domenica 11 dicembre 2022

Lo stato di eccezione secondo Agamben: tra violenza e diritto.


Tornata d'attualità, ripubblico in questa sede una recensione a G. Agamben, Stato di eccezione (homo sacer II), Bollati Boringhieri, Torino, 2003, comparsa su Ekpyrosis, 2 (2006). 

L’idea-guida di Giorgio Agamben nella sua ultima fatica sullo stato di eccezione appare quella di una definizione negativa della politica. La politica consisterebbe in una prassi umana volta a separare due elementi che continuamente tendono ad articolarsi: la violenza e il diritto. “Veramente politica è quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto”, un legame che è secondo l’Autore il punto di partenza di un processo che sta progressivamente trasformando la democrazia in un regime para-autoritario e guerrafondaio. La trattazione del concetto di stato di eccezione ha precisamente a che fare con tale deriva. Infatti, esso rappresenta il punto di fusione di violenza e diritto e al contempo sta diventando vieppiù la regola giuridica dell’agire delle democrazie che l’Autore chiama ormai “governamentali” (per distinguerle dalle democrazie, invero più ideali che reali, ove il potere esecutivo è chiamato a rispettare ben precisi vincoli giuridici a difesa e protezione del cittadino).

Ma che cosa si intende specificamente con stato di eccezione? Esso è un dispositivo giuridico che sospende il diritto in una situazione di emergenza, permettendo di mettere in atto qualsiasi azione sia utile allo scopo di fronteggiarla con successo. Se ne possono ritrovare esempi notevoli nella legislazione dell’Europa moderna riguardante lo stato di assedio, ma anche in quelle costituzioni che hanno previsto, indipendentemente da situazioni di belligeranza, particolari misure atte a contenere e reprimere eventi potenzialmente sovversivi dell’ordine costituito. Un caso classico di realizzazione pratica del concetto di stato di eccezione è l’articolo 48 della costituzione di Weimar, che prevedeva, quando si fosse presentata una particolare emergenza politica, la possibilità da parte del presidente del Reich di attribuire al governo la prerogativa di prendere provvedimenti aventi forza di legge bypassando il parlamento. Non solo: il governo poteva anche ignorare le garanzie a difesa del cittadino previste in una serie di articoli della costituzione la cui validità poteva essere sospesa. Indipendentemente dall’uso che ne fecero i governi di Weimar ed Hitler stesso, ma anche i loro precursori nel XIX e XVIII secolo, questa sospensione eccezionale della norma nella riflessione di molti giuristi, e in particolare di Carl Schmitt, nonostante instauri effettivamente una zona di anomia, non è senza relazione con il diritto. Essa fa emergere «in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione» (Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 39). Detto elemento si pone al confine fra diritto e anomia proprio nella sua funzione di fondamento della norma a sua volta non fondato su una norma. Ciò però non elimina del tutto la sostanziale aporia dello stato di eccezione, che consiste nel fatto che con un dispositivo giuridico si aspira a mettere in mora il diritto (qui evidentemente interpretato in senso normativistico), lasciando via libera ad una prassi senza alcuna regola e che tuttavia pretende ancora di essere giuridica. Tale prassi isolerebbe allora una forza di legge senza legge, ovvero una vis obligandi sganciata dal criterio normativo che sta alla base dell’obbligazione, affinché, attraverso la creazione di una situazione normale oltre l’emergenza, la norma stessa possa trovare efficace applicazione. Questo tentativo di iscrivere una forza di legge senza legge, vale a dire una forza tout court, una violenza libera e sregolata, in un contesto giuridico appare, a un’analisi più approfondita, una mera finzione.

Esaminando l’origine dello stato di eccezione nel diritto romano, che lo contemplava nell’istituto del iustitium (una sospensione temporanea delle leggi e delle procedure vigenti, di fronte a un’emergenza politica o militare) Agamben giunge alla conclusione che in realtà in esso, mancando ogni modello legale di riferimento, non vi è più diritto e le azioni ivi commesse risultano giuridicamente inqualificabili: esse sono «meri fatti il cui apprezzamento, una volta scaduto il iustitium, dipenderà dalle circostanze» (p. 65). Si crea dunque con lo stato di eccezione uno spazio di violenza anomica che con il diritto «non ha alcuna articolazione sostanziale» (p. 111) e che oggi vale come espediente attraverso cui le democrazie tentano di emanciparsi dai vincoli legali per affermare un potere in grado di avere, a partire da una violenza vitalistica, presa diretta sulla vita. Ciò comporta, per coloro che sono oggetto di una tale prassi di dominio, la sottrazione di ogni strumento di difesa giuridica della propria persona. Il loro bìos, la loro vita avente dignità etica e civile, viene allora degradato a pura zoé, vita biologica, nuda vita, con la conseguente trasformazione del cittadino in materiale umano disponibile per l’agire autoreferenziale del potere. Ciò è quanto è avvenuto nei regimi totalitari, che hanno istituito i campi di concentramento, i quali rappresentano, con l’assoluta mortificazione del diritto e con il puro, estremo e violento dominio esercitato sulla persona, «lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 188).

Ma le democrazie, appunto, non ne sono immuni. Già in Homo sacer Agamben aveva notato i sintomi di un processo di trasformazione del potere democratico in potere governamentale, cioè tendenzialmente promotore di un’esecutività affrancata dal diritto e caratterizzata da inquietanti venature biopolitiche. Ora, mostrando l’esempio delle ultime guerre che hanno coinvolto gli Stati Uniti e di una tra le più stridenti ingiustizie cui hanno dato luogo il campo di prigionia di Guantanamo, egli afferma che tale deriva si è ulteriormente consolidata e siamo in presenza di una fase storica in cui precisamente l’eccezione è diventata la regola. La conseguenza è che la democrazia così come era stata pensata dalla tradizione liberale viene svuotata di senso. Ebbene, è proprio l’idea di uno stato di eccezione, in quanto posto ancora in relazione con il diritto, a mascherare ideologicamente questo svuotamento, qualificando una prassi violenta e solo governamentale come ancora legale.

A fronte di ciò Agamben intende compiere un’opera di demistificazione, che, sulla scorta di Per una critica della violenza di Walter Benjamin, produca una rescissione del legame fittizio tra violenza e diritto, dimostrando, principalmente contro Schmitt, la possibilità teorica e pratica di una violenza pura e, accanto ad essa, di un diritto puro. La politica si porrebbe tra queste due forze: una violenza smascherata nella sua catastrofica distruttività, e un diritto cui sarebbe tolto ogni valore d’uso e quindi ogni possibilità di essere strumentalizzato. Quest’ultimo diventerebbe allora realmente una “porta per la giustizia”, in opposizione netta ad una violenza concepita per ciò che veramente è. Tale operazione di disincanto, effetto di una politicità non priva di una certa connotazione utopica, permetterebbe secondo Agamben di interrompere il funzionamento dell’odierna macchina del potere che sta conducendo l’Occidente verso una guerra civile mondiale.

Così conclude il nostro Autore. In sede critica non si può non rilevare il grande acume diagnostico che caratterizza il suo testo, cui è difficile non accordare il proprio consenso relativamente alla interpretazione dei più recenti fenomeni bellico-politici mediante il paradigma dell’eccezione. Inoltre, anche alla luce di alcuni suoi testi precedenti, il tema sviluppato da Agamben del rapporto biopolitico tra potere e vita appare estremamente ricco di implicazioni e teoreticamente fecondo. Per converso, la critica a Carl Schmitt, che prende in considerazione principalmente i testi degli anni Venti (La dittatura e Teologia politica) fa emergere la concezione essenzialmente normativistica del diritto da parte del filosofo italiano. Ciò, a parere di chi scrive, è una delle possibili cause dell’estrema indeterminatezza della pars construens finale del suo testo. L’eliminazione del legame violenza-diritto non può infatti che considerarsi un compito utopico, laddove parimenti il significato politico di un diritto confinato nella pura dimensione del Sollen non può che riguardare una città che non ha luogo. La dottrina schmittiana è al contrario sempre attenta alla fattualità concreta del compito dell’ordine politico. Pertanto, ha sì tentato di inscrivere la violenza nel diritto, correndo il rischio di esporsi a strumentalizzazioni, ma ciò ha fatto proprio per fuggire a un’opposta deriva, quella che all’intensificazione dell’aspetto normativo del diritto ha visto corrispondere il suo scivolamento nella morale e nella tirannia dei valori: modo esemplare con cui il diritto nega se stesso.

Viceversa, Schmitt ha più volte sottolineato come la violenza bellica avesse trovato una grande forma di limitazione e umanizzazione nell’impresa giuridica del razionalismo europeo, forse grazie proprio al riconoscimento di un nesso violenza-diritto in grado di porre il secondo nelle condizioni di agire in senso limitativo e lenitivo sulla prima (jus in bello). Di qui la possibilità della costruzione e della difesa della categoria di justus hostis: un tema che va esteso ben oltre il campo del diritto internazionale, perché la sua logica vale altrettanto in quello interno, sussistendo per entrambi la dimensione originariamente politica del rapporto amico-nemico e la funzione dell’ordine istituzionale orientata a contenere il conflitto dentro limiti accettabili. Adottando questo criterio schmittiano è possibile avanzare un’altra interpretazione di quegli stessi eventi del panorama politico contemporaneo che ha citato Agamben. Si tratta della previsione della crescente intensificazione e disumanizzazione della guerra da attribuirsi alla sempre più arrogante esibizione di una justa causa (libertà, diritti umani etc.) al fine di scavalcare gli ostacoli giuridico-politici che si frappongono alle varie strategie dei soggetti di politica interna e internazionale. Ciò andrebbe eventualmente affiancato al paradigma dell’eccezionalità di Agamben. Le due interpretazioni non si escludono necessariamente. Ma la prima ha il pregio di consentire sotto il profilo teoretico di mantenere le categorie di decisione e di nemico; ovvero un’ermeneutica forte del fatto politico, capace di opporre alla “macchina letale” del potere non solo la non-violenza di una petitio principii ma una prassi efficace e delle significative controforze.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

martedì 6 dicembre 2022

La bestia, l'uomo, il dio. Il dialogo della salute di Carlo Michelstaedter

 "Il dialogo della salute" potrebbe anche intitolarsi: "La bestia, l'uomo, il dio". Infatti, descrive il passaggio attraverso queste tre tappe. La bestia nella sua innocenza ha bisogni, “desidera” e gode di tutto ciò che consente di continuare a vivere, e quindi gode del piacere del presente per poter nuovamente godere nel futuro, trovando in questa catena ininterrotta di bisogno-soddisfazione l’immediata in-consistenza della propria vita senza significato.

L'uomo si accorge, tramite la ragione, che il piacere-felicità può essere cercato. Però è lo stesso edonismo di chi invoca il piacere e fugge il dolore a dimostrare la sua vanità profonda, poiché non può che somigliare all'atto di "guardare nella propria ombra il proprio profilo": v'è piacere solo laddove vi è immediatezza, dove si gode nell'incoscienza di godere, perché, laddove si genera una mediazione consapevole, misteriosamente il piacere diventa "un iddio pudico" che "fugge da chi li invocò" che "ai piaceri è nemico" e che "fugge da chi lo cercò". Il piacere, cioè, è soprattutto una esperienza, è nemico della razionalità che riflette sui fini: esso non è e non può essere un valore, cioè l'oggetto di una ricerca, nella fattispecie un valore stabile e l'oggetto di una ricerca non infinita. Sono grandiose queste pagine che attraversano la tradizione dell'edonismo filosofico e ne confutano con grande forza i presupposti.

 Il terzo passaggio e quello verso il dio, ossia l'uomo-dio, colui che è persuaso, cioè l’individuo che ha trovato un senso convincente dell’esistenza, persuasivo come una verità che si impone improvvisamente, come una condizione di salute che distrugge ogni finzione e illumina ogni oscurità. La vita consacrata al piacere dissipa se stessa in un non-valore, ma la vita consta proprio di questa continua aspirazione a soddisfare bisogni, la vita è schopenhauerianamente volontà, la volontà di cose determinate che si fingono ricche e piene ma generano solamente un circolo vizioso, quello che subito si instaura tra il bisogno, la soddisfazione e un nuovo bisogno. Sembra che tale circolo oltre ad essere ripetitivo e nichilistico, sia nell'uomo peculiarmente artificiale e falso perché alla coscienza umana l'esperienza immediata della soddisfazione è negata alla radice, essendo invece concessa alla bestia incosciente. Che può fare, dunque, colui che si rende conto di un simile doppio vizio? Può rifiutare la vita, esprimendo così il desiderio di morte come riposo e negazione del bisogno … ma si tratta di una negazione che lascia permanere la coscienza. Si cerca la morte in quanto nella vita si ha l'insopportabile e lacerante coscienza dei bisogni insoddisfatti. Ma la morte non cancella solo il bisogno, ma anche la coscienza, lasciando permanere in essa un tragico senso di incompletezza. Il suicidio così diventa un pensiero con il quale ciascuno si costruisce uno sfondo falsamente consolatorio, a proprio uso e consumo di fronte alla frustrazione dell'esistenza. È una porta che ciascuno si lascia aperta ben sapendo che non conduce da nessuna parte, perché chi muore sa di non essere più, e sa che "il non-valore della morte non gli vale la speranza del valore". Anzi nell'invocazione della morte "parla la sua stessa debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore". Lì, dunque, si presenta un meccanismo paralogistico in cui è presente, pur dissimulata, "la volontà di continuare, la pietà commossa di se stessi". Che cosa resta da fare allora? Niente: nausea per la vita che è e che non è, disincanto totale per il mondo della volontà. Un niente, però, ricco di significati perché è la ribellione contro l'insignificanza del vivere. Questo fermarsi, questa rivolta immobile contro il divenire nichilistico delle cose è la via-non via della persuasione. "Allora non più invano spererai, non più sarai disperato, non più invano esulterai e non più avrai da lamentarti: ma il futuro non sarà più per te e nell'ultimo presente il tuo cuore consisterà [...] Niente da aspettare / niente da temere / niente da chiedere e tutto da dare / non andare / ma permanere / non c'è premio, non c'è posa / la vita è tutta una dura cosa". Il fermarsi contemplativo e ascetico di fronte alla durezza della vita è persuasione, il persuadersi di una verità scomoda e tremenda, che tuttavia è l'unica esistenzialmente autentica.

Michelstaedter nega che questa possa essere chiamata via, dal momento che consiste nella negazione di ogni via e di ogni andare che è sempre anche un inutile vagare. Nondimeno essa pur sempre rimane via in quanto implica un passaggio, una presa di coscienza, uno sforzo che dovrebbe condurre dalla naturale vita inautentica e dalla vana ricerca del piacere e della felicità, a una condizione diversa e superiore. La condizione di partenza è l’inconsistente e bramosa ricerca del futuro, l’attaccamento irrazionale alla vita (la filopsychia nell’accezione platonica) che Michelstaedter chiama "rettorica", perché a somiglianza dell'antica arte oratoria costituisce una trama, l'intreccio di condizioni, fatti, eventi, desideri, pulsioni che nascondono la reale consistenza della vita, come la retorica è una trama di argomenti, parole, immagini, figure che nascondono la reale consistenza della verità. Siccome la retorica è condizione di partenza di tutti, una sorta di generale Verfallen (scadimento) esistenziale, si presuppone che persuadersi della verità, cioè anti-retoricamente consistere, implichi appunto il percorrere una faticosa strada. Malgrado la sua dimensione puntuale - ci si persuade quando si smette di volere il futuro e di diluire l'esistenza nei diversi momenti della sua dialettica del desiderio - la persuasione è una meta, e come tale oggetto di una peculiare aspirazione. E questa è precisamente l'utopia michelstaedteriana, un'utopia escatologica che si intuisce nella significativa espressione che descrive la persuasione come "l'ultimo presente" in cui (si noti il verbo al futuro) "il cuore consisterà". La persuasione è, quindi, il desiderio di non più vanamente desiderare, la fame di non avere più fame, la speranza di non dover più sperare, cioè di un punto fermo in cui "la volontà si sarà raccolta e avrà fatto di se stessa fiamma", bruciando i desideri retorici, l’ansia del piacere, la vita sempre in bilico tra essere e non essere che costituisce il "caso mortale della nostra nascita".

 Allora c'è desiderio e desiderio, c'è speranza e speranza, c'è volontà e volontà: c'è il desiderio retorico del piacere vano, la speranza di ottenere le cose determinate che esprimono il non senso del vivere e la volontà che si rapporta gli oggetti per ribadire il circolo vizioso del bisogno, ma c'è anche il desiderio di autenticità, la volontà di verità, la speranza di una definitività che smetta di rimandare ad altro. Chiamerei la prima fattispecie "desiderio", per indicare una brama morbosa e inconcludente, del tutto naturalistica e quasi animale, un eros inesausto che alberga nella pulsione verso il piacere e non domanda il significato; la categoria di "speranza", credo viceversa che possa propriamente rendere la qualità ultima, dunque escatologica della tensione ascetica verso la verità nuda, disincantata e abissale a cui Michelstaedter si riferisce. Egli per nulla indulge alla speranza volgare nella folle illusione di una pienezza felice, ben sapendo che la vita si decide dove nulla di ciò che si vuole accade, dove però tutto è vero e il nuomeno di sé e del modo si spalanca violento e possente a chi ha la forza di guardarlo. Solo questo può accadere di buono, perciò io ancora questo chiamerei speranza e con un certo azzardo anche felicità.

 Lo stesso filosofo mette in bocca a uno degli interlocutori del dialogo, Nino, le seguenti parole: "Perché dare agli uomini questo desiderio senza speranza, questa fame che non si può soddisfare?", alludendo alla "nebbia maledetta" che identifica il fluire retorico delle cose nelle cose che reciprocamente si bramano e reciprocamente si annullano. Questo status naturale è oggetto di una ribellione utopica e divina: ad esso si oppone l’attesa demistificante di totalità, di unità e di immobilità che rappresenta il centro intimo e profondo, la domanda radicale del filosofo. Il rifiuto del "desiderio" e la logica della "speranza", seppur sui generis, inducono a ribaltare l'immagine usuale di Michelstaedter filosofo pessimista, non eludendo per questo la tragicità del suo disilluso realismo e il moto di profondo disagio razionale che lo ha generato.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

sabato 3 dicembre 2022

Il cittadino del sole. Breve ritratto di Ernst Jünger

 



Quando capita di leggere un libro che racconta verità profonde o ci affascina con immagini molto belle, subito il pensiero va a chi lo ha scritto: “Che tipo d’uomo sarà costui?”, ci si domanda, “Come è arrivato a dire cose così importanti?”. Se poi, una volta informati sull’autore, questi appare all’altezza della sua opera, l’innamoramento è molto facile. Viceversa se scopriamo nella sua vita qualche cosa che non va — e, dicendo così, alludo a qualcosa di serio e di importante, giacché tutti, in quanto uomini, abbiamo le nostre miserie e ognuno deve essere indulgente verso le piccolezze del prossimo, se vuole un po’ di indulgenza per le proprie — la delusione s’impossessa di noi e anche ciò che leggiamo perde valore.

Con Ernst Jünger siamo decisamente nel primo caso. Grandissimo letterato, filosofo e uomo di cultura nato ad Heidelberg nel 1895 e morto a Wiflingen nel 1998, si arruolò nel 1913 nella Legione Straniera, combatté nella Prima guerra mondiale dove si distinse in numerose azioni, fu ferito quattordici volte e si guadagnò, oltre alla croce di ferro di prima classe, la decorazione dell’Ordine “pour le mérite”, un’onorificenza raramente accordata in fanteria. Su questi temi e il loro rapporto intimo con la letteratura ebbe a dire: “All’eroismo mi spinse la lettura dell’Orlando furioso dell’Ariosto. Furono quelle parole, quelle rime lette durante le pause tra un combattimento e l’altro a motivarmi. E non già la retorica e l’ideologia della guerra sviluppatesi in seguito alla nostra vittoria nella guerra franco-prussiana del 1870-71...” (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano, 1997, p. 22).

Partecipò dopo il 1918 alla vita pubblica della Germania tra le fila dei critici della Repubblica di Weimar, nata dal peccato originale della resa della nazione tedesca, ma all’ascesa di Hitler si ritirò in una sorta di emigrazione interna, non risparmiando le sue critiche al regime in Sulle scogliere di marmo (1939, romanzo di altissimo pregio letterario che, pur contenendo metafore negative del nazionalsocialismo, non può essere ridotto alla sua dimensione politica). Dopo la Seconda guerra mondiale, cui nondimeno partecipò come ufficiale nell’esercito tedesco, e dopo avere rischiato molto a causa della sua amicizia con il conte von Stauffenberg, uno dei congiurati nell’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, si dedicò all’attività letteraria e alle sue passioni naturalistiche. Era infatti anche un esperto entomologo: “Non solo una mezza dozzina di scarabei, o ancor di più, sono stati battezzati grazie a me, ma ci sono anche farfalle, molluschi; il mio amico Theodorides mi  ha anche dedicato un organismo monocellulare, la gregarina jungeri. Inoltre esiste una sottospecie di cincidela che si chiama jungerella”: così affermò egli stesso nell’intervista concessa a Julien Herver e pubblicata con il titolo Conversazioni con Ernst Jünger (tr. it. di A. Marchi, Guanda, Parma, 1987, p. 50).

Nel lungo periodo del secondo dopoguerra scrisse alcune tra le sue opere di maggior respiro che si aggiungono a L’operaio. Dominio e forma (1932), suo capolavoro filosofico: Heliopolis (1949) e Eumeswil (1978), due romanzi voluminosi e di rara bellezza. Strinse amicizia, grazie ai buoni auspici del fratello Friedrich Georg (anch’egli filosofo e letterato), con il grande pensatore Martin Heidegger, in dialogo con il quale pubblicò Oltre la linea (1950), un acuto saggio sul nichilismo contemporaneo (quel fenomeno, indicato mediante l’uso della parola latina nihil = nulla, per cui la vita appare vieppiù senza senso, un deserto senza valori e significati). Si cimentò in un profondo esame del fenomeno del tempo in Al muro del tempo (1949); entrò in una feconda relazione culturale e umana con Carl Schmitt, autorità riconosciuta e insuperata nel campo della scienza giuridica; dalla loro collaborazione nacque Il nodo di gordio (1953), un confronto storico-filosofico-giuridico su oriente e occidente (siamo in epoca di guerra fredda, cioè in pieno scontro tra i due blocchi, quello orientale-sovietico e quello occidentale-statunitense, per l’egemonia planetaria). Attraversò con successo diversi generi letterari, quello diaristico, quello fantastico, quello fantascientifico, oltre alla prosa filosofica e scientifica: tutto ciò si aggiunge agli scritti anteriori al 1945 che vanno dal romanzo di guerra — famosissimo rimane il suo capolavoro Nelle tempeste d’acciaio (1920), sull’esperienza di Verdun e della Somme — ai saggi storico-filosofici sul senso del conflitto mondiale (La battaglia come esperienza interiore -1922) e alle riflessioni di strategia militare come Fuoco e movimento (1930). Si distinse anche per finezza della prospettiva, ricchezza della descrizione e sensibilità, diremmo oggi, ecologica nei resoconti di alcuni viaggi (Viaggio in Dalmazia - 1933) o in quelli di alcune escursioni naturalistiche in Cacce sottili (1967) e, per certi versi, in quello scritto complesso, a metà tra il diario e la raccolta di aforismi filosofici, che è Il cuore avventuroso (1929) Curioso fu anche il suo excursus sulle droghe e il significato degli stati allucinatori come via "pericolosa" alla conoscenza di sé (Avvicinamenti droghe ed ebbrezza, 1969)

Insomma siamo di fronte a un’opera vastissima e a un talento poliedrico che si unisce a qualità umane e virili oggi veramente rare. In particolare, questa sua capacità di leggere i segni dei tempi e di tramandare un’immagine nitida di accadimenti estremi come la guerra è stupefacente. Nel suo Nelle tempeste d’acciaio egli coglie appieno il significato rivoluzionario della Prima guerra mondiale, una guerra di masse, in cui l’individuo, come era stato concepito dalla società borghese, conta pochissimo e va progressivamente scomparendo la distinzione tra belligeranti e no, laddove la distruttività indiscriminata della tecnica e la logica dei materiali assumono un’importanza preponderante. Qui si forgia la nuova figura, il nuovo tipo umano adatto all’epoca, l’operaio. La guerra è infatti il luogo in cui emerge per la prima volta l’immagine del nuovo mondo trasformato  in un’immensa officina, in cui l’operaio non è più il lavoratore salariato, cioè un semplice rappresentate di una classe sociale svantaggiata e capace di ribellarsi (come aveva teorizzato il socialcomunismo marxiano), ma colui che “opera” cioè governa gli strumenti attraverso cui si mobilitano le energie del mondo. È una sorta di sacerdote della tecnica che sa evocare e tenere a bada la potenza “infera” dei materiali e la loro forza esplosiva. Ciò richiede qualità umane peculiari e una diversa organizzazione sociale che assimila il mondo a un esercito dove ciascuno assume un ruolo determinato in funzione delle sue qualità specifiche: la fredda tranquillità della conoscenza, la capacità di trasfigurare le emozioni e i sentimenti in una sfera di superiore coraggio e abnegazione, lo sprezzo della morale dei mercanti e dell’utilità borghese, la ricerca di un contatto più intimo con le forze profonde che legano il destino dell’uomo alla fisicità e alle dinamiche elementari della natura. Sono questi elementi che attualizzano e, per così dire, incarnano quella trasvalutazione di tutti i valori che il filosofo Nietzsche aveva preconizzato qualche decina di anni prima. Non si tratta però di un’esaltazione acritica del combattimento, anzi della guerra non vengono taciuti gli aspetti più crudeli, disumani e inquietanti, e al contrario se ne inquadrano con un nuovo e affascinante realismo aspetti fino a quel momento non visti, non saputi e non vissuti dalle generazioni abituate al clima della Belle Époque guglielmina (il periodo di crescita e splendore del Reich tedesco seguito all’unificazione bismarkiana e all’ascesa al trono dell’imperatore Guglielmo II).

 Successivamente alla sconfitta del 1918, verrà elaborata da Jünger una vera e propria filosofia dell’operaio, intesa a rendere consapevoli le giovani generazioni tedesche delle nuove prospettive filosofiche e politiche del secolo XX, aperte dall’evento rivoluzionario della guerra mondiale, la cui coscienza sarebbe servita a una rinascita della nazione prostrata dalla “vergogna di Versailles”. Nonostante le cose in seguito non fossero andate nella direzione auspicata dal nostro autore, egli non rinunciò ad impegnarsi nella cultura collaborando con le avanguardie più coraggiose dell’intellettualità tedesca, per esempio con il gruppo nazionalbolscevico di E. Niekisch che si sarebbe opposto, a partire da un originale “conservatorismo di sinistra”, alla politica del Terzo Reich.

Dopo la seconda tragica disfatta tedesca del 1945, Jünger delineò i contorni di nuove figure antropologiche adatte al mutato contesto storico ed epocale. In esse egli riuscì a individuare efficaci antidoti alla drammatica incapacità della cultura nell’affrontare il brusco risveglio dalle illusioni di redenzione dei popoli affidate alle ideologie del Novecento (comunismo, liberalismo, fascismo). Si tratta delle figure dell’anarca - colui che coltiva una libertà interiore, inafferrabile per gli strumenti d'oppressione dello Stato totalitario moderno -  e del ribelle - colui che "passa al bosco" cioè nei luoghi che la civilizzazione e l'omologazione tecnica, economica e politica non hanno raggiunto per organizzare la sua opposizione a tutte moderne forme di oppressione, recuperando un rapporto intimo con la propria natura selvaggia e indomita.  Qui il singolo, attingendo alla sua originaria libertà, si sottrae alla civiltà delle masse anonime, del mercato totale e della tecnica senza controllo, grazie alle sorgenti di senso che trova nell’arte, nell’amore erotico, nell’amicizia, nel recupero di un sentimento eroico della morte, ma anche nella rivalutazione di un “giusto senso del sacro” e di un rapporto oginario con la natura (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani, cit., p. 98). Ma il bello di questi tipi umani — l’anarca e il ribelle — è che non sorgono da una descrizione fredda e concettuale, ma prendono vita da storie, vicende e trame che, benché parti di una fantasia vivacissima e piena di risorse, hanno un legame interno con la vivida concretezza del mondo, quasi a confermare l’idea di un’altra grande, seppur diversissima scrittrice, F. O’ Connor, secondo la quale la vera letteratura è più realistica di qualsiasi disciplina puramente descrittiva. In questi paradigmi personali s’intravede ancora l’uomo Jünger, il soldato-poeta, il romantico che fugge nella Legione Straniera, l’eroe tragico della Germania sofferente e sconfitta, l’esule in patria del dopoguerra, ma anche colui che sa emozionarsi e commuoversi al pensiero di essere uno dei pochi cui il destino ha concesso di vedere due volte la cometa di Halley (Due volte la cometa – 1987). Un individuo differente, insomma,  il cui carattere cordiale e la cui penetrante intelligenza sono intrecciati a una sostanza umana, a uno spessore etico-valoriale, a una potenza interna del temperamento che hanno impressionato tutti coloro che sono venuti a contatto con lui: da Berthold Brecht ad Adolf Hitler, da Pierre Drieu la Rochelle ad Alfred Kubin e Pablo Picasso, da François Mitterand ad Helmut Kohl per finire con tutti gli intellettuali, anche italiani come Alberto Moravia, che da lui hanno sempre ricavato il senso di una grande autorevolezza e di una straordinaria acutezza di sguardo. Ma, direi anche, un utopista disincantato, che si pone in modo critico nei riguardi del suo tempo, senza indulgere a resoconti accomodanti e consolatori ma, al tempo stesso, senza mai rinunciare alla ricerca dei semi di un futuro diverso, gettati per terra nelle periferie della realtà, in attesa che lo spirito, la forza e la volontà del singolo li facciano germogliare.


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