martedì 6 dicembre 2022

La bestia, l'uomo, il dio. Il dialogo della salute di Carlo Michelstaedter

 "Il dialogo della salute" potrebbe anche intitolarsi: "La bestia, l'uomo, il dio". Infatti, descrive il passaggio attraverso queste tre tappe. La bestia nella sua innocenza ha bisogni, “desidera” e gode di tutto ciò che consente di continuare a vivere, e quindi gode del piacere del presente per poter nuovamente godere nel futuro, trovando in questa catena ininterrotta di bisogno-soddisfazione l’immediata in-consistenza della propria vita senza significato.

L'uomo si accorge, tramite la ragione, che il piacere-felicità può essere cercato. Però è lo stesso edonismo di chi invoca il piacere e fugge il dolore a dimostrare la sua vanità profonda, poiché non può che somigliare all'atto di "guardare nella propria ombra il proprio profilo": v'è piacere solo laddove vi è immediatezza, dove si gode nell'incoscienza di godere, perché, laddove si genera una mediazione consapevole, misteriosamente il piacere diventa "un iddio pudico" che "fugge da chi li invocò" che "ai piaceri è nemico" e che "fugge da chi lo cercò". Il piacere, cioè, è soprattutto una esperienza, è nemico della razionalità che riflette sui fini: esso non è e non può essere un valore, cioè l'oggetto di una ricerca, nella fattispecie un valore stabile e l'oggetto di una ricerca non infinita. Sono grandiose queste pagine che attraversano la tradizione dell'edonismo filosofico e ne confutano con grande forza i presupposti.

 Il terzo passaggio e quello verso il dio, ossia l'uomo-dio, colui che è persuaso, cioè l’individuo che ha trovato un senso convincente dell’esistenza, persuasivo come una verità che si impone improvvisamente, come una condizione di salute che distrugge ogni finzione e illumina ogni oscurità. La vita consacrata al piacere dissipa se stessa in un non-valore, ma la vita consta proprio di questa continua aspirazione a soddisfare bisogni, la vita è schopenhauerianamente volontà, la volontà di cose determinate che si fingono ricche e piene ma generano solamente un circolo vizioso, quello che subito si instaura tra il bisogno, la soddisfazione e un nuovo bisogno. Sembra che tale circolo oltre ad essere ripetitivo e nichilistico, sia nell'uomo peculiarmente artificiale e falso perché alla coscienza umana l'esperienza immediata della soddisfazione è negata alla radice, essendo invece concessa alla bestia incosciente. Che può fare, dunque, colui che si rende conto di un simile doppio vizio? Può rifiutare la vita, esprimendo così il desiderio di morte come riposo e negazione del bisogno … ma si tratta di una negazione che lascia permanere la coscienza. Si cerca la morte in quanto nella vita si ha l'insopportabile e lacerante coscienza dei bisogni insoddisfatti. Ma la morte non cancella solo il bisogno, ma anche la coscienza, lasciando permanere in essa un tragico senso di incompletezza. Il suicidio così diventa un pensiero con il quale ciascuno si costruisce uno sfondo falsamente consolatorio, a proprio uso e consumo di fronte alla frustrazione dell'esistenza. È una porta che ciascuno si lascia aperta ben sapendo che non conduce da nessuna parte, perché chi muore sa di non essere più, e sa che "il non-valore della morte non gli vale la speranza del valore". Anzi nell'invocazione della morte "parla la sua stessa debolezza che chiede per pietà un velo a schermo del dolore". Lì, dunque, si presenta un meccanismo paralogistico in cui è presente, pur dissimulata, "la volontà di continuare, la pietà commossa di se stessi". Che cosa resta da fare allora? Niente: nausea per la vita che è e che non è, disincanto totale per il mondo della volontà. Un niente, però, ricco di significati perché è la ribellione contro l'insignificanza del vivere. Questo fermarsi, questa rivolta immobile contro il divenire nichilistico delle cose è la via-non via della persuasione. "Allora non più invano spererai, non più sarai disperato, non più invano esulterai e non più avrai da lamentarti: ma il futuro non sarà più per te e nell'ultimo presente il tuo cuore consisterà [...] Niente da aspettare / niente da temere / niente da chiedere e tutto da dare / non andare / ma permanere / non c'è premio, non c'è posa / la vita è tutta una dura cosa". Il fermarsi contemplativo e ascetico di fronte alla durezza della vita è persuasione, il persuadersi di una verità scomoda e tremenda, che tuttavia è l'unica esistenzialmente autentica.

Michelstaedter nega che questa possa essere chiamata via, dal momento che consiste nella negazione di ogni via e di ogni andare che è sempre anche un inutile vagare. Nondimeno essa pur sempre rimane via in quanto implica un passaggio, una presa di coscienza, uno sforzo che dovrebbe condurre dalla naturale vita inautentica e dalla vana ricerca del piacere e della felicità, a una condizione diversa e superiore. La condizione di partenza è l’inconsistente e bramosa ricerca del futuro, l’attaccamento irrazionale alla vita (la filopsychia nell’accezione platonica) che Michelstaedter chiama "rettorica", perché a somiglianza dell'antica arte oratoria costituisce una trama, l'intreccio di condizioni, fatti, eventi, desideri, pulsioni che nascondono la reale consistenza della vita, come la retorica è una trama di argomenti, parole, immagini, figure che nascondono la reale consistenza della verità. Siccome la retorica è condizione di partenza di tutti, una sorta di generale Verfallen (scadimento) esistenziale, si presuppone che persuadersi della verità, cioè anti-retoricamente consistere, implichi appunto il percorrere una faticosa strada. Malgrado la sua dimensione puntuale - ci si persuade quando si smette di volere il futuro e di diluire l'esistenza nei diversi momenti della sua dialettica del desiderio - la persuasione è una meta, e come tale oggetto di una peculiare aspirazione. E questa è precisamente l'utopia michelstaedteriana, un'utopia escatologica che si intuisce nella significativa espressione che descrive la persuasione come "l'ultimo presente" in cui (si noti il verbo al futuro) "il cuore consisterà". La persuasione è, quindi, il desiderio di non più vanamente desiderare, la fame di non avere più fame, la speranza di non dover più sperare, cioè di un punto fermo in cui "la volontà si sarà raccolta e avrà fatto di se stessa fiamma", bruciando i desideri retorici, l’ansia del piacere, la vita sempre in bilico tra essere e non essere che costituisce il "caso mortale della nostra nascita".

 Allora c'è desiderio e desiderio, c'è speranza e speranza, c'è volontà e volontà: c'è il desiderio retorico del piacere vano, la speranza di ottenere le cose determinate che esprimono il non senso del vivere e la volontà che si rapporta gli oggetti per ribadire il circolo vizioso del bisogno, ma c'è anche il desiderio di autenticità, la volontà di verità, la speranza di una definitività che smetta di rimandare ad altro. Chiamerei la prima fattispecie "desiderio", per indicare una brama morbosa e inconcludente, del tutto naturalistica e quasi animale, un eros inesausto che alberga nella pulsione verso il piacere e non domanda il significato; la categoria di "speranza", credo viceversa che possa propriamente rendere la qualità ultima, dunque escatologica della tensione ascetica verso la verità nuda, disincantata e abissale a cui Michelstaedter si riferisce. Egli per nulla indulge alla speranza volgare nella folle illusione di una pienezza felice, ben sapendo che la vita si decide dove nulla di ciò che si vuole accade, dove però tutto è vero e il nuomeno di sé e del modo si spalanca violento e possente a chi ha la forza di guardarlo. Solo questo può accadere di buono, perciò io ancora questo chiamerei speranza e con un certo azzardo anche felicità.

 Lo stesso filosofo mette in bocca a uno degli interlocutori del dialogo, Nino, le seguenti parole: "Perché dare agli uomini questo desiderio senza speranza, questa fame che non si può soddisfare?", alludendo alla "nebbia maledetta" che identifica il fluire retorico delle cose nelle cose che reciprocamente si bramano e reciprocamente si annullano. Questo status naturale è oggetto di una ribellione utopica e divina: ad esso si oppone l’attesa demistificante di totalità, di unità e di immobilità che rappresenta il centro intimo e profondo, la domanda radicale del filosofo. Il rifiuto del "desiderio" e la logica della "speranza", seppur sui generis, inducono a ribaltare l'immagine usuale di Michelstaedter filosofo pessimista, non eludendo per questo la tragicità del suo disilluso realismo e il moto di profondo disagio razionale che lo ha generato.

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