Gesù ha amato, si può verificare la correttezza del nostro agire, controllando di non aver trasgredito a qualche comandamento, ed eventualmente provvedendo, tramite il sacramento della riconciliazione, ad accogliere di nuovo con sincerità la grazia di Gesù, qualora in qualche nostra azione se ne fosse travisato il senso.

Questo è il significato profondamente liberatorio della fede in Gesù, così come una tradizione millenaria ce l’ha restituito, nella sua freschezza e nella sua ancora grande attualità, soprattutto in un mondo che continuamente si interroga sul perché il proliferare continuo di leggi, che dovrebbero garantire rispetto reciproco e benessere comune, non riesce a produrre alcun risultato, esasperando talvolta, semmai, la violenza diffusa nella società e nel cuore degli uomini.

Tale argomento ha visto nel corso della storia cristiana una serie pressoché infinita di traduzioni e interpretazioni filosofiche, letterarie, poetiche, artistiche, che hanno cercato di renderlo attuale, comprensibile agli uomini di ogni tempo e alle più diverse culture.

Per quel che concerne la nostra sensibilità moderna, un grande poeta romantico, Novalis, ce ne può restituire un’immagine adeguata ed evocativa in un testo che per questo abbiamo deciso di leggere.

1) Senza di te che cosa sarei stato?

Senza di te che cosa non sarei?

Destinato a paure e smarrimenti,

solo mi sentirei nel vasto mondo.

Non amerei più nulla con certezza,

sarebbe un cupo baratro il futuro;

se nel profondo il cuore si turbasse,

a chi potrei svelare la mia pena?

2) Solo, da amore e nostalgia consunto,

non dissimile il giorno dalla notte

mi sembrerebbe; e seguirei con caldo

pianto il corso selvaggio della vita.

Troverei nel tumulto inquietudine,

dentro la casa angoscia disperata.

Chi reggerà senza un amico in cielo,

chi reggere potrà qui sulla terra?

3) Ora che Cristo a me si è rivelato,

io con certezza tutto gli appartengo,

come consuma rapida una chiara

vita la tenebra senza confine.

Sono con Cristo divenuto un uomo;

il destino è da lui trasfigurato,

e l'India deve fiorire gioiosa

perfino nel Nord intorno all'amato.

4) La vita diventa un'ora d'amore,

d'amore e gioia tutto il mondo parla.

Cresce un'erba che sana ogni ferita,

palpita colmo e libero ogni

cuore.

Io rimango, per tutti i suoi mille

regali, pieno d'umiltà, suo figlio;

so che sarà presente in mezzo a noi

anche se solo due fossimo insieme.

5) Oh, andate per tutte le strade

e riportate dentro chi è smarrito,

stendete a ognuno la mano, invitatelo

lietamente a venire in mezzo a noi.

Il cielo è qui con noi sulla terra,

lo contempliamo uniti nella fede;

e a quelli che con noi sono congiunti

in un'unica fede, si apre il cielo.

 6) Un senso antico, grave del peccato

ci stava in cuore saldamente impresso;

come ciechi erravamo nella notte,

da rimorso e passione insieme accesi.

Che l'uomo degli dei fosse nemico

ci sembrava, ogni azione delittuosa;

anche se il cielo sembrava parlarci,

parlava soltanto di morte e di pena.

7) Nel cuore, ricca fonte della vita,

stava annidato un essere malvagio;

e se si illuminava il nostro spirito,

era solo inquietudine il suo frutto.

Saldamente inchiodava i prigionieri

tremanti a terra una catena ferrea;

 

la spada giustiziera della morte

ci atterrì, soffocando ogni speranza.

8) Venne un figlio dell'uomo a riscattarci,

pieno d'amore e forza, un Salvatore;

nel nostro intimo un fuoco ha suscitato

che infonde nuova vita ad ogni cosa.

Vedemmo finalmente aperto il cielo

su di noi, come nostra antica patria;

provammo l'esultanza di sentirci

congiunti a Dio, di credere e sperare.

9) E da allora per noi sparve il peccato,

fu gioioso ogni passo sulla terra;

si regalò, sul nascere, ai fanciulli

come il dono più bello questa fede;

da lei santificata, come un sogno

felice trascorreva ormai la vita;

e, votati ad amore e gioia eterna,

si avvertì appena l'ora del distacco.

10) Sta ancora qui nel suo splendore

meraviglioso, il Santo, l'Amato;

per la sua fedeltà, la sua corona

di spine, siamo in lacrime, commossi.

Sia benvenuto ogni uomo che passa

e che afferra con noi la sua mano

per divenire maturando, accolto

nel suo cuore, un frutto del paradiso.

 

 Commento:

la poesia presenta quattro fondamentali stati d’animo del poeta:

il primo (strofe 1 e 2) manifesta il senso di angoscia e di smarrimento alla sola ipotesi dell’inesistenza di Cristo e rappresenta la sua condizione individuale di disperazione più cupa nel rappresentarsi questa eventualità.

Il secondo (strofe 3-5) invece comunica tutta la gioia del poeta per il fatto che Cristo gli si sia rivelato.

Il terzo è dato dallo sguardo retrospettivo del poeta su un periodo della storia dell’uomo in cui Cristo non era conosciuto (strofe 6-7).

Il quarto (strofe 7-10) ci restituisce tutta la consolazione del poeta per il fatto che Cristo è effettivamente venuto al mondo e ha portato con il suo amore e la sua forza un fuoco vivo che ha risollevato l’umanità, cancellando il peccato attraverso la potenza della sua grazia. Questa fonda una nuova solidarietà universale tra gli uomini che amano Cristo e che accolgono nella loro Chiesa tutti coloro che lo riamano e sperano in lui.

E’ soprattutto nell’ ultima parte che il testo di Novalis si presta ad essere interpretato come una descrizione del passaggio dalla legge alla grazia laddove si parla del senso di peccato, delle catene che avvinghiano alla terra gli uomini che si sentono prigionieri e che avvertono che ogni cosa che fanno non pare essere altro che errore o “misfatto”. Questo è il mondo della legge, una legge che con le sole forze umane mai sarà possibile rispettare, una legge che, per quanto santa (che dunque “illumina”), perché data da Jahvè nell’Antico Testamento, non può rendere giusti. Infatti tutto ciò che è comandato appare catena e peso, obbligo pesante a fronte della debolezza e della incapacità umana di avere un senso profondo di Dio, la cui trascendenza ce lo fa lontano e inavvicinabile.

Ora invece è venuto il Figlio dell’Uomo, Gesù a riscattarci, cioè a liberare l’uomo dal peccato, offrendo al cuore dell’uomo afflitto un fuoco che rinnova la vita dall’interno, questo fuoco è immagine della grazia e dello Spirito Santo, la forza di Dio, l’amore di Dio che vivifica ogni cosa. Si tratta di una superiore energia, che consola e dà all’uomo la forza che viene dal sapersi nella giustizia e il gusto della libertà nel fare le cose. Tale libertà realizza l’umanità, la fa più vicina a come l’aveva pensata Dio nel crearla e dunque la santifica cioè la fa solidale con il suo Creatore.

Cap. VIII - Gesù il Messia, il Regno, la via per il Regno, i pregiudizi contro le donne

Ritornato a Cafarnao, alcuni discepoli del Battista, prigioniero di Erode Antipa, appreso del successo di Gesù, delle guarigioni da lui compiute e dei segni da lui dati, chiedono al Nazareno:

 Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” Gesù risponde in  questo modo: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti resuscitano, ai poveri è predicata la buona novella e beato colui che non si scandalizza di me!”.

 Egli aggiunge che tra i nati di donna non c’è nessuno superiore a Giovanni il Battista, poiché egli conduce una vita santa e mostra di amare e praticare la parola di Dio, ma che nel regno dei cieli, che Gesù stesso viene ad annunciare, il più piccolo è più grande di Giovanni. Infatti la realtà del regno dei cieli supera ogni umana grandezza, così come i profeti (in particolare Isaia, citato in questo contesto da Gesù), hanno pure annunciato. Il regno di Dio non è compatibile con il metro umano di misurare le cose, per questo, malgrado esso sia combattuto con la violenza, colui che con una santa violenza rifiuta le misure e i pregiudizi umani – la stessa santa violenza con cui Gesù aveva scacciato i mercanti dal Tempio, la santa violenza della giustizia che non accetta l’ordine delle cose imposto dal potere umano, le leggi farisaiche, le autorità che commettono soprusi, i soprusi commessi contro i poveri e gli emarginati, cioè i prediletti da Dio – se ne impadronisce: “Dai tempi di Giovanni fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono!” (Mt 11,12).

Anche i parenti di Gesù lo interrogano e mostrano preoccupazione per il modo con cui Gesù conduce la sua vita e la sua predicazione, temono infatti che Gesù finisca arrestato come Giovanni. Egli sta infatti seriamente infastidendo il potere e l’ordine costituito, anche se ovviamente questo non è il suo obiettivo primario (Gesù non fa politica, ma annuncia cose più importanti che una semplice rivoluzione politica).

In questo contesto già agitato, Gesù viene invitato in casa di un fariseo a mangiare. Potrebbe rifiutare, visto che i farisei lo ritengono un nemico, tuttavia non si fa remore ad accettare chiunque si mostri curioso del suo messaggio, a prescindere dal gruppo di appartenenza (ciò fa parte della sua purezza di cuore). Lì, a casa del fariseo, il Messia incontra una donna, una nota peccatrice, che la tradizione ha identificato con Maria Maddalena, ma di cui il Vangelo di Luca non ci segnala il nome. Questa donna “si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato” (Lc 7,38). Il fariseo, ancora preso dai suoi pregiudizi sulla legge, che giudicava le peccatrici – probabilmente prostitute – impure e da tener lontano, pensa tra sé che se Gesù fosse stato un vero profeta, come il popolo sosteneva, si sarebbe accorto del tipo di donna che gli era vicino e l’avrebbe sicuramente allontanata. Gesù intuisce i pensieri del fariseo e lo rimprovera dicendo che quello che conta non sono i peccati che uno ha commesso nella sua vita, ma la sua sincera capacità di amare. La capacità di capire dove sta la verità, la capacità di intravvedere la volontà di Dio che si realizza nei suoi inviati – i profeti e Gesù stesso – è decisiva agli occhi di Dio. Per questo motivo Gesù, con un gesto ancora eclatante, perdona i peccati della donna, cosa che i farisei ritenevano fosse un assoluto privilegio di Dio – e Gesù lo sapeva – e la congeda dicendo “La tua fede ti ha salvata, va’ in pace”. (Lc 7,50). Ancora una volta, contro lo spirito legalista dei farisei, Gesù sottolinea che è la fede che salva, è l’amore che conta, è l’amore che fa in modo che si compiano gesti belli e grandi agli occhi di Dio. Il fariseo non ne era stato capace e la sua ospitalità era stata deludente, la donna peccatrice si comporta come una vera ospite che accoglie Gesù trattandolo nella maniera migliore possibile, cioè con sincera preoccupazione per il suo benessere,  infatti gli atti che ella compie sono finalizzati consapevolmente a rendere onore all’ospite e denotano rispetto, attaccamento, ammirazione, benevolenza, devozione: tutto ciò, venendo dal cuore, è gradito a Dio, e unito al pentimento per i propri peccati e alla fede, genera salvezza.

Luca poi si sofferma sul seguito femminile di Gesù, che durante le sue peregrinazioni fornisce al Messia un’importante assistenza materiale, mettendo a sua disposizione tutto ciò che era necessario alla vita quotidiana. La vicenda capitata a casa del fariseo è solo uno dei tanti episodi che, assieme a quello già affrontato della Samaritana, mostrano come Gesù abbia un atteggiamento rivoluzionario verso le donne.  Giuseppe Flavio (storico ebreo del I secolo d.c.) ricorda che per la legge, ovvero per  la Torah così come era stata spiegata e commentata dal mondo colto dei farisei e dei dottori,  "la donna è inferiore all'uomo in ogni cosa".  Remo Cacitti, studioso e docente di Storia del Cristianesimo Antico all’Università degli studi di Milano, sulla base di molteplici fonti antiche,  precisa che le donne nel Tempio di Gerusalemme «non avevano accesso alla sala del sacrificio (riservata agli uomini): potevano stare solo in un'area marginale” Alla discriminazione religiosa si aggiungeva quella sociale e civile: “Nel Giudaismo antico la vita pubblica non era fatta per la donna, dal momento che, sul piano giuridico, essa veniva spesso assimilata agli schiavi non ebrei e ai fanciulli minorenni" (Marco Adinolfi, Gesù e le donne, in Storia di Gesù, vol. 4, ed. Rizzoli, p. 1157), inoltre era vietato "agli ebrei guardare una donna, farsi servire a mensa da una donna, restar soli con una donna in una locanda, appartarsi con due donne, camminare in pubblico dietro a una donna, conversare per la strada con una donna. Neppure con la propria moglie era lecito parlare troppo" (Cfr.  ivi, p. 1156).

Al contrario per Gesù le donne sono importantissime: egli ne accetta l’aiuto, le ascolta, parla con loro, valorizza la loro fede e talora ne sottolinea la superiorità rispetto ai maschi, come quando le difende dalle insinuazioni sia del fariseo che lo ha invitato a tavola, sia di qualche apostolo troppo ancora invischiato nei pregiudizi del suo tempo. Infine sono donne quelle che annunciano la resurrezione di Gesù per prime. L’episodio più importante della vicenda di Gesù, la resurrezione,  quello, cioè, che conferma al di là di ogni dubbio la sua identità divina e suggella la credibilità del suo messaggio come parola e manifestazione della volontà di Dio, è annunciato a tutti da quelle stesse  donne che dal Messia erano state profondamente amate, liberate ed emancipate.

Cap. IX - Gesù parla in parabole 

Durante la sua predicazione Gesù utilizza spesso delle parabole per spiegare alla folla e ai suoi discepoli alcuni concetti importanti della nuova prospettiva religiosa che egli viene a portare.

Ma che cosa sono le parabole? Sono dei brevi racconti, tratti dall’esperienza comune, che celano un significato profondo e che illustrano un concetto decisivo per capire come l’uomo si deve atteggiare nei confronti di Dio, di Gesù, il Messia suo inviato e del Regno che questi viene ad annunciare e ad inaugurare.

Esse non sono allegorie. Stilisticamente parlando l’allegoria è un racconto in cui ogni parte è immagine di un concetto più ampio, mentre nella parabola vi è una sola immagine, quella che risulta dal complesso del racconto, dal suo significato globale. Per esempio nell’inizio della Commedia dantesca il racconto è allegorico perché i singoli elementi sono immagini di concetti religiosi (la selva oscura, il peccato), il colle, la cui cima è illuminata dal sole (= Dio), le tre fiere che Dante incontra  (identificate con la lussuria, la superbia e la cupidigia) etc. Qui le immagini interne al racconto sono molteplici: ogni sua parte è immagine di qualcos’altro. Nella parabola non è così: generalmente vi è una sola immagine (per esempio: i talenti come immagine di un compito che Dio affida agli uomini nella parabola dei talenti in Mt 25,14-30) anche se in qualche parabola è possibile un’interpretazione allegorizzante.

Perché Gesù ha parlato in parabole? “Gesù ha raccontato parabole non soltanto perché, come tutti gli uomini geniali, amava i paragoni, e neppure perché, da buon maestro, voleva che il suo messaggio fosse chiaro e accessibile. Ha parlato in parabole perché a proposito di Dio e del suo mistero, non è possibile fare diversamente. Dio è al di sopra dei nostri pensieri e delle nostre parole: per parlare di Lui dobbiamo utilizzare le esperienze che abbiamo a disposizione. Così per aiutarci a comprendere qualcosa dell’amore di Dio e del suo perdono, Gesù prende spunto da un’esperienza che tutti sono in grado di comprendere: ‘Un padre aveva due figli…’” (B. Maggioni, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano, 1998, p. 7) che è inizio della parabola del figliol prodigo. Come giustamente ha detto C. Lavergne nel suo Gesù Cristo e il suo Vangelo, in Enciclopedia apologetica, Paoline, Cuneo, 1953, p. 357, Gesù parla in parabole “per permettere agli occhi malati di cogliere il più possibile la sua dottrina. Gesù doveva far vedere un fiume di diamanti e per farne brillare tutta la luce avrebbe dovuto esporlo in pieno sole, ma avrebbe accecato gli occhi della folla. Per bontà verso di questa, stese sopra i fulgenti diamanti dei veli trasparenti al massimo, cioè le parabole”. Trasparenti al massimo ma non del tutto: è come se noi dovessimo guardare direttamente il sole (che metaforicamente è Dio e la sua verità) e non potessimo farlo, come di fatto accade, senza degli occhiali scuri che impediscono il nostro accecamento. Ebbene questi occhiali scuri sono le parabole, cioè un linguaggio tratto dall’ esperienza, delle storie che non ci dicono proprio tutto, ma che alludono ci rimandano alla verità seppure espressa in termini di paragone, di immagine, cioè in termini adatti alla nostra limitata capacità di comprensione.

Legato a quest’ultimo vi è un altro motivo del parlare in parabole da parte di Gesù: il fatto che egli, nella parabola, non ci dica tutto, ma alluda solamente ad una realtà superiore alla nostra, è dovuto anche alla preoccupazione di lasciarci liberi di decidere, di non costringerci all’assenso con una verità che, senza possibilità di eccezioni, ci attrarrebbe e dalla quale in nessun modo potremmo sfuggire. La parabola ci dice quanto basta a stimolare la nostra riflessione e la nostra libertà affinché noi prendiamo una decisione (la decisione della fede in Gesù) di nostra iniziativa e sotto la nostra responsabilità, rispettando la nostra persona che vuole essere sempre libera di accogliere o meno un messaggio. 

La parabola del seminatore

Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva. 2Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: 3 ’Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un'altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. 8Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno’. 9E diceva: ‘Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!’” (Mc  4, 1-9)

Insegnare e ascoltare

Insegnamento è una tipica funzione di Gesù: gli Apostoli annunciano, solo Gesù insegna. L’avvertimento di Gesù dato all’inizio e alla fine, allude non semplicemente all’udire ma ad un atteggiamento di attenzione per non perdere nemmeno una parola di quanto viene detto, con il rischio anche che vi sia qualcuno che non capisca: le parole illuminano chi è ben disposto, sono incomprensibili per chi ha il cuore indurito.

Il seme

Il centro della parabola è il destino del seme in una seminagione fatta da Gesù. Un destino che può essere di fallimento: il seme non fruttifica. Questa è l’esperienza sia di Gesù, messo in croce, sia della prima Chiesa perseguitata. Nei primi tre casi la parabola racconta di un fallimento, tuttavia il quarto caso è un caso che, pur tra i fallimenti, accade sempre: la parola mette radici ha un’efficacia positiva questo ripaga delle fatiche il seminatore, dapprima Gesù e poi, dopo la sua morte e resurrezione, la Chiesa. E nel caso positivo è sottolineata l’abbondanza del raccolto: il trenta e il sessanta per cento è una proporzione fuori misura, altissima per un terreno della Palestina. Dunque, qualora il seme dia frutto, il raccolto è di una straordinaria abbondanza, al di sopra di quanto sia concepibile nell’ordine naturale delle cose. Ecco allora la grandezza e imprevedibilità di ciò che accade nel Regno di Dio, fuori e al di sopra di qualunque aspettativa naturale, cui sono adeguate immagini che a partire dall’esperienza comune appaiono esorbitanti e inverosimili, poiché qui la misura non è più l’uomo ma Dio.

Il presente e non il futuro

I quadri della parabola non sono disposti su una linea temporale (adesso il seme non fruttifica, ma nel futuro…), bensì in un quadro spaziale (qui il seme non fruttifica ma là…). Quindi la fiducia del seminatore deve essere tutta rivolta al presente, verso quelle zone forse non immediatamente visibili, ma laddove il seme, al di là dei fallimenti, ha fruttificato enormemente.

Il contadino spreca?

La semina dei contadini palestinesi avveniva prima di smuovere il terreno, e ciò poteva determinare la perdita di una parte della semente. Ma, ci si domanda, Dio può sprecare la sua parola, gettandola su un terreno arido? Sì, Dio spreca nel senso del suo amore sovrabbondante. Dio non si risparmia, ma si rivela a tutti attraverso Gesù che parla a tutti e accoglie tutti. L’amore di Dio non fa calcoli, e i suoi doni sono riversati sull’uomo con noncurante dispendio. Dio tutto dà gratis e dà a tutti: questa è l’opera del suo Figlio, che si dà completamente agli uomini fino a morirne.

 La parabola quindi ci dà uno sguardo complessivo sull’opera di Gesù in quanto Messia amorevole inviato da Dio, sull’effetto della sua predicazione tra fallimento e frutti eccezionali, e sulla donazione totale che Gesù fa di se stesso, donazione che non calcola, che è generosa fino alla prodigalità, fino allo spreco e allo spreco della sua vita. 

La parabola della zizzania 

Espose loro un'altra parabola, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26  Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: "Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?". 28Ed egli rispose loro: "Un nemico ha fatto questo!". E i servi gli dissero: "Vuoi che andiamo a raccoglierla?". 29"No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio"".

Qui la parabola intende sottolineare la presenza del male fra gli uomini (la zizzania). Si tratta di una presenza costante. Il nemico non ha un nome, il perché egli sia nemico non è specificato, non è UN nemico, ma è IL nemico cioè quel nemico che tutti sanno che c’è. L’antropologia evangelica, cioè la concezione che il Vangelo ha dell’uomo, è ben consapevole di una costante presenza perturbatrice nell’animo umano. Il nemico rappresenta quella presenza maligna, al tempo stessa sentita come estranea, come un disturbo, ma conosciuta come inevitabile. E’ questo il male nell’uomo, opera di un nemico con cui tutti prima o poi hanno a che fare. Ora il nemico semina zizzania, cioè un’erbaccia che rovina il campo. Le opere del male si diffondono per il pervicace lavoro del nemico e producono altro male che rischia di compromettere il raccolto. Ma Gesù, sorprendentemente, non affida a nessuno il compito di estirpare l’erbaccia.

Perché Gesù si comporta così. Due possono essere i motivi principali. Nessuno può arrogarsi il compito di purificare l’umanità, tranne Dio stesso. I purificatori spesso, accecati dallo zelo per la loro missione, colpiscono anche gli innocenti. Questo è il rischio: estirpare il grano insieme alla sterpaglia. Nella storia molte volte è accaduto così con le ideologie e i poteri che hanno voluto creare un mondo nuovo, liberato dal male e dall’inimicizia, e che invece hanno creato un inferno proprio per gli innocenti. Infatti colui che vuole estirpare il male deve per forza presupporre di esserne indenne, deve proporsi come un essere incontaminato che decontamina il mondo. Ma tale presupposizione conduce ad un folle superbia: chi è puro infatti può permettersi di agire come vuole con gli altri, i quali, essendo impuri, sono in tutto e per tutto condannabili, con ogni mezzo e senza alcuna pietà. Tutto ciò genera una catena di provvedimenti la cui ingiustizia, la cui violenza e il cui arbitrio, lungi dal migliorare il nostro mondo, lo rendono invivibile.

Il secondo motivo riguarda il fatto che il Nemico è una presenza costante ma estranea. Il suo prodotto, le sue opere, la zizzania, contaminano il campo, ma non sempre soffocano il grano. Ciò significa che l’uomo può sempre cambiare. Colui che è stato invaso dalla zizzania, cioè che è divenuto schiavo del male, può sempre cambiare e non soccombere. Dall’intreccio con la zizzania, talora, qualcuno si salva. Nulla è definitivo. Non vi è bisogno di un giudice che stabilisca la nostra definitiva contaminazione e ci identifichi con la zizzania da estirpare, anche se con la zizzania, cioè con il male, la nostra vita può essere intimamente legata. Lasciamo crescere anche il grano, lasciamo crescere la parte migliore di noi: solo alla fine si deciderà. E a decidere non sarà un uomo, con tutti i rischi, con la sua fallibilità e con la sua superbia, sarà Dio stesso, il cui giudizio scruta i cuori ed è sempre vero, scevro di superbia e misericordioso. Alla fine dei tempi, solo allora, sarà il momento della definitiva separazione tra il bene e il male.

 Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi

“Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: "Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò". 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?". 7Gli risposero: "Perché nessuno ci ha presi a giornata". Ed egli disse loro: "Andate anche voi nella vigna".8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: "Chiama i lavoratori e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi". 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo". 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: 15 non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?". 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi" (Mt 20 1-16).

Qui si tratta della giusta retribuzione che un padrone dà a coloro che lavorano per lui, immagine ovvia del rapporto tra Dio e l’uomo. Il cuore della parabola è dato dalla sorpresa dei lavoratori chiamati per primi nel momento in cui il padrone decide di pagarli la stessa cifra che ha dato a quelli che invece, chiamati per ultimi, hanno lavorato molto meno. I primi si lamentano e tale reazione ci sembra del tutto giustificata: sembra del tutto corretto dire che chi ha lavorato di più deve essere pagato di più. Ebbene il padrone della vigna-Dio non si comporta così. La sua giustizia va oltre e ci sgomenta. Ma a guardare bene, possiamo ben capire la ragione superiore alla quale in questa parabola Gesù ci vuole introdurre. Infatti il lavoratore chiamato per primo non è stato pagato di meno di quanto era stato pattuito. E’ stato pagato con la quantità di denaro giusta in relazione alla giornata di lavoro. La parabola, relativamente agli altri che sono stati chiamati dopo, non dice che il padrone ha pattuito una qualche cifra. No, li ha solamente mandati a lavorare, diremmo, sulla fiducia. E la fiducia che essi hanno avuto nei confronti del padrone è stata premiata. Essi infatti ricevono molto più del giusto, perché il padrone è buono. L’immagine che qui ci presenta il racconto è quella di un Dio la cui giustizia non solo non viene meno, ma è sovrabbondante. Cioè rende ragione del fatto che ciò che riceviamo da Cristo è sempre il giusto, ma spesso è molto più del giusto (infatti si presuppone che i lavoratori chiamati dopo, in più riprese, siano in numero maggiore). E ciò sembra in relazione con la fiducia che l’uomo ripone in Dio, senza pattuire prima qualcosa. La legge allora è il luogo del patto. Si fa un patto con Dio e lo si rispetta, questa è l’antica tradizione degli Ebrei che stipulano l’Alleanza con Dio, ricevendo una legge da rispettare e una promessa di felicità che Dio mantiene. La grazia e la fede sono proprie dei lavoratori successivi, che vengono chiamati dopo e che, senza nessuna garanzia, vanno a lavorare. Essi sono oggetto di un amore sovrabbondante, ricevono una grazia più grande, cioè il dono di una ricompensa uguale a coloro che sono stati chiamati prima, ma con molta meno fatica. Questa è la grazia di Dio, un dono che comporta una straordinaria facilità nel fare le cose e che, alla fine, risulta effetto di una bontà che supera ogni proporzionalità legale. Un dono imprevisto e sovrabbondante, rispetto a cui è sommamente inadeguata l’invidia dei primi. La loro invidia li rende ultimi poiché in realtà essi possono legittimamente godere dello stesso beneficio, la salvezza, ma lo corrompono con il rancore, con la rabbia che non fa loro apprezzare il bene che comunque hanno ricevuto.

Cap. X - I miracoli di Gesù

I miracoli sono elementi essenziali dei racconti evangelici. La loro collocazione nel vangelo di Matteo ha un senso generale che può valere per capirne il significato. Essi, infatti, sono collocati dopo il capitolo 7 che ci riporta alcuni dei principali insegnamenti di Gesù, compreso il vangelo delle beatitudini. Ciò suggerisce che i miracoli siano dei segni che accompagnano le parole. Cioè Gesù, dopo aver parlato e indicato quale sia il modo di pensare e di agire che conduce al Regno di Dio, manifesta nel comportamento concreto il fatto che quel Regno non è né fantasia né ideologia, ma sta arrivando grazie alla sua opera. Il Regno è testimoniato cioè anche dal miracolo, dall’azione concreta del Figlio di Dio a favore degli uomini che a lui si aprono nella fede. Tale azione non può che essere stupefacente (miracolo viene dal verbo latino miror = ammirare, essere stupefatti) perché l’agire di Dio supera tutti i modelli umani ai quali siamo abituati.

Matteo 8, 5-17

Entrato in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva: 6"Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente". 7Gli disse: "Verrò e lo guarirò". 8Ma il centurione rispose: "Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. 9Pur essendo anch'io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: "Va'!", ed egli va; e a un altro: "Vieni!", ed egli viene; e al mio servo: "Fa' questo!", ed egli lo fa". 10 Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: "In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! 11Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, 12  mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti". 13E Gesù disse al centurione: "Va', avvenga per te come hai creduto". In quell'istante il suo servo fu guarito.

14 Entrato nella casa di Pietro, Gesù vide la suocera di lui che era a letto con la febbre. 15Le toccò la mano e la febbre la lasciò; poi ella si alzò e lo serviva. 16 Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, 17 perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:

Egli ha preso le nostre infermità

e si è caricato delle malattie

Giovanni  11,1-45

Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato.2 Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: "Signore, ecco, colui che tu ami è malato". 4 All'udire questo, Gesù disse: "Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato". 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: "Andiamo di nuovo in Giudea!". 8I discepoli gli dissero: "Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?". 9  Gesù rispose: "Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui". 11Disse queste cose e poi soggiunse loro: "Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo". 12Gli dissero allora i discepoli: "Signore, se si è addormentato, si salverà". 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: "Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!". 16Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: "Andiamo anche noi a morire con lui!". 17 Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. 18Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri 19e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. 20Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21Marta disse a Gesù: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà". 23Gesù le disse: "Tuo fratello risorgerà". 24Gli rispose Marta: "So che risorgerà nella risurrezione dell'ultimo giorno". 25 Gesù le disse: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?". 27Gli rispose: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo". 28 Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: "Il Maestro è qui e ti chiama". 29Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. 30Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. 32Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!". 33Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, 34domandò: "Dove lo avete posto?". Gli dissero: "Signore, vieni a vedere!". 35Gesù scoppiò in pianto. 36Dissero allora i Giudei: "Guarda come lo amava!". 37Ma alcuni di loro dissero: "Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?". 38Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. 39Disse Gesù: "Togliete la pietra!". Gli rispose Marta, la sorella del morto: "Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni". 40Le disse Gesù: "Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?". 41Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: "Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. 42Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato". 43Detto questo, gridò a gran voce: "Lazzaro, vieni fuori!". 44Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: "Liberàtelo e lasciàtelo andare".45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. 46Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quello che Gesù aveva fatto.

L’amore di Dio

Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie. Così  Matteo conclude la pericope sui due miracoli del centurione e della suocera di Pietro. Se ci soffermiamo su queste parole, subito comprendiamo che ciò che muove Gesù a compiere miracoli è l’amore che egli ha per gli uomini. Il suo amore non ha niente di sdolcinato, ma è la seria preoccupazione per il loro bene corporeo e spirituale. Ma non è nemmeno un amore anaffettivo, Dio soffre e si commuove, come Gesù con Lazzaro, per la sofferenza della sua creatura e non fa mancare la sua vicinanza a coloro che la chiedono. Insomma Dio, attraverso Gesù, si prende cura seriamente del bene di tutto l’uomo, inteso come corpo e anima, ed interviene costantemente nella vita di tutti, non disdegnando anche una forma di azione stupefacente e incredibile come il miracolo. Ciò perché compartecipa con affetto alle vicende umane e se ne preoccupa profondamente.

 La potenza di Dio  e la fede dell’uomo

La potenza di Dio è la sua capacità creativa, il fatto che egli ha creato il mondo dal nulla e ha dato all’universo le sue leggi, comprese quelle che regolano quel fenomeno mirabile che è la vita vegetale, animale e infine umana. Colui che ha creato l’universo lo conosce nel suo intimo. Avendolo creato per amore continua a preoccuparsene, in particolare si interessa delle vicende dell’uomo, il vertice della creazione, cui ha dato la libertà, cioè una goccia di sé. La libertà è stata dall’uomo usata male. Per questo la creazione ha avuto bisogno di una redenzione, allontanatosi da Dio l’uomo ha avuto bisogno dell’Incarnazione del Figlio per poter essere ricondotto a lui. Ma Dio non ti salva senza che tu lo voglia poiché rispetta in ogni momento la dignità della creatura libera. Il “Sì, lo voglio”, con cui l’uomo risponde alla chiamata di Dio, attraverso Gesù, è la fede. Le fede ricostruisce un rapporto di vicinanza a Dio, è il modo di ridiventare amici di Dio, nonostante la fragilità e la tendenza umana a cadere nell’errore, nel male, nel peccato. Grazie alla fede l’uomo può stare di nuovo con Dio. È qui che si genera lo spazio del miracolo. In un rapporto intimo con Dio si sperimenta la sua imprevedibilità, il fatto che Dio ci sorprende sempre, ci stupisce con la potenza del suo amore che è attivo su di noi. Non che Dio non faccia miracoli per tutti, o che non ami tutti, credenti e non credenti. Ma i credenti lo riconoscono e vedono ciò che gli occhi di altri, voltati da un’altra parte non riescono a vedere. Ecco dunque che il miracolo è strettamente connesso alla fede. La fede si abbandona totalmente all’agire di Dio, aver fede vuol dire accettare la volontà di Dio prima della nostra, e dunque riuscire a cogliere gli atti di Dio compie a nostro favore. Vuol dire saper chiedere a Dio, come molti dei miracolati - i parenti di Lazzaro e accogliere la sua risposta. Chiunque, senza la fede può interpretare i miracoli come vuole, illudendosi che tutto a questo mondo sia pienamente spiegabile, ma non si accorge che il suo sguardo, lungi dall’essere più acuto, è più debole, miope, spento. È accecato dalla superbia, primo segno di quell’egoismo della volontà che è radice di tutti gli errori. 

Dio vince la morte: il miracolo come segno del Regno di Dio

La resurrezione di Lazzaro non ha valore solo in sé, ha anche un valore di simbolo. Ogni atto di Gesù, dalla guarigione delle malattie, fino alla resurrezione di morti (la figlia di Giairo e Lazzaro), vuol darci implicitamente una descrizione del Regno di Dio, in cui la morte, l’ultima e più potente nemica dell’uomo, sarà sconfitta insieme ad ogni forma di male. La speranza nell’avvento del Regno viene da Gesù alimentata con segni visibili, perché la fede sia rinnovata e tramite la fede noi possiamo accedere a questo Regno.

 I miracoli sono atti d’amore

I miracoli non sono quindi né atti magici, laddove la magia è solo una forma di esibizione compiaciuta delle proprie (supposte) capacità a esclusivo beneficio del (cosiddetto) mago. Non magia quindi né esibizionismo, ma amore che si sperimenta pienamente nella fede.

I miracoli e la loro attendibilità storica

Talora i miracoli sono raccontati dagli evangelisti seguendo degli schemi letterari collaudati, ossia l’episodio è narrato con un racconto che, per coloro che hanno una certa dimestichezza con la letteratura religiosa giudaica o pagano-ellenistica precedente e coeva, può rivelare analogie importanti. Questo fatto non può però essere utilizzato per negare ai racconti evangelici attendibilità storica. Vale qui quanto detto a proposito della teofania: l’agire di Dio, e dunque quello di Gesù, supera la capacità di umana comprensione. Il senso ultimo e le dinamiche precise dell’azione (il “come” il miracolo si compia) ci rimane nascosto, perché si tratta dell’intervento del Dio infinito nel nostro mondo, e noi non abbiamo mai la capacità di comprendere appieno l’infinito. Quindi coloro che vi assistono lo raccontano con i deboli strumenti della loro cultura e della loro capacità di comprendere. Di qui le somiglianza con altri tipi di letteratura che ugualmente riflettono la cultura del tempo. Ma ci si precluderebbe il senso del miracolo se non lo si inserisse nel contesto del tutto originale dell’agire di Gesù: se, attraverso i Vangeli, si conosce Gesù, se si hanno presenti i motivi e le finalità per cui compie certe azioni, si potrà apprezzare tutta l’originalità del miracolo evangelico rispetto ad episodi simili raccontati in ambiti religiosi diversi. Quell’originalità di cui i temi evidenziati in precedenza fanno parte.

 È ragionevole il miracolo?

Pensare che vi possano essere degli interventi miracolosi di Dio nella vita degli uomini non è cosa da “creduloni”, ma appare del tutto ragionevole, anche se, per riconoscere e “capire” il miracolo è necessaria la fede.

I fatti della realtà vengono spiegati dalle teorie degli uomini (teoria = qualsiasi enunciazione linguistica intesa a descrivere il più correttamente possibile la realtà). Nella misura in cui una teoria rende conto, spiega e descrive correttamente un fatto, tale teoria può essere considerata vera.

Tutti i fatti sono spiegati da teorie adeguate?

No, vi sono fatti che non riescono a trovare un’adeguata spiegazione teorica, perché o troppo grandi, o troppo piccoli, o troppo lontani, o troppo complessi, o troppo numerosi per gli strumenti di cui attualmente disponiamo.

In più:

è vero che le teorie spiegano i fatti, ma esse aiutano a vedere anche nuovi fatti: la relatività di Einstein presupponeva l’esistenza di particelle subatomiche che sono state scoperte solo grazie al fatto che la teoria le ipotizzava. In realtà senza una teoria difficilmente riusciremmo a capire i fatti che vediamo: quando vediamo qualcosa, riusciamo a comprendere perché sappiamo che cosa guardare, cioè abbiamo già una teoria, un certo sapere che ci orienta. Proviamo a pensare a quale differenza ci possa essere tra una partita di calcio vista da uno spettatore che conosce le regole del gioco e la stessa partita vista da uno spettatore totalmente ignaro di esse: pur vedendo il medesimo oggetto (la partita), il primo capirà, distinguerà fasi diverse, comprenderà le reazioni dei giocatori e i loro gesti; il secondo vedrà uno spettacolo confuso, con gente vestita in modo strano che corre dietro ad una palla su un prato con delle linee bianche. Quest’ultimo spettatore non saprà dare una descrizione più compiuta del fatto, mentre il primo saprà comprenderlo nei minimi particolari, anche se (limite della conoscenza) non saprà sempre interpretare gli avvenimenti al livello di un arbitro professionista o di un allenatore (i quali a loro volta, pur avendo una conoscenza superiore a quella del semplice spettatore, potranno sbagliare o avere dubbi, cioè possiederanno una conoscenza a loro volta limitata).

Dunque per ogni spiegazione che troviamo di una determinata realtà, grazie a quella stessa spiegazione sorgono nuovi fatti da capire, conoscere e interpretare.

Quindi strutturalmente la conoscenza umana non può essere onnicomprensiva: vi sono almeno tre tipi di fatti che si comportano “male” nei confronti delle teorie:

 -fatti che la teoria non riesce a spiegare ma che “sopporta” con ipotesi più o meno plausibili (è il caso della spiegazione psicosomatica di molte malattie di cui non si conosce l’eziologia, cioè la causa). Qui, di fronte ad un’anomalia che compare nel fisico di un paziente, di fronte a qualche cosa che non funziona e di cui non vi è una teoria sufficientemente esplicativa, si dà un’interpretazione con le categorie e le classificazioni patologiche di cui si dispone, aggiungendovi un piccolo correttivo per rendere se non pienamente comprensibile, almeno plausibile un fatto altrimenti inspiegabile. Siccome un sintomo di una malattia non riesce ad essere spiegato dalle teorie mediche esistenti, non si cercano nuove teorie, non si cambiano neppure le teorie esistenti, ma si ipotizza una spiegazione psicosomatica che lascia inalterate le strutture del sapere medico-biologico e risulta plausibile al paziente che chiede una spiegazione a tutti i costi.

-fatti che la teoria non sopporta e che la fanno crollare (producendo la creazione di un’altra teoria più adeguata): per esempio l’uso galileiano del cannocchiale per osservare gli astri ha fatto crollare la teoria precedente circa la composizione fisica dei corpi celesti. Tale teoria, che risaliva ad Aristotele (filosofo e scienziato greco del IV sec. a. C.), riteneva che i pianeti e le stelle fossero fatti di una materia speciale, trasparente e incorruttibile. Invece, mediante il cannocchiale, si è potuto constatare che la Luna, con i suoi crateri, poteva avere una composizione rocciosa del tutto simile ad alcuni ambienti terrestri, oppure che il Sole, presentando delle macchie, non era affatto costituito di materia “trasparente” e incorruttibile.

 -fatti così straordinari e lontani da tutte le spiegazioni date dalle teorie disponibili, ma anche da quelle immaginabili, che inducono a credere che mai nessuna teoria sarà in grado di spiegarli (per esempio la guarigione rapidissima - un giorno -, permanente e completa di una gravissima ed estesa forma tumorale - osteosarcoma -, accertata da più istituzioni mediche, con strumenti diagnostici sicuri ed affidabili). Questi si possono chiamare eventi miracolosi (da miror = ammirare, restare stupefatti).

Riconoscere che vi possono essere tali eventi “miracolosi” è cosa perfettamente in linea con la necessaria umiltà dell’impresa conoscitiva, che deve sempre ammettere di essere strutturalmente limitata e per ipotesi deve ammettere che vi sono realtà che cadono fuori dalla possibilità umana di descrizione, controllo, prevedibilità.

Cap. XI - La trasfigurazione e la predicazione escatologica

La trasfigurazione (Mt 17,1-8; Mc 9,2-8 e Lc 9,28-36)

Prima di recarsi di nuovo, e per l’ultima volta, a Gerusalemme, Gesù si ritira sul monte Tabor non molto lontano dal lago di Tiberiade (il monte non è citato con il suo nome dai Vangeli, ma la tradizione lo ha così identificato). È accompagnato dai discepoli Pietro, Giovanni e Giacomo. Arrivato a destinazione accade un fatto straordinario, che il vangelo chiama “trasfigurazione”, cioè, letteralmente cambio di figura. Che cosa significa che Gesù trasfigurò? Significa che apparve ai discepoli nella sua identità messianica e divina. Le vesti candide, il volto che “splende come il sole” sono segni di una luce divina di cui egli appare essere la fonte. I discepoli vedono anche Elia e Mosé che conversano con lui. Elia era uno dei più grandi profeti dell’antico Israele, Mosè era colui al quale era stata data da Dio la legge. Ecco allora che la presenza dei due significa che Gesù Messia riassume in sé tutta la storia di Israele e tutti i contenuti della rivelazione di Dio al popolo eletto: la legge e i profeti. Pietro, sconvolto e affascinato, dice che è bello per loro stare lì e, quasi in trance, propone di fare in quel posto tre tende, una per Gesù, una per Mosè, una per Elia. Alla fine si manifesta Dio, circondato da una nube che avvolge i discepoli. Dio, come all’inizio della missione di Gesù durante il suo battesimo, ribadisce che Cristo è “il mio figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo”. I discepoli cadono a terra sgomenti, impauriti e al tempo stesso affascinati da quella visione. Gesù, tornando nelle sue normali apparenze, li accompagna giù dal monte, avvertendoli di non dire niente di quanto era successo sino a quando egli non sarà risorto dai morti. I discepoli non capiscono, ma ottemperano al suo ordine.

Il racconto è estremamente significativo e densamente simbolico. L’“alto monte” in cui secondo i Vangeli tutto avviene, rimanda a quell’essere in alto che è il luogo di Dio, oppure il luogo dove gli uomini incontrano Dio. È quest’ultimo il caso di Mosé sul Sinai (Es 24; 34; Dt 9,9) o di Abramo che, secondo la tradizione giudaica era salito su un alto monte (Gn 22,14) per sacrificare Isacco, oppure Elia sempre sul Sinai (1 Re, 19).

 La trasfigurazione è l’apparire di Gesù nella gloria di Dio, una sorta di anticipo della resurrezione. Solo dopo la Pasqua i discepoli capiranno: Gesù era sin dall’inizio destinato alla gloria, ma doveva passare attraverso la croce, per questo intima il silenzio e prepara i discepoli ai difficili momenti che dovranno vivere prima di vedere Gesù risorto.

Le vesti candide evocano l’apparizione di Dio nelle sembianze di un anziano “le cui vesti erano candide come la neve” così come è descritto nel libro di Daniele (Dn 7,9) e, nello stesso episodio, subito dopo, del Figlio dell’uomo, il Messia salvatore. Ancora una volta è importante sottolineare che a Gesù vengono in questo frangente dati attributi divini.

 Mosè ed Elia, che secondo la tradizione giudaica, erano saliti in cielo all’eterna presenza di Jahvè, testimoniano con la loro presenza il fatto che Gesù compie tutta la storia di Israele e rivela definitivamente quel Dio che la legge e i profeti avevano manifestato e cercato di rendere comprensibile agli uomini.

La proposta di Pietro esprime tutta la gioia del discepolo: “Dio abiterà con i suoi, come hanno annunciato i profeti dei tempi ultimi” e le tende evocano le capanne della festa del sukkot: “Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d'Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d'Egitto”(Lv 23 42,43).

La nube, che avvolge i profeti ed è un elemento tipico delle teofanie, rappresenta il mistero di Dio in cui gli uomini sono avvolti e coinvolti, e nel quale non è possibile vedere con chiarezza, ma solo apprezzare con la disponibilità della fede l’ineffabile presenza di Dio, ascoltando la sua parola.

Le parole di B. Maggioni nel suo Il racconto di Marco (Cittadella, Assisi, 200513, pp. 131-132) ben illustrano il significato complessivo dell’episodio: “È questo il significato della trasfigurazione nella vita di fede del discepolo: è una verifica, Dio concede ai discepoli, per un istante, di contemplare la gloria del Figlio, di anticipare la Pasqua. Il velo che si solleva non rivela soltanto la realtà di Gesù, ma contemporaneamente anche la realtà del discepolo, ugualmente incamminato verso la croce, eppure verso la resurrezione, ugualmente in possesso - al di là della realtà fenomenica che delude - della presenza vittoriosa di Dio. In altre parole, possiamo paragonare la trasfigurazione a ciò che noi chiamiamo le ‘verifiche’, momenti chiari che alle volte incontriamo nel viaggio della fede, momenti gioiosi all’interno della vita cristiana. Non sono momenti che automaticamente e comunque si incontrano: occorre saperli scorgere. E soprattutto non va dimenticato che la loro presenza è fugace e provvisoria. il discepolo deve sapersi accontentare. Di queste esperienze ne devono bastare poche e brevi. Pietro desiderava eternizzare quell’improvvisa e chiara visione, quella gioiosa esperienza. È  un desiderio che manifesta un’incomprensione dell’avvenimento, che non è l’inizio del definitivo, non è la meta, ma solo l’anticipo profetico di essa. La strada del discepolo è ancora quella della Croce. Dio offre una verifica, una caparra: poi bisogna fargli credito, senza limiti”.

La predicazione escatologica

Si avvicina l’ultima Pasqua festeggiata da Gesù. Egli, come ogni buon ebreo, decide di recarsi al Tempio di Gerusalemme. Questo sarà il momento che al tempo stesso decreterà il suo più evidente successo di popolo e l’esito tragico della sua vicenda.

In occasione della sua entrata a Gerusalemme Gesù decide di manifestarsi apertamente come Messia, ordinando ai discepoli di procurargli un asino, a cavallo del quale entrare nella città. Si trattava di un gesto che poteva benissimo essere compreso da tutti, ricordando che cosa aveva detto del Messia il profeta Zaccaria:

Rallegrati molto, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco il tuo re viene: egli è giusto e vittorioso, è mite e cavalca sopra un asino, sopra il puledro, figlio di un’asina. Spazzerà via i carri da Efraim, e i cavalli da Gerusalemme. Verrà infranto l’arco di guerra, e annunzierà la pace alle genti. Il suo dominio sarà da mare a mare, dal fiume ai confini della terra” (Zc 9, 9-10). 

 Dunque Gesù entra a Gerusalemme a cavallo di un asino, proprio come avrebbe fatto il Messia, e così viene acclamato dal popolo in festa (cosa che ancora noi ricordiamo nella domenica delle Palme). Così commenta l’episodio G. Rizzi nel suo Da Gesù alla Chiesa. Il Vangelo di Marco, Mimep Docete, Milano, 1990, p. 219: “L’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, al termine del viaggio di avvicinamento alla ‘Città santa’, sembra consacrare definitivamente il successo del ‘maestro’ di Nazaret nella capitale del paese e del giudaismo. In realtà, il pellegrinaggio al Tempio, in occasione della festa di Pesah, nell’arco di una settimana si trasforma in una tragedia per Gesù e per i suoi seguaci, sotto gli occhi dei pellegrini provenienti dalla terra dei padri come dalla diaspora. Gesù porta a compimento in Gerusalemme il suo ministero di annuncio del Regno di Dio, svolto a partire dalla Galilea, e la sua rivelazione sul Figlio dell’Uomo, progressivamente comunicata durante la salita a Gerusalemme. Le acclamazioni della folla e lo stupore di fronte ad alcuni dei suoi gesti nel Tempio di Gerusalemme (Marco posticipa la cacciata dei mercanti a questa fase della vita di Gesù, n.d.r.) sembrano manifestare un’autorità incontrastabile di Gesù, anche per gli esponenti più qualificati della capitale e per gli stessi sacerdoti. In realtà, la rivelazione di Gesù a Gerusalemme come Messia rifiutato e ‘Figlio’ incontra un’ostilità sorda e tenace tra farisei e sadducei nella capitale. Il senso profondo del contrasto tra successo apparente e insuccesso reale spinge Gesù a completare la rivelazione divina, almeno per alcuni dei Dodici, con un lungo discorso sulla fine dei tempi”.

Questo discorso, comunicato solo a Pietro, Giacomo, Giovanni ed Andrea, tocca i seguenti argomenti:

1) La profezia sulla distruzione del Tempio, orgoglio con la sua grandezza e magnificenza, di tutto il popolo giudaico. La sua distruzione indica con quale incomprensione del senso profondo delle Scritture i giudei ponevano la loro attenzione sullo splendore delle costruzioni umane, sempre in realtà caduche e sottoposte alle vicissitudini della storia (il Tempio sarà effettivamente distrutto dalle legioni di Tito nel 70 d.C., come punizione per la ribellione antiromana e la conseguente guerra del 66-70 in cui gli ebrei furono tragicamente sconfitti).

2) La descrizione del manifestarsi nei tempi ultimi di molti falsi profeti e falsi Messia e della persecuzione che subiranno gli autentici seguaci di Gesù;

3) La grande tribolazione, con la citazione di Daniele sull’‘abominio della desolazione’ (Dn 9,27 e 12,11). Questo testo profetico alludeva al gesto di Antioco Epifane che nel 164 a.C. aveva profanato il Tempio collocandovi la statua di Zeus. Per Gesù accadranno alla fine dei tempi cose simili, e tutto quanto i giudei avranno di più sacro, sarà profanato e deturpato. Grande tribolazione significa guerra, pestilenza, carestia, disperazione per l’apparente vittoria del male nella storia degli uomini. In questo caso vengono ampiamente utilizzate immagini e simboli grandiosi e potenti, noti agli ebrei grazie alla diffusione, sin dal II sec. a.C. di una vasta e diffusa letteratura apocalittica (i libro di Daniele, per quanto riguarda i testi inseriti nell’AT, il libro di Enoc, l’apocalisse siriaca di Baruch, per quanto riguarda i testi apocrifi). Dolore e distruzione non riguardano però solo gli uomini, ma hanno una dimensione cosmica, cioè coinvolgono tutto il creato.

4) Al culmine della catastrofe, giungerà il Figlio dell’Uomo, locuzione tratta da Daniele, con la quale Gesù indica se stesso, il Messia salvatore che ritornerà sulla terra, ad instaurare il suo Regno definitivo di salvezza e di liberazione.

5) Gesù specifica che solo il Padre sa quando accadranno queste cose, quindi è assurdo voler stabilire delle date. Vi saranno nondimeno i segni che sono stati appena descritti e da lì si potrà dedurre che il tempo della fine è vicino. Ciò che conta però è l’atteggiamento con cui accogliere le parole di Gesù. Queste ultime sono un’esortazione alla vigilanza, ad una tensione della mente e del cuore perché il ritorno di Gesù non colga le persone impreparate. Esseri impreparati vuol dire aver dissipato la propria vita nelle preoccupazioni meschine della quotidianità, aver vissuto come se questo mondo e le sue leggi malvagie fossero eterni, volgendo lo sguardo altrove ogniqualvolta Dio attraverso i suoi inviati e i suoi profeti ammoniva a cambiare vita e a pensare a ciò che davvero conta (cosa che Gesù riassume nelle due grandi leggi dell’amore di Dio e del prossimo). Solo chi si sarà mantenuto vigile e attento alla Parola di Dio potrà entrare nel Regno, perché avrà dimostrato di desiderarlo intensamente e di vivere in modo coerente con questo desiderio.

 Il senso della predicazione escatologica

Questa predicazione di Gesù (escatologica perché riguarda le realtà ultime, dalla parola greca éschaton = ultimo), che si ritrova in Mc 13, Mt 24 e Lc 21, ha una molteplicità complessa di significati. Vogliamo soffermarci solo sui seguenti.

1) La storia degli uomini è il luogo dello scontro tra il bene e il male, in cui molto spesso il male trionfa, perché l’uomo è un essere pericoloso e incline ad allontanarsi da Dio, ad opprimere il prossimo, a violare i principi della giustizia. Da quell’evento antichissimo e nefasto che è stato il peccato originale, non solo l’umanità, ma tutta la natura è stata ferita e degradata, e l’uomo, in un contesto di dolore e di fatica, è diventato un lupo per l’uomo. Tuttavia Dio non ha voluto abbandonare la sua creatura e sempre si è chinato su di essa per soccorrerla ed aiutarla. Così ha fatto attraverso la legge di Mosé e l’Alleanza con il popolo ebraico, così ha fatto mandando il suo Figlio e così farà alla fine dei tempi, in cui il Figlio tornerà nella gloria a sconfiggere definitivamente il male. Nel frattempo il male avrà una certa libertà di azione. Proprio quando sembrerà averla avuta vinta, allora sarà definitivamente eliminato. Tutto ciò significa che se la storia  è il luogo dove bene e male si scontrano, e se a volte il male sembra prevalere, Dio rimane il signore della storia, cioè colui che la governa, secondo il progetto di favorire in ogni modo le sue creature, rispettando la loro libertà di decidere.

2) Ciò che conta per gli uomini, la meta primaria della loro vita è l’entrata nel Regno di salvezza che Dio Padre, il Figlio e lo Spirito hanno preparato per loro. Gesù, cioè il Figlio, è venuto nella carne, si è fatto uomo per annunciare agli uomini la venuta del Regno e la via per entrarvi. Questo è il centro assoluto della sua predicazione.

3) Il mondo avrà una fine. Questa realtà, così come noi la vediamo, non è eterna. La fine di questa realtà, pur segnata da sconvolgimenti cosmici, non è il nulla, ma è un grado di essere superiore. Ciò significa che il nostro mondo finirà, ma contemporaneamente ne inizierà uno migliore, depurato da tutto il male che oggi vediamo qui. Sapere questo è di grande consolazione per il fedele, ma non lo spinge ad acquietarsi. La costruzione del Regno di Dio è infatti, almeno in parte, affidata agli uomini qui in questo mondo. Ogniqualvolta essi lottano per la giustizia, lottano per il Regno, ogniqualvolta si oppongono al male, alla prevaricazione, alla prepotenza, ogniqualvolta fanno un gesto di amore - vero, virile, forte - lì pongono un mattone di quel grande ed eterno Tempio che sarà il Regno. Certo l’opera degli uomini sconta la loro fallibilità, la loro incostanza, e tutti i limiti delle loro capacità, quindi solo Dio potrà portarla a compimento alla fine dei tempi. Ma è importante sapere che nella nostra vita abbiamo un modello, un criterio di giudizio, uno strumento di critica a difesa perenne della dignità infinita dell’uomo. Questo strumento è la parola di Gesù, la sua vita, i suoi gesti, il suo modo di fare, insomma il Regno che lui ha predicato e annunciato contro tutti i potenti e gli ipocriti della sua epoca. Il Regno di Dio non solo è atteso, non solo verrà nella potenza del Signore risorto che tornerà sulla terra, ma è, qui e adesso, una bussola per il nostro modo di essere e di agire: ci orienta, ci aiuta a criticare le cose che non vanno, alimenta il nostro senso di giustizia, ci aiuta ad affrontare la vita in modo degno e nobile, ci sprona a lottare e a vincere il male in noi e fuori di noi. 

Cap. XII - Passione, morte e resurrezione del Messia

Gli ultimi insegnamenti di Gesù

Dopo esser entrato a Gerusalemme, essendo ben a conoscenza dei complotti che sacerdoti, scribi e farisei tramavano alle sue spalle per mandarlo a morte, Gesù non rinuncia ad insegnare. Si collocano in questa fase le discussioni con i farisei sul rapporto con il potere romano in cui egli dice di dare a Cesare quel che è di Cesare e di dare a Dio quel che è di Dio, sostenendo implicitamente che la sua missione travalica l’ambito politico, punta ad un Regno che non è di questo mondo e che dunque in questo mondo l’autorità di Cesare, cioè del potere politico, quando non si opponga direttamente a Dio può ben essere rispettata, proprio perché scarsamente importante. Ma, oltre a ciò, Gesù ha occasione di discutere con i sadducei, un gruppo religioso, prevalentemente formato da sacerdoti e da loro congiunti, che si rifacevano all’antica fede di Israele - escludendo da essa l’approfondimento profetico - e negavano la resurrezione dei morti. Qui Gesù ribadisce la correttezza della credenza nella resurrezione, di cui egli si appresta a dare, con la sua resurrezione una testimonianza definitiva. 

Il complotto del Sinedrio e l’ultima cena

Nel frattempo il Sinedrio, cioè l’organo direttivo dei giudei, sta tramando contro Gesù. A farsi promotore della cattura del Messia è Caifa, il sommo sacerdote. Egli utilizza come suo strumento Giuda, il discepolo che lo tradisce consegnandolo ai suoi accusatori. Ma prima della consegna, Gesù ha il tempo di vivere l’ultima grande esperienza di fratellanza e di fede con i suoi discepoli. Il giovedì prima della Pesah, Cristo si raduna con i suoi per consumare con loro l’ultima cena. E’ questo il momento fondamentale dell’istituzione dell’Eucarestia: Gesù spezza il pane e lo offre ai suoi discepoli dicendo loro che quel pane è il suo corpo e di mangiarlo in futuro in sua memoria. In seguito offre il vino dicendo che quello è il suo sangue, versato per molti in remissione dei peccati. Gesù sa che ormai si avvicina la fine e promette comunque ai suoi discepoli che malgrado la sua dipartita, egli non li lascerà orfani, ma in primis darà loro lo Spirito, quel soffio d’amore divino che li consolerà e permetterà loro di sentire sempre la sua presenza in ogni momento della loro vita, ma poi essi lo rivedranno vivo.

 La preghiera del Getsemani e l’arresto

In quella stessa sera Gesù si reca in preghiera nell’orto del Getsemani, lascia indietro i suoi discepoli tranne Pietro Giacomo e Giovanni, ammette con loro tutta l’angoscia che lo coglie in questo momento e dice loro di vegliare mentre egli prega. Gesù non vuole morire e si sente “triste fino alla morte”. Chiede a Dio Padre di allontanare da lui la sofferenza verso cui sta andando, ma alla fine dice “non la mia, ma la tua volontà sia fatta”. Al ritorno prova grande delusione nel vedere che i suoi discepoli si sono addormentati, un segno premonitore della solitudine e dell’abbandono che egli dovrà provare sulla croce. Ma l’ora è giunta, Gesù vede arrivare alcuni soldati assieme a Giuda, che baciandolo segnala loro la persona da arrestare. Gesù blocca la reazione violenta di Pietro e si lascia condurre dai soldati davanti al Sinedrio che cercava motivi per condannarlo. Il pretesto viene fornito da una risposta di Gesù, che ammette di essere il Messia atteso da giudei e il figlio dell’Uomo preannunciato dalle Scritture. A questo punto è possibile per i sacerdoti confezionare un’accusa di blasfemia: Gesù ha bestemmiato dichiarandosi una persona divina, è a tutti chiaro, merita la morte. 

Gesù da Pilato

Dopo essere stato pure rinnegato da Pietro, che non ha il coraggio, nei pressi della riunione del Sinedrio, di rivendicare la sua appartenenza alla schiera dei discepoli di Cristo, questi viene portato da Pilato, il procuratore romano. Infatti i tribunali giudaici potevano giudicare, ma non far condannare a morte un imputato: lo jus gladii, cioè la facoltà di decretare la morte di una persona, era riservata all’autorità romana. Nel frattempo, Giuda, visto ormai il destino di Gesù e colto da una profonda disperazione per la gravità del tradimento da lui perpetrato si suicida. Gesù, davanti al procuratore romano viene condotto nella prima mattina del venerdì. Pilato, estraneo alle dispute religiose del popolo israelita, vuole capire di che cosa si sia reso colpevole Gesù. I sacerdoti cercano di infangare la reputazione di Gesù con la ridicola accusa di aver consigliato nelle sue prediche di non pagare le tasse a Cesare, ma, aggiungendo una mezza verità, dicono che Gesù si sia proclamato re: una mezza verità perché il messia è sì un re, ma del Regno di Dio e non di una compagine politica umana. Pilato interroga privatamente Gesù e non capisce le sue risposte e i suoi silenzi soprattutto di fronte alla domanda filosofica che il procuratore gli pone: “Che cos’è la verità?”, una domanda cui Gesù non risponde sottointendendo che è mal posta. Il romano, infatti avrebbe dovuto domandare “Chi è la verità” e accorgersi che la verità era una persona, precisamente quella che gli stava di fronte. Nondimeno l’autorità romana non vede particolari colpe nell’accusato, e propone di castigarlo, frustandolo, come poi farà e di mandarlo libero.

La condanna a morte

A questo punto, approfittando della consuetudine di liberare un prigioniero in occasione della festa pasquale, i giudei reclamano la libertà di Barabba, un fuorilegge probabilmente zelota, al posto di quella di Gesù, di cui a gran voce viene richiesta da un folto gruppo di giudei chiamati a sostenere le posizioni del Sinedrio, la crocifissione. Pilato decide allora di rinunciare ad interferire, ritenendo politicamente più accorto accogliere le richieste dei giudei e far condannare un innocente, piuttosto che opporvisi creando malcontento e ostilità nelle classi dirigenti giudaiche che lo aiutavano a mantenere l’ordine. Gesù oltre alla fustigazione deve subire in questo frangente anche lo scherno e la beffa di coloro che lo vestono con una tunica rossa e lo incoronano con una corona fatta di spine, a sottolineare ironicamente le pretese messianiche del condannato, e poi lo insultano e gli sputano addosso.

 La crocifissione

La sua sorte è dunque segnata. I giudei lo conducono al monte (Golgota) sul quale verrà crocifisso, costringendo un poveretto che passava di lì, Simone di Cirene, ad aiutarlo a portare la croce, lo strumento del supplizio cui era stato condannato (la crocifissione era la pena riservata ai ribelli e ai delinquenti più disprezzati, poiché aveva uno speciale carattere di esemplarità, potendo essere visibile a tutti e comportando una morte lenta e piena di sofferenze). Arrivati in cima, tra i tumulti dei suoi aguzzini e il pianto delle donne a lui care che lo avevano seguito, viene elevato sulla croce, sulla quale è stata apposta la scritta canzonatoria e al tempo stesso segno dell’accusa per la quale era stato condannato Jesus Nazarenus Rex Judeourum (Gesù Nazareno Re dei Giudei). I soldati romani presenti si spartiscono le sue povere vesti. Con lui vengono crocifissi due delinquenti, il primo dei quali mostra astio e incredulità, mentre il secondo riconosce l’innocenza di Gesù e dice di credere in lui. Per questo, assicura Gesù, entrerà in quello stesso giorno, nel suo Regno. Dalla croce Gesù vede Maria e Giovanni, il discepolo più giovane e da lui prediletto, ai suoi piedi e consegna Giovanni a Maria come sua madre adottiva. Al culmine della sofferenza, dopo aver esclamato “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!”, dopo aver chiesto acqua e aver ricevuto aceto, dice: Tutto è compiuto” e “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” e infine muore. La morte di Gesù è accompagnata da uno sconvolgimento della terra e del cielo che spaventa i presenti. Un soldato romano, per assicurarsi della morte di Gesù, lo trafigge con una lancia: “Dal costato, dice l’evangelista, uscirono sangue ed acqua”.

La sepoltura e la resurrezione

Due membri del Sinedrio, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, tra i pochi che in quell’istituzione erano convinti dell’innocenza e dell’identità messianica di Gesù, provvedono alla collocazione della salma in un sepolcro cui vengono assegnati alcuni soldati romani di guardia. Passato il sabato, giorno di riposo per gli ebrei, un gruppo di donne si reca al sepolcro ma trova la pietra che lo sigillava rimossa e il corpo di Gesù scomparso. I Vangeli raccontano l’episodio, in toni diversi e con diversi particolari, e tuttavia concordano nel rilevare un fatto straordinario accaduto alle donne, che sono le prime a giungere sul luogo: Gesù appare e annuncia la sua resurrezione tra lo stupore e lo sconvolgimento dei presenti. Le donne avvertono i discepoli, i quali, all’inizio increduli, sono a loro volta spettatori di altre nuove apparizioni di Gesù con il suo corpo ormai glorificato. La notizia subito si diffonde e dà una nuova definitiva spinta alla fede di tutti coloro che avevano seguito Gesù in vita. Essi ricevono conferma della divinità messianica di Gesù e diventano i promotori e i predicatori di una nuova speranza per l’umanità. Gesù promette loro di ritornare nella gloria di Dio a giudicare i vivi e i morti e a compiere quello che, rifiutato dagli uomini, aveva iniziato a costruire durante la sua vita, il Regno di Dio. L’attesa di questo ritorno caratterizza la speranza dei cristiani fino ad oggi e rappresenta il lievito della loro vita di fede.

Perché Gesù è stato condannato?

La motivazione storica della condanna di Gesù è stata, come si è visto, la sua pretesa messianica. Ma la ragione profonda è che Gesù, a differenza dei molti che in quel tempo si erano presentati predicando alle folle desiderose di riscatto e proponendosi come inviati di Dio, è eccezionalmente efficace. Gesù è provvisto di un grande ascendente sui suoi ascoltatori, dato non da un uso spregiudicato e ossessivo di tecniche di persuasione (come nei falsi profeti e falsi messia), ma dalla capacità di incarnare nella sua vita i valori e i concetti che va predicando. Insomma Gesù è un esempio, e come tale viene riconosciuto da tutti color che hanno a che fare con lui. Per questo spaventa e in particolare generano apprensione le sue critiche al potere religioso in vista del Regno promesso da Dio, che sarà dato ai piccoli e ai semplici, e dal quale rimarranno esclusi i tronfi detentori di un’autorità ormai svuotata di senso. Da questa paura nasce l’aggressività del potere giudaico che, da un lato, travisa il messaggio di Gesù, attribuendogli finalità politiche, secondo il metro errato da esso stesso utilizzato, dall’altro teme la sua efficacia presso il popolo. Ecco allora la formulazione dell’accusa-pretesto, per additare Gesù a tutti come un malfattore e un bestemmiatore, uno che mette a rischio l’ordine sociale e conduce gli ebrei a subire dai romani giustificate ritorsioni. Certo il messaggio del Cristo, pur avendo una finalità esclusivamente religiosa e benché Gesù non avesse alcuna aspirazione a sostituire al potere le élites esistenti, poteva avere conseguenze anche politiche. Nessun regno umano infatti avrebbe potuto resistere, con le sue piccolezze, le sue ingiustizie e le sue strutture di peccato, al Regno di Dio annunciato da Gesù. Ma non si trattava di sostituire un potere umano con un altro potere umano, bensì di fondare una nuova umanità, aderente al progetto di Dio e da lui solo governata rettamente attraverso il suo Figlio Messia. Tutto ciò non solo non viene compreso, ma viene rifiutato con paura dal vecchio mondo dell’aristocrazia religiosa ebraica, che trama contro il Cristo per ucciderlo.

Il tradimento di Giuda

Che cosa spinge Giuda a tradire? Bisogna fare chiarezza su questa figura, catalizzatrice di tutte le maledizioni nella storia del cristianesimo e oggi divenuta oggetto di un’indebita riabilitazione anche grazie alla riscoperta di scritti apocrifi che lo riguardano, storicamente tuttavia assai poco affidabili. Le testimonianze evangeliche, alle quali, volenti o nolenti, bisogna adeguarsi per capire questa figura, autorizzano un’ipotesi interpretativa fondata su due dati:

1) il nome “Iscariota”. L’origine di questo appellativo per identificare la famiglia o la persona di Giuda è abbastanza oscura. Due sono le possibilità: o che fosse originario della città di Qerirot, nella Giudea meridionale; o che il nome fosse la traslitterazione greca (gli evangelisti scrivono in greco) del termine latino “sicarius”. Quest’ultima possibilità fa pensare ad una provenienza di Giuda da un ambiente di estremisti religiosi zeloti, in cui molti, per liberare la terra santa di Dio, praticavano una sorta di terrorismo antiromano, arrivando a perpetrare attentati omicidi contro le autorità imperiali tramite un coltello ricurvo chiamato “sica”. Di qui la loro denominazione di “sicari”. Se Giuda apparteneva originariamente, come altri discepoli del resto (per .es. Simone lo Zelota), al gruppo degli zeloti, che evidentemente abbandona affascinato dalla predicazione del Messia, si può ritenere, come hanno fatto alcuni autorevoli esegeti, che egli fosse rimasto deluso dall’esito ormai negativo della opera di Gesù, negativo agli occhi di chi credeva ancora che il Messia sarebbe stato un re politico, con la gloria di un grande condottiero capace di schiacciare tutti i nemici di Israele e liberare il popolo eletto dall’oppressione straniera. Questa lettura politica del concetto di Messia era quella diffusa negli ambienti zeloti. Probabilmente Giuda si era convinto che Gesù fosse veramente il liberatore politico atteso dagli ebrei rivoluzionari. Il fatto che, però, Gesù rifiuti apertamente tale interpretazione della figura messianica e chieda invece di credere ad un diverso concetto - spirituale, mistico, universale - di Messia, genera in Giuda, assieme all’insuccesso politico della missione di Cristo, una profonda delusione, che spinge il discepolo al tradimento.

2) Ma i Vangeli ci dicono un’altra cosa di Giuda. Egli era “ipocrita e ladro” (Gv 12,6). Il suo difetto era la cupidigia. Dobbiamo allora pensare ad un tipo umano che si incontra spesso negli ambienti cosiddetti “estremisti” o “rivoluzionari”: la figura dell’idealista corrotto, cioè di colui che, grazie ad un sincero slancio del cuore verso un nobile e alto ideale di umanità e di lotta contro la corruzione del potere, riesce per un certo tempo a mettere a tacere la propria indole di uomo venale, egoista, attaccato all’interesse personale, ma poi, alla prima delusione, vede riemergere tale carattere, che diventa definitivamente predominante, facendo di lui un uomo profondamente malvagio. Nelle rivoluzioni del Novecento, soprattutto presso i gerarchi e i quadri medi dei partiti rivoluzionari, sia di quelli vittoriosi sia di quelli che non hanno raggiunto lo scopo, ne abbiamo visti molti di questi individui. Ecco allora il rivoluzionario zelota che diventa discepolo, si entusiasma sinceramente e viene accolto fra i Dodici, presto però comprende di non aver scelto la parte giusta e di avere frainteso le finalità dell’opera di Gesù, si delude profondamente, e ritorna ad essere il ladro avaro che per un po’ di tempo aveva rinunciato ad essere. Tale carattere lo porta a compiere il misfatto del tradimento.

La passione e la morte: perché Gesù “doveva” soffrire e morire?

Qual è il fondamento atavico del senso di giustizia dell’uomo? Possiamo sinteticamente descriverlo così: da sempre noi sentiamo che un’azione buona va premiata ed una cattiva merita una pena. Concentriamoci ora sull’azione malvagia. Chi commette il male “merita” di subire un male pari a quello commesso. Solo così viene ristabilito un equilibrio giusto, che la malvagità ha incrinato. Ogni legislazione, ogni codice presuppone questo sentimento. La sua razionalità sta nel concepire il male come una sorta di veleno che il malvagio trasmette ad un altro e che solo se viene restituito, a prescindere dall’effetto che tale veleno ha procurato al ricevente, può essere reso inoffensivo. Tu mi hai dato X, quindi devi ricevere X. L’X che mi hai dato è il male che hai commesso, l’X che ti viene restituito è la pena, cioè più o meno lo stesso male che ti viene restituito. Scontata la pena, l’ordine delle cose è stato ripristinato. Nelle diverse culture umane cambiano i criteri secondo cui le azioni vengono valutate e cambiano le proporzioni stabilite tra male commesso e pena ricevuta, ma il rapporto di compensazione tra i due è una costante ineliminabile. Solo Gesù introdurrà il concetto di una misericordia che perdona, ma tale misericordia pure rimane ancorata alla coscienza della pena che si dovrebbe infliggere e che pure, per un motivo superiore, non viene comminata. In chi è veramente pentito inoltre non manca mai la coscienza che, malgrado sia perdonato, c’è bisogno di una qualche riparazione per il male commesso. Di qui l’idea che il perdono cancella la colpa, ma non la pena, cioè la riparazione dovuta, una qualche espiazione per l’azione malvagia o le intenzioni malvagie con cui si è agito.

Ora, proviamo a trasporre questo discorso su un piano universale e pensiamo alla somma dei peccati commessi dagli uomini nella loro storia. La Bibbia, nell’AT insiste molto sulla tendenza dell’uomo a peccare, a commettere gravi errori, a cadere nel male e nella malvagità. D’altro canto sottolinea continuamente lo sforzo di Dio che, nel suo immenso amore, offre all’uomo sempre la via per riparare e per ricominciare una nuova vita. Ma tale suo sforzo si deve scontrare con quella libertà umana che, anche quando volge al male e decide di votarsi a ciò che è ritenuto indegno dell’uomo, Dio stesso sempre rispetta. Dunque la somma dei peccati dell’uomo - molti dei quali, a causa dell’ordine individuale, familiare e sociale ingiusto dall’uomo stesso generato, rimangono impuniti, cioè privi di quel controbilanciamento della pena, necessario all’equilibrio del tutto - produce una situazione di degrado generale che grida vendetta al cospetto di Dio. Questa è almeno la percezione che noi abbiamo.

Se poi noi pensiamo che ogni peccato grave è non solo un torto nei confronti del prossimo ma è un’offesa infinita a quel Dio infinitamente buono con noi e con l’umanità, dobbiamo ritenere che nessun uomo sia in grado di riparare da solo alla somma dei peccati dell’umanità. Tutto ciò che compie l’uomo infatti è limitato e anche la sua santità, cioè la sua virtù e il suo bene sono limitati e non riescono a far sì che tutto il mondo svilito dal peccato e comportatosi ignobilmente nei confronti di Dio si riabiliti. Ecco allora che Dio manda suo Figlio, Gesù. Egli indica agli uomini la via per riprendersi e non peccare più. Ma non si ferma qui, con la sua sofferenza, prende sulle sue spalle i peccati degli altri, tutte le sofferenze che hanno prodotto e le pene che essi esigono perché quell’idea di giustizia innata in noi, per cui alla colpa deve seguire una pena, sia soddisfatta. Allora Gesù che è innocente e giusto, e che è Dio stesso, espia al posto nostro, con infinito amore, le pene dovute all’umanità per il suo comportamento, non solo presente, ma anche passato e futuro, lavando le colpe dell’umanità con la sua sofferenza. Gesù porta a termine questo compito attraversando tutti i gradi dell’umiliazione e della sofferenza. Il Messia infatti subisce lo scherno, il disprezzo, ogni sorta di umiliazione, ed è condannato alla pena peggiore prevista dal diritto romano del tempo, la pensa riservata agli schiavi e a coloro che per le loro azioni potevano essere considerati non più alla stregua di uomini, ma come animali da macello. Inoltre sperimenta, anche soggettivamente, la disperazione, il senso di abbandono e di solitudine che è causato dalla sofferenza; sopporta una tristezza profondissima e un dolore che lo fa gridare, ma alla fine affida al Padre il suo spirito e con esso il destino di tutta l’umanità per i bene della quale egli si è sacrificato. Egli, senza peccato, si prende dunque sulle spalle il fardello dei peccati degli uomini, e soffre da innocente una pena infinita proprio perché a lui non dovuta. Egli lo fa come uomo e come Dio, in modo che l’infinita offesa sia soddisfatta infinitamente perché è pagata con la sofferenza e l’espiazione di un essere infinitamente buono. Così Gesù avvera pienamente la profezia sul servo sofferente di Isaia 53, il passo con cui sempre egli ha interpretato il suo ruolo, e che i cristiani hanno sempre utilizzato per capire i motivi della sua passione e morte in croce.

Ma la questione può essere compresa anche da un altro e complementare punto di vista, quello della “giustizia integrale” di Gesù: da tale giustizia si può dire che derivi la sua sofferenza in croce come destino ineluttabile.

Ci domanderemo innanzitutto: chi è il giusto? Giustizia significa dare a ciascuno il suo. Sottolineiamo qui la parola “dare”. Chi è giusto dà. Qual è il “suo” di ciascuno? Che cosa c’è di più proprio dell’uomo? La sua dignità infinita di creatura capace di intelligenza e di amore. Questo è il proprio di ogni uomo. A tale dignità si può però anche rinunciare. Gli uomini molto spesso vengono meno a tale loro “natura”. Essi infangano la loro persona, commettendo atti ripugnanti  e malvagi: questo è il peccato.

La giustizia integrale di Cristo restituisce a ciascuno la sua dignità. Egli infatti ama, pur non essendo riamato, benedice, pur non essendo a sua volta benedetto; indica la via per gli uomini affinché essi realizzino appieno la loro umanità, valorizzando tutta la loro intelligenza e la loro capacità di amare, e per questo non riceve niente in cambio. La giustizia di Cristo è integrale e infinita: egli è giusto con tutti e per tutti.

Il suo esempio allora è quello di un dono che supplisce le mancanze degli altri: laddove gli altri mancano di giustizia, egli dà quello che manca, agendo giustamente. Se tu mi fai uno sgarbo io ho due possibilità: restituirtelo cadendo nella tua stesa mancanza cosicché ora nell’ingiustizia siamo in due; oppure comportarmi in modo corretto, anzi reagire donandoti qualcosa, in modo tale che la distanza in cui tu sei caduto sia colmata lo stesso dal mio modo di agire. Lo stesso accade se tu fai uno sgarbo al prossimo. Tu rubi, tu togli, io do a colui che è stato tua vittima, ciò che gli manca, dando al contempo a te l’esempio di come si potrebbe riparare al torto. La giustizia, dando, colma una mancanza.

La giustizia assoluta di Cristo ha colmato tutte le mancanze spirituali degli uomini. In che modo? Non fermandosi nemmeno di fronte alla sofferenza: Gesù rimane giusto di fronte all’ingiustizia radicale di coloro che lo condannano pur essendo egli innocente.

Ma se Gesù è il giusto integrale, il suo destino doveva esser quello di andare avanti, anche di fronte all’ingiustizia degli uomini. Essere sempre e totalmente giusti in un mondo in cui la giustizia è l’eccezione piuttosto che la regola, espone per forza alla sofferenza. Dare sempre a coloro che vogliono toglierti, significa non difendersi dai soprusi, quindi significa soffrire.

Ma continuare a dare anche quando si soffre è un gesto di infinita potenza che, per la sua infinita giustizia, colma anche le mancanze degli altri. Per questo Gesù si accolla il peccato degli altri, lo porta su di sé lo redime.

Per questo Dio Padre, mandando suo Figlio tra gli uomini, sa di consegnarlo all’ingiustizia, dove il Figlio si sentirà alla fine così solo da gridare “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. ma questo grido testimonia la grandezza del giusto, che è tale fino alla rinuncia totale a sé e a tutto ciò che rende la vita bella; fino alla rinuncia alla compagnia di Dio Padre, che per Gesù era tutto. In questo momento tutto si compie. Gesù è il più giusto tra i giusti, e morendo può essere accolto di nuovo dal Padre che lo esalterà nella resurrezione.

 La resurrezione

Con l’espiazione di Gesù non accade che tutti automaticamente sono salvi. La sofferenza del Figlio toglie un ostacolo insormontabile per l’uomo e rende possibile per lui una salvezza che altrimenti si arresterebbe di fronte all’infinita ingiustizia da cui noi, a causa dei nostri peccati, saremmo comunque gravati. Ovviamente, tolto l’ostacolo, il resto lo deve fare l’uomo credendo nel messaggio di Gesù e seguendo il suo modello di vita e di comportamento. Se gli uomini si impegneranno su questa via, allora il loro destino sarà quello di una vita e di una felicità eterna in compagnia di Dio. Questo è il significato della resurrezione. La resurrezione di Cristo indica il nostro destino di salvezza. Gesù risorto ci dice che ogni uomo è in cammino verso la vita eterna nel Regno di Dio. La morte, la fine di tutto, il venir meno di ogni bellezza e vita non è l’ultima parola. Dio non ha creato l’uomo perché la sua vicenda debba finire. Dio non ha voluto per lui una felicità provvisoria sempre in bilico e sempre a rischio di trasformarsi in dolore, come avviene nell’esperienza terrena. L’amore di Dio nel creare l’uomo prevede che la sua vita, se l’uomo lo decide, possa continuare per sempre e possa realizzare pienamente e definitivamente tutte le potenzialità positive che porta con sé. Ecco perché San Paolo in 1Cor 15 si esprime molto chiaramente su questo punto: se Gesù non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede. Cioè se Gesù non fosse risorto, la sua vicenda testimonierebbe una bella intenzione, una vita comunque degna e santa, ma a noi non indicherebbe qualcosa di definitivo. La grandezza di Gesù nel risorgere significa che egli ha ottenuto una vittoria assoluta e schiacciante su ogni male, anche su ciò che rappresenta il male più grande e radicale, cioè la morte. Così noi possiamo credere che seguendo lui giungeremo veramente al Regno da lui promesso; che cioè la nostra piccolezza e mortalità di uomini non sarà un ostacolo per Dio che ci vuole grandi e infiniti insieme a lui.

La parusia o il ritorno di Cristo alla fine dei tempi

Gesù ha detto che ritornerà nella gloria di Dio. Il ritorno di Gesù è detto “parusia” cioè “presenza”: Gesù sarà nuovamente “presente” su questa terra alla fine della storia. Gesù è venuto ad annunciare il Regno. Gli uomini lo hanno rifiutato e lo hanno crocifisso, ma la sua crocifissione, invece che sancire la sconfitta del Figlio dell’uomo, ne rappresenta la vittoria sul peccato e sul male, perché lava le colpe dell’umanità e prelude alla sua resurrezione. Dio trasforma l’episodio tragico della crocifissione in un evento benefico per l’uomo e lo suggella con la resurrezione. Cristo è solo il primo dei risorti, e si porterà dietro, con sé, tutta l’umanità che avrà voluto seguirlo nel suo Regno. Ma non solo tutta l’umanità, tutto il creato sarà con Dio, liberato dalle catene del male, della finitezza, della violenza e della morte. E ogni uomo potrà vivere qui in una condizione di piena beatitudine per l’eternità.

Quando si realizzerà la promessa di Cristo per ogni uomo? Alla sua morte ogni uomo entrerà nel presente eterno di Dio e lì sarà giudicato. “Presente eterno” significa che in Dio non vi è tempo; Dio è eterno e l’eternità è fuori dal tempo: ciò che noi vediamo nella nostra realtà come un susseguirsi di istanti e di periodi, in Dio è concentrato in un punto, in un solo presente. Quando Cristo dice che alla fine dei tempi vi sarà un giudizio in cui il bene e il male da noi compiuti verranno definitivamente alla luce e ciò che noi avremo voluto essere - vicini a Dio o lontani da lui - saremo, allude proprio ad un momento finale che ciascuno di noi affronterà, entrando nel presente eterno di Dio, alla sua morte. Nel tempo, nella nostra realtà questo momento “finale” cioè “escatologico” concluderà la storia del mondo e dell’universo e accadrà in un periodo indeterminato nel futuro. Allora Gesù tornerà “sulla terra a giudicare i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”. Ciò significa che in quel tempo tutto l’universo sarà giudicato e sarà redenta tutta la creazione, tutto sarà cioè purificato dal male e destinato all’eternità. Il mondo creato vivrà questo istante nel futuro, i morti lo vivono nel presente eterno di Dio. I morti vedranno dunque contemporaneamente il giudizio particolare sulla loro vita e il giudizio universale su tutto il creato, mentre coloro che saranno ancora vivi e su questa terra al momento del ritorno di Gesù alla fine dei tempi, parimenti lo vivranno contemporaneamente in un tempo che per noi è il futuro.

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