sabato 11 marzo 2023

Dello sculettare con il cervello

 


Divertissement scritto e pubblicato qualche tempo fa, che ripropongo a non troppi giorni di distanza dalla festa della donna...giusto il tempo per dimenticare la bruttezza delle mimose e della retorica!

Alcune sculettano con il cervello, forse è meglio dire con la mente, ma ci siamo capiti. La frase è tratta dal simpatico intervento di un'amica di FB, che talora sculetta così bene che mette in soggezione: per questo non ho commentato, tacendo che il suo era un post essenzialmente autobiografico.

Che cosa vuol dire sculettare col cervello? Questa sì che è una sfida teoretica. Se nessuno me lo domanda, lo so, se qualcuno me lo chiede… Che cosa faceva il cervello di certe donne prima di sculettare? Diciamo che non è  sicuro che appartenesse a donne. Diciamo che era una sorta di intelletto agente averroista, unico, asessuato, onnicomprensivo: il serbatoio della Scienza cui dall'inizio del mondo tutti i nostri possibili pensierini attingono allorché si apprestano a enunciare una qualche Verità.

Altra cosa è il cervello sculettante di certe donne. Nato dopo il peccato originale, è la storia rispetto alla fissità, il tempo rispetto all'eternità, la nostalgia ammiccante dell'Uno rispetto alla sua definitiva sussistenza, l'originario ancheggiare delle cose (altro che “coseggiare”, come diceva l’oracolo heideggeriano, le cose ancheggiano!) colto esattamente con il gesto con cui il simile conosce il simile. Nada mejor que el vaivén de nuestros cuerpos, cantano i messicani in amore; nada mejor que el compás de tu cadera, dice l'inno nazionale dei fianchi femminili.

Il loro contenuto gnoseologico è esattamente questo: un'intuizione intellettuale espressa in forma estetica, mediante la parola, l'immagine, la musica in cui il Vero prende le sembianze di una giocosa tattica di seduzione e di una malizia sublimemente inutile. Solo le femmine - pur capaci di ascesi nella gravità e grevità del pensiero asessuato e della sua severa prosa apofantica - sanno sculettare col cervello. E devono essere belle e affascinanti, nella molteplice e libera varietà della bellezza e del fascino: da Naomi Klein a Melanie Klein, tanto per intenderci. E possono essere di volta in volta ironiche, acute, taglienti, provocanti, viziate, arrabbiate, insolenti, orgogliose … ma sempre devono essere intelligenti e leggere. Lo sculettio intellettuale è infatti acerrimo nemico di ogni pesantezza puritana e della piatta uniformità degli esseri a una dimensione.

Così un'osservazione non innocente; un certo movimento degli occhi con cui prendono nuova vita Dante, Newton o Hegel; un'armonia inconsueta  tra un concetto e il corpo che lo esprime; l'immagine narcisistica che racconta di sé e involontariamente di tutto il creato; il trionfo di una volontà capricciosa che investe e colora di sé il mondo; l'egoismo radicale di un moto dell'anima che per misteriosa eterogenesi diventa imperativo universale; così tutto ciò, e molto altro ancora,  può diventare una declinazione della ricca complessità della sculettare del cervello.

Insomma - torno inutilmente a tentare di definire - quando un atto del pensiero si trova ad essere per sua natura al vertice di un approccio estetico, senza in nulla mancare quanto ad appropriatezza teoretica e quando il primo richiama la seconda perché si diano nella loro assoluta solidarietà, lì abbiamo il Femminile e lì c'è, sempre, inevitabile, ineludibile, ritmico, irrefrenabile, lo sculettare del cervello.

Di più non saprei dire...lo sculettare a un certo punto esaurisce le possibilità del linguaggio, lasciando spazio a un certo stordimento, tipico di colui che dopo affannosa battaglia è stato definitivamente fatto prigioniero, perdendo libertà di parola e movimento.

Ciò che rimane è il senso del potere infinito di cui è rimasto preda. Perché la seduzione dello sculettio cerebrale è la stessa dell'infinito. È dovuta a una messe di rappresentazioni concomitanti all'oggetto dato alla conoscenza. È la loro ordinata e continua riproduzione che rimanda sempre oltre, che apre sempre un'ulteriorità che chiama e invita. È la chiamata e l'invito a esplorare e ad amare una verità che all'infinito va spogliata e spogliandosi si rivela e attrae. Perciò lo sculettare del cervello è sempre ermeneutico, anzi erotico-ermeneutico, infinitamente erotico perché infinitamente ermeneutico.

Sotto questo segno sta il rapporto del Femminile con l'Intellettuale. Esso chiede ora, imbarazzato dalle figure uniformi della morale senza anche e del femminismo rigido-dal-tronco-unico, di essere restituito a se stesso e alle sue curve. Solo così potrà tornare a fecondare le astrattezze maschili, un tempo felicemente aggrappate ai nembi metafisici, adesso lasciate tristemente a inaridire nelle asciugatrici del politicamente corretto. Solo allora il mestiere della conoscenza si rivelerà come l'arte di ammirare culetti cerebrali che danzano e si muovono, e che lasciano al loro dileguarsi il delizioso dono del sapere.

lunedì 27 febbraio 2023

La lezione normale

 


La chiamano oggi “lezione frontale”, ma è la lezione tout court. Si svolge da secoli con un maestro che parla e alcuni uditori che si disciplinano all’ascolto, che cercano di comprendere, che fanno domande a se stessi, agli altri, al maestro. È una situazione di scambio, dove si lavora con la parola, con lo sguardo, con la penna e il foglio. Qui l’attenzione e la memoria sono chiamate in causa. Qui ci si sforza e si lavora. Non mancano possibilità di esercizio, di azione. C’è sempre una teoria, una prassi e una poiesi: pensare, comportarsi, produrre risultati in questo esatto ordine. La classe dove si svolge la lezione è un microcosmo di anime, relazioni, vite che si incontrano e si scontrano, non a caso, non secondo una lotteria assurda della vita e dell’ordine alfabetico, ma secondo la ragione del fine, dello sforzo per un obiettivo di crescita. Lo scopo esistenziale, la formazione della figura umana eticamente delineata, si raggiunge mediante la cultura e nella cultura. Ci sono altri modi per crescere? Sì, ma la lezione è quello che privilegia la cultura, perché la cultura coltiva. Le piante selvatiche crescono lo stesso, ma in modo disordinato, sparso, irrazionale, raramente bello… Certo la foresta ha una sua bellezza, ma il giardino è l’endecasillabo della natura e dell’uomo. I cieli suonano, ma il compendio della loro musica è in Bach e Beethoven. Quindi: teoria, prassi poiesi.

La lezione è un theorein che avviene anzitutto nella traduzione della parola pensata in parola espressa, e nella ritraduzione della parola ascoltata in parola pensata. Induzione e generalizzazione, deduzione e particolarizzazione, analogia, similitudine, confronto, rappresentazione, immaginazione. Non semplice comunicazione, ma appello all’insieme dell’anima perché faccia funzionare le sue facoltà, che sono chiamate a lavorare all’unisono per cogliere il senso di un discorso, afferrarlo e abbracciarlo con la propria interiorità. E dentro si reagisce, mentre non si capisce qualcosa, mentre si approva, si disapprova, si cercano ragioni e ci si stupisce di trovare nel dialogo dell’anima con se stessa mondi imprevisti e inesplorati, che si fanno via via più chiari, man mano che le nebbie della complessità si diradano fino alla massima chiarezza possibile, fino all’assenso catalettico con cui la mano dello studente si chiude in un pugno di possesso. O si reagisce con la rabbia per qualcosa che rimane esterno, pietrificato, morto nelle parole che cadono rumorosamente non centrando il bersaglio, e vanno in frantumi insieme alla magia della comprensione. La relazione con il maestro è sempre emotiva e insieme razionale e passa dall’essere una risposta davanti alla persona all’essere una risposta davanti alla cosa. Nella lezione ci si dirige alla cosa stessa mediante la persona e si impara a rivedere la persona e se stessi mediante la cosa stessa. Zu den Sachen selbst, verso le cose stesse: un senso del mondo che non è soggettivo ma che coinvolge il soggetto. Perché il soggetto è lì davanti a te, insieme a te: quello impegnato nel porgerti la materia del sapere, perché tu sappia dar la sua forma e quello impegnato con te nell’impresa di conoscere e riconoscere.

La teoria è anche una prassi: ascoltare non è solo capire ma obbedire, cioè saper rinunciare al proprio capriccio mettendo davanti gli altri, le altre cose, l’altro mondo in cui ti è chiesto di entrare, piuttosto che la comoda ripetizione del tuo. Obbedire non si può senza udire. È un’ulteriore forma di ritraduzione della parola, ma non più in sole rappresentazioni, bensì in rappresentazioni e comportamenti. Già si accede dal bene compreso a quello realizzato: subito, lì, nella compagnia che è la classe, nella universitas della comunità dei discenti e dei docenti che forma la classe. Si ascolta, si capisce, si obbedisce, ci si comporta immediatamente con gli altri. Essere è mit-sein, con-essere. Nella lezione la parola circola, attraversa più anime che però stazionano nello stazionare dei corpi l’uno accanto all’altro, nel loro giacere, nella loro stessa compostezza reciproca, che determina una forma riflessiva e consapevole di relazione umana. Ci sono i discenti, che sono compagni di classe, c’è il docente che ha una relazione con tutti e ciascuno e c’è la postura attraverso la quale la parola viene comunicata e recepita e la postura non è un caso, ma è un ethos. La classe abita nella sua postura, come nel bene che permette il fiorire dell’anima di ciascuno e come nel bello di un ordine interno che permette all’azione spirituale dell’insegnamento di realizzarsi mediante i corpi e le presenze fisiche.

La poiesis è infine il risultato. Il risultato non si determina mediante un semplice prodotto esterno (a volte anche), ma attraverso il sapere. Sapere è un verbo che andrebbe declinato senza sostantivizzazioni. Forse un gerundio per indicare il divenire di qualcosa, il suo svolgimento, il suo dipanarsi dalla potenza all’atto; forse un congiuntivo per indicare l’obliquità di un’azione labirintica, di un viaggio nella complessità, ma anche una dimensione utopica, ottativa ed esortativa. Sapere è un sapendo e un sapessi. Perché ogni lezione è sempre un processo che si interrompe sul più bello, è sempre troncata, ma è sempre capace di alludere all’al di là da sé, al mondo che sta oltre e che sarà oggetto della lezione successiva.

Una lezione non ha dunque bisogno di essere completata se non da un’altra lezione. Nessuna falsa esperienza, nessun banale fare, che rimane sempre l’esecuzione di una compito nell’ipocrita veste di una “libera” attività. Nessuna fantasia e creatività che non si insegnano e all’ombra delle quali si propongono strategie da altri preparate per credere di scoprire ciò che altri hanno già scoperto. Nessun lavoro applicativo da prevedere: la lezione non è funzionale a nulla se non alla forma.  Solo forma, solo dare un ordine a sé e alle cose perché quest’ordine lo si riceve nel profondo e dopo averlo ricevuto si diventa capaci di criticarlo. L’umiltà della forma, che ha un suo peso, che rimane attraverso la fatica del governare sé, i propri impulsi, i propri desideri mediante il continuo indefesso e impegnativo esercizio della ragione.

La lezione è una celebrazione fiduciosa e festante del logos, discorso, pensiero, ragione. Anche quando è venuta male, anche quando lo studente non ascolta o l’insegnante balbetta, anche i suoi tentativi falliti testimoniano la grandezza a cui tende, come il lapsus del linguaggio rivela profondità autentiche, benché incapaci di trovare espressione.

Non c’è alternativa alla lezione. Non la lezione frontale (come fosse un banale e dannoso incidente: non ce la contate mai giusta, cari pedagoghi del nulla!), ma quella secondo la sua norma alta. La lezione normale.

venerdì 10 febbraio 2023

Regionali 2023: una cultura per la Destra


Le elezioni valgono quanto gli uomini che vi partecipano. Le procedure in sé non sono nulla, oppure sono efficacissimi specchietti per le allodole, se una sostanza umana non offre loro valore e spessore. Io sono convinto che su questo bisogna ogni volta scommettere e scommettendoci, come direbbe Pascal, ogni volta si vince. Perché gli esiti numerici, pur nella loro importanza, contano meno del fare, dire e pensare quello che va fatto, detto e pensato in un momento, come quello elettorale, non di semplice competizione per il consenso, ma di prova e di confronto sulla migliore forma di convivenza possibile. La sostanza umana si misura sulla cultura nel senso più vasto del termine: coltivazione della propria forma e della forma politica, cioè etica e civile, dell’esistenza. Quindi abbiamo anzitutto bisogno di cultura. E la destra più che mai. Perché avrebbe l’ambizione di reindirizzare la storia su un binario diverso da quello di uno stanco, decadente eppur pervasivo e opprimente spirito dei tempi. La storia si articola a diversi livelli, tutti fortemente interconnessi, e il livello locale fa da substrato a tutti gli altri. Dunque, le piccole storie delle elezioni locali sono suscettibili di far grandi tutte le altre. Ecco il motivo dell’impegno e le ragioni da non sottovalutare di una chiara presa di posizione.

Perciò quando ho sentito che Stefano Zecchi si candidava alle regionali con FdI sono stato molto contento. Ho pensato che potesse essere il naturale assessore alla cultura di una rinnovata giunta lombarda per ridare slancio a una coalizione che deve superare i propri limiti, per non ricadere negli enormi limiti dei propri avversari. Zecchi è uno studioso di razza, un maestro di rara profondità e dedizione (ho imparato di più, quanto ad approccio filosofico al testo e alla realtà, da un suo seminario sulla Lettera sull’umanismo, che da moltissimi altri corsi cui peraltro non mancava una ratio scientifica), ma è anche una appassionato dell’impegno politico, perché da filosofo del bello e dell’arte sa quanto la scena pubblica e il teatro del mondo rappresenti una sfida per il destino dei trascendentali: l’uno, il vero, il buono e infine anche il bello. Come filosofo, deve sempre compiere l’impresa di uscire dalla Caverna in cerca della luce, ma poi deve anche tornarci e incontrare i suoi amici, o quelli, tra i prigionieri delle ombre, che vorranno esserlo, pochi o tanti che siano. Io credo in questa impresa. Credo che sia per il bene di tutti. E sia anche, mi si perdoni l’inguaribile faziosità, un toccasana per quella destra che più è soggetta alle tentazioni del conformismo perché un’ovvia vocazione la chiamerebbe alle direzioni ostinate e contrarie. Dunque a Stefano Zecchi bisogna rivolgere un’attenzione privilegiata, riflettendo anche sul suo slogan elettorale, “per la bellezza”, che dice veramente tutto … molto di più di un dettagliatissimo programma, perché riguarda ogni aspetto della nostra vita in comune: riguarda il progetto di una società che deve emanciparsi dalle pastoie tecnocratiche e dotarsi del metodo della giustizia sociale, riguarda il radicamento della Lombardia nella profondità delle sue tradizioni popolari, religiose, comunitarie, riguarda infine la valorizzazione dell’efficienza economica posta al servizio delle esigenze della collettività, come testimonia la splendida vocazione caritativa e di servizio propria della sua migliore classe imprenditrice sin dagli albori della rivoluzione industriale.

Stefano Zecchi porta tutti i motivi di questa destra nobile nel suo vastissimo bagaglio di cultura ed esperienza e la speranza è quella che ogni elettore sensibile alle istanze di una politica in senso alto e nobile lo sostenga attivamente, nelle urne e anche dopo!

Parlando di sensibilità, non posso che aggiungere un nome, anche qui non per fare “campagna elettorale” (non credo di muovere voti, ma ogni tanto, quando mi va bene, la coscienza di qualcuno già ben disposto nei miei confronti), bensì per conseguente integrazione a quanto ho detto. Chiara Valcepina è un’amica di cui conosco l’intelligenza, la competenza e, se mi è concesso, anche la forza e le “palle”. Nell’opposizione alle follie di Sala al comune di Milano si è dimostrata tenace, prudente, incisiva e sempre sul pezzo. Mi sembra assolutamente naturale associare al nome di Zecchi il suo nel campo delle opzioni offerte da Fratelli d’Italia per la regione. Ciò, non per la ridicola e assurda imposizione di una “quota rosa”, di cui lei ride sempre con gusto, ma per l’agilità con cui si sa ormai muovere nelle istituzioni e, appunto si diceva, per la sensibilità di cui è dotata: una sensibilità per la cultura, per le idee, per lo stile in politica e nella professione,  ma soprattutto, in quanto donna, per la cura dell’esistenza e della trasmissione dei valori dello spirito che avviene dentro la famiglia. Una cognizione perfetta della posta in gioco caratterizza la sua difesa costante dell’istituzione familiare, laddove si costruisce il primato della vita che è lo sfondo di tutti gli obiettivi, di tutte le grandezze e le bellezze ulteriori.

Bene, se vogliamo prenderci la responsabilità di selezionare un’élite che lasci un segno e apra strade per il futuro, bisogna affidarsi a questi due persone. Certo non sono gli unici a poter offrire garanzie di buona politica: le preferenze sono due e su queste cade la mia scelta, nella certezza che coloro che ho indicato sapranno scegliere nel partito, tra gli eletti e ovunque i migliori compagni di strada. Il resto lo lasciamo a beghe, camarille e insignificanze partitocratiche (rumoresque senum severiorum omnes unius aestimemus assis!)


martedì 7 febbraio 2023

Storie che curano

 


Quando si lavora, si entra spesso nella prosa dei rapporti di produzione ma, pur nella fatica e nell’impegno quotidiano, non mancano la poesia dell’umano e qualche motivo di orgoglio. Ne ho fatto diretta e felice esperienza oggi quando al Gonzaga è arrivata la dottoressa Patrizia Vergani a parlare del delicatissimo tema dell’aborto. Banalizzato, politicizzato, strumentalizzato, l’aborto rimane uno spartiacque di civiltà. È la civiltà che si confronta con una questione di vita o di morte, cioè il dilemma più grande e tragico per l’uomo. Nessun eufemismo è qui ammesso e nemmeno le delicatezze politicamente corrette, spesso farsesche e mai adeguate alle cose grandi (eh già, l’immenso problema dell’uomo vede protagoniste, nel bene e nel male, le donne!). Patrizia Vergani ce lo ha presentato nella sua autentica dimensione. Questa la sua grande, magnifica abilità. Non ha però costruito un discorso concettuale, come avrei fatto io, ma ha messo assieme racconti. La vita che illustra se stessa, sine glossa, con la sola forza di una narrazione che rende effettiva e vivente la nostra straordinaria capacità di empatizzare con gli altri, di rivivere l’altro in noi, fino a commuoverci e piangere dei suoi dolori o esultare delle sue gioie.

Delle tante storie che ho sentito dico quella che meglio ricordo. Potrei intitolarla l’Assurda fede della vita. Due mamme: entrambe sono destinate a veder morire il loro bambino, per una gravissima malformazione. Un dilemma per entrambe: “Abortisco o porto a termine la gravidanza?” Una di loro decide di partorire un bimbo che vive cinque minuti. L’altra abortisce. Costei, tragedia nella tragedia, è afflitta da un handicap che rende molto difficoltose le normali relazioni per mezzo della parola. I parenti, la comunicazione, una serie di circostanze l’hanno condotta alla scelta di anticipare l’inevitabile. Ma poi per una fatalità, le due si incontrano, si “parlano” in qualche modo, si comprendono a gesti. L’una viene a sapere della vicenda dell’altra. Per chi ha interrotto la sua gravidanza il dolore è lancinante. Non ci viene spiegato il perché, ma tutti lo capiamo e nemmeno qui è necessario dirlo. La dottoressa incolpevole viene tirata per il camice mentre passa nel corridoio del reparto: “Perché non me lo ha detto?” sembra voler significare con il suo sguardo disperato. “Perché non ho fatto come lei?”. Non c’è modo di farle capire che la dottoressa ci aveva provato, invano … e non c’è modo di tornare indietro…

Assurdo si direbbe. L’assurda fede della vita: la vita vuole seguire il suo corso, aspira a consumare fino in fondo il suo destino e si ribella quando qualcuno si mette di mezzo, pur con tutte le ragioni e con tutte le raffinatezze di un coltivato esprit de geometrie. In fondo nessuna delle due donne potrà mai crescere il proprio bambino. Che cosa cambia? Scherzi della morale del risultato e dell’utile! Guardare all’utile è razionale ma spesso insensato. Per una donna avere un figlio non significa produrre qualcosa. Essere legati al risultato come l’operaio al pezzo o il professionista alla prestazione. Un bimbo non è una protesi di cui disfarsi se non funziona, non è un violinista malato che per nove mesi si attacca al tuo corpo, parassitandolo, come direbbe la teorica dell’aborto, Judith Jarvis Thomson. Avere un bimbo significa poter amare qualcuno, e amare qualcuno significa realizzare tutte le sue possibilità, cioè tutto il suo bene che è tutta la sua vita. Quindi curare nel più vasto senso del termine. La donna, che non ha avuto suo figlio anche solo per pochi minuti fra le sue braccia, rimprovera l’incolpevole medico di non aver potuto amare e curare la vita che portava nel grembo. Questa è tutta la sua tragedia.

Qui finisce la storia. Non è un fine lieto. Ma esprime fino in fondo la bellezza dell’essere di tutti i suoi protagonisti. Anche nell’errore, nella disperazione, nella rabbia e nell’impotenza, splende la vita oltre ogni ragione. La vita quia absurdum.

Oggi ho ascoltato diversi racconti. Ho visto altre radure illuminate dal sole, pur dentro vicende di dolore infinito. Narrare è efficace, potente e trascinante. Addirittura, è una forma di medicina che si associa a quella tradizionale, quella dei bisturi e dei farmaci. Per sua virtù ci si cura anche dalla tentazione di ideologizzare l’aborto, di farne il pretesto per affermare un a-priori sul mondo: quando libertà, diritti, emancipazione diventano astrazioni roventi sulla pelle dei più deboli. Le donne protagoniste dei racconti di questa giornata importante potranno a loro volta raccontarsi ad altre donne, o ai loro mariti, o ai loro nipoti, in pubblico o in privato. Ci sono luoghi adatti e persone che sanno ascoltare, come la dottoressa Vergani. Noi e loro siamo pazienti che hanno bisogno di trovare “nuove possibili connessioni tra malattia e vita quotidiana, trame di senso per riuscire a rivedersi, ricomprendersi e riprogettarsi in una rinnovata versione della propria storia e della propria identità”, come si dice alle frontiere ancora da esplorare e indagare della medicina narrativa[1]. Per ora sappiamo che per ogni romanzo che recita l’adagio “Io uccido”, ci sono migliaia di trame diverse pronte ad essere raccontate. Ogni donna e ogni uomo, nei drammi dell’esistenza di ciascuno, possono scriverne di grandi. Grandi storie nobili da opporre ai lacci di ogni piccola storia ignobile che ci tenta con le sue seduzioni [2]. Storie migliori, storie belle, storie che curano.



[1] La medicina narrativa è un orientamento recente che intende prendersi cura del paziente in tutte le sue dimensioni, favorendo, mediante la possibilità di ricostruire i propri percorsi biografici, la relazione con i medici, la partecipazione consapevole ai processi terapeutici, l’individuazione del senso della propria vicenda anche attraverso lo sviluppo di attitudini riflessive e metadiscorsive.

[2] Alludo a una canzone di propaganda del cantautore Francesco Guccini. Egli, non senza autenticità di ispirazione, racconta la vicenda “triste” e “ignobile” di un aborto clandestino, dentro il clima di una crudele ipocrisia benpensante e borghese, in cui alla colpevolizzazione moralistica della sessualità e della donna, segue contro di lei la pratica violenta di una procedura in cui ciò che conta sono le apparenze e la reputazione di soggetti che per nulla si interessano di lei e della sua sofferenza. Il problema sembrerebbe qui la clandestinità. Poi si è scoperto che anche le storie di aborti liberi, gratuiti e garantiti dallo Stato sono molte volte piccole storie ignobili.

domenica 11 dicembre 2022

Lo stato di eccezione secondo Agamben: tra violenza e diritto.


Tornata d'attualità, ripubblico in questa sede una recensione a G. Agamben, Stato di eccezione (homo sacer II), Bollati Boringhieri, Torino, 2003, comparsa su Ekpyrosis, 2 (2006). 

L’idea-guida di Giorgio Agamben nella sua ultima fatica sullo stato di eccezione appare quella di una definizione negativa della politica. La politica consisterebbe in una prassi umana volta a separare due elementi che continuamente tendono ad articolarsi: la violenza e il diritto. “Veramente politica è quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto”, un legame che è secondo l’Autore il punto di partenza di un processo che sta progressivamente trasformando la democrazia in un regime para-autoritario e guerrafondaio. La trattazione del concetto di stato di eccezione ha precisamente a che fare con tale deriva. Infatti, esso rappresenta il punto di fusione di violenza e diritto e al contempo sta diventando vieppiù la regola giuridica dell’agire delle democrazie che l’Autore chiama ormai “governamentali” (per distinguerle dalle democrazie, invero più ideali che reali, ove il potere esecutivo è chiamato a rispettare ben precisi vincoli giuridici a difesa e protezione del cittadino).

Ma che cosa si intende specificamente con stato di eccezione? Esso è un dispositivo giuridico che sospende il diritto in una situazione di emergenza, permettendo di mettere in atto qualsiasi azione sia utile allo scopo di fronteggiarla con successo. Se ne possono ritrovare esempi notevoli nella legislazione dell’Europa moderna riguardante lo stato di assedio, ma anche in quelle costituzioni che hanno previsto, indipendentemente da situazioni di belligeranza, particolari misure atte a contenere e reprimere eventi potenzialmente sovversivi dell’ordine costituito. Un caso classico di realizzazione pratica del concetto di stato di eccezione è l’articolo 48 della costituzione di Weimar, che prevedeva, quando si fosse presentata una particolare emergenza politica, la possibilità da parte del presidente del Reich di attribuire al governo la prerogativa di prendere provvedimenti aventi forza di legge bypassando il parlamento. Non solo: il governo poteva anche ignorare le garanzie a difesa del cittadino previste in una serie di articoli della costituzione la cui validità poteva essere sospesa. Indipendentemente dall’uso che ne fecero i governi di Weimar ed Hitler stesso, ma anche i loro precursori nel XIX e XVIII secolo, questa sospensione eccezionale della norma nella riflessione di molti giuristi, e in particolare di Carl Schmitt, nonostante instauri effettivamente una zona di anomia, non è senza relazione con il diritto. Essa fa emergere «in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione» (Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 39). Detto elemento si pone al confine fra diritto e anomia proprio nella sua funzione di fondamento della norma a sua volta non fondato su una norma. Ciò però non elimina del tutto la sostanziale aporia dello stato di eccezione, che consiste nel fatto che con un dispositivo giuridico si aspira a mettere in mora il diritto (qui evidentemente interpretato in senso normativistico), lasciando via libera ad una prassi senza alcuna regola e che tuttavia pretende ancora di essere giuridica. Tale prassi isolerebbe allora una forza di legge senza legge, ovvero una vis obligandi sganciata dal criterio normativo che sta alla base dell’obbligazione, affinché, attraverso la creazione di una situazione normale oltre l’emergenza, la norma stessa possa trovare efficace applicazione. Questo tentativo di iscrivere una forza di legge senza legge, vale a dire una forza tout court, una violenza libera e sregolata, in un contesto giuridico appare, a un’analisi più approfondita, una mera finzione.

Esaminando l’origine dello stato di eccezione nel diritto romano, che lo contemplava nell’istituto del iustitium (una sospensione temporanea delle leggi e delle procedure vigenti, di fronte a un’emergenza politica o militare) Agamben giunge alla conclusione che in realtà in esso, mancando ogni modello legale di riferimento, non vi è più diritto e le azioni ivi commesse risultano giuridicamente inqualificabili: esse sono «meri fatti il cui apprezzamento, una volta scaduto il iustitium, dipenderà dalle circostanze» (p. 65). Si crea dunque con lo stato di eccezione uno spazio di violenza anomica che con il diritto «non ha alcuna articolazione sostanziale» (p. 111) e che oggi vale come espediente attraverso cui le democrazie tentano di emanciparsi dai vincoli legali per affermare un potere in grado di avere, a partire da una violenza vitalistica, presa diretta sulla vita. Ciò comporta, per coloro che sono oggetto di una tale prassi di dominio, la sottrazione di ogni strumento di difesa giuridica della propria persona. Il loro bìos, la loro vita avente dignità etica e civile, viene allora degradato a pura zoé, vita biologica, nuda vita, con la conseguente trasformazione del cittadino in materiale umano disponibile per l’agire autoreferenziale del potere. Ciò è quanto è avvenuto nei regimi totalitari, che hanno istituito i campi di concentramento, i quali rappresentano, con l’assoluta mortificazione del diritto e con il puro, estremo e violento dominio esercitato sulla persona, «lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 188).

Ma le democrazie, appunto, non ne sono immuni. Già in Homo sacer Agamben aveva notato i sintomi di un processo di trasformazione del potere democratico in potere governamentale, cioè tendenzialmente promotore di un’esecutività affrancata dal diritto e caratterizzata da inquietanti venature biopolitiche. Ora, mostrando l’esempio delle ultime guerre che hanno coinvolto gli Stati Uniti e di una tra le più stridenti ingiustizie cui hanno dato luogo il campo di prigionia di Guantanamo, egli afferma che tale deriva si è ulteriormente consolidata e siamo in presenza di una fase storica in cui precisamente l’eccezione è diventata la regola. La conseguenza è che la democrazia così come era stata pensata dalla tradizione liberale viene svuotata di senso. Ebbene, è proprio l’idea di uno stato di eccezione, in quanto posto ancora in relazione con il diritto, a mascherare ideologicamente questo svuotamento, qualificando una prassi violenta e solo governamentale come ancora legale.

A fronte di ciò Agamben intende compiere un’opera di demistificazione, che, sulla scorta di Per una critica della violenza di Walter Benjamin, produca una rescissione del legame fittizio tra violenza e diritto, dimostrando, principalmente contro Schmitt, la possibilità teorica e pratica di una violenza pura e, accanto ad essa, di un diritto puro. La politica si porrebbe tra queste due forze: una violenza smascherata nella sua catastrofica distruttività, e un diritto cui sarebbe tolto ogni valore d’uso e quindi ogni possibilità di essere strumentalizzato. Quest’ultimo diventerebbe allora realmente una “porta per la giustizia”, in opposizione netta ad una violenza concepita per ciò che veramente è. Tale operazione di disincanto, effetto di una politicità non priva di una certa connotazione utopica, permetterebbe secondo Agamben di interrompere il funzionamento dell’odierna macchina del potere che sta conducendo l’Occidente verso una guerra civile mondiale.

Così conclude il nostro Autore. In sede critica non si può non rilevare il grande acume diagnostico che caratterizza il suo testo, cui è difficile non accordare il proprio consenso relativamente alla interpretazione dei più recenti fenomeni bellico-politici mediante il paradigma dell’eccezione. Inoltre, anche alla luce di alcuni suoi testi precedenti, il tema sviluppato da Agamben del rapporto biopolitico tra potere e vita appare estremamente ricco di implicazioni e teoreticamente fecondo. Per converso, la critica a Carl Schmitt, che prende in considerazione principalmente i testi degli anni Venti (La dittatura e Teologia politica) fa emergere la concezione essenzialmente normativistica del diritto da parte del filosofo italiano. Ciò, a parere di chi scrive, è una delle possibili cause dell’estrema indeterminatezza della pars construens finale del suo testo. L’eliminazione del legame violenza-diritto non può infatti che considerarsi un compito utopico, laddove parimenti il significato politico di un diritto confinato nella pura dimensione del Sollen non può che riguardare una città che non ha luogo. La dottrina schmittiana è al contrario sempre attenta alla fattualità concreta del compito dell’ordine politico. Pertanto, ha sì tentato di inscrivere la violenza nel diritto, correndo il rischio di esporsi a strumentalizzazioni, ma ciò ha fatto proprio per fuggire a un’opposta deriva, quella che all’intensificazione dell’aspetto normativo del diritto ha visto corrispondere il suo scivolamento nella morale e nella tirannia dei valori: modo esemplare con cui il diritto nega se stesso.

Viceversa, Schmitt ha più volte sottolineato come la violenza bellica avesse trovato una grande forma di limitazione e umanizzazione nell’impresa giuridica del razionalismo europeo, forse grazie proprio al riconoscimento di un nesso violenza-diritto in grado di porre il secondo nelle condizioni di agire in senso limitativo e lenitivo sulla prima (jus in bello). Di qui la possibilità della costruzione e della difesa della categoria di justus hostis: un tema che va esteso ben oltre il campo del diritto internazionale, perché la sua logica vale altrettanto in quello interno, sussistendo per entrambi la dimensione originariamente politica del rapporto amico-nemico e la funzione dell’ordine istituzionale orientata a contenere il conflitto dentro limiti accettabili. Adottando questo criterio schmittiano è possibile avanzare un’altra interpretazione di quegli stessi eventi del panorama politico contemporaneo che ha citato Agamben. Si tratta della previsione della crescente intensificazione e disumanizzazione della guerra da attribuirsi alla sempre più arrogante esibizione di una justa causa (libertà, diritti umani etc.) al fine di scavalcare gli ostacoli giuridico-politici che si frappongono alle varie strategie dei soggetti di politica interna e internazionale. Ciò andrebbe eventualmente affiancato al paradigma dell’eccezionalità di Agamben. Le due interpretazioni non si escludono necessariamente. Ma la prima ha il pregio di consentire sotto il profilo teoretico di mantenere le categorie di decisione e di nemico; ovvero un’ermeneutica forte del fatto politico, capace di opporre alla “macchina letale” del potere non solo la non-violenza di una petitio principii ma una prassi efficace e delle significative controforze.

martedì 6 dicembre 2022

La bestia, l'uomo, il dio. Il dialogo della salute di Carlo Michelstaedter

 "Il dialogo della salute" potrebbe anche intitolarsi: "La bestia, l'uomo, il dio". Infatti, descrive il passaggio attraverso queste tre tappe. La bestia nella sua innocenza ha bisogni, “desidera” e gode di tutto ciò che consente di continuare a vivere, e quindi gode del piacere del presente per poter nuovamente godere nel futuro, trovando in questa catena ininterrotta di bisogno-soddisfazione l’immediata in-consistenza della propria vita senza significato.

L'uomo si accorge, tramite la ragione, che il piacere-felicità può essere cercato. Però è lo stesso edonismo di chi invoca il piacere e fugge il dolore a dimostrare la sua vanità profonda, poiché non può che somigliare all'atto di "guardare nella propria ombra il proprio profilo": v'è piacere solo laddove vi è immediatezza, dove si gode nell'incoscienza di godere, perché, laddove si genera una mediazione consapevole, misteriosamente il piacere diventa "un iddio pudico" che "fugge da chi li invocò" che "ai piaceri è nemico" e che "fugge da chi lo cercò". Il piacere, cioè, è soprattutto una esperienza, è nemico della razionalità che riflette sui fini: esso non è e non può essere un valore, cioè l'oggetto di una ricerca, nella fattispecie un valore stabile e l'oggetto di una ricerca non infinita. Sono grandiose queste pagine che attraversano la tradizione dell'edonismo filosofico e ne confutano con grande forza i presupposti.

 Il terzo passaggio e quello verso il dio, ossia l'uomo-dio, colui che è persuaso, cioè l’individuo che ha trovato un senso convincente dell’esistenza, persuasivo come una verità che si impone improvvisamente, come una condizione di salute che distrugge ogni finzione e illumina ogni oscurità. La vita consacrata al piacere dissipa se stessa in un non-valore, ma la vita consta proprio di questa continua aspirazione a soddisfare bisogni, la vita è schopenhauerianamente volontà, la volontà di cose determinate che si fingono ricche e piene ma generano solamente un circolo vizioso, quello che subito si instaura tra il bisogno, la soddisfazione e un nuovo bisogno. Sembra che tale circolo oltre ad essere ripetitivo e nichilistico, sia nell'uomo peculiarmente artificiale e falso perché alla coscienza umana l'esperienza immediata della soddisfazione è negata alla radice, essendo invece concessa alla bestia incosciente. Che può fare, dunque, colui che si rende conto di un simile doppio vizio? Può rifiutare la vita, esprimendo così il desiderio di morte come riposo e negazione del bisogno … ma si tratta di una negazione che lascia permanere la coscienza. Si cerca la morte in quanto nella vita si ha l'insopportabile e lacerante coscienza dei bisogni insoddisfatti. Ma la morte non cancella solo il bisogno, ma anche la coscienza, lasciando permanere in essa un tragico senso di incompletezza. Il suicidio così diventa un pensiero con il quale ciascuno si costruisce uno sfondo falsamente consolatorio, a proprio uso e consumo di fronte alla frustrazione dell'esistenza. È una porta che ciascuno si lascia aperta ben sapendo che non conduce da nessuna parte, perché chi muore sa di non essere più, e sa che "il non-valore della morte non gli vale la speranza del valore". Anzi nell'invocazione della morte "parla la sua stessa debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore". Lì, dunque, si presenta un meccanismo paralogistico in cui è presente, pur dissimulata, "la volontà di continuare, la pietà commossa di se stessi". Che cosa resta da fare allora? Niente: nausea per la vita che è e che non è, disincanto totale per il mondo della volontà. Un niente, però, ricco di significati perché è la ribellione contro l'insignificanza del vivere. Questo fermarsi, questa rivolta immobile contro il divenire nichilistico delle cose è la via-non via della persuasione. "Allora non più invano spererai, non più sarai disperato, non più invano esulterai e non più avrai da lamentarti: ma il futuro non sarà più per te e nell'ultimo presente il tuo cuore consisterà [...] Niente da aspettare / niente da temere / niente da chiedere e tutto da dare / non andare / ma permanere / non c'è premio, non c'è posa / la vita è tutta una dura cosa". Il fermarsi contemplativo e ascetico di fronte alla durezza della vita è persuasione, il persuadersi di una verità scomoda e tremenda, che tuttavia è l'unica esistenzialmente autentica.

Michelstaedter nega che questa possa essere chiamata via, dal momento che consiste nella negazione di ogni via e di ogni andare che è sempre anche un inutile vagare. Nondimeno essa pur sempre rimane via in quanto implica un passaggio, una presa di coscienza, uno sforzo che dovrebbe condurre dalla naturale vita inautentica e dalla vana ricerca del piacere e della felicità, a una condizione diversa e superiore. La condizione di partenza è l’inconsistente e bramosa ricerca del futuro, l’attaccamento irrazionale alla vita (la filopsychia nell’accezione platonica) che Michelstaedter chiama "rettorica", perché a somiglianza dell'antica arte oratoria costituisce una trama, l'intreccio di condizioni, fatti, eventi, desideri, pulsioni che nascondono la reale consistenza della vita, come la retorica è una trama di argomenti, parole, immagini, figure che nascondono la reale consistenza della verità. Siccome la retorica è condizione di partenza di tutti, una sorta di generale Verfallen (scadimento) esistenziale, si presuppone che persuadersi della verità, cioè anti-retoricamente consistere, implichi appunto il percorrere una faticosa strada. Malgrado la sua dimensione puntuale - ci si persuade quando si smette di volere il futuro e di diluire l'esistenza nei diversi momenti della sua dialettica del desiderio - la persuasione è una meta, e come tale oggetto di una peculiare aspirazione. E questa è precisamente l'utopia michelstaedteriana, un'utopia escatologica che si intuisce nella significativa espressione che descrive la persuasione come "l'ultimo presente" in cui (si noti il verbo al futuro) "il cuore consisterà". La persuasione è, quindi, il desiderio di non più vanamente desiderare, la fame di non avere più fame, la speranza di non dover più sperare, cioè di un punto fermo in cui "la volontà si sarà raccolta e avrà fatto di se stessa fiamma", bruciando i desideri retorici, l’ansia del piacere, la vita sempre in bilico tra essere e non essere che costituisce il "caso mortale della nostra nascita".

 Allora c'è desiderio e desiderio, c'è speranza e speranza, c'è volontà e volontà: c'è il desiderio retorico del piacere vano, la speranza di ottenere le cose determinate che esprimono il non senso del vivere e la volontà che si rapporta gli oggetti per ribadire il circolo vizioso del bisogno, ma c'è anche il desiderio di autenticità, la volontà di verità, la speranza di una definitività che smetta di rimandare ad altro. Chiamerei la prima fattispecie "desiderio", per indicare una brama morbosa e inconcludente, del tutto naturalistica e quasi animale, un eros inesausto che alberga nella pulsione verso il piacere e non domanda il significato; la categoria di "speranza", credo viceversa che possa propriamente rendere la qualità ultima, dunque escatologica della tensione ascetica verso la verità nuda, disincantata e abissale a cui Michelstaedter si riferisce. Egli per nulla indulge alla speranza volgare nella folle illusione di una pienezza felice, ben sapendo che la vita si decide dove nulla di ciò che si vuole accade, dove però tutto è vero e il nuomeno di sé e del modo si spalanca violento e possente a chi ha la forza di guardarlo. Solo questo può accadere di buono, perciò io ancora questo chiamerei speranza e con un certo azzardo anche felicità.

 Lo stesso filosofo mette in bocca a uno degli interlocutori del dialogo, Nino, le seguenti parole: "Perché dare agli uomini questo desiderio senza speranza, questa fame che non si può soddisfare?", alludendo alla "nebbia maledetta" che identifica il fluire retorico delle cose nelle cose che reciprocamente si bramano e reciprocamente si annullano. Questo status naturale è oggetto di una ribellione utopica e divina: ad esso si oppone l’attesa demistificante di totalità, di unità e di immobilità che rappresenta il centro intimo e profondo, la domanda radicale del filosofo. Il rifiuto del "desiderio" e la logica della "speranza", seppur sui generis, inducono a ribaltare l'immagine usuale di Michelstaedter filosofo pessimista, non eludendo per questo la tragicità del suo disilluso realismo e il moto di profondo disagio razionale che lo ha generato.

sabato 3 dicembre 2022

Il cittadino del sole. Breve ritratto di Ernst Jünger

 



Quando capita di leggere un libro che racconta verità profonde o ci affascina con immagini molto belle, subito il pensiero va a chi lo ha scritto: “Che tipo d’uomo sarà costui?”, ci si domanda, “Come è arrivato a dire cose così importanti?”. Se poi, una volta informati sull’autore, questi appare all’altezza della sua opera, l’innamoramento è molto facile. Viceversa se scopriamo nella sua vita qualche cosa che non va — e, dicendo così, alludo a qualcosa di serio e di importante, giacché tutti, in quanto uomini, abbiamo le nostre miserie e ognuno deve essere indulgente verso le piccolezze del prossimo, se vuole un po’ di indulgenza per le proprie — la delusione s’impossessa di noi e anche ciò che leggiamo perde valore.

Con Ernst Jünger siamo decisamente nel primo caso. Grandissimo letterato, filosofo e uomo di cultura nato ad Heidelberg nel 1895 e morto a Wiflingen nel 1998, si arruolò nel 1913 nella Legione Straniera, combatté nella Prima guerra mondiale dove si distinse in numerose azioni, fu ferito quattordici volte e si guadagnò, oltre alla croce di ferro di prima classe, la decorazione dell’Ordine “pour le mérite”, un’onorificenza raramente accordata in fanteria. Su questi temi e il loro rapporto intimo con la letteratura ebbe a dire: “All’eroismo mi spinse la lettura dell’Orlando furioso dell’Ariosto. Furono quelle parole, quelle rime lette durante le pause tra un combattimento e l’altro a motivarmi. E non già la retorica e l’ideologia della guerra sviluppatesi in seguito alla nostra vittoria nella guerra franco-prussiana del 1870-71...” (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano, 1997, p. 22).

Partecipò dopo il 1918 alla vita pubblica della Germania tra le fila dei critici della Repubblica di Weimar, nata dal peccato originale della resa della nazione tedesca, ma all’ascesa di Hitler si ritirò in una sorta di emigrazione interna, non risparmiando le sue critiche al regime in Sulle scogliere di marmo (1939, romanzo di altissimo pregio letterario che, pur contenendo metafore negative del nazionalsocialismo, non può essere ridotto alla sua dimensione politica). Dopo la Seconda guerra mondiale, cui nondimeno partecipò come ufficiale nell’esercito tedesco, e dopo avere rischiato molto a causa della sua amicizia con il conte von Stauffenberg, uno dei congiurati nell’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, si dedicò all’attività letteraria e alle sue passioni naturalistiche. Era infatti anche un esperto entomologo: “Non solo una mezza dozzina di scarabei, o ancor di più, sono stati battezzati grazie a me, ma ci sono anche farfalle, molluschi; il mio amico Theodorides mi  ha anche dedicato un organismo monocellulare, la gregarina jungeri. Inoltre esiste una sottospecie di cincidela che si chiama jungerella”: così affermò egli stesso nell’intervista concessa a Julien Herver e pubblicata con il titolo Conversazioni con Ernst Jünger (tr. it. di A. Marchi, Guanda, Parma, 1987, p. 50).

Nel lungo periodo del secondo dopoguerra scrisse alcune tra le sue opere di maggior respiro che si aggiungono a L’operaio. Dominio e forma (1932), suo capolavoro filosofico: Heliopolis (1949) e Eumeswil (1978), due romanzi voluminosi e di rara bellezza. Strinse amicizia, grazie ai buoni auspici del fratello Friedrich Georg (anch’egli filosofo e letterato), con il grande pensatore Martin Heidegger, in dialogo con il quale pubblicò Oltre la linea (1950), un acuto saggio sul nichilismo contemporaneo (quel fenomeno, indicato mediante l’uso della parola latina nihil = nulla, per cui la vita appare vieppiù senza senso, un deserto senza valori e significati). Si cimentò in un profondo esame del fenomeno del tempo in Al muro del tempo (1949); entrò in una feconda relazione culturale e umana con Carl Schmitt, autorità riconosciuta e insuperata nel campo della scienza giuridica; dalla loro collaborazione nacque Il nodo di gordio (1953), un confronto storico-filosofico-giuridico su oriente e occidente (siamo in epoca di guerra fredda, cioè in pieno scontro tra i due blocchi, quello orientale-sovietico e quello occidentale-statunitense, per l’egemonia planetaria). Attraversò con successo diversi generi letterari, quello diaristico, quello fantastico, quello fantascientifico, oltre alla prosa filosofica e scientifica: tutto ciò si aggiunge agli scritti anteriori al 1945 che vanno dal romanzo di guerra — famosissimo rimane il suo capolavoro Nelle tempeste d’acciaio (1920), sull’esperienza di Verdun e della Somme — ai saggi storico-filosofici sul senso del conflitto mondiale (La battaglia come esperienza interiore -1922) e alle riflessioni di strategia militare come Fuoco e movimento (1930). Si distinse anche per finezza della prospettiva, ricchezza della descrizione e sensibilità, diremmo oggi, ecologica nei resoconti di alcuni viaggi (Viaggio in Dalmazia - 1933) o in quelli di alcune escursioni naturalistiche in Cacce sottili (1967) e, per certi versi, in quello scritto complesso, a metà tra il diario e la raccolta di aforismi filosofici, che è Il cuore avventuroso (1929) Curioso fu anche il suo excursus sulle droghe e il significato degli stati allucinatori come via "pericolosa" alla conoscenza di sé (Avvicinamenti droghe ed ebbrezza, 1969)

Insomma siamo di fronte a un’opera vastissima e a un talento poliedrico che si unisce a qualità umane e virili oggi veramente rare. In particolare, questa sua capacità di leggere i segni dei tempi e di tramandare un’immagine nitida di accadimenti estremi come la guerra è stupefacente. Nel suo Nelle tempeste d’acciaio egli coglie appieno il significato rivoluzionario della Prima guerra mondiale, una guerra di masse, in cui l’individuo, come era stato concepito dalla società borghese, conta pochissimo e va progressivamente scomparendo la distinzione tra belligeranti e no, laddove la distruttività indiscriminata della tecnica e la logica dei materiali assumono un’importanza preponderante. Qui si forgia la nuova figura, il nuovo tipo umano adatto all’epoca, l’operaio. La guerra è infatti il luogo in cui emerge per la prima volta l’immagine del nuovo mondo trasformato  in un’immensa officina, in cui l’operaio non è più il lavoratore salariato, cioè un semplice rappresentate di una classe sociale svantaggiata e capace di ribellarsi (come aveva teorizzato il socialcomunismo marxiano), ma colui che “opera” cioè governa gli strumenti attraverso cui si mobilitano le energie del mondo. È una sorta di sacerdote della tecnica che sa evocare e tenere a bada la potenza “infera” dei materiali e la loro forza esplosiva. Ciò richiede qualità umane peculiari e una diversa organizzazione sociale che assimila il mondo a un esercito dove ciascuno assume un ruolo determinato in funzione delle sue qualità specifiche: la fredda tranquillità della conoscenza, la capacità di trasfigurare le emozioni e i sentimenti in una sfera di superiore coraggio e abnegazione, lo sprezzo della morale dei mercanti e dell’utilità borghese, la ricerca di un contatto più intimo con le forze profonde che legano il destino dell’uomo alla fisicità e alle dinamiche elementari della natura. Sono questi elementi che attualizzano e, per così dire, incarnano quella trasvalutazione di tutti i valori che il filosofo Nietzsche aveva preconizzato qualche decina di anni prima. Non si tratta però di un’esaltazione acritica del combattimento, anzi della guerra non vengono taciuti gli aspetti più crudeli, disumani e inquietanti, e al contrario se ne inquadrano con un nuovo e affascinante realismo aspetti fino a quel momento non visti, non saputi e non vissuti dalle generazioni abituate al clima della Belle Époque guglielmina (il periodo di crescita e splendore del Reich tedesco seguito all’unificazione bismarkiana e all’ascesa al trono dell’imperatore Guglielmo II).

 Successivamente alla sconfitta del 1918, verrà elaborata da Jünger una vera e propria filosofia dell’operaio, intesa a rendere consapevoli le giovani generazioni tedesche delle nuove prospettive filosofiche e politiche del secolo XX, aperte dall’evento rivoluzionario della guerra mondiale, la cui coscienza sarebbe servita a una rinascita della nazione prostrata dalla “vergogna di Versailles”. Nonostante le cose in seguito non fossero andate nella direzione auspicata dal nostro autore, egli non rinunciò ad impegnarsi nella cultura collaborando con le avanguardie più coraggiose dell’intellettualità tedesca, per esempio con il gruppo nazionalbolscevico di E. Niekisch che si sarebbe opposto, a partire da un originale “conservatorismo di sinistra”, alla politica del Terzo Reich.

Dopo la seconda tragica disfatta tedesca del 1945, Jünger delineò i contorni di nuove figure antropologiche adatte al mutato contesto storico ed epocale. In esse egli riuscì a individuare efficaci antidoti alla drammatica incapacità della cultura nell’affrontare il brusco risveglio dalle illusioni di redenzione dei popoli affidate alle ideologie del Novecento (comunismo, liberalismo, fascismo). Si tratta delle figure dell’anarca - colui che coltiva una libertà interiore, inafferrabile per gli strumenti d'oppressione dello Stato totalitario moderno -  e del ribelle - colui che "passa al bosco" cioè nei luoghi che la civilizzazione e l'omologazione tecnica, economica e politica non hanno raggiunto per organizzare la sua opposizione a tutte moderne forme di oppressione, recuperando un rapporto intimo con la propria natura selvaggia e indomita.  Qui il singolo, attingendo alla sua originaria libertà, si sottrae alla civiltà delle masse anonime, del mercato totale e della tecnica senza controllo, grazie alle sorgenti di senso che trova nell’arte, nell’amore erotico, nell’amicizia, nel recupero di un sentimento eroico della morte, ma anche nella rivalutazione di un “giusto senso del sacro” e di un rapporto oginario con la natura (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani, cit., p. 98). Ma il bello di questi tipi umani — l’anarca e il ribelle — è che non sorgono da una descrizione fredda e concettuale, ma prendono vita da storie, vicende e trame che, benché parti di una fantasia vivacissima e piena di risorse, hanno un legame interno con la vivida concretezza del mondo, quasi a confermare l’idea di un’altra grande, seppur diversissima scrittrice, F. O’ Connor, secondo la quale la vera letteratura è più realistica di qualsiasi disciplina puramente descrittiva. In questi paradigmi personali s’intravede ancora l’uomo Jünger, il soldato-poeta, il romantico che fugge nella Legione Straniera, l’eroe tragico della Germania sofferente e sconfitta, l’esule in patria del dopoguerra, ma anche colui che sa emozionarsi e commuoversi al pensiero di essere uno dei pochi cui il destino ha concesso di vedere due volte la cometa di Halley (Due volte la cometa – 1987). Un individuo differente, insomma,  il cui carattere cordiale e la cui penetrante intelligenza sono intrecciati a una sostanza umana, a uno spessore etico-valoriale, a una potenza interna del temperamento che hanno impressionato tutti coloro che sono venuti a contatto con lui: da Berthold Brecht ad Adolf Hitler, da Pierre Drieu la Rochelle ad Alfred Kubin e Pablo Picasso, da François Mitterand ad Helmut Kohl per finire con tutti gli intellettuali, anche italiani come Alberto Moravia, che da lui hanno sempre ricavato il senso di una grande autorevolezza e di una straordinaria acutezza di sguardo. Ma, direi anche, un utopista disincantato, che si pone in modo critico nei riguardi del suo tempo, senza indulgere a resoconti accomodanti e consolatori ma, al tempo stesso, senza mai rinunciare alla ricerca dei semi di un futuro diverso, gettati per terra nelle periferie della realtà, in attesa che lo spirito, la forza e la volontà del singolo li facciano germogliare,