sabato 22 agosto 2020

Vincere se stessi (ma non dimenticarsi del mondo). Il manuale di Martin Meadows, le sue possibilità e i suoi limiti

 

Martin Meadows, Come sviluppare l’autodisciplina, Meadows Publishing, s.l., 2017, E. 13,51

 

Cominciamo con una locuzione complicata che mal si adatta all’evidente destinazione popolare del libro. Esiste un’ “assiologia formale”, cioè la possibilità di comprendere i nessi razionali tra i nostri valori. I valori riguardano ciò che “vale”, ossia ciò che consideriamo buono, per noi e in assoluto. Tra i diversi oggetti della volontà – poiché possiamo volere tante cose buone – esiste una gerarchia e una relazione di implicazione o esclusione. Per esempio se ritengo buono un certo scopo, che diventerà oggetto del mio volere, dovrò per forza ritenere altrettanto buono il mezzo per raggiungerlo. Non posso amare la cultura e odiare lo studio. Se sono convinto che l’amore sia una componente della felicità, non potrò essere triste quando troverò il mio fidanzato. Un grande filosofo come E. Husserl dice che molte delle nostre frustrazioni sono dovute al mancato rispetto dell’assiologia formale, cioè del rapporto razionale tra i nostri valori, qualsiasi essi siano. Frustrazione, senso di colpa, rabbia, e altre simili condizioni sono la conseguenza delle contraddizioni etiche in cui spesso cadiamo: volere in modo contraddittorio cose che si escludono a vicenda o non volere cose che si implicano. Pace, soddisfazione, legittimo orgoglio, armonia della propria vita sono invece la conseguenza del rispetto della gerarchia dei nostri valori e dei loro rapporti.

Ora, sotto il profilo psicologico, un potente elemento di disgregazione e deflagrazione del nostro cosmo assiologico è il godimento immediato. Ciò che diviene oggetto immediato del desiderio si presenta, complici anche alcuni meccanismi della chimica del cervello, come un oggetto posto sotto un'enorme lente di ingrandimento, che ce lo fa apparire la cosa migliore per noi in quel momento e gli conferisce il massimo grado di attrattiva a prescindere da ogni nostra altra decisione e da ogni ulteriore progetto. È la “tentazione” che ci fa dimenticare tutti i nostri buoni propositi e si insinua nella volontà, sospendendo la ragione e le categorie in base alle quali avevamo ordinato e pianificato la nostra vita. Quanto la nostra società, con la sua cultura del “tutto subito” e del “vietato vietare” sia diventata il principale agente del godimento immediato e dunque la principale nemica della nostra pace e della nostra ragione potrà facilmente risultare da un esame superficiale della nostra vita.

Ma ciò non costituisce il tema portante del libro di Meadows. Giornalista americano che scrive per americani e in particolari per membri della middle class urbana e “civile”, egli scrive un classico libro di auto-aiuto, come ce ne sono tanti e come piace a un certo pubblico che cerca sicurezze in un mondo sempre meno a misura d’uomo. Tali testi spesso si distinguono per una sostanziale pochezza dei contenuti e per la riproduzione inconsapevole dei più vieti e ridondanti luoghi comuni sociali. Perciò sono da parte mia oggetto di un pregiudizio negativo.

 Nondimeno, a motivo dell’argomento, questa volta ho deciso di prendere in considerazione un esemplare di tale letteratura. In effetti il concetto di autodisciplina o self control contiene di per sé una certa carica innovativa rispetto al mainstream e quando un testo non ti propone felicità a buon mercato, ma il valore dello sforzo e della fatica, si può dire che già una discreta parte delle vacuità del nostro tempo siano poste fuori gioco. In tale senso non può non piacere l’esordio che recita: “La vita è facile quando la viviamo nel modo più duro”, un paradosso fecondo e un’intuizione creativa. Si potrebbero scrivere pagine e pagine per sciogliere l’ossimoro durezza-facilità, e ne verrebbe fuori sicuramente qualcosa di interessante, ma, ancora, non è questo lo scopo del libro. Gli anglosassoni, si sa, sono “pratici” e, se si vuole accostare la loro scrittura, non bisogna pretendere ciò che essi non intendono offrire, cioè una teoresi (quella possiamo metterla noi, eventualmente, quando ci sembra che sia indispensabile a salvare la prassi dai suoi vicoli ciechi). Il testo di Meadows è pertanto un testo di consigli e strategie che invitano a valutare la possibilità di rinunciare ai godimenti immediati per raggiungere “obiettivi a lungo termine”. Le intuizioni devono servire ad una precettistica di buon senso che l’Autore vuole anche arricchire di un certo corredo scientifico. Il suo servizio al lettore sarebbe quello di evitargli propriamente la fatica – e la noia – di leggere articoli e testi tecnici, per tradurre invece le loro conclusioni in indirizzi per la vita quotidiana. Ad essi  va però affiancato l’apporto dell’esperienza e della testimonianza di chi ha assunto come proprio lo stile di vita proposto. Come per altri testi di auto-aiuto, l’auto-testimonianza è fondamentale: “Io ce l’ho fatta, dunque anche tu puoi farcela” (Z. Bauman, nel suo La modernità liquida ha sottoposto a severa critica questo approccio alla Jane Fonda, che spesso non tiene conto della differenza di status e di condizioni tra l’autore e il destinatario del messaggio). D’altro canto con la freddezza di alcuni dati di psicologia sperimentale, individuale e sociale, e di neuroscienza sarebbe assai complicato toccare le corde più profonde dell’esistenza per mezzo di un discorso persuasivo ed efficace. Quindi il nostro Autore, accanto al suo sapere, propone se stesso, benché dentro i confini della pudicizia necessaria a non urtare le sensibilità probabilmente e anzi auspicabilmente diverse dei fruitori della sua opera.

Al suo interno alcuni punti mi hanno colpito e fatto riflettere. Anzitutto l’enfasi sulla motivazione. La volontà rinuncia al godimento immediato solo se adeguatamente motivata. Si fa qualcosa seguendo un certo imperativo, magari difficile ed esigente, solo se si è interiormente convinti. Verissimo, ma se noi disponessimo dei nostri “perché” e delle nostre convinzioni a piacimento, non vi sarebbe necessità di alcuno sforzo della volontà. Le motivazioni agirebbero direttamente e in modo naturale orienterebbero  decisioni e comportamenti. Così tuttavia non accade: noi non agiamo sempre secondo il nostro miglior proposito e coerentemente con le nostre convinzioni. Ecco allora la necessità di una riflessione sui nostri “perché” … che, d’altro canto, potrebbe condurre vicino ad un grande pericolo, quello di mettersi in questione … e se ci si mette in questione, la volontà rischia di andare a carte quarantotto

L’Autore evita accuratamente tale impasse, quando espone le “sue” motivazioni. Qui ogni approfondimento è bandito, anche a costo di cadere in un patente circolo vizioso. Egli ha fatto tantissime cose: digiuni, sforzi fisici estremi in condizioni estreme, docce gelate, lavori a ritmi molto duri etc. Perché? Con quale scopo finale? “Sfidare se stessi”, “testare i propri confini”, dice … e poi così conclude: “Gli esperimenti che faccio mi aiutano a capire meglio me stesso e mi insegnano cose utili sull’autodisciplina”… Ahi ahi, l’autodisciplina con lo scopo … dell’autodisciplina! Ecco il serpente che si mangia la coda, e quello che noi mestieranti di etica filosofica chiamiamo “nichilismo” (i circoli viziosi in logica sono circoli nichilistici in etica). Cioè: nulla … alla fine c’è il vuoto, faccio tante cose e non so perché. Voglio un perché fortissimo, perché altrimenti non riesco a resistere alle tentazioni, ma questo perché, tirate le somme, mi sfugge … rimane solo uno strumento per evitare le tentazioni: un altro circolo vizioso. Ma se un perché serve solo a evitare le tentazioni, non è un perché “forte” e vero, e allora nemmeno evita le tentazioni.

Ci sono un sacco di problemi, dunque, legati alla motivazione. Filosoficamente parlando è la questione inevitabile del valore supremo, di un assoluto che, posto al vertice della nostra scala di valori,  consente di uscire da un’assiologia meramente formale verso un’assiologia sostanziale, cioè di non valutare solo reciproci rapporti tra i propri valori, ma di andare a vedere quale sia il valore ultimo, non negoziabile, assoluto e non superabile che regge tutta la costruzione. Grande questione, forse la più importante della nostra vita. Grande questione dove in agguato è il dubbio, il ripensamento, la necessità di rivedere e rivedersi, la crisi, la caduta, forse l’abisso… Possiamo ritornare quindi alle nostre tecniche di autodisciplina, ma non dimentichiamo lo sfondo abissale che esse evocano e presuppongono.

Se teniamo presente quanto detto, il tema non è più il valore supremo ma la forza motivazionale degli obiettivi a lungo termine. Essi costituiscono appunto l’argomento pratico su cui si sofferma Meadows. Essi diventano un problema quando possono non avere la forza sufficiente a rendersi presenti al momento giusto, cioè nella situazione in cui la “tentazione” si presenta”. Allora, certo bisogna essere motivati, ma di fondamentale rilevanza diventano, da un lato, i modi di richiamo ed evocazione della motivazione, dall’altro, le tattiche di dilazione della soddisfazione. Sono queste le due strade della rinuncia: ricordare i propri fini e i propri buoni propositi, mentre si aspetta a soddisfare il desiderio dell’oggetto attraente qui ed ora.

Tutto ciò diventa più facile nella misura in cui se ne forma dentro di noi un habitus, un’abitudine (ti saluto vecchio Aristotele …  ma non lo fa Meadows che afferma “l’autodisciplina inizia con le abitudini”, e nemmeno ti cita!). In realtà verrebbe da osservare che per acquisire abitudini bisogna già autodisciplinarsi, ma è comunque vero che l’abitudine rafforza e facilita l’autodisciplina in un processo che si consolida nel tempo e con la ripetizione di atti “virtuosi”. Abbiamo detto che questi ultimi iniziano più propriamente con l’evocazione del “perché”: visualizzazione del motivo a lungo termine, immaginazione di “ogni azione in tutti quei piccoli dettagli che vi servono per raggiungere l’obiettivo”, con un costante “allenamento” per prepararsi alle sfide del mondo reale e un monitoraggio costante sul tempo presente e i suoi rischi e le sue seduzioni. Beh, se volete capire meglio tutto ciò dovete leggere il noto Esercizi spirituali e filosofia antica di Pierre Hadot. Potreste così ritornare alle indicazioni che Filone alessandrino trae dalla tradizione stoica e ancor prima da quella del già nominato Aristotele: i processi di deliberazione (farsi il “film” dell’obiettivo finale da raggiungere e da lì, a ritroso, arrivare a tutte le tappe che dal fine conducono alla nostra situazione presente, per stabilire la direzione del nostro cammino), l’immaginazione, la memoria e l’attenzione sono altrettanti esercizi da mettere in atto tutti i giorni, per realizzare il fine ultimo della vita filosofica, per offrire alla propria vita un logos, o meglio una fedeltà al logos cosmico che realizza a fondo la natura dell’uomo. Meadows ci suggerisce di immaginare le situazioni della vita, di prepararsi alle sfide e ai mali (preparatio malorum, la chiamavano gli stoici), di concentrarci sul presente di ciascuna sfida, incrementando ogni volta tenacia e costanza. Così egli si pone alla fine di una lunga tradizione, benché sembri non accorgersene.

Sicuramente il suo punto di forza è la scienza. Ai nostri giorni, non dobbiamo dimenticarlo, essa, volenti o nolenti, offre grande forza alle argomentazioni. La scienza è il punto d’appoggio di Meadows e dobbiamo perdonarlo se egli abbonda con l’espressione “studi scientifici dimostrano”. Dobbiamo ricordargli che gli studi scientifici “suggeriscono che”, “sembrano mostrare che”, “ipotizzano”, e che le dimostrazioni con la loro definitiva cogenza non appartengono all’ambito, sempre congetturale, della scienza. Tuttavia non possiamo non riconoscere che le sue considerazioni sul ruolo della secrezione di dopamina – questa potente fonte di piacere – sono assai interessanti nel delineare il peso della ricerca della soddisfazione edonistica nelle nostre decisioni. Altrettanto interessanti sono le osservazioni di psicologia sperimentale sull’affaticamento decisionale e sul ruolo dello stress nell’affievolire la nostra capacità di resistenza. Nel primo caso Meadows rileva che più si prendono decisioni più diventa difficile assumere quella sobria equidistanza dai fatti che ci fa comprendere bene le circostanze e ci rende capaci, alla bisogna, di opporvi l’energia sufficiente a vincerle. Riguardo allo stress egli nota: “Nel momento in cui il vostro umore peggiora, il cervello inizia la ricerca di una soluzione per farvi sentire meglio. Di solito questo significa la ricerca di un modo semplice per ottenere una ricompensa”. Affaticamento decisionale e stress hanno i loro rimedi, a volte simpaticamente saggi (come quello di prendere le decisioni importanti alla mattina) a volte un po’ scontati (come nel caso del massaggio “antistress”) che vanno ad aggiungersi alla serie di “esercizi” consigliati dal nostro autore, che riportano meritoriamente in auge pratiche dimenticate come il digiuno o la meditazione.

 A tal proposito il testo sconta un po’ la correttezza politica un po’ le mode culturali liberal americane. Sarebbe normale che in Occidente il digiuno fosse associato alle pratiche quaresimali cristiane e al precetto del venerdì, a ricordo della Passione di Cristo. Il medioevo cristiano ne offre una sterminata letteratura, che mostra a volte non solo profonda consapevolezza etico-filosofica ma anche notevole raffinatezza psicologica, oltre che, ovviamente, l’inesausta tensione alla perfezione evangelica (cfr. solo a titolo di esempio Agostino, L’utilità del digiuno;  Tommaso Somma Teologica, II-II, q. 147, a.1, ad 2, Francesco d’Assisi, Regula non bullata, 3,11 e Regula bullata, 3,6). Invece che cosa fa il Nostro? Parla del Ramadan: giusto, per carità, anche lì si tratta di digiuno; giusto ma non pienamente adeguato. La nostra mentalità si è storicamente formata sul cristianesimo e i suoi motivi ci rimangono, nonostante tutto, più familiari e comprensibili rispetto a uno spunto “astratto” preso a prestito da una tradizione lontana ed estranea (benché, agli occhi di un americano, seducente in quanto abbastanza “esotica” e “pittoresca”).

 Anche riguardo al tema della meditazione il riferimento è alle pratiche yoga connesse al “respiro”: tutto molto laico e “corretto”, per carità, ma poco affine alla nostra cultura e quindi più difficilmente assimilabile nel suo spirito autentico. Non si può infatti evitare di falsare una pratica che nasce dentro uno specifico contesto religioso, nella cornice di una specifica visione del mondo, quando semplicemente la si “utilizza” in modo completamente decontestualizzato per valorizzarne aspetti puramente psicologici, che nella tradizione di riferimento sono invece del tutto marginali. Viceversa l’Occidente possiede sue forme di meditazione legate alla tradizione ignaziana, a sua volta radicata nelle filosofie ellenistiche. Gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio risulterebbero una fonte molto fruibile da tutti coloro che ambiscono a “meditare”. Addirittura nel testo di Meadows, quando si tratta di illustrare il processo di “visualizzazione” dei fini, dei mezzi e delle dettagliate contingenze della nostra azione,  per meglio orientarla alle soluzioni migliori, sembra che inconsapevolmente si chiami in causa una modalità di pensiero che è tipica della prassi meditativa ignaziana che è designata con la locuzione “composizione di luogo” e che rappresenta un analogo excursus nel dettaglio del futuro e della condizione escatologica dell’anima, in grado di retroagire sulle emozioni, sui pensieri e quindi infine sulle concrete decisioni relative alla vita quotidiana. Come si vede, siamo talmente dentro ad una tradizione che le nostre riflessioni inconsciamente vi ritornano ogni volta che affrontiamo certi argomenti. È sensato rifiutarla schizzinosamente – magari in nome di qualche malcelato pregiudizio universalista, per cui  l’erba del vicino sarebbe sempre più verde – o abbandonarla nel dimenticatoio semplicemente perché la storia è “difficile”?

 Il passato è sempre una relazione con altri uomini e la relazione aiuta sempre nei propri esercizi e nel costruire le proprie cornici di senso. Basterebbe questo per costringersi a tenerne conto, anche perché, come molto opportunamente sostiene Meadows, l’autodisciplina non è mai un’impresa solitaria, ma è condotta in concreti contesti con concrete persone che possono ostacolare o facilitare il decorso della nostra volontà e dei nostri comportamenti. Qui egli avverte: fate attenzione alle compagnie! Il che è cosa ottima, ma nostra compagnia è anche il nostro passato, la nostra società di ieri e di oggi, la nostra civiltà. Bene: trattare questi temi non può essere la meta di un libro di auto aiuto, ma un piccolo accenno sarebbe utile farlo. Abbiamo, infatti, già menzionato un contesto storico-sociale che, oggi in particolare, ostacola programmaticamente ogni autonomia, anzi ogni positiva autarchia della volontà. Non c’è solo il cedimento individuale al godimento istantaneo, c’è altresì una società del godimento istantaneo che si regge su un’industria del godimento istantaneo. Ciò ha una storia. Gli effetti distruttivi sulla personalità umana e sulla sua capacità di accedere a un senso che dia pienezza e ricchezza alla vita sono sotto gli occhi di tutti e tutti facilmente li condannano. Ma, come ha specificato in sede critica Bauman, questo è il risultato di un processo durante il quale si è delineata una certa maniera e struttura del vivere comune. Coglierne le radici, criticarlo e opporvi altri possibili sviluppi è un compito dell’autodisciplina che, senza nulla togliere alla responsabilità individuale di saper nuotare controcorrente rispetto allo Zeitgeist, farebbe fiorire le sue possibilità nascoste e le potenzialità inaudite che la trasformazione del mondo contiene rispetto alla trasformazione del sé.

L’alternativa è una sorta di riflusso nel privato che può avere due motivazioni: da una parte lo sconforto rispetto a una realtà che non  puoi cambiare, che giunge alla disperazione quando ti accorgi che la realtà ti sta inesorabilmente cambiando; dall’altra la sottile strategia del confinamento nell’individuale come strumento di difesa e perpetuazione dello status quo sociale. In quest’ultimo caso il bell’ideale del dominio di sé diverrebbe ideologia…e sarebbe un peccato! Considerare invece l’auto-disciplina come una porta d’accesso al retroterra filosoficamente profondo e alle ricchissime tradizioni che pur richiama in chiave di visione generale della vita e dei rapporti umani sarebbe invece il suo più naturale e pieno compimento … oltre le chiusure dell’individuo e verso orizzonti più vasti e affascinanti.


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