domenica 11 dicembre 2022

Lo stato di eccezione secondo Agamben: tra violenza e diritto.


Tornata d'attualità, ripubblico in questa sede una recensione a G. Agamben, Stato di eccezione (homo sacer II), Bollati Boringhieri, Torino, 2003, comparsa su Ekpyrosis, 2 (2006). 

L’idea-guida di Giorgio Agamben nella sua ultima fatica sullo stato di eccezione appare quella di una definizione negativa della politica. La politica consisterebbe in una prassi umana volta a separare due elementi che continuamente tendono ad articolarsi: la violenza e il diritto. “Veramente politica è quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto”, un legame che è secondo l’Autore il punto di partenza di un processo che sta progressivamente trasformando la democrazia in un regime para-autoritario e guerrafondaio. La trattazione del concetto di stato di eccezione ha precisamente a che fare con tale deriva. Infatti, esso rappresenta il punto di fusione di violenza e diritto e al contempo sta diventando vieppiù la regola giuridica dell’agire delle democrazie che l’Autore chiama ormai “governamentali” (per distinguerle dalle democrazie, invero più ideali che reali, ove il potere esecutivo è chiamato a rispettare ben precisi vincoli giuridici a difesa e protezione del cittadino).

Ma che cosa si intende specificamente con stato di eccezione? Esso è un dispositivo giuridico che sospende il diritto in una situazione di emergenza, permettendo di mettere in atto qualsiasi azione sia utile allo scopo di fronteggiarla con successo. Se ne possono ritrovare esempi notevoli nella legislazione dell’Europa moderna riguardante lo stato di assedio, ma anche in quelle costituzioni che hanno previsto, indipendentemente da situazioni di belligeranza, particolari misure atte a contenere e reprimere eventi potenzialmente sovversivi dell’ordine costituito. Un caso classico di realizzazione pratica del concetto di stato di eccezione è l’articolo 48 della costituzione di Weimar, che prevedeva, quando si fosse presentata una particolare emergenza politica, la possibilità da parte del presidente del Reich di attribuire al governo la prerogativa di prendere provvedimenti aventi forza di legge bypassando il parlamento. Non solo: il governo poteva anche ignorare le garanzie a difesa del cittadino previste in una serie di articoli della costituzione la cui validità poteva essere sospesa. Indipendentemente dall’uso che ne fecero i governi di Weimar ed Hitler stesso, ma anche i loro precursori nel XIX e XVIII secolo, questa sospensione eccezionale della norma nella riflessione di molti giuristi, e in particolare di Carl Schmitt, nonostante instauri effettivamente una zona di anomia, non è senza relazione con il diritto. Essa fa emergere «in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione» (Carl Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, trad. it. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 39). Detto elemento si pone al confine fra diritto e anomia proprio nella sua funzione di fondamento della norma a sua volta non fondato su una norma. Ciò però non elimina del tutto la sostanziale aporia dello stato di eccezione, che consiste nel fatto che con un dispositivo giuridico si aspira a mettere in mora il diritto (qui evidentemente interpretato in senso normativistico), lasciando via libera ad una prassi senza alcuna regola e che tuttavia pretende ancora di essere giuridica. Tale prassi isolerebbe allora una forza di legge senza legge, ovvero una vis obligandi sganciata dal criterio normativo che sta alla base dell’obbligazione, affinché, attraverso la creazione di una situazione normale oltre l’emergenza, la norma stessa possa trovare efficace applicazione. Questo tentativo di iscrivere una forza di legge senza legge, vale a dire una forza tout court, una violenza libera e sregolata, in un contesto giuridico appare, a un’analisi più approfondita, una mera finzione.

Esaminando l’origine dello stato di eccezione nel diritto romano, che lo contemplava nell’istituto del iustitium (una sospensione temporanea delle leggi e delle procedure vigenti, di fronte a un’emergenza politica o militare) Agamben giunge alla conclusione che in realtà in esso, mancando ogni modello legale di riferimento, non vi è più diritto e le azioni ivi commesse risultano giuridicamente inqualificabili: esse sono «meri fatti il cui apprezzamento, una volta scaduto il iustitium, dipenderà dalle circostanze» (p. 65). Si crea dunque con lo stato di eccezione uno spazio di violenza anomica che con il diritto «non ha alcuna articolazione sostanziale» (p. 111) e che oggi vale come espediente attraverso cui le democrazie tentano di emanciparsi dai vincoli legali per affermare un potere in grado di avere, a partire da una violenza vitalistica, presa diretta sulla vita. Ciò comporta, per coloro che sono oggetto di una tale prassi di dominio, la sottrazione di ogni strumento di difesa giuridica della propria persona. Il loro bìos, la loro vita avente dignità etica e civile, viene allora degradato a pura zoé, vita biologica, nuda vita, con la conseguente trasformazione del cittadino in materiale umano disponibile per l’agire autoreferenziale del potere. Ciò è quanto è avvenuto nei regimi totalitari, che hanno istituito i campi di concentramento, i quali rappresentano, con l’assoluta mortificazione del diritto e con il puro, estremo e violento dominio esercitato sulla persona, «lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola» (Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 188).

Ma le democrazie, appunto, non ne sono immuni. Già in Homo sacer Agamben aveva notato i sintomi di un processo di trasformazione del potere democratico in potere governamentale, cioè tendenzialmente promotore di un’esecutività affrancata dal diritto e caratterizzata da inquietanti venature biopolitiche. Ora, mostrando l’esempio delle ultime guerre che hanno coinvolto gli Stati Uniti e di una tra le più stridenti ingiustizie cui hanno dato luogo il campo di prigionia di Guantanamo, egli afferma che tale deriva si è ulteriormente consolidata e siamo in presenza di una fase storica in cui precisamente l’eccezione è diventata la regola. La conseguenza è che la democrazia così come era stata pensata dalla tradizione liberale viene svuotata di senso. Ebbene, è proprio l’idea di uno stato di eccezione, in quanto posto ancora in relazione con il diritto, a mascherare ideologicamente questo svuotamento, qualificando una prassi violenta e solo governamentale come ancora legale.

A fronte di ciò Agamben intende compiere un’opera di demistificazione, che, sulla scorta di Per una critica della violenza di Walter Benjamin, produca una rescissione del legame fittizio tra violenza e diritto, dimostrando, principalmente contro Schmitt, la possibilità teorica e pratica di una violenza pura e, accanto ad essa, di un diritto puro. La politica si porrebbe tra queste due forze: una violenza smascherata nella sua catastrofica distruttività, e un diritto cui sarebbe tolto ogni valore d’uso e quindi ogni possibilità di essere strumentalizzato. Quest’ultimo diventerebbe allora realmente una “porta per la giustizia”, in opposizione netta ad una violenza concepita per ciò che veramente è. Tale operazione di disincanto, effetto di una politicità non priva di una certa connotazione utopica, permetterebbe secondo Agamben di interrompere il funzionamento dell’odierna macchina del potere che sta conducendo l’Occidente verso una guerra civile mondiale.

Così conclude il nostro Autore. In sede critica non si può non rilevare il grande acume diagnostico che caratterizza il suo testo, cui è difficile non accordare il proprio consenso relativamente alla interpretazione dei più recenti fenomeni bellico-politici mediante il paradigma dell’eccezione. Inoltre, anche alla luce di alcuni suoi testi precedenti, il tema sviluppato da Agamben del rapporto biopolitico tra potere e vita appare estremamente ricco di implicazioni e teoreticamente fecondo. Per converso, la critica a Carl Schmitt, che prende in considerazione principalmente i testi degli anni Venti (La dittatura e Teologia politica) fa emergere la concezione essenzialmente normativistica del diritto da parte del filosofo italiano. Ciò, a parere di chi scrive, è una delle possibili cause dell’estrema indeterminatezza della pars construens finale del suo testo. L’eliminazione del legame violenza-diritto non può infatti che considerarsi un compito utopico, laddove parimenti il significato politico di un diritto confinato nella pura dimensione del Sollen non può che riguardare una città che non ha luogo. La dottrina schmittiana è al contrario sempre attenta alla fattualità concreta del compito dell’ordine politico. Pertanto, ha sì tentato di inscrivere la violenza nel diritto, correndo il rischio di esporsi a strumentalizzazioni, ma ciò ha fatto proprio per fuggire a un’opposta deriva, quella che all’intensificazione dell’aspetto normativo del diritto ha visto corrispondere il suo scivolamento nella morale e nella tirannia dei valori: modo esemplare con cui il diritto nega se stesso.

Viceversa, Schmitt ha più volte sottolineato come la violenza bellica avesse trovato una grande forma di limitazione e umanizzazione nell’impresa giuridica del razionalismo europeo, forse grazie proprio al riconoscimento di un nesso violenza-diritto in grado di porre il secondo nelle condizioni di agire in senso limitativo e lenitivo sulla prima (jus in bello). Di qui la possibilità della costruzione e della difesa della categoria di justus hostis: un tema che va esteso ben oltre il campo del diritto internazionale, perché la sua logica vale altrettanto in quello interno, sussistendo per entrambi la dimensione originariamente politica del rapporto amico-nemico e la funzione dell’ordine istituzionale orientata a contenere il conflitto dentro limiti accettabili. Adottando questo criterio schmittiano è possibile avanzare un’altra interpretazione di quegli stessi eventi del panorama politico contemporaneo che ha citato Agamben. Si tratta della previsione della crescente intensificazione e disumanizzazione della guerra da attribuirsi alla sempre più arrogante esibizione di una justa causa (libertà, diritti umani etc.) al fine di scavalcare gli ostacoli giuridico-politici che si frappongono alle varie strategie dei soggetti di politica interna e internazionale. Ciò andrebbe eventualmente affiancato al paradigma dell’eccezionalità di Agamben. Le due interpretazioni non si escludono necessariamente. Ma la prima ha il pregio di consentire sotto il profilo teoretico di mantenere le categorie di decisione e di nemico; ovvero un’ermeneutica forte del fatto politico, capace di opporre alla “macchina letale” del potere non solo la non-violenza di una petitio principii ma una prassi efficace e delle significative controforze.

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