martedì 16 aprile 2024

Spirito o intelligenza artificiale? La sfida dell'IA alla soggettività umana

 


"Umano poco umano" di Mario Crippa e Giuseppe Girgenti è un testo di esercizi spirituali che ci vuole aiutare ad affrontare la realtà. L'esercizio spirituale è un allenamento che ci permette di attivare la mente, così come l'esercizio fisico attiva il corpo. Si tratta di abituarci a riflettere sui temi fondamentali della nostra vita, per coglierne un senso profondo e per ispirare una prassi consapevole ed efficace. Esso è antico quanto la filosofia, anzi ancora di più, quanto quella sfera originaria e innata che coincide con il sacro e la religione. Sin dagli albori della nostra civiltà l'esercizio spirituale fu concepito come una pratica di iniziazione. Iniziazione significa una serie di azioni, di gesti, di prove che introducono alla vita piena. In campo religioso si tratta di formare un fedele consapevole, un credente compiutamente educato alla vita dello spirito, cosciente, attivo, in cui è operante un’autentica intelligenza della fede. Nel più vasto ambito della società, l'iniziazione perfeziona la partecipazione alla vita civile, fatta di ruoli da incarnare, compiti da svolgere, scelte da compiere, responsabilità da portare, dignità, onore e reputazione da detenere e difendere.

In tutti questi campi l'esercizio spirituale è una pratica riflessiva, è un'attitudine a capire, ad approfondire, ad affinare il nostro sguardo per affrontare l'esistenza da persone autentiche e pienamente umane.

L'epoca moderna e la nostra civiltà pongono sfide importanti e talvolta in grado di metterci profondamente in questione. Una di queste è data dal ruolo onnipervasivo della tecnica. Essa non è solo progresso verso il comfort generalizzato (pur con tutti i suoi problemi), ma anche la propensione a considerare la natura, il mondo, gli altri come oggetti a disposizione di un universale meccanismo di trasformazione e manipolazione. Il punto più alto del movimento manipolativo della tecnica è rappresentato dal tentativo di entrare nell'interiorità umana, decidendo le forme del pensare e del comprendere, per sottoporle alla schiavitù dell'uniformazione, della produzione seriale, della semplificazione che espone le nostre facoltà intellettive a processi sempre più pervasivi di consumo e di controllo. Da un lato si consumano storie preconfezionate, slogan ideologici, retoriche pubblicitarie, dall'altro c'è la tendenza a controllare tutte le attività umane, compreso il pensiero, per determinare l'uomo a una dimensione, docile al potere e sottomesso alle logiche degli apparati economico-politici dominanti. In ciò l'intelligenza artificiale ha un ruolo non secondario. Il libro ne espone, in modo preciso e al tempo stesso fruibile dal grande pubblico, i rischi e le implicazioni etiche e filosofiche, con un excursus assai efficace sulla nostra quotidianità ormai sedotta dalle prospettive della costruzione artificiale di prodotti spirituali. È la sfida della tecnica ma di una tecnica enormemente più raffinata e penetrante che induce a domandarci se l'interiorità e la relazionalità così come noi le abbiamo intese, e seguiamo a considerarle sul piano etico, potranno mai resistere a un tentativo di sostituzione della soggettività vivente con una sua imitazione algoritmica. Il libro di Crippa e Girgenti accoglie questa sfida che, se trascurata, ci vedrebbe tutti condannati alla prigionia di un infantilismo tecnologico disumano e antiumano. Lo scopo è quello di ogni iniziazione spirituale: una vita fiorita, più ricca, più adulta in cui l'esercizio di un'intelligenza etica, emotiva ed estetica ci restituisca, contro ogni artificialità che reifica e mistifica, alla nostra più vera e autentica natura.

martedì 9 aprile 2024

Riconoscersi, trascendersi legarsi. Un contributo teologico alla consulenza filosofica. Conversazione con mons. Pierangelo Sequeri


Pubblicata originariamente in “PINC” 1(2007), pp. 65-73, presento nuovamente questa intervista, un piccolo gioiello in cui mons. Sequeri affronta temi ancora attuali con grande acume e profondità teoretica

A cura di Massimo Maraviglia

Sbrigativamente si è decretato il venir meno della capacità ecclesiale di fornire orizzonti di senso alla vita dei singoli e della società. Qual è secondo lei la situazione reale? Non è forse, al di là della retorica del ritorno del religioso, qualche altra ‘agenzia di senso’ (Stato, intellettuali, scuola) in crisi ben maggiore?

In prima battuta, a caldo, forzerei ancora di più la dialettica che lei pone, dicendo che l’agenzia di senso più in crisi è certamente la famiglia. La crisi ha due facce. La prima è quella per cui il lavoro famigliare di umanizzazione è rimosso e poi svilito dalla società. La società liberale e mercantile, che ispira il modello ideale dell’individuo autoreferenziale, attore sociale che definisce in modo autonomo e razionale la sua identità, non sarebbe in grado produrre accesso alla qualità umana – e alle qualità umane – per nessun individuo. Le istituzioni civili e la cultura intellettuale, che approfittano di questo lavoro, scaricando sulla famiglia gli oneri più alti della provvista di senso, fanno poi valere parametri di identificazione largamente estranei a quel lavoro.

La seconda faccia della crisi riguarda appunto l’indotto di rassegnazione, impotenza, disinteresse, a riguardo del lavoro famigliare di ominizzazione. Incerta a riguardo del suo valore, trafitta dal sospetto assillante di condizionamento, prevaricazione, dirottamento delle potenzialità esistenziali e culturali del singolo, la famiglia è profondamente in tensione. La scuola, la cultura intellettuale, le istituzioni civili, risentono, infatti, largamente degli effetti di una sconsiderata semplificazione, secondo la quale la maturità della cittadinanza dipende dall’emancipazione di ogni cultura della generazione e della fraternità. 

L’orizzonte ecclesiale della fede, che tiene fermo il vincolo della verità di Dio con la destinazione della generazione del Figlio per la fraternità degli umani, lavora oggettivamente – già solo esistendo – in controtendenza con le due spinte opposte dello scotimento epocale. Da un lato gli effetti destrutturanti di un’istituzione dell’umano che rimuove il riconoscimento del senso spirituale attivato dai legami primari. Con tutti gli effetti di smarrimento generati dalla considerazione funzionale e libidica di tutti i rapporti. Dall’altro il ritorno vendicativo del rimosso, che prende la forma di un arcaico ritorno alle forme tribali dei legami di sangue, di razza, di clan. Con tutta la carica di violenza interna che se ne sprigiona, a dispetto di ogni civilizzazione e di ogni religione. L’assimilazione soggettiva di questa sua funzione epocale – voglio dire, socialmente creativa e intellettualmente smaliziata – è nel cristianesimo ancora debole. Ma la polarizzazione oggettiva di un mondo umano irrinunciabile, irriducibile all’economia libidica dell’autorealizzazione, lascia emergere la sua funzione strategica per la costituzione di un umanesimo prossimo venturo. Non solo la questione religiosa, ma anche la questione morale e quella educativa, hanno oggi rilievo di questioni fondamentali del senso, dell’uomo e della donna, della vita e della morte, della generazione e della destinazione dell’umano, proprio perché possono essere articolate in rapporto all’effettività della forma ecclesiale del pensare e del comunicare l’umano. Non esisterebbero semplicemente – e difatti non esistono – né avrebbero peso determinante nel discorso pubblico, in altro modo, nell’odierno contesto. L’indice di crescita economica, la tecnologia della manipolazione chimica e biologica, il riflesso culturale degli eventi dello spettacolo, sarebbero probabilmente le occasioni più elevate della conversazione pubblica quotidiana intorno alle questioni di senso. 

La fede può avere due tipi di ricaduta psicologica: da un lato la consolazione fornita dalla speranza ultraterrena, dall’altro la critica che utilizza il criterio della giustizia del Regno per promuovere un atteggiamento attivo nei confronti del reale. Quale dei due ritiene maggiormente operante oggi?

Certamente il primo, anche se considerato culturalmente più convenzionale e socialmente meno visibile. Il secondo è più nominato, ma è meno operante di quanto non appaia teorizzato, anche dai teologi. Sul primo motivo la teologia è stata indubbiamente meno generosa di riflessioni forti, ponendo più slancio di rinnovamento sul secondo. Non si deve infierire. Non è neppure questione di alternativa secca, dopotutto. Inoltre, si deve tener conto del fatto che, nel contesto della ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo, dopo il Concilio, era fortissima la pregiudiziale negativa che rinchiudeva l’immagine della religione in quella di un’ideologia politicamente conservatrice e individualmente consolatoria. Rimane il fatto che, nel frattempo, l’aggiornamento culturale del capitalismo neo-liberistico è stato abile ad incunearsi nel solco della critica all’ideologia del sistema di costrizione della libertà, indirizzandone l’offensiva anche nei confronti del legame sociale, del diritto, dell’etica condivisa. La funzione consolatoria nei confronti delle aspirazioni, del desiderio di realizzazione e di elevazione del singolo è stata trasferita nell’orizzonte libidico dei beni di consumo, che include anche i “prodotti” culturali e le “tecniche” del benessere spirituale. L’efficienza del principio di realtà è trasferita al dominio dell’economia e della tecnica, che “rispettano” la religione e l’etica, ma regolano i limiti della loro rilevanza pubblica rinviando alle loro “molteplici” elaborazioni “private”.

 Il singolo, per fronteggiare la crisi della complessità, ha soltanto la fede nella destinazione dell’esistenza ad un riscatto che sta oltre la morte, e la persuasione che le pratiche ispirate all’incondizionato della giustizia ne decidono il compimento. E il presentimento indistruttibile, infine, che la dignità di ciò che è degno, nell’esperienza della qualità umana, deve essere decisa dallo stretto legame che sussiste – fin dalla creazione del mondo, e prima – tra la fiducia in quel riscatto e la pratica della giustizia. Questo tema è diventato privato, ossia irrilevante per la sfera pubblica dell’essere sociale. Questo tema, invece, è la forma condivisa dell’umano, che vi iscrive tutte le qualità della sua naturale differenza dalla natura. Su questo tema, secondo il quale la qualità morale delle affezioni e la qualità religiosa del divino hanno indissolubile fondamento nell’intenzione che genera il  Logos di Dio e ne definisce lo Spirito, il cristianesimo incalza anche la religione e l’etica. In nome di Gesù Cristo, che sottrae l’ospitalità di Dio agli arcaici vincoli dell’etnìa come ai moderni vincoli dell’economia, rendendola radicalmente universale, per tutti i singoli, i vivi e i morti.

Gnòthi sautòn, come i cristiani possono interpretare questo slogan manifesto della grecità da Socrate all’ellenismo?

L’antica tradizione cristiana, com’è noto, ha nutrito una speciale predilezione per l’antico motto apollineo della “conoscenza di sé”. Lo ha sottratto però – più o meno consapevolmente – alla declinazione socratica, che accentuava la cura di sé come psicho-logia, in alternativa alla faticosa e incerta impresa di “decifrazione dei miti”, ossia della teo-logia. Ne ha enfatizzato i due lati della tradizione originaria, che Platone stesso restituisce al suo più corretto intendimento (come Reale ha ben dimostrato). Sia traendone l’invito allo svuotamento della ybris che insedia al posto della conoscenza di sé, nutrendo quello che noi chiameremmo un falso sé, illusorio e distruttivo. Sia sviluppando la ricerca delle più intime potenzialità di trascendimento del sé autoreferenziale, che riconosce le proprie qualità più alte precisamente mediante l’esercizio dell’uscita da sé, nei modi dell’amare e dell’essere amato. E’ qui la dimensione del riconoscimento della propria tangenza – anzi della propria sovrapposizione – con il modo originario dell’essere divino. Il significato preciso della scritta “conosci te stesso” del resto, secondo l’unanime consenso degli studiosi, era un invito di Apollo – dio della felice riuscita di armonia – a riconoscere la propria limitatezza e finitezza, cercando senza arroganza e con animo grato l’accordo con il dio. “Dunque – chiosa Giovanni Reale – a chi entrava nel tempio di Delfi veniva detto quanto segue: ‘uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, tu ti avvicini al dio immortale”. L’esperienza dell’affinità della ricerca di sé con il movimento dell’incarnazione del Figlio, precisamente attraverso il corpo agito come medio ospitale e relazionale di agape, è il sigillo specificamente cristiano di questa rilettura. Non è forse un caso che i luoghi più intensi dell’applicazione cristiana dell’invito al dialettico riconoscimento di sé come “creatura mortale” e “imago Dei”, compaiano nella tradizione esegetica – del resto particolarmente rigogliosa lungo tutta la tradizione medievale e fino all’età della mistica, che inaugura la modernità – del commento al Cantico dei Cantici. Da Origene ad Ambrogio. Da Gregorio di Nissa a Basilio e Agostino. Per non parlare dei Vittorini e di Bernardo. Disincagliare il progetto della conoscenza di sé dalla sua post-moderna piega autoreferenziale, fatalmente nichilistica, è la forma dell’attuale provocazione umanistica del cristianesimo. L’unico grande racconto in grado di scuotere la formula dell’autocoscienza dall’incantamento narcisistico – libidico e anaffettivo, asociale e autoditruttivo – della ricerca di sé.

 

Quali sono le conseguenze antropologiche della teologia trinitaria e dell’introduzione mediante essa del concetto di persona?

A dire la verità il rapporto non è così immediato. Il vantaggio dell’antica opzione, con funzione esplicativa della verità trinitaria di Dio conseguente alla compiuta acquisizione della rivelazione cristologica, fu visto nel fatto che essa fissava il concetto di identità senza requisirlo dentro l’idea di sostanzialità individuale. Dio rimane uno e unico, in tre persone uguali e distinte. L’incomparabilità del mistero divino confessato dalla fede cristiana ha suggerito per lo più una linea di cautela nello svolgimento delle analogie. Nella teologia recente, proprio a partire dal fatto che quella cautela ha pure “allontanato” la specificità trinitaria della comprensione cristiana di Dio dall’approfondimento della sua ricaduta sulla comprensione della creaturalità umana “a immagine e somiglianza”, ha preso l’avvio un percorso di rivisitazione della radicale possibilità di pensare l’umano – come qualità personale e al tempo stesso come legame condiviso. Gli spunti attualmente più interessanti, a mio avviso, sono due. Il primo è la possibilità di pensare che la qualità personale e la relazione intersoggettiva possono – e forse devono – essere pensate allo stesso livello di originarietà, ossia come reciprocamente costitutive. Esplorare in chiave fenomenologica, ontologica e culturale, il carattere originario di questa correlazione, senza pregiudizio per l’irriducibile singolarità della persona, la sottrarrebbe alla presunta migliore coerenza con la comprensione e la pratica autoreferenziale del sé. Il secondo elemento consiste nella vigorosa riacquisizione – anche qui, in sede fenomenologica e ontologica simultaneamente – della forma di agape (inclusiva delle virtualità affettive di eros e di philia) alla costituzione trascendentale dell’umano: proprio così, e proprio per questo, compiutamente definito nella irriducibile qualità personale della sua intimità, che fa la differenza dell’umano tout-court.

 

Si può concepire la persona fuori dal riferimento al Dio cristiano, al di là dei tentativi operati in tal senso dall’illuminismo filantropico / umanitario?

La punta incandescente della nozione di persona, secondo il mio parere (ma in fondo, anche dal punto di vista della storia della nostra teologia e filosofia) è la costituzione di una qualità individuale che si definisce da ultimo per rapporto alla facoltà di “fronteggiare” Dio stesso, in tutta coscienza e libertà. Di più, in termini di dignità e di autonomia, non è possibile pensare. Un celebre teologo protestante, Wolfhart Pannenberg, si è cimentato in modo interessante con la valorizzazione storico-culturale di questa relazione, rileggendo i dati dell’antropologia culturale in chiave di illustrazione del valore fondante che la relazione religiosa con Dio ha per l’istituzione dell’autocoscienza in chiave di dignità personale. Il riconoscimento “ideale” delle qualità tipiche dell’essere personale, come noi ora esplicitamente lo concepiamo, si sarebbe formato nella pratica di una relazione con il “divino” che ha suscitato la percezione del carattere determinante dell’interiorità responsabile del singolo, in termini eccedenti la semplice omologazione dell’affinità biologica e la conformità con il gruppo sociale di appartenenza.

In ogni modo, da Paolo al Concilio di Trento, la qualità personale dell’atto di fede è una singolarità cristiana teologicamente fuori discussione. Semplicemente, ora, possediamo anche le categorie mentali per articolarne il valore antropologico. Il cristianesimo insiste in questo punto esatto, nel quale il vangelo “riabilita” la stessa forma religiosa della fede, ricomprendendola come atto d’amore, ossia come adesione responsabile e libera alla manifestazione e all’intenzione nella quale Dio si raccomanda come alleato e custode della felice destinazione individuale. Il primato della forma personale della fede sigilla la singolarità religiosa della rivelazione evangelica. L’eccellenza della denotazione del singolo individuo umano come persona, così come l’inviolabilità che ne consegue, è per così dire blindata in quella figura. In quanto principio fontale e risolutivo dell’irreversibilità di tale costituzione, l’atto creatore di Dio precede e fonda ogni altra modalità di riconoscimento che concorre – persino creativamente – ad istituirne la consapevolezza e l’effettività.

In questa prospettiva, è custodita la convinzione che la qualità personale non è “prodotta” dall’affinità biologica della specie o da un qualche principio di “cooptazione” dell’umano nei confronti del proprio simile. Una simile convinzione sottrae la qualità personale tanto alla forma della contrattazione come a quella della donazione intersoggettiva. E precisamente in questo modo ne conferma anche soggettivamente l’irriducibilità, oltre che custodirne la proprietà inviolabile. Sino ad ora non è stato possibile trovare, in alternativa a quello religioso, un fondamento adeguato per questo principio di uguaglianza nell’indipendenza che costituisce il presupposto in cui la vita umana del singolo è già originariamente ricevuta come degna di essere condotta all’appropriazione effettiva di sé. Sembra dunque che la funzione radicale della testimonianza cristiana – nell’ambito dell’umanesimo come della religione – abbia titolo per essere considerata un bene rigorosamente comune. In cui è appunto tutelata la dignità di credenti e non credenti, oltre ogni appartenenza.

 

Il rapporto fede / ragione è da sempre oggetto di analisi e approfondimenti e soprattutto oggi si situa (anche per merito di Benedetto XVI) al centro del dibattito filosofico-antropologico. E gli affetti?

Da quando la modernità ha isolato e privilegiato la funzione di verità – o almeno di certezza – della ragione che combacia con il puro spettacolo di un’evidenza anaffettiva e amorale, anche in riferimento alla coscienza affettiva e morale dell’uomo, il rapporto tra fede e ragione ha subito una trasformazione inedita e profonda. Gli affetti si sono trovati spinti dalla parte della fede, in quanto dimensione ulteriore rispetto a quella del logos: sia nel senso di momento extra-razionale della coscienza, sia nel senso di orizzonte dell’irrazionale. La fede cristiana – e specificamente quella cattolica – non ha apprezzato, a quel punto, una simile consegna. La ragione è ovvia. Il logos del razionalismo moderno nutriva l’ambizione di polarizzare non soltanto la sfera del sapere incondizionatamente degno di affidamento, ma anche quella del discorso degno di universale apprezzamento, politicamente legittimato alla definizione del dominio cognitivo che regola la soglia dell’argomentazione ammessa alla costruzione sociale del senso. Con questo logos il cristianesimo aveva lunga dimestichezza, e, quanto alla sua elaborazione culturale, poteva vantare qualche credito non piccolo. Lo aveva eletto come interlocutore – proprio il logos filosofico greco, quello temprato nella critica del mito religioso, in nome dei diritti della ragione e dell’autodeterminazione etica – della cultura cristiana nascente, a preferenza della logica spiritualistica, ermeneutica, giuridica, delle grandi tradizioni religiose. Il logos universale dell’umana ragione era stato individuato come l’ambientazione più compatibile per una religione non esoterica, la quale, in controtendenza con l’estetica del mito e lo spiritualismo della gnosi, puntava sulla qualità umanistica e sulla dignità creaturale della conoscenza di Dio. La fede cristiana non intendeva svilupparsi – né religiosamente, né culturalmente – mediante l’opposizione al logos. E a nessuna delle sue filiazioni, ragione compresa.

Si comprende dunque che il cristianesimo non volesse diventare il rifugio religioso dell’irrazionale, né regredire alla forma di una opzione sentimentale, per quanto apprezzabile, estranea alla vita razionale della coscienza. Non lo ha voluto nemmeno nei momenti di maggiore tensione, quando cioè la ragione moderna – sotto forma di scienza e di politica – è andata definendosi non più soltanto come interpretazione filosofica della coscienza religiosa, bensì come costruzione razionale e vincolante del senso, definita formalmente dall’espulsione dei temi e della testimonianza della religione. Nel corso della vicenda moderna di questa tensione, il cattolicesimo ha perciò trattato con un certo distacco anche gli sviluppi intenzionalmente religiosi della dimensione affettiva della coscienza, che rappresentavono l’emergere dell’istanza di reintegrazione della qualità umana del logos (nell’arte, nella letteratura, nella spiritualità, nella liturgia). Il tema della costituzione affettiva della coscienza, cioè, luogo di una vera e propria logica dei sensi spirituali che restituisce l’integrità del logos umano, è rimasto congelato dall’impegno spasmodico di non perdere il contatto con l’egemonia razionalistica della politica, della filosofia, delle scienze.

L’extra-razionale e il sovra-razionale della fede teologale sono stati definiti, pur nell’ovvia necessità di custodirne la trascendenza rispetto ai limiti del semplice costrutto umano della verità e del senso, in termini non antitetici né sostitutivi alla ragione umana. E’ rimasto impensato, tuttavia, il loro rapporto con le dimensioni affettive della coscienza: che istruiscono praticamente e discorsivamente – già nella sfera del logos umano – l’irriducibilità della coscienza razionale al rispecchiamento del mondo e all’ottimizzazione del calcolo. Questa lunga parentesi di ritardo del pensiero rigoroso degli affetti, in cui l’intelletto impara a ragionare in termini di giustizia dei legami, di qualità etica degli affidamenti, e di trascendenza della destinazione, va ora ricuperata. La ricerca della conciliazione diretta della ragione e della fede, in assenza di un pensiero rigoroso dell’esperienza affettiva del senso e della destinazione trascendente dei legami, è destinata a generare surriscaldamento delle tensioni accumulate dalla storia di una separazione ostile. La sollecitazione del papa Benedetto XVI, che ha introdotto nella problematica la necessità di riconsiderare l’originaria correlazione teologale di eros e agape, come ambientazione originaria del Logos divino, cristianamente immanente al progetto della creazione, di cui l’incarnazione, la risurrezione e l’ascensione orientano e istituiscono il compimento, inaugura la svolta che si attendeva. La teologia stessa, per prima, non potrà più svolgere l’orizzonte di questa connessione della ragione e della fede, senza l’elaborazione della principialità e della trascendentalità di agape. La logica degli affetti viene allo scoperto, e occupa a buon diritto la prima linea della riflessione sulla ragione e sulla fede. Riconquista lo spazio ontologico del fondamento, ritrova la dignità di argomento cardine per la filosofia prima e la teologia fondamentale. Un gesto di “rottura” e di “liberazione” che inaugura una nuova stagione del cristianesimo e assumerà rilievo epocale. Non c’è dubbio.

 

Quale è la differenza tra una rivalutazione teologica degli affetti e lo sterile sentimentalismo che attraversa molte espressioni della religiosità contemporanea?

Il rimosso ritorna, fa saltare il tappo, si vendica di un troppo lungo misconoscimento e avvilimento. Ora, infatti, la critica del razionalismo anaffettivo e dispotico, che sacrifica le parti affettive della coscienza al culto di una combinatoria materiale dell’esistenza insensibile alle ragioni del sentire umano, è un impulso generale. Tuttavia, non disponendo di un pensiero alto, maturo, adeguato alla complessità del rapporto fra pathos e logos, improvvisa i suoi argomenti pescando alla rinfusa nei luoghi trascurati della sua elaborazione moderna: l’arte dell’età umanistica, la mistica dell’età cartesiana, l’erotica della reazione romantica. Quanto alla religione, poi, gli elementi di integrazione sono cercati proprio nello spiritualismo e nell’esoterismo della gnosi orientale, quella precisamente che è stato oggetto della presa di distanza dalla quale ha potuto svilupparsi l’umanesimo religioso della nostra civiltà. La rivalutazione teologica e religiosa degli affetti, che si cerca in termini di compensazione o di sostituzione del razionalismo, di fatto rischia semplicemente la perdita del logos. Non rappresenta dunque un superamento, bensì una sostanziale regressione. Perde la singolarità cristiana, compromette la riabilitazione del sentire come struttura convergente con la qualità umana del logos: principio indispensabile alla coscienza riflessiva della libertà e alla qualità umana dell’esperienza di relazione. Il contraccolpo di questa evaporazione emozionale e sentimentale dell’ordine degli affetti insidia il superamento del razionalismo assai più della resistenza aggressiva delle scienze dure. Personalmente, mi muovo con molta più cautela nella perorazione di una logica metafisica dei sensi spirituali e del valore strutturante dell’esperienza estetica, proprio a motivo di questo risucchio. Parlo preferibilmente di intenzionalità, affidamento, attaccamenti e legami, scambio e donazione, trascendentalità dell’etico: queste sono le figure strutturanti dell’ordine degli affetti. Non è questione di emozione e di feeling, o di cuccia calda. L’ordine degli affetti è luogo di confronto fra le potenze che muovono il mondo. E’ il campo ontologico delle tendenze e delle forze. Si definisce per rapporto alla grazia e al peccato, alla giustizia e alla libertà: gioco delle forze, dalle forme sfuggenti e inafferrabili, in cui si decide la destinazione del singolo, della storia, e di ogni cosa. Un campo del quale la filosofia sa pochissimo, ora; e la teologia non sa di sapere. E’ questo, in ogni caso, il suo livello di esercizio, irriducibile alla chiarificazione degli aspetti “psicologici” dell’emozione e dell’innamoramento.

 

E’ stato autorevolmente affermato che la forma dell’esercizio spirituale ha un’origine filosofica (stoico-epicurea, cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2006, soprattutto pp. 29-86). Lei crede nella praticabilità qui in occidente di un esercizio spirituale senza fede cristiana? Percorrendo una strada simile non si corre il rischio di spiritualizzare la filosofia introducendovi surrettiziamente elementi mistici e perdendo la differenza tra i due ambiti (che invece il cristianesimo, prima di superare, istituisce e salvaguarda)?

Capisco il senso dell’affermazione di P. Hadot, del quale ho grandissima stima. In realtà l’esercizio spirituale è antico quanto la religione. In verità, anzi, la forma di esercizio spirituale che include e definisce sinteticamente la differenza specifica dell’ominizzazione è l’esercizio spirituale dell’iniziazione. Il punto nel quale viene simultaneamente definito il passaggio all’integrazione a pieno titolo con il gruppo, e simultaneamente l’assunzione di identità singolare della responsabilità, è appunto segnato dall’esercizio riflessivo dell’integrazione personale della cultura e nella cultura umana di riferimento. L’interiorità di questo processo, marca la differenza spirituale – cosciente, voluta, creduta – rispetto ai semplici processi mimetici di adattamento e addestramento (alla caccia, alla coltivazione, alla guerra, alla procreazione e alla cura). Il contatto con questo grembo spirituale dell’iniziazione – impossibile senza l’individuazione di un regime di fine, e non di semplice mezzo comunicativo, della parola e dell’affetto – va mantenuto in ogni ambito di articolazione del discorso e della relazione umana: filosofia, politica, arte, scienza, lavoro e cura. La filosofia, nondimeno, consiste nella scoperta della possibilità / necessità di instaurare una distanza critica nei confronti dei propri pensieri e dei propri attaccamenti, per ricuperarne la qualità veritativa e la giustificazione intersoggettiva, che vanno altrimenti perdute nella deriva di autoreferenzialità che insidia il puro abbandono a loro consumo interiore. (Del resto, anche nell’ordine pratico degli affetti, la sollecitazione ad abbandonare la casa paterna e materna, per allacciare nuovi legami, impone la mediazione di analogo processo di presa di distanza, che corrisponde a specifici dispositivi di iniziazione). La custodia di questa differenza è stata apprezzata dal cristianesimo come un elemento necessario per la lealtà intellettuale della testimonianza pretesa veritativa del Logos e per la dignità della pretesa universalistica iscritta nella sua incarnazione (irriducibile all’autoreferenzialità storica e culturale, religiosa ed etnica del suo insediamento).

Un esercizio spirituale che, nella cultura occidentale, prescinda dall’istruzione cristiana sulla qualità discorsiva e affettiva del logos umano (quindi dalla conciliazione intersoggettiva e dalla destinazione creaturale dello Spirito), dovrebbe inevitabilmente essere pensato in termini di estraniazione nei confronti dell’irrevocabile sigillo personale dell’ethos umanistico di cui vive l’intera modernità. E in termini di rimozione della conquistata dignità di un tratto interlocutorio e dialettico con il divino medesimo, che con quel sigillo della qualità dell’essere personale fa tutt’uno. L’esercizio spirituale, da noi, non può più essere sottratto al tema della dignità del medio corporeo degli affetti più sacri e più cari, né coltivato al di fuori della dignità interlocutoria in cui si decide la destinazione – e non la sola iniziazione – dell’esercizio spirituale della libertà.


mercoledì 7 febbraio 2024

Idee, lotte e libertà. Momenti della storia del Movimento Operaio/1 Georges Sorel


 di Simone Elia

Sorel è stato, certamente, uno spirito eretico, incline anche al paradosso pur di essere se stesso…dunque uno spirito in linea con quella che mi appare l’esigenza sempre attuale di ogni “movimento verso qualcosa”: l’autonomia. Ecco perché, in primo luogo, tornare, almeno un po’, a pensarci su, con riferimento specialmente alle Riflessioni sulla violenza.  

Quanto all’ereticità del nostro ingegnere di ponti, il suo percorso politico-intellettuale non tradisce le attese che si possono nutrire per uno spirito libero: vario fino all’incoerenza, almeno in superficie.

Dapprima marxista ortodosso, sebbene mai incline al determinismo volgare, ma piuttosto attento alla difesa del materialismo storico posta in essere da Antonio Labriola; poi, in pieno Bernstein-Debatte, simpatetico nei confronti del revisionismo, apprezzato per il tentativo di riunire teoria e prassi, per la visione del socialismo come ideale etico e la critica spietata verso il determinismo kautskyano; pochi anni e scrive le Riflessioni sulla violenza e la Decomposizione del marxismo: siamo al Sorel classico, propugnatore del sindacalismo rivoluzionario. Seguiranno ancora una breve intesa con l’Action française di Maurras, l’opposizione alla Grande Guerra e, infine, l’entusiasmo assoluto per Lenin e il possibilismo verso il fascismo, ancora movimento.

Insomma, non stupisce troppo che i giudizi su Sorel non siano del tutto deducibili dallo schieramento politico dei giudici. Se Lenin lo bolla laconicamente come “ben noto confusionario” (Materialismo ed empiriocriticismo, 1909), Gramsci scrive che “Il rigore e la precisione del ragionamento e l’impetuosità polemica…sono in lui accompagnate da una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, della sua fresca originalità…è un amico disinteressato del proletariato” (L’Ordine nuovo, ottobre 1919). Dal lato opposto, Mussolini afferma: “È a Sorel che debbo di più”.

 Ora, venendo al cuore di Sorel, che cosa sono Le riflessioni sulla violenza[1]? Beh, per cominciare, nell’ambito della “crisi del marxismo” che caratterizza il passaggio tra XIX e XX secolo, sono l’opera centrale del “revisionismo di sinistra”, che individua nel sindacato – contro il partito -- la vera forza trainante dell’emancipazione proletaria, il solo protagonista possibile dell’azione rivoluzionaria. Come sempre per Sorel, opera asistematica. Tuttavia, si può cogliere una linea di sviluppo che si regge su due perni, uno distruttivo, l’altro costruttivo.

 Il perno distruttivo è rappresentato dal violento rifiuto del socialismo politico, tanto in versione riformista quanto in versione ortodossa, e della bassa morale borghese che lo avvolge, fatta di grettezza, do ut des, come emerge se si guarda al meccanismo elettorale e al cinico sfruttamento che i politici socialisti mettono in atto nei confronti degli scioperi operai: “Il socialismo parlamentare parla tante lingue quante sono le specie di clientele che ha…Nessuna contraddizione lo arresta”; o ancora: “Jaurès è divenuto maestro nell’arte di utilizzare le collere popolari…Bisogna…far credere agli operai che si porta la bandiera della rivoluzione; alla borghesia che si arresta il pericolo che la minaccia”.

Il retroterra filosofico del mondo borghese (che include il socialismo politico) è per Sorel l’ottimismo razionalistico stile XVIII secolo, insomma l’ideale illuministico del progresso. Scrive il Nostro: “L’ottimista è in campo politico un uomo incostante o addirittura pericoloso”. Infatti, se il primo risultato dell’ottimismo acritico è l’attitudine imbelle verso il mondo e la vita – a che pro agire se le cose migliorano da sole? –, il secondo è il “fratello cattivo” dell’inattività, apparentemente suo opposto: la brutalità isterica, del tipo realizzatosi nel Terrore giacobino. Del resto, se il mondo di suo va per il meglio, ma di fatto il bene e l’armonia non regnano, non può essere che per l’incapacità o la malvagità di qualcuno che ostacola il corso delle cose: vada alla ghigliottina. “Gli uomini che versarono più sangue furono quelli che avevano il desiderio più vivo di far godere ai loro simili l’età dell’oro che avevano sognato”. Si tenga presente: l’antigiacobinismo è un tratto costante della produzione di Sorel, che può aiutare a chiarire anche il senso della difesa della violenza da lui avanzata.

 Perché proprio questo è il perno costruttivo delle Riflessioni: “Oggi non esito a dichiarare che il socialismo non potrebbe sussistere senza un’apologia della violenza”. Violenza proletaria che si esprime nello sciopero generale, identificato da Sorel tout court con il marxismo autentico, anzi, di più con il socialismo stesso: esso è “il mito nel quale si racchiude tutto il socialismo”. E ancora: “Grazie a esso il socialismo rimane sempre giovane…in una parola, la scissione [del proletariato rispetto al mondo borghese] non corre mai il rischio di sparire”. Il marxismo, allora, è un mito e il suo centro è lo sciopero generale proletario.

Che cosa intende con “mito” Sorel? In prima battuta, il mito non è l’utopia. Questa è per Sorel una costruzione dell’intelletto, razionale, analitica, indice di un disegno d’autorità, che cerca di adattare tecnicamente il mondo in vista di una qualche utilità. Attraverso il modello dell’utopia si può intervenire sugli ingranaggi dell’ordine esistente per ingrassarli e farli girare meglio: è lo sfondo dell’immobilismo riformista. Tutt’altro è il mito. Il mito è una totalità d’immagini afferrata intuitivamente che muove all’agire creativo. Il mito, cioè, è il motore dell’azione umana che pone un ordine nuovo[2]. Scrive il Nostro: “Noi non saremmo capaci di agire se non uscissimo dal presente, se non ragionassimo su questo avvenire che sembra condannato a sfuggire sempre alla nostra ragione. L’esperienza ci prova che le costruzioni di un avvenire indeterminato nel tempo possono possedere una certa efficacia…allorché siano di una certa natura; ciò che si verifica quando si tratta di miti nei quali si ritrovano le più forti tendenze di una classe, che si presentano allo spirito con l’insistenza degli istinti e danno un aspetto di piena realtà a speranze di azione prossima sulle quali si fonda la riforma della volontà”.

Allora, il punto reale del marxismo è il suo essere un mito, quel mito che è lo sciopero generale proletario, solo questo conta. Ad esempio, Sorel, che si considererà sempre marxista, riconosce apertamente che la divisione marxiana della società in due gruppi profondamente antagonisti – la borghesia e il proletariato – è una “tesi dicotomica spesso combattuta attraverso l’osservazione empirica”. Deve forse dedursene che il marxismo non serve più a nulla perché evidentemente non è una scienza? Al contrario per Sorel, con la tesi dicotomica “Marx intende farci capire che tutta la preparazione del proletariato dipende unicamente dall’organizzazione di una resistenza ostinata e appassionata contro l’ordine di cose esistente”. Che è come dire: il valore della dicotomia è nel suo essere un mito che promuove la rivoluzione, non il suo essere una descrizione, e tanto meno una previsione, scientifica. Il socialismo è tutto racchiuso nel mito, nel senso che il socialismo, nella sua totale opposizione allo stato di cose presente, è figlio dell’azione creatrice che si materializza attorno al mito e per suo tramite.

 Dunque, il socialismo è istituito da un agire creativo reso possibile dal mito della violenza proletaria. Sorel, però, nell’arrischiarsi a elevare la violenza a mito creativo, circoscrive la nozione di violenza. Non è forza e non è brutalità.

Non è forza giacché la forza è intesa da Sorel come propria degli atti d’autorità, non produce novità, non crea, conserva l’ordine gerarchico esistente, può, al massimo, ri-assemblare gli elementi presenti nella società, sostituendo una certa minoranza dominante con un’altra. Così legge Sorel la Rivoluzione francese, influenzato – sembra – dalla tesi del Tocqueville de L’Antico Regime e la Rivoluzione circa la perfetta continuità tra Rivoluzione e Antico Regime nel rafforzamento del potere statale.

La violenza, poi, non è brutalità perché non è un semplice regresso alla condizione bestiale; non ha, infatti, un contenuto né immediatamente né esclusivamente materiale. Certo, essa ha anche un contenuto materiale, ma non è questo a caratterizzarla. Sorel esplicitamente afferma che la violenza proletaria non è un bagno di sangue, non è il Terrore giacobino; dal punto di vista materiale la violenza è tutta una questione di limiti, è il minimo che serva, anche se non è chiarito – né sarebbe possibile data la sua natura di mito – quali siano questi limiti.

Veniamo a quel che la violenza è. La violenza, in opposizione alla forza, è atto di ribellione, non conserva, né assembla, ma distrugge l’autorità e simultaneamente crea l’ordine nuovo. È distruzione creativa, in cui lo sradicamento del Vecchio è l’istituzione del Mondo Nuovo. La violenza è primariamente lo star saldi nel “No!” al compromesso, nella scissione nei confronti dell’ordine borghese; dunque la violenza è in primis un atto psicologico-morale, la fedeltà a sé fino all’estremo, il non fare un passo, qualunque sia la conseguenza: “La violenza, secondo me, è una dottrina intellettuale, è la volontà dei cervelli poderosi, che sanno dove vogliono andare” (Sorel, Lenin, C. Valori, a cura di). Si intuisce qui il senso morale della violenza soreliana: è l’istinto e lo sforzo di stare all’opposto rispetto al do ut des, il coltivare o il custodire la capacità di agire al meglio senza altro scopo che l’agire al meglio, di perfezionarsi sempre senza altro fine, di condurre la lotta continua per essere sempre meglio se stessi. Questa morale di Sorel è tensione eroica, al sublime, che ricorda lo sforzo dell’Io fichtiano. È il disinteresse, che non fa calcoli, che si erge contro il compromesso, a cui sempre devono tornare i conti. La violenza è il custode di questa morale, che Sorel chiama “morale dei produttori”, è ciò che salvaguarda la separazione proletaria e, quindi, la purezza della “morale dei produttori”, la quale è, insieme, titolo di legittimità, dunque prerequisito, della rivoluzione proletaria e suo risultato: “Il progresso morale del proletariato è necessario quanto il progresso materiale delle attrezzature, per portare l’industria moderna al livello più elevato…se il mondo contemporaneo non contiene in sé le radici di una nuova morale, che cosa diverrà?”.

Agli occhi di Sorel la rivoluzione proletaria incombe sull’ordine borghese come “catastrofe morale”, prima, e ben più, che economica. Per Sorel Marx stesso è da considerare soprattutto un pensatore morale, sebbene ciò possa avvenire solo contro Marx, o – ed è quanto sostiene Sorel – almeno contro la sua lettera. In effetti, posta la rivoluzione come fatto morale, non è chiaro quanto consapevolmente Sorel dica Marx, ma intenda Proudhon.

 Infine, per concludere e richiamare brevissimamente quanto si diceva in apertura, poche parole sull’attualità di Sorel. Paradossalmente, ma non troppo, anzi a me pare sia il punto dell’intera cultura umanistica e specie storico-filosofica, essa consiste nella sua inattualità. A noi, immersi nella weberiana “gabbia d’acciaio”, tornati a una sorta d’Antico Regime ideale – l’assenza di un orizzonte altro, che non sia in partenza un puro gioco di fantasia, mera utopia buona per riforme e riformine --, deve giovare sapere che è stato possibile pensare con forza un tale “spirito di scissione”, ricordare che si è saputo che la vita sociale, e quindi sindacale, è un atto creativo. Magari Sorel esagera in questa prospettiva, al modo dell’adolescente che pretende di rifare il mondo, ma almeno è libero di cuore e, poi, si sa melius abundare quam deficere.



[1] Apparse nel 1906 in forma di articoli su Le mouvement socialiste e poi in volume nel 1908.

[2] Scrive Sorel: il mito è “un insieme di immagini capace di evocare in blocco e per mezzo della sola intuizione la massa dei sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna”


venerdì 15 dicembre 2023

Carl Schmitt: un'introduzione

 


Carl Schmitt e l’ordine politico

Carl Schmitt è essenzialmente un giurista, cioè uno studioso di diritto, con una particolare vocazione a un pensiero radicale, cioè a risalire ai fondamenti e ai pilastri della scienza giuridica, cosa che lo conduce fuori dai confini tecnici della sua disciplina, verso altri ambiti di pensiero come la storia, la politica, la sociologia, la filosofia. Il suo pensiero copre un arco di tempo molto vasto, dagli anni Dieci del Novecento fino agli anni Ottanta. In questa vastissima produzione cercheremo il filo conduttore nel concetto di ordine politico, che sembra essere propriamente il nocciolo della sua vocazione scientifica. Come si costruisce un ordine politico, con quale obiettivi e quali fondamenta razionali? Che cosa accade invece quando l’ordine si dissolve e prevale in conflitto indiscriminato e la guerra civile? Perché un ordine tiene e quali sono i suoi fattori di disgregazione?

Perché un giurista si interroga sull’ordine politico? Perché contrariamente al senso comune non sono le norme che consentono la vita civile in una certa società. Le leggi non sono la condizione di una società ordinata e funzionante, bensì la presuppongono: solo in una società “normale” valgono e vigono le norme. Le leggi provengono da una certa vita, da una certa esistenza, e non la producono. La riprova è che le leggi non si applicano da sole. Sempre tra una legge e una fattispecie (un caso, un fatto, un accadimento che chiama in causa l’applicazione della legge) vi è un’auctoritatis interpositio, l’interposizione di un’autorità. Quest’ultima è una certa volontà di un uomo o di un gruppo di uomini reali, viventi, esistenti in una situazione concreta che “si mette in mezzo”, cioè si interpone, determina l’applicazione di una legge generale e astratta a un caso particolare e concreto. Senza tale attività la legge rimarrebbe lettera morta.  La volontà che applica la legge deve avere una certa forza per imporsi, cioè deve essere autorevole e deve aver prodotto una situazione in cui essa può far rispettare un certo dettato normativo. Quando un gruppo di uomini ha generato un’organizzazione tale per cui la loro volontà produce leggi e le fa applicare, determinando una situazione sociale prevedibile e ordinata, tale gruppo va sotto il nome di Stato quale “entità giuridica il cui senso risiede esclusivamente nel realizzare il diritto” (C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell’individuo, tr. it., Il Mulino, Bologna 2013, p. 58). Gli organi dello Stato hanno esattamente il compito di esprimere quell’autorità che realizza il diritto, rendendo efficaci le leggi in una situazione dove i conflitti, il disordine, la violenza, il caos sono minimizzati.

 La rappresentazione e la forza delle idee

Nel saggio Cattolicesimo romano e forma politica del 1923, Schmitt insiste su una fattore fondamentale dell’ordine politico. Usualmente con il termine “rappresentanza” si indica la dinamica propria delle elezioni per cui l’eletto rappresenta i suoi elettori. In ogni regime elettivo, sia esso liberale e censitario o democratico e universalistico, il soggetto che viene eletto per partecipare a un’assemblea, o per occupare un organo dello Stato, rap-presenta i suoi elettori, li rende presenti, come se essi fossero lì ad occupare il posto del loro rappresentante e a fare quello che egli fa. La rappresentanza riguarda non solo quelli che lo hanno votato, ma, come un’adeguata finzione giuridica, tutto il corpo elettorale. Ciò per sottolineare la funzione di ricerca del bene comune che deve avere l’eletto, senza limitarsi agli interessi di una parte dell’elettorato. Che cosa accade in questa situazione per cui il deputato al parlamento, o il presidente eletto, rappresenta la volontà degli elettori?  Vi è una dottrina squisitamente democratica, per la quale il rappresentante sarebbe un semplice esecutore della volontà degli elettori, ogni volta a loro giudizio liberamente revocabile. Si pensi alla Comune di Parigi che prevedeva l’elettività di tutte le funzioni di governo e una brevissima permanenza in carica, con elezioni molto ravvicinate, in modo tale da esprimere il più completo controllo dell’azione politica “dal basso”.  Questa è la modalità in cui i cittadini danno un mandato (un compito) imperativo ai loro rappresentanti che sono declassati a semplici strumenti della volontà dei loro elettori. Viceversa, esiste una dottrina, che appartiene alla tradizione liberale, per la quale il mandato è libero, cioè il rappresentante ottiene la fiducia dei rappresentati, interpretando liberamente la loro volontà e adattando l’interpretazione alle mutevoli circostanze politiche, dove si considera il consenso come presupposto. La presenza del corpo elettorale nelle decisioni politiche è così molto meno attiva, in compenso ne guadagna la dignità dell’azione del rappresentante: se nella dottrina del mandato imperativo potrebbe paradossalmente essere anche una macchina, che riceve input e agisce di conseguenza, nel mandato libero sono implicate cultura, virtù, capacità e qualità umane che fanno del rappresentante il membro di un’élite, di un corpo di “migliori” che per tale motivo è legittimato a decidere in nome del “popolo”. In questo secondo caso il rappresentante non “sta” semplicemente “al posto di”, non è un semplice sostituto di una moltitudine che non può essere presente contemporaneamente per deliberare, al contrario egli rappresenta un’“idea”. Le qualità personali del rappresentante sono rilevanti e corrispondono a un certo tipo di umanità, a certi valori etici, a una certa visione del mondo e delle cose che è componente essenziale della fiducia che in lui ripone il corpo elettorale. La rappresentanza è dunque non solo dal basso, mediante il meccanismo elettorale, ma anche dall’alto: l’uomo che viene votato al tempo stesso incarna un certo progetto di società e una certa concezione del bene comune. Ciò è importantissimo perché la “forma politica”, cioè l’ordine che si produce in una società non proviene solo da un qualsiasi meccanismo tecnico di selezione delle élites, ma anche da un’immagine forte di come la vita, l’uomo, le relazioni dovrebbero essere per essere buone.  Questo tipo di rappresentanza dall’alto, indispensabile perché l’ordine politico non sia una pura imposizione e un puro apparato amministrativo, senza senso e senza responsabilità, trova il suo modello, nella storia europea all’interno della Chiesa cattolica. Essa infatti rappresenta, fa presente, la trascendenza divina di Cristo nella storia. La Chiesa prosegue l’Incarnazione di Cristo: è il modo in cui Cristo crocifisso, morto, risorto e asceso al cielo è ancora presente nella storia degli uomini. Tale presenza fa sì che l’intero popolo di Dio, cioè l’intera comunità dei cristiani, viva concretamente al cospetto del proprio Capo, Gesù Cristo, reso presente continuamente nel culto eucaristico, ma anche in ogni atto di magistero religioso e morale della comunità guidata dal papa, vicario di Cristo stesso. Per un cattolico, dunque, grazie alla Chiesa e al papa, Cristo viene rappresentato, cioè fatto presente nella storia umana e nella vita dei fedeli. La persona del sacerdote e in modo particolare quella del vescovo di Roma, rende presente Cristo qui ed ora. Questa dinamica, tipicamente personale, per la quale un uomo incarna una realtà trascendente e se ne fa veicolo vivente, è importantissima sotto il profilo religioso, ma anche per la politica. Quest’ultima infatti, nel proprio campo, cioè la vita civile e laica, riproduce la medesima dinamica. Il rappresentante politico non rappresenta solo i suoi elettori e i loro interessi, ma il popolo intero, la sua idea, i suoi valori, la sua cultura e la sua storia. Solo con questa rappresentanza ideale, il cui modello è la rappresentanza ecclesiale del Cristo, si può determinare una forma politica, cioè un ordine stabile, legittimo, autentico e non solo un apparato amministrativo e organizzativo di puro potere. Infatti, il rapporto tra la comunità e le sue istituzioni in questo caso è umano, etico, ideale, valoriale e non solo tecnico. L’ordine che ne deriverà avrà dunque il carattere di un bene, considerato e creduto tale, e pertanto guadagnerà in affidabilità, solidità e durata a tutto beneficio del popolo che lo avrà acquisito.

 La sovranità, lo stato di eccezione

Nel saggio intitolato Teologia politica del 1922 Schmitt nota che c’è un’analogia strutturale tra mondo della politica e i concetti teologico/metafisici: “Il quadro metafisico che una determinata epoca si costruisce del mondo ha la stessa struttura che si presenta a prima vista come la forma della sua organizzazione politica” (C. Schmitt, Teologia politica, in Idem, Le categorie del politico, tr. it., Il Mulino, Bologna 1972, p. 69). La monarchia è un sistema che manifesta un ruolo analogo a quello di Dio onnipotente nell’universo e dell’onnipotente legislatore nello Stato. Nello Stato di diritto liberale che separa i poteri, dà primato al legislativo e alle procedure costituzionali, cioè in cui tutto funziona come un grande meccanismo, diremmo noi di cheks and balances, in modo che sia escluso il comando diretto di una persona, perché con esso di ricadrebbe in forme di potere assoluto, questa modalità di organizzazione politica ricorda il deismo, cioè quella teologia illuminista che considera Dio semplicemente come la ragione delle cose, ossia una sorta di principio impersonale che organizza il mondo mediante leggi razionali, ma che non ha né personalità, né volontà, né amore e che dunque di fatto non esercita un potere se non mediante il meccanismo delle leggi di cui il Dio è semplicemente un altro nome. Il “naturalismo assoluto” dell’anarchico Michail Bakunin, che, sulla base del suo ottimismo antropologico (l’uomo per natura buono), nega ogni forma di potere e autorità, ha come contraltare teologico l’ateismo, che nega Dio e attribuisce al mondo una naturale autosufficienza. L’analogia più importante, però, tra la sfera teologica e quella politico-giuridica, viene individuata da Schmitt quasi di passaggio tra il miracolo e lo stato di eccezione. Che cosa è lo Stato d’eccezione? Nel precedente saggio sulla Dittatura del 1921, Schmitt rileva che Arnold Clapmar, un rilevante giurista del sec. XVII, l’epoca d’oro della Stato moderno, intende per “iura dominationis (diritti di dominio, n.d.r.) il diritto pubblico di creare l’eccezione, in forza della quale chi ne è titolare può derogare dal jus commune (la legislazione ordinaria e vigente nella comunità, n.d.r.) in casi di emergenza nell’interesse dello Stato e del mantenimento della quiete e della sicurezza pubblica (tranquillitas, pax et quies). Guerra e disordini interni sono i due casi più importanti di questo diritto […] Esso significa la potestà giuridicamente e per principio illimitata, che può anche usurpare uffici legittimi e diritti acquisiti” (C. Schmitt, La Dittatura, tr. it., Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 37-38). Quindi nello stato d’eccezione, a causa di un’emergenza che mette in pericolo la pace, la tranquillità e la quiete, cioè la vita stessa di un popolo e la sua possibilità di prosperare, si determina l’esercizio più tipico di un potere che non incontra limiti – e in ciò richiama e aiuta storicamente a comprendere il concetto di “dittatura” - nel suo compito di preservare i beni più importanti per un popolo e financo la sua stessa esistenza. Per questo lo stato di eccezione è una situazione in cui l’attività del governante assomiglia a quella di un dio che, per un motivo superiore che è lui stesso a decidere, rompe e infrange le leggi che lui stesso ha determinato a beneficio delle creature che egli governa. L’importanza dell’analogia miracolo/stato di eccezione sta nella sottolineatura del concetto di sovranità. Come il miracolo fa emergere in modo peculiare la presenza e l’onnipotenza sovrana di Dio, così lo stato di eccezione in politica fa emergere la sovranità di chi veramente comanda in un certo gruppo umano. Tant’è vero che la Teologia politica esordisce proprio con la famosa e icastica frase: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Ciò significa che quando qualcuno può determinare se è il caso di sospendere le leggi ordinarie per promuovere una condizione di pace e normalità necessaria alla stessa continuazione dell’esistenza di un popolo, quello è colui che veramente comanda in una comunità. Ciò dice una cosa fondamentale riguardo al potere in qualsiasi società. La cosa fondamentale non è la normalità. La situazione normale in cui vigono leggi, prescrizioni e diritti viene dopo e deve essere determinata da un potere che per sua natura è antecedente alle leggi e ne consente l’attuazione e la vigenza. Tale potere è del tutto analogo a una forma di dittatura, dove per essa si intende la capacità di “dettare”, cioè di indicare cose da fare coattivamente e senza possibilità di rimostranza. Il dettato del potere avviene di necessità perché, come detto, le leggi hanno bisogno della normalità per essere efficaci: “Non esiste nessuna norma che sia applicabile a un caos. Prima deve essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale e sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero” (C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 39). Quanto di tutto ciò è arbitrio e quanto no? Qui è la realtà a discriminare. Alcuni autori come G. Agamben, hanno ritenuto che la decisione sullo stato d’eccezione, cioè la decisione se esiste una condizione che rende necessario un potere di principio illimitato per ripristinare l’ordine, è totalmente soggettiva: “La necessità, lungi dal presentarsi come dato obiettivo, implica con ogni evidenza, un giudizio soggettivo e […] necessarie ed eccezionali sono ovviamente soltanto quelle circostanze che sono dichiarate tali” (G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 41), altri come il giurista Santi Romano no. Qui ci limitiamo a osservare che qualcuno che decretasse un’emergenza, cioè uno stato di eccezione, che non fosse percepita minimamente come tale da una cospicua parte della società, verrebbe rapidamente smascherato come un mentitore con puri interessi di potere. D’altro canto, una guerra o una sedizione interna, cioè i casi citati da Schmitt, hanno una certa evidenza oggettiva e difficilmente possono essere considerati pretesti. I casi più complicati sono quelli la cui sussistenza non è manifesta ma neppure del tutto pretestuosa. Un esempio potrebbe essere la pandemia da Covid 19; all’inizio si è trattato di affrontare un’emergenza con la sospensione di molti diritti garantiti costituzionalmente; l’eccezione sembra tuttavia essere stata procrastinata ben al di là dello stretto necessario, configurando più da vicino quella che Agamben ha indicato come una forma di democrazia governamentale in cui la lettera e lo spirito delle libertà costituzionali viene scavalcato senza che vi sia una reale necessità.

 La decisione

Prima di concludere su questi temi soffermiamoci su un altro elemento della definizione di sovranità. Sovrano è chi “decide”. La decisione è un elemento importantissimo della prassi politica.  Il politico non è un intellettuale che pensa, né un tecnico che fa, né un religioso che prega, né un attore che recita, né un artista che crea: l’azione precipua del politico è decidere. Il comando in cui si sostanzia la sovranità politica è una decisione che sempre sceglie tra alternative concrete in una determinata circostanza. La decisione avviene anzitutto perché è necessaria. È la concreta esistenza di un popolo e le minacce cui è sottoposta a renderla necessaria. Se è procrastinata, rimandata, dissimulata, delegata, la decisione è sicuramente sbagliata. Se è presa con senso di responsabilità, fedeltà al proprio popolo, onore, intransigenza, coraggio e forza, se insomma coincide con quella che Schmitt ha chiamato “l’orgogliosa decisione morale”, allora può essere corretta e produrre le sue più benigne conseguenze, cioè l’ordine politico, la configurazione di una realtà caotica, di guerra civile, di conflitto, caos, angoscia, sopraffazione e bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti), in una situazione di pace, sicurezza e ordine. Potremmo con un’immagine dire, senza timore di tradire Schmitt, che l’“orgogliosa decisione morale” fa passare dalla situazione del “cattivo” a quella del “buon governo” dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti al palazzo comunale di Siena. Potremmo anche dire che la decisione fa passare l’ordine politico dalla potenza all’atto, dal “non ancora” al “già”, dalla virtualità alla realtà. Qui Schmitt è molto hobbesiano. Il sovrano, per mettere ordine in un mondo di individui “pericolosi” e tutt’altro che pacifici, deve essere soggetto di una potestas directa, ossia di un potere effettivo e diretto, che monopolizza la decisione, proprio perché il conflitto tra gli uomini è dato dal fatto che ciascuno decide per sé, in modo egoistico e conflittuale. La guerra, infatti, è sempre lo scontro tra decisioni opposte e incompatibili che devono essere risolte con la sottomissione forzata di uno dei contendenti. Ora, se in una comunità deve essere costruito un ordine pacifico, è naturale che l’ultima istanza decisionale deve competere a un solo soggetto (non importa se collettivo o individuale, ma, dice Hobbes, meglio individuale), perché altrimenti, se più di uno pretendesse legittimamente di esercitare la facoltà di decidere, lo scontro si riproporrebbe e la pace si rivelerebbe impossibile. Anche in questo caso, però, con realismo, Schmitt nota che la decisione del sovrano non è totalmente senza presupposti. Non c’è, come in Hobbes la finzione dello stato di natura e di un patto che origina la società. Molto più realisticamente Schmitt osserva nel suo testo I tre tipi di pensiero giuridico del 1934 che ogni popolo possiede una certa creatività e vitalità istituzionale: vi sono degli ordinamenti concreti che nascono spontaneamente dalla società, in cui gli uomini sviluppano legami, solidarietà, gruppi di carattere familiare, economico, culturale, ludico, amicale, tali da sfociare in articolazioni stabili del vivere collettivo, come una famiglia, un clan, un ceto, un campo di lavoro, un esercito, una Chiesa (cfr. C. Schmitt, I tre tipi di scienza giuridica, tr. it., Giappichelli, Torino 2002, pp. 16-17) e da sollevarli dalla condizione di individui isolati (come erroneamente le pensa il contrattualismo individualista di Hobbes, Locke e Rousseau). La decisione arriva a coronare questo processo spontaneo, evitando che all’interno di una società etnicamente, linguisticamente, culturalmente storicamente omogenea l’intensità di associazioni e dissociazioni spontanee determini conflitti distruttivi (pensiamo alla conflittualità interna ai comuni del medioevo italiano). Il sovrano pertanto verrà a detenere il monopolio dell’ultima istanza, cioè della decisione definitiva, lasciando alla società solo decisioni parziali e sempre suscettibili di revisione sovrana.

 Il politico, l’amicizia e l’inimicizia

Ora siamo pronti per comprendere uno dei guadagni fondamentali della riflessione schmittiana sulla politica, il criterio amico-nemico. Scrive il giurista ne Il concetto di politico del 1927: “Si può raggiungere una definizione concettuale del politico solo mediante la scoperta e la fissazione delle categorie specificamente politiche. Il politico ha infatti i suoi propri criteri che agiscono, in modo peculiare, nei confronti dei diversi settori concreti, relativamente indipendenti, del pensiero e dell’azione umana, in particolare del settore morale, estetico, economico. Il ‘politico’ deve perciò consistere in qualche distinzione di fondo alla quale può essere ricondotto tutto l’agire politico in senso specifico. Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio. Il problema è allora se esista e dove risieda, come semplice criterio del ‘politico’, una distinzione specifica, autonoma e valida in sé, anche se non dello stesso tipo delle precedenti bensì anzi indipendente da esse. La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione tra amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto. Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, non corrisponde per la politica ai criteri autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via […]. Il significato della distinzione amico-nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che nello stesso tempo debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non vi è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che nel caso estremo siano possibili conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite, né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’”. (C. Schmitt, Il concetto di politico, in Idem, Le categorie, cit., pp. 87-208, qui p.109-109). Questa lunga citazione

1) offre un criterio e non un’essenza: non ci dice come agiscono i politici, o quali sono i loro scopi e come raggiungerli, non ci parla della polis e dello stato, delle forme di governo, dei partiti e delle ideologie, ci offre al contrario un concetto che aiuta a distinguere la presenza della politica e il carattere politico di un comportamento da tutti gli altri. Dove c’è amicizia e inimicizia, là c’è politica.

2)Il criterio riguarda l’intensità di un’associazione e di una dissociazione. Il fatto che gli uomini si associano e si dissociano è dunque presupposto: è il presupposto fenomenologico della distinzione ed è la sua forza descrittiva. Chi può negare questa dinamica di associazione e dissociazione come un fattore intrinseco e costante delle relazioni umane? Non esiste politica se non in presenza di gruppi umani, coesi al proprio interno (associazione) e contrapposti all’esterno (dissociazione), benché tale contrapposizione abbia diversi gradi, non sempre raggiunga il caso estremo della guerra, e ciononostante lo contempli sempre come una possibilità.

3) La distinzione è autonoma e non coinvolge altre sfere dell’esistenza. Rilevantissima è l’osservazione per cui il nemico non è per forza il “cattivo”. Morale e politica non vanno sovrapposte. Il fatto che qualcuno sia l’ “altro”, e sia potenzialmente anche una minaccia, non lo qualifica come cattivo. Soprattutto nelle relazioni internazionali è facilissimo constatare che l’amico non è sempre buono e il nemico non è sempre cattivo, malgrado le propagande di tutti i colori tentino sempre di qualificare moralmente il nemico e di santificare l’amico. Questo abbaglio propagandistico può far presa per un altro peculiare fenomeno. Sebbene l’amicizia e l’inimicizia siano sfere esistenziali autonome dalle altre occupazioni della vita, esse possiedono una specifica “forza di gravità” tale per cui, superando una sorta di “massa critica”, cioè un dato livello di intensità, attraggono a sé e sottomettono ai loro scopi tutte le altre. Il nemico, quindi, non diviene più semplicemente l’altro, ma è il cattivo, spietato, traditore che viene dipinto con caratteri mostruosi, deformi, repellenti; è ladro, è furbo, si insinua; è barbaro, incivile, crudele; contro di lui è necessario mobilitare tutte le forze a disposizione per colpirlo in ogni aspetto della sua vita, che è tale da costituire di per sé una grave minaccia, anche nelle attività più innocenti. La descrizione che Oliver Cromwell fa degli spagnoli è eloquente e per questo Schmitt la cita nel suo scritto: “Consideriamo dunque i nostri nemici i nemici dell'esistenza stessa di questa nazione. Perché infatti, il vostro grande nemico è lo Spagnolo. Egli è un nemico naturale. Ed è naturalmente così, a causa di ciò che è in lui contro tutto ciò che è di Dio, tutto ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere in voi […].lo Spagnolo è il vostro nemico e la sua inimicizia è posta in lui da Dio, egli è il nemico naturale, il nemico provvidenziale, chi lo ritiene un ‘nemico accidentale’ non conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha detto: «Io porrò inimicizia fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi III, 15)” (in C. Schmitt, Il concetto, cit., p.154). D’altro canto, il nostro giurista lo aveva potuto notare nella Prima guerra mondiale: la forza del conflitto era divenuta tale che tutta la vita dei popoli veniva coinvolta nella grande macchina bellica. Questa si nutriva di un’inimicizia estrema che, come in un grande buco nero, era in grado di non lasciar cadere nulla fuori dal parossismo della lotta tra le nazioni. Schmitt, nel corso della sua attività successiva, cercherà di pensare, sulla scorta della grande tradizione giuridica europea, possibili vie d’uscita da questo vortice della guerra totale. Probabilmente non conosceva l’episodio raccontato dal grande romanziere e intellettuale francese Pierre Drieu la Rochelle, quando egli partì per il fronte occidentale nella Grande Guerra portando con sé nello zaino un testo di Friedrich Nietzsche, un filosofo tedesco, il maître à penser del nemico. Si può fare la guerra, per una serie di circostanze che fatalmente pongono gli uomini e i popoli gli uni contro gli altri. Al tempo stesso si può riconoscere grandezza e la verità ovunque si trovino, anche nel campo avverso. Il nostro Autore non conosceva l’episodio biografico dello scrittore parigino, ma i temi della sua ricerca sulla limitazione della guerra, sviluppata negli anni Quaranta/Cinquanta, ne assumono in qualche modo lo stile.

Ancora tre precisazioni sul concetto di politico. La prima, cui già si è fatto accenno, riguarda la dimensione esistenziale dell’amicizia e dell’inimicizia. Ciò significa che non vi sono particolari ragioni, non v’è un artificio, o una volontà che raduni gli uomini in amici e nemici, semplicemente accade così. E accade che l’umanità si divida in schieramenti contrapposti, le cui relazioni variano a seconda della loro amicizia e inimicizia. E pure accade che in determinate circostanze qualcuno avverta l’altro come un’alternativa alla propria esistenza. Esistenzialmente si avvertono i nemici della propria sussistenza, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, così come accade per gli amici. Questo è un fatto … che tuttavia appare un corollario ineludibile dell’autonomia del politico. Se il politico riguarda una modalità del vivere con proprie dinamiche e caratteri, non c’è bisogno che ci si prendano a prestito categorie da altre sfere dell’esistenza per giustificare i fenomeni ad esso connaturati. Agli uomini basta essere, per essere politici, e ogni gruppo umano per sua natura finirà col trovarsi prima o poi di fronte alla decisione su chi è amico e chi no. Ciò è un fattore fondamentale della sua vita oltre che della sua libertà e sovranità.

La seconda precisazione riguarda il tipo di amicizia e inimicizia di cui si tratta. Sia il greco sia il latino hanno due modi di indicare il nemico, a seconda che sia pubblico o privato: echthròs e inimicus per quanto riguarda i nemici privati; polémios e hostis per ciò che concerne i nemici pubblici. Inutile precisare che il nemico politico è quello pubblico, che si riferisce a raggruppamenti umani e a interi popoli. Schmitt aggiunge assai significativamente che Gesù non esorta ad amare i nemici politici, ma quelli personali (diligite inimicos vestros, Mt 5,44; Lc 6,27) e conclude: “Nella lotta millenaria tra cristianità e Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio ‘nemico’, cioè il proprio avversario” (C. Schmitt, Il concetto, cit., p. 112).

Infine bisogna sottolineare il ruolo che ha lo Stato nella gestione del politico. Lo Stato nella tradizione europea è un’istituzione imprescindibile per mettere ordine nella dinamica amico-nemico. Esso deriva dal fatto che un certo popolo si unisce e si dà una forma, un certo assetto istituzionale che corrisponde alle consuetudini prevalenti fra i propri cittadini, che vivono in un territorio, parlano una lingua, adorano un Dio etc. Ovunque un popolo si unisca stabilmente e si dia una forma riconoscibile, lì c’è uno Stato. Quando ciò accade, le rivalità interne a una data comunità, come quelle che per esempio possono sorgere tra famiglie, clan, tribù, corporazioni, città, regioni, chiese, etc. sono relativizzate nello e dallo Stato che impone la pace tra i gruppi e rende vigenti le leggi che ne regolano le relazioni. Ecco allora che si è in presenza dell’“unità politica di un popolo” che espelle l’inimicizia, per dirigerne l’energia all’esterno, verso coloro che esistenzialmente vengono percepiti come nemici. L’efficacia di questa pacificazione interna deriva dal fatto che lo Stato monopolizza il politico e impedisce il sorgere di conflitti che porterebbero divisione, lotte e la malattia mortale della stàsis (la guerra civile, la peggiore e più devastante tra tutte le forme di guerra). Per adempiere a questo compito lo Stato deve presentarsi come terzo rispetto alle parti, giudice imparziale delle controversie, affidabile e prevedibile mediante il suo diritto che garantisce ai cittadini una vita pacifica nella migliore approssimazione possibile alla giustizia. Infine, deve naturalmente essere ultima istanza decisiva: solo la detenzione esclusiva di un potere sovrano è condizione sufficiente per imporre la pace e svolgere tutte le altre funzioni.

Se ciò avviene al suo interno, all’esterno dello Stato le cose stanno in maniera differente. Come aveva già precisato Thomas Hobbes, tra gli Stati vige lo stato di natura, un dis-ordine in cui ciascuno è legge a se stesso e giudice nella propria causa, e non potrebbe essere altrimenti visto che a ciascuno compete un potere sovrano. Le relazioni internazionali e il loro tentativo di regolamentazione si scontrano con questa ineliminabile condizione, per la quale ogni Stato, pur ammettendo che bisogna perseguire la pace, i buoni rapporti, il reciproco rispetto, il progresso, la cooperazione etc., ogni volta decide che cosa si debba intendere con questi concetti e lo fa in totale autonomia. Quando evidentemente confliggono gli interessi degli Stati, le decisioni pure risulteranno divergenti, e ognuno offrirà la propria interpretazione, non rinunciando alla soluzione estrema della guerra, quando ogni mediazione risulterà inefficace. La possibilità della guerra è dunque una conseguenza necessaria della libera sovranità degli Stati, cioè della decisione ultimativa sull’amico e il nemico che essi avocano a sé. Nondimeno i processi giuridici di contenimento dei conflitti messi in atto nella storia dell’Europa moderna, hanno consentito allo Stato di affermarsi come l’istituzione maggiormente in grado di garantire una relativa prosperità alle proprie comunità che, malgrado le guerre che sempre hanno interessato le potenze del Vecchio continente, hanno promosso un’apprezzabile tranquillitas rei publicae, una discreta pace sociale e i benefici che queste condizioni apportano alla vita civile e culturale dei popoli. La preoccupazione di Schmitt è che i processi di democratizzazione degli Stati tipici dei secc. XIX e XX, con il coinvolgimento delle masse nella vita politica mediante la dialettica di partiti e movimenti più o meno radicali, distrugga quest’opera di pacificazione riportando l’intensità dei conflitti interni a livelli pericolosi per la sopravvivenza dell’unità politica. Lo Stato, quando si fa totale, cioè quando estende a tutta la società le divisioni della politica, prepara la propria tomba nella guerra civile, una guerra esacerbata dalle motivazioni morali e ideologiche, dai fanatismi dei partiti rivoluzionari o borghesi, e che invece nella tradizionale politica delle potenze europee trovavano la porta sbarrata dalla depoliticizzazione della società (fanno politica i funzionari dello Stato, gli altri godono della pace che essa garantisce per tutte le altre attività umane e sociali) e dalla considerazione razionale degli interessi.

 

 La costituzione


Con la Dottrina della costituzione del 1928 Schmitt elabora un manuale di diritto costituzionale che si propone di illustrare la struttura dello Stato borghese di diritto, ossia di quello Stato, monarchico o repubblicano, che, assumendo una prospettiva liberale, si dà una costituzione finalizzata a limitare l’elemento politico, cioè la sovranità che decide e l’ordine che ne discende. Ciò però gli offre anche il pretesto per determinare un concetto di costituzione diverso dalla tradizione liberale. Quest’ultima insisteva sulla nozione di legge fondamentale e sull’idea di Stato come “servitore, rigidamente controllato, della società; […] soggetto a un sistema chiuso di norme giuridiche, ovvero […] semplicemente identificato con questo sistema di norme” (C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, tr. it., Giuffré, Milano 1984, p. 173). In questo modo si conferma l’idea per cui “l’organizzazione dello Stato è posta sotto un punto di vista negativo e critico nei confronti del potere statale – protezione dei cittadini di fronte all’abuso del potere statale -. Lo Stato stesso è meno organizzato che i mezzi e i metodi del suo controllo; sono create garanzie contro gli interventi statali e si cerca di introdurre ostacoli all’esercizio del potere statale” (C. Schmitt, Dottrina, cit., p. 64). Per Schmitt nell’ipotesi che “una costituzione non contenesse altro che queste garanzie dello stato borghese di diritto”, non vi sarebbe alcuna unità politica, giacché le norme contro lo Stato non possono fondare lo Stato stesso come unità politica sovrana, capace di ordinare la vita di un popolo. Ecco allora che “lo Stato borghese di diritto può rappresentare solo una parte della costituzione complessiva di uno Stato, mentre un’altra parte contiene la decisione positiva sulla forma dell’esistenza politica” (ibidem). Insomma, come aveva già affermato in diverse occasioni, per Schmitt il liberalismo è un capitolo della lotta contro la sovranità: non una decisione su come darsi un destino politico da parte di una comunità, ma una contro-decisione su come limitare ogni destino e concreto orientamento in nome dell’individuo borghese e delle sue pretese di libertà, le quali storicamente rimandano alla contestazione borghese della monarchia e alla ricerca dell’emancipazione della sfera economica dagli obblighi inerenti la vita comune e politica. Ma questa modalità di concepire la costituzione funziona, quasi per necessità logica, solo dove un’unita politica già esiste ed è operante, cioè dove la decisione sull’unità ed esistenza politica di un popolo è già stata presa. Ecco allora il secondo e più pregnante significato di costituzione: la costituzione in senso assoluto come la concreta condizione generale dell’unità politica e dell’ordinamento sociale di un dato Stato. In questo senso lo Stato è la costituzione, cioè uno status di unità e di ordine. La costituzione è la sua anima e la sua esistenza individuale. La Francia e l’Inghilterra non hanno una costituzione, sono la loro costituzione. Quindi tutto ciò che in Francia e in Inghilterra ha fatto sì che tali Stati esistano e continuino a esistere - le loro istituzioni, i loro uomini, il loro popolo unito - esprimendo una certa politica nei confronti dei propri cittadini e degli altri Stati, tutto ciò è la loro costituzione.

Siffatta costituzione si regge su due principi: l’identità e la rappresentanza. Il primo, fondato sulla consapevolezza che lo Stato è res populi, implica la presenza del popolo come soggetto fondamentale della vita politica di uno Stato. Si potrebbe trattare di un principio radicalmente democratico, per il quale tutto il potere appartiene al popolo. Tutto il potere - ossia quell’illimitato potere costituente con il quale un popolo inizia a vivere esprimendo se stesso nella storia, quel potere di darsi forma, di darsi una configurazione concreta, il potere che rende un gruppo umano, diremmo con parole non schmittiane, una soggettività politica cosciente – è del popolo. Ma il popolo, che nello Stato è tutto e quindi può tutto, dice Schmitt, solo in rarissimi casi è capace di esprimere la sua volontà e solo in forme assai semplici, come l’acclamazione che dice di sì o di no. Emerge dunque la necessita di una rappresentanza. Cioè: non la presenza effettuale del popolo agisce, ma la sua rappresentazione per mezzo di una persona o un gruppo di persone che del popolo interpretano la volontà. Il potere costituente del popolo è infatti essenzialmente muto, benché illimitato. Esso ha bisogno di costituirsi in una serie di istituzioni in cui alcune persone lo rappresentano dando voce alla sua volontà. Ma tale rappresentazione è fatalmente dall’alto. Il mandato ha da essere libero, perché altrimenti il rappresentante, come puro megafono dei suoi elettori, perderebbe ogni valore e dignità, e per garantirne la fedeltà al dettato popolare si dovrebbe procedere a una votazione continua su ogni provvedimento, tale da rendere nulla la rappresentanza stessa. Quindi nella dimensione della rappresentanza è d’obbligo liberare il mandato e farvi entrare la rappresentazione di un’idea che, come già precisato in Cattolicesimo romano e forma politica è il fondamento della fiducia che il popolo ripone nel rappresentante che sia in grado di dare una forma alta e densa di significato etico-spirituale alla sua prassi politica. Il rappresentante per questo motivo dà forma allo Stato: “In ogni Stato devono esistere uomini che possano dire: ‘L’Etat c’est nous’” (Dottrina della costituzione, cit, p. 273), cioè tali da determinare con la loro azione quella più alta specie d’essere in grado di trasformare l’esistenza naturale di un qualsiasi gruppo di uomini che vivono assieme in un’esistenza “come unità politica”. Ad essa si attagliano parole come “grandezza, altezza, maestà , gloria, dignità e onore”(ivi, p. 277).

In questo senso si determina il forte realismo schmittiano, che è sempre attento alla volontà che pone il diritto, ma non come puro arbitrio, bensì come volontà legittimata da una qualità ideale, superiore, rappresentativa, in modo che la fondazione di una comunità ordinata non è mai opera di pura violenza che si impone, bensì di una forza che viene riconosciuta e che è sempre aperta a ciò che la trascende. Tale attenzione alla reale configurazione dell’ordine non può accogliere il formalismo di colui che rappresenta la controparte teorica del nostro giurista, l’altrettanto famoso e importante studioso Hans Kelsen. Costui insisteva sullo Stato come sistema di norme e sulla possibilità di normare e rendere prevedibile l’intera vita politica e giuridica. Il problema fondamentale di “chi decide” doveva essere ricondotto a una norma che stabiliva alcune competenze e che indicava di volta in volta chi e come si doveva decidere per affrontare un dato evento giuridicamente e politicamente rilevante. Le leggi positive dovevano per lui essere a loro volta ricondotte a leggi più generali contenute in una carta costituzionale e non poste da qualcuno, ma logicamente presupposte dalle norme vigenti, e approvate da un’assemblea apposita. Semplificando molto, il ragionamento di Kelsen era insomma il seguente: siccome esistono e sono valide leggi, deve esistere una legge fondamentale che produce queste leggi come sua conseguenza. Questa legge fondamentale o norma delle norme o costituzione vige perché è necessaria logicamente alla vigenza delle norme di rango secondario, a prescindere da ogni considerazione riguardo alla giustizia, all’ordine, alla volontà concreta di esistere di un popolo. Così “per Kelsen hanno vigenza soltanto le norme positive, cioè quelle norme che hanno effettiva vigenza; esse vigono non perché debbono vigere per la loro maggiore giustezza, ma senza riguardo a qualità come razionalità, giustizia etc., solo perché sono positive. Qui cessa improvvisamente il dovere e cade la normatività; al suo posto appare la tautologia di una cruda effettività: qualcosa vige, se vige e perché vige” (ivi, p. 22). Il formalismo conduce a questo sistema di norme – cioè il diritto effettivamente vigente e riconosciuto - di cui la costituzione è semplicemente il fondamento logico, anonimo, tecnico, che è lì solo perché è necessario che ci sia. Questa cruda effettività, da un lato si limita a descrivere l’esistenza di qualcosa come delle leggi, senza alcuna valutazione critica e di contenuto, dall’altro le riconduce a un fondamento totalmente astratto che allontana il diritto dalla concreta vita dei popoli.

 

Il nomos della terra e la politica internazionale


Di fronte alle astrazioni del normativismo liberale e del positivismo kelseniano, per molti versi coincidenti nel comune intento di sottomettere all’imperio di una legge ogni aspetto della vita politica di un popolo, Schmitt insiste nel fondare il diritto e le leggi in una radicale concretezza esistenziale: dalla vita procede la legge e la legge non deve mai dimenticare la vita. Il nomos della terra (1950) rappresenta questo ulteriore passo di fissazione esistenziale del diritto. Dalla Dottrina della costituzione molta acqua è passata sotto i ponti. Ci sono stati gli anni Trenta con l’avvento del nazionalsocialismo e il tentativo fallito di influenzare ideologicamente gli orientamenti giuridici del Terzo Reich; c’è stata la guerra mondiale con il suo corollario di tragedie e distruzioni (Schmitt, accusato di aver collaborato con il regime hitleriano, subisce un breve periodo di detenzione e viene sottoposto a indagine e a interrogatori da parte degli alleati (da questa esperienza verrà fuori il testo autobiografico Ex captivitate salus – 1950); sta consolidandosi ora la divisione del mondo in due blocchi ed esordisce il lungo periodo della guerra fredda tra oriente comunista e occidente liberal-capitalista. Schmitt ha continuato nel suo percorso di ricerca sulla questione dell’ordine politico, estendendo i suoi interessi al di là dello Stato, verso le sempre più pressanti questioni di diritto internazionale. Come sappiamo tra gli Stati non c’è un terzo superiore che possa imporre coattivamente una legge. Se ciò è vero, è altrettanto vero che in Europa si è determinato il tentativo di dare una regolazione dei rapporti internazionali, per evitare una loro indiscriminata degenerazione, quale si era vista nella crudele e devastante guerra dei Trent’anni (1618-1648), a conclusione di un periodo travagliato di conflitti religiosi originati dal trauma della Riforma del 1517. Dalla pace di Westfalia si consolida uno jus publicum europaeum, un diritto pubblico europeo, nel quale gli Stati del Vecchio continente, riconoscendosi reciprocamente come soggetti sovrani, istituiscono tuttavia delle procedure che cristallizzano e quasi ritualizzano una lunga consuetudine diplomatica in cui la pace e la guerra non appaiono più rispettivamente la normalità e l’eccezione, ma vengono imbrigliati in una rete ideale di convenzioni giuridiche che limitano fortemente le distruttività dei conflitti e consentono la reciproca convivenza. Pensiamo per esempio alle statuizioni per le quali la guerra si inizia con una dichiarazione e si conclude con un trattato, pensiamo al jus belli che descrive le condizioni che rendono un belligerante un soggetto riconosciuto dallo stesso nemico e dagli Stati neutrali, pensiamo alla determinazione giuridica dello stesso concetto di neutralità, pensiamo alle procedure militari, alla distinzione civile-militare, alla questione della divisa e al concetto di prigioniero di guerra. Pensiamo infine a quella forma concreta di politica europea, chiamata politica della bilancia, in cui ogni potenza agisce all’interno di un equilibrio complessivo che tutte le altre sorvegliano, intervenendo nei confronti di quella potenza che, con ambizioni espansionistiche che travalicano la misura accettabile da tutti gli altri, minaccia l’equilibrio stesso. Ciò implica che lo Stato sovrano, mantenendo la sua libertà di azione, si viene pur collocando in una comunità di pari al cui cospetto le sue azioni vengono valutate e considerate. Non c’è qui alcun superiore, ma un concerto di autonomie, fondato anzitutto su una comunanza di civiltà e di storia istituzionale. Ogni Stato europeo è libero e sovrano, ma condivide con tutti gli altri un nomos della terra. Ciò lo pone strutturalmente e inevitabilmente insieme-agli-altri. Ma che cosa è questo nomos, questa legge che si fonda sulla terra? La terra è justissima tellus, il luogo in cui si radica la vita concreta dei popoli. La terra retribuisce il lavoro umano con i suoi frutti, evidenzia nel terreno dissodato e coltivato nette linee di suddivisione e reca in sé recinzioni, case, delimitazioni e pietre di confine che rendono palese un ordine visibile e pubblico. Nella terra si radica l’ordine. Il confine segna la linea entro la quale c’è una legge. Nella terra si ripartisce lo spazio secondo giustizia. Essa accoglie appunto un nomos, una legge. Infatti, secondo Schmitt non c’è ordinamento (Ordnung) senza localizzazione (Ortung): “Alle occupazioni di terra e alle fondazioni di città è […] sempre legata una prima misurazione e ripartizione del suolo utilizzabile. Nasce così un primo criterio di misura che contiene in sé tutti i criteri successivi. Esso resterà riconoscibile fintanto che la costituzione rimarrà riconoscibilmente la stessa. Ogni successiva relazione giuridica con il suolo del territorio ripartito dalla tribù o dal popolo occupante, ogni istituzione di una città protetta da mura o di una nuova colonia sono determinati da questo criterio originario di misura e ogni giudizio ontonomo, ontologicamente giusto procede dal suolo” (Carl Schmitt, Il nomos della terra, tr. i.t, Adeplhi, Milano 1991, p. 23). La giustizia proviene dal suolo e dalla sua delimitazione/ripartizione che è mezzo di un’equità visibile, pubblica, oggettiva, quanto pubblica, visibile e oggettiva è la linea tracciata nella terra. Questo è un minimo comun denominatore storico-giuridico della civiltà europea nel suo complesso, che emerge in particolar modo in contrapposizione con il mare, la liquidità di un spazio s-confinato dove non esiste linea di demarcazione, dove tutto è libero, sregolato, piratesco: le scoperte di nuovi continenti e la navigazione oceanica rendono dal XIV secolo evidente tale contrapposizione (il libretto Terra e mare del 1942 descrive con grande suggestione la rivoluzione spaziale che ha comportato l’affacciarsi della civiltà europea agli spazi marittimi dell’oceano e la nascita di specifiche potenze marittime, come l’Inghilterra, l’Olanda o il Portogallo).

 

La guerra giusta, l’unità del mondo e il grande spazio


Gli Stati europei nascono con le seguenti caratteristiche: un legame con la terra, cioè un ordinamento concreto spaziale; la capacità di neutralizzare i conflitti interni; la relativizzazione, mediante il mutuo riconoscimento tra Stati sovrani del conflitto esterno. Tale ultimo obiettivo è ottenuto mediante il passaggio fondamentale dal criterio della justa causa belli a quello del justus hostis. Nel momento in cui, infatti, gli Stati europei si riconoscono, confermano reciprocamente anche il diritto sovrano di fare guerra, secondo le consuetudini invalse. Ciò fa di loro dei potenziali nemici, ma tali da avere nell’altro un nemico non assoluto, bensì partner in una comunità. Il nemico diventa “giusto” perché con lui si può combattere come tra duellanti che hanno preventivamente accettato regole del confronto. E, come nel duello d’onore, così anche tra gli Stati l’avversario è un pari e come tale, quand’anche sconfitto, deve essere ritenuto. Ciò configura la peculiare considerazione statuale della guerra: lo Stato, solo per il fatto di essere tale ha il diritto di fare la guerra, senza bisogno di ragioni. Non c’è alcuna necessità di una “giusta causa”, che peraltro ogni Stato normalmente avoca a sé con ragioni che nessun altro può smentire, se non limitando di fatto la sua sovranità. Anzi, la giusta causa finisce per avere un effetto boomerang: nata come dottrina ecclesiale per limitare i conflitti, quando nel medioevo la Chiesa pur poteva virtualmente presentarsi come organo super partes, essa finisce per incrementarli, perché nella distribuzione delle responsabilità, quando ciascun contendente aggiunge al suo diritto di far guerra un motivo essenzialmente morale, tende irresistibilmente a presentare il nemico come un partigiano del maligno, hors la loy, hors l’humanité (fuori dalla legge, fuori dall’umanità). La guerra, relativizzata come duello interstatale, diventa nuovamente una guerra morale e infine una guerra di religione che punta all’annientamento del nemico come obiettivo essenziale per far trionfare il bene nel mondo. È con la Rivoluzione francese che la morale e la religione tornano a interagire con la dimensione bellica, diventando strumento del politico e finendo per essere poste al servizio. Esse tornano sotto le vesti secolarizzate dell’ideologia, cioè di una filosofia politica, quella dell’illuminismo, assunta in modo dogmatico e trasformata in surrogato laico e mondanizzato delle aspettative di redenzione metafisica dell’umanità. Come i cristiani preparavano un regno ultraterreno, i rivoluzionari intendono costruire un regno terreno. Come i cristiani confidavano nella salvezza dell’umanità per mezzo di Dio, così i rivoluzionari confidano in una salvezza tutta terrena e prodotta dall’uomo. Il regno dell’égalité, della liberté e della fraternité dovrà essere fondato mediante la prassi rivoluzionaria. Questa differenza, non da poco, rispetto alla tradizione religiosa lascia libero campo alla radicalizzazione fanatica del dogma, perché mentre l’opera di redenzione è nella religione sottratta all’uomo e parimenti lo è la vittoria contro il male, qui è proprio una parte dell’umanità che, in nome di un futuro di totale emancipazione, si arroga il diritto di indicare il cammino e i nemici da combattere e vincere durante il cammino. Così il politico con le sue dinamiche amico-nemico, lungi dal venire contenuto e gestito mediante reciproci riconoscimenti, intensifica le proprie dinamiche di associazione e dissociazione fino al grado massimo di violenza: la violenza dei buoni per estirpare il male dal mondo, l’ultima e definitiva violenza, che è pure la più crudele e devastante. Ecco allora che inizia, con la Vandea, la triste storia degli sterminii ideologici aventi lo scopo di purificare il mondo dalle contaminazioni del Male. Uguale impostazione di ideologia di redenzione collettiva e terrena avrà il comunismo, che assumerà la guerra civile (di classe) e la violenza purificatrice come strumento necessario di emancipazione degli oppressi e di instaurazione definitiva di una società giusta. Allo stesso modo il razzismo novecentesco assumerà la discriminazione razziale come analoga modalità di liberazione dell’umanità. Il liberalismo promette dal canto suo la redenzione mediante l’indefinita crescita economica in un paradiso terrestre di abbondanza nella compiuta società del godimento e parimenti si comporta con i suoi nemici con la massima spietatezza come dimostra l’atomica di Hiroshima e Nagasaki, Dresda e financo il processo di Norimberga. Ciascuna ideologia ha la sua guerra giusta da combattere per portare una pace definitiva all’umanità. Ciascuna a suo modo rifiuta l’idea di un’ineliminabile dimensione conflittuale che attraversa i gruppi umani e, volendo superarla, finisce per radicalizzarla. Perché il politico ha questa straordinaria forza d’attrazione e sottomette alla sua logica tutti gli ideali e le morali che non vogliano fare i conti con la sua pervasività. Tutte le ideologie hanno a loro modo combattuto lo Stato tradizionale westfaliano: qualcuno apertamente, parlando di un’estinzione dello Stato nella società senza classi, qualcun altro cercando di svuotarlo dall’interno mediante strumenti costituzionali. Qualcuno infine propone l’utopia di uno Stato mondiale, dove il politico venga sublimato nel tecnico e nell’economico, dove l’umanità acceda a una sola grande ecumene culturale e dove le differenze sopravvivano solo come folklore e non come idee di un destino storico autonomo e libero. Questo Stato senza nemici considererebbe tutti i conflitti come fattispecie di reato contro l’unica e uniforme legge mondiale, e li tratterebbe mediante operazioni di polizia. Esso renderebbe universale il grande sogno materialista del comfort generalizzato, di una pace universale, di un'unica fratellanza globale, pagata evidentemente con la fine delle differenze, delle identità popolari, del pluralismo delle visioni del mondo e della vita, della pluralità politica, culturale, religiosa. Paradossalmente quando Schmitt constata, nel saggio L’unità del mondo del 1951 la fine del primato europeo e della civiltà giuridico-politica continentale, che ha lasciato il campo a due blocchi contrapposti e ugualmente lontani dalla tradizione moderna, non può non notare che sotto il profilo delle idealità ultime, entrambi i blocchi tendono a una forma molto simile di Stato tecnico, centralizzato, globale ed estremamente oppressivo nella volontà di promuovere l’amministrazione generalizzata della vita umana mediante burocrazie e apparati freddi, anonimi, impersonali e onnipervasivi (siano essi i meccanismi della finanza capitalistica internazionale, o quelli delle burocrazie sovietiche).

La guerra fredda sovietico-americana, dunque, appare a Schmitt una delle ultime propaggini della nuova organizzazione mondiale, bipolare nei fatti, unipolare negli scopi, in cui, senza che le ideologie abbiano ottenuto ancora una vittoria definitiva, lo Stato è stato consegnato al novero delle esperienze superate dalla storia. 

Di fronte a tale deriva che ne è dell’ordine politico? Dove finisce la grande tradizione dello jus publicum europaeum? Dove la grande opera di civilizzazione e gestione dell’endemica conflittualità umana? Lo Stato muore e con esso tramonta l’occidente, come direbbe Oswald Spengler, ma per Schmitt non esiste un determinismo storico insuperabile. Come Toynbee egli ritiene che la storia sia caratterizzata dalla dialettica sfida-risposta  - i tempi sfidano, gli uomini rispondono pensando e agendo - e quindi mantenga una fondamentale apertura. La fine della statualità europea è una sfida al pensiero e alla creatività umana. Essa presenta, al di là della cupa religione dell’unità tecnico-economico-amministrativa del mondo, la possibilità di una nuova risposta a partire dalla concreta situazione storico-mondiale. “Ciò implica la possibilità di un equilibrio di forze, un equilibrio di vari grandi spazi, che creino tra loro un nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello e con dimensioni nuove, però, nello stesso tempo dotato di certe analogie con il diritto delle genti europeo dei secoli XVIII e XIX, che pure si basava su un equilibrio di potenze grazie al quale conservava la sua struttura. Anche lo jus publicum europaeum implicava un’unità del mondo. Era un’unità eurocentrica; non era il potere politico di un unico padrone di questo mondo, ma di una formazione pluralista e di equilibrio di varie forze […]. È molto probabile che l’attuale dualità sua molto più vicina alla pluralità che all’unità definitiva, e che siano troppo affrettati i pronostici e le combinazioni del One World” (Carl Schmitt, L’unità del mondo, in Idem, L’unità del mondo e altri saggi, tr. it., Antonio Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303-319, qui p. 309). Ma che cos’è questa positiva alternativa allo Stato? Il concetto di grande spazio (Grossraum) si riferisce a una specie di “espansione” dell’unità politica statale su una scala più grande, la cui condizione di possibilità è data dal territorio effettivamente influenzabile e controllabile da un soggetto politico attivo. Questi, all’interno di uno spazio maggiore di quello assegnato allo Stato tradizionale, articolerebbe sovranamente una pluralità di comunità (senza cancellarle) e costruirebbe una nuova sintesi politico-territoriale capace di entrare in rapporto con altri soggetti simili. Rimanendo legata ad una precisa collocazione spaziale, eviterebbe al contempo di ricadere nell’utopia liberal-comunista di uno Stato mondiale fondato su ideologie astratte. Al tempo stesso preserverebbe il pluralismo delle unità politiche, dei paesaggi del mondo, delle vocazioni geopolitiche, delle culture. Pensiamo, con un esempio nostro, a una serie di macro-soggetti continentali, come Europa, Nordamerica, Sudamerica, Russia, Cina, India, Australia, Umma musulmana, Africa centro-meridionale: essi andrebbero a costituire una nuova forma di organizzazione politica mondiale pluralistica, in grado di garantire i destini dei popoli in un contesto multipolare e al tempo stesso di articolare forme giuridiche di convivenza e di reciproco riconoscimento, capaci di limitare e depotenziare i conflitti. La riflessione di Schmitt pensa i grandi spazi ancora come estensione “imperialistica” di uno Stato nazionale, ed è questo forse il suo punto debole. L’intuizione feconda sta nell’opporre all’egemonia dei blocchi mondiali della guerra fredda la forza maggiore di unità politiche più estese e capaci di porsi da pari e pari nei confronti delle pretese egemoniche russo-americane e della loro tendenza a mondializzarsi. Naturalmente la prospettiva dei Grandi Spazi, rivista e corretta tenendo conto degli sviluppi storici del nuovo secolo, diventa ora ancor più necessaria di fronte all’ostinazione dell’Occidente americano, vittorioso nella guerra fredda, nel pensarsi come unico modello di vita politica e sociale e fine della storia.

 

Il katéchon


“Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima, infatti, verrà l'apostasia e si rivelerà l'uomo dell'iniquità, il figlio della perdizione, l'avversario, colui che s'innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene (katéchon) perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell'iniquità (mysterion tes anomias) è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene (katéchon). Allora l'empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta” (2 Ts 2, 3-9).

Che cosa ha a che fare questo passo di san Paolo - riguardante la fine dei tempi e l’antecedente lotta tra l’Avversario , o Anticristo, e “ciò, colui che lo trattiene (katéchon)” - con la riflessione politico-giuridica schmittiana?

Il gesto del nostro giurista, quando ha parlato dei grandi spazi e delle innovazioni epocali avvenute con la guerra mondale e dopo la sua fine, è stato quello di allargare gli orizzonti, dall’ordine politico interno a quello internazionale, in un quadro storico che, pur non avendo mai travalicato gli ultimi secoli dell’Europa moderna, avverte vieppiù il carattere epocale degli eventi da lui vissuti negli ultimi anni. In linea con tale percezione, Schmitt cerca un ulteriore ampliamento di prospettive che riguarda il senso del destino di crisi e dissoluzione dell’ordine politico. Le Scritture paoline, in particolare la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, con la lunga tradizione interpretativa dei Padri e dei grandi dottori della Chiesa, offrono un eccezionale strumento interpretativo. Infatti, la “forza” che trattiene il dilagare del mistero dell’iniquità o dell’anomia (mancanza di legge), è stata associata all’Impero Romano e poi alla sua versione cristiana. Quindi ha ricevuto una declinazione “politica”, del resto plausibile a partire dall’uso paolino del termine nomos (che in lui mantiene ambedue i significati, religioso e politico). Per contro l’anomia, in quanto mancanza di legge, è facilmente associabile a tutto quanto concerne il venire meno e la dissoluzione dello stesso ordine politico che “trattiene” e al prevalere delle forze dell’Avversario. Con questo schema apocalittico il nostro giurista legge “teologicamente” il significato  storico della ricerca dell’ordine politico: a fronte dell’anomia che attraversa un’umanità sempre alle prese con la propria tendenza all’errore e al conflitto, l’ordine politico, proveniente da una forza storica, pur destinata alla provvisorietà, riceve il compito provvidenziale nel cammino della salvezza di testimoniare la signoria di Cristo sulle vicende umane anche nel mezzo degli eventi del secolo, anche nella realtà pienamente terrestre delle relazioni politiche e sociali. Ecco, in poche parole, il compito del katéchon, ossia di colui o ciò che trattiene (trattiene il divenire delle società verso il disordine, il caos, la guerra indiscriminata quali sintomi di un male operante nella storia)

Schmitt, nondimeno, è molto lontano dal proporre una filosofia o una teologia della storia. Egli non è incline a cedere alle forme di determinismo che i grandi affreschi filosofici impongono al divenire storico. Niente è determinato in un mondo in cui un piccolo resto di libertà ci è sempre riservato, quand’anche all’ultimo momento. Nondimeno egli pure conosce qualcuno dei grandi pittori come Spengler e Toynbee, ma soprattutto è consapevole che la forza del marxismo, suo grande avversario spirituale prima che teoretico, proviene dall’avere una teoria dello sviluppo storico. Perciò, influenzato dalle dottrine dei filosofi cattolici della controrivoluzione (Donoso Cortés, De Bonald e De Maistre), non costruisce uno schema compiuto della successione delle epoche, ma, non rinuncia nemmeno, per così dire, a esprimere una sensibilità e un orientamento generale sulla questione.

 Anzitutto nel mondo agisce il peccato. Diremmo che esso è la forza entropica della storia e della creazione. Dal peccato viene la consapevolezza del fatto che l’uomo è “pericoloso”, uno degli assiomi antropologici di Schmitt, e che tutto ciò che è costruito dagli sforzi della civiltà non si consuma solo per ragioni naturali, ma è sottoposto alla violenza di una forza dissolvitrice tipicamente amartiologica. Tale pericolosità della specie umana si manifesta in senso sincronico nel conflitto e nell’inimicizia e in senso diacronico nella progressiva perdita del centro da parte della civiltà europea e cristiana: l’affermarsi dei sistemi ideologici del Novecento in un clima di radicale secolarizzazione e di crisi dell’ordine politico lo dimostra. Tuttavia, lo studio dell’epoca della secolarizzazione e delle sue manifestazioni non diventa mai uno schema pessimista da contrapporre all’ingenuo ottimismo illuministico del progresso, bensì si configura come una vigilanza realistica e disincantata sul fatto storico.

Il fatto storico è una sfida che chiede risposte, ma l’interrogazione dialettica che viene dalla storia è sempre anche una provocazione e una minaccia. La storia quando sfida ad agire lo fa spesso in modo mortale e mettendo in questione radicalmente l’esistenza di un singolo e di un gruppo. L’atteggiamento può essere quello del ritrarsi nella molle condiscendenza ai processi in atto, che gode dello spettacolo dell’erosione dell’eticità – cioè di quella sostanza etico/metafisica del vivere civile, ossia di un ordine aperto alla trascendenza – aspettando l’avvento di ingannevoli “età dello Spirito Santo”, di millenni di pace e godimento, assicurati dai fanatici dell’apocalisse mondana, dai rivoluzionari di professione e dai puritani del mondo nuovo, assetati del sangue del nemico di turno, oppure può condurre a prassi diverse.

Da qui il riferimento di Schmitt alla figura del katéchon come perno di un’interpretazione autenticamente cristiana della storia che è consapevole della tragedia della vita dei popoli, ma sa guardare sempre all’assoluto e alla trascendenza, traendone la forza per opporsi alle derive del mondo, al suo male, alle sue degenerazioni, alle sue piccolezze politiche e sociali.

Così si determina la chiusura teologico-politica della riflessione schmittiana, che scrive alla fine della sua lunga carriera la Teologia politica II (1970), un testo che ribadisce la legittimità di istituire un’analogia tra la sfera della politica e quella della religione, in particolare cristiana, in risposta alle critiche di alcuni teologi come Erik Peterson. Dentro tale relazione analogica, diventa possibile pensare una legittimità superiore dell’azione politica, senza tradurla nella ricerca di forme teocratiche, ossia mantenendo l’essenziale distinzione tra le due sfere del potere e dell’autorità spirituale. Al tempo stesso ci si preserva dalle indebite forme di fanatizzazione morale e ideologica della politica che propongono l’assoluta autosufficienza tecnica ed economica di nuovi modelli di società, che prospettano l’avvento di ere di pace, uguaglianza e abbondanza e che finiscono più spesso con produrre inferni totalitari e liberticidi.


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