mercoledì 24 novembre 2021

Pedro Páramo

 

Juan Rulfo, Pedro Páramo, tr. it, di P. Collo, Einaudi, Torino 2004, e. 15.00

“- Sarebbe stato meglio che non fossi uscito dal tuo paese. Cosa sei venuto a fare qui?

- Te l’ho già detto all’inizio. Sono venuto a cercare Pedro Páramo, che a quanto pare era mio padre. Mi ha portato qui l’illusione.

- L’illusione? Costa cara”.

Inseguire un’illusione non significa farsi paladini di qualche ideale, o di una potente convinzione morale, pur difficile da realizzare. L’illusione è proprio un’evanescenza. Per Juan Preciado, cresciuto dalla madre, Pedro è un’illusione come la strada che porta a Comala, il paterno paese delle illusioni.

Giunto a Comala, nel Messico nord-occidentale, non vedrà nessuno ma ascolterà tutto. Comala è un paese di morti che parlano e mormorano. Essi raccontano le loro storie. La storia di come la loro vita è passata e va, di come sono arrivati tutti in questo Sheol, sospesi in una caligine di particelle e di vite consunte.

Giunto a Comala, Juan è risucchiato dalla non-vita dei morti.

Il padre è un notabile del paese, latifondista e mafioso, violento e violentatore. La relazione con la madre è stata un piccolo, insignificante episodio…nulla ha contato nella sua vita Dolores Preciado che, in punto di morte, gli invia il figlio “a fargli pagare l’oblio in cui li aveva lasciati”.

I crimini di Páramo si intrecciano con le storie di Miguél, l’unico figlio riconosciuto, di Abundio, l’altro abbandonato, di Dorotea la serva compiacente e trafitta dal dolore di un altro figlio mai avuto.

E poi c’è il suo struggente amore per l’ultima moglie Susana. Il criminale ama ma, per nemesi imperscrutabile, lei si strugge nel ricordo di Florencio, passato e morto, e ne muore, lasciando a Pedro solo il rancore e la vendetta contro coloro che non capiscono, contro il paese, contro tutti.

E poi c’è Fulgor Sedano, lo scaltro amministratore, ucciso dai rivoluzionari; la coppia incestuosa con la sorella che si disfa e consuma nella putrefazione; doña Eduviges, locandiera amica della madre e caronte che traghetta Juan nel regno dei morti che mormorano.

E tante altre storie scritte per frammenti, accennati e ripresi. Capitoletti che sono sopravvissuti ai tagli del loro Autore. Frammenti di scrittura e fili difficili da annodare. Molteplici accenni, molteplici allusioni, del tutto coerenti con i frammenti di morte che attraversano il passato e il futuro per entrare nel presente indifferente della storia di Comala.

 Juan stesso finisce nel tritacarne della vita-morte di Comala, dove il mondo si sdoppia senza trascendersi. Egli compie il cammino dalla vita alla non vita. Passa dall’aldiquà all’aldilà assente su cui nulla può il Dio morto della Chiesa e dei preti.

Padre Rentería, l’ultimo personaggio di cui voglio accennare, è il becchino di Dio: esponente di una Chiesa mondana, simoniaco per abitudine e debolezza, è il testimone finale di un’assenza. Questo mondo, nato dalla fantasia potente ed ermetica di Juan Rulfo sembrerebbe la realizzazione di una teologia inversa, come quella di Mainländer che, sollevando il sudario della creazione, vi scopre il cadavere di Dio. A Comala sono tutti morti, ma vivono la morte di Dio, come membra ancora verminose e dunque mobili della sua putrefazione. Non c’è alcun inferno lì, ma un purgatorio perenne, la perenne e disperata indecisione di chi vive continuamente e indefinitamente la sua morte.

Non c’è vendetta più grande che il grande scrittore messicano abbia potuto consumare contro il “cristero” che aveva ucciso suo padre: scrivere il monumento dell’ateismo perfetto, un ateismo che vive di sottrazioni, come dice Ernesto Franco. O meglio di spazi bianchi. Di differenza. Comala è letterariamente uno spazio bianco, un vuoto: il vuoto tra le parole, la differenza che si situa in mezzo tra il nulla della negazione e la pienezza di ciò che è negato. È lo Sheol che non riesce ad essere né vita, né morte; né silenzio, né parola; né essere né nulla. Comala è questo Sheol della differenza, dove solo una cosa è negata recisamente, senza appello e senza ambiguità: la speranza.

Pedro morente, si alza, fa pochi passi: “E dopo pochi passi cadde, supplicando dentro di sé, ma senza dire una parola. Diede un colpo secco contro la terra e si sgretolò come se fosse un mucchio di pietre”.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.



martedì 9 novembre 2021

Romantici nichilismi


 Mario Bernardi Guardi, La morte addosso, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2021, E. 14

Nel proliferare contemporaneo di romanzi storici si può trovare di tutto e non tutto di qualità. Per scrivere romanzi storici bisogna avere senso storico, merce che in Europa, complici le numerose malattie culturali provenienti dal mondo anglosassone, risulta sempre più rara. Nemesi luminosa: proprio quel mondo, nelle sue produzioni migliori, viene valorizzato da questo geniale testo di Mario Bernardi Guardi. Vi si tratta della vicenda di un protagonista del soggiorno di Villa Diodati a Ginevra, uno degli episodi cruciali del romanticismo inglese, con la famosa tenzone letteraria sorta nella compagnia di George Gordon Byron, Mary e Percy Shelley, John Polidori e Claire Clermont. Chi scriverà la storia più intrigante di spettri, fantasmi, mistero e orrori di un’umanità da sviscerare nei suoi aspetti più profondi e perciò anche più oscuri? La notte del 16 giugno 1816 fu indetta questa sfida ai cieli e agli inferni letterari, che fu poi al centro di numerose leggende, leggende gotiche, ça va sans dire, ma anche di opere di altissimo livello e di uguale notorietà, anzitutto il Frankenstein di Mary Shelley, ma poi anche The vampire di Polidori e La sepoltura di George Byron.

 Bernardi Guardi assume su tale vicenda il punto di vista originale e interessante della tragedia di John Polidori, medico italiano e segretario-amante di Byron, che, a stare ai resoconti di polizia, si suiciderà nell’agosto 1821, a qualche anno dal soggiorno svizzero e dal suo successivo, brusco licenziamento. La triste e tormentata traversia del medico venticinquenne diviene argomento di discussione, recriminazione, rivisitazione critica e ripresa polemica da parte dei suoi amici. Lo sfondo è quello della notte del mistero e delle relazioni morbose e appassionate che si erano allacciate nelle stanze di villa Diodati, nell'estate senza sole del 1816, l’anno dell’eruzione del vulcano Tambora. La morte addosso ne presenta una sinfonia gotica a più voci: il padre di John che rivede nel legame del figlio con Byron la sua altrettanto tormentata vicenda di segretario di Vittorio Alfieri; Mary Shelley, fragile e idealista, per un momento amante, oltre che confidente, di John; Claire Clermont, avvelenata concubina di Byron, che decostruisce e disincanta i romanticismi della sorellastra Mary; Byron stesso che avanza dubbi sulle sue ex amanti divenute amiche di John, ma rimane ancorato alle sicurezze sullo stile ineguagliabile della propria vita e del proprio genio … e infine John e i suoi diari, confessione di colui che si offre quale olocausto per le sue stesse trasgressioni il cui peso non sa reggere, esploratore e al tempo stesso vittima dei sortilegi esistenziali praticati dai suoi sodali.

La bellezza delle trame oscure evocate da Bernardi Guardi attorno a John e alla sua fragilità non risiede solo nel loro milieu gotico, fatto di vampiri assetati di sangue e mostri partoriti dalle più ardite fantasie prometeiche e scientifico/religiose, ricostruito perfettamente pur a rapide e sparse pennellate, ma nell’allusione alla sua radice romantica. Sono i miti del romanticismo a diventare vita e tragedia nelle pagine de La morte addosso, i miti di una natura vivente e animata da misteriose presenze spirituali, del genio indagatore dell’oltre e dell’ infinito, dell’insoddisfatto Streben di superare se stessi, dell’isterica insoddisfazione di chi vede l’infinito sempre dissolversi fra mani e piedi, della bava maleodorante e nichilistica che lascia l’odio per ogni ordine e armonia della vita, considerati acerrimi nemici della vaga grandezza di cui si sente bruciante la nostalgia… L’abbandono definitivo del bello per il sublime, senza alcuna legge morale a dominare la sua sproporzione, che trova nella sproporzione del desiderio sessuale il suo simbolo più trasgressivo, trasforma le relazioni, le impregna di sé, e genera la grande comunità degli egoisti (l’Unico non avrebbe certo sfigurato nella compagnia). Polidori ne rimane vittima, egoista incompiuto, le cui esperienze trasgressive non sono accompagnate dal cinico distacco di una superiore ma disumana libertà, come quella del suo mentore e padrone Byron.

Questo romanticismo è la modernità in statu nascenti. Tutto vi è contenuto: l’illuministica fiducia nel progresso della scienza e l’oscuro presentimento dei suoi esiti distruttivi; il libertinismo di ascendenza sadiana e l’amoralismo antiegualitario del genio; la distruzione delle strutture mentali ed etiche della tradizione cristiana e il vagheggiamento di un'età dell’oro selvaggia e incontaminata; l’idea di una civiltà libera e di una libertà politica in cui il mito dell’uguaglianza e dell’antiautoritarismo convive con la dittatura del risvegliati e degli illuminati … E il tutto converge nella sintesi sovrumanista della volontà di potenza negatrice di Dio e del mondo e incarcerata tuttavia nella prigione senza muri dell’Io. Qui troverà la morte Polidori, e la sua morte potrebbe divenire immagine della morte di un’intera civiltà, il cui luogo di senescenza furono le profondità anarchiche dell’inconscio emotivo, romanticamente devote al Lustprinzip, appena illuminate dalla luce fioca dell’utopia e del libero amore, seduttiva come un’atmosfera, intrigante come un chiaroscuro, promettente come una carezza, crudele come un coltello che trafigge le carni e le illusioni.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

martedì 2 novembre 2021

Destra, liberalismo e fascismo

 

Una risposta a Carlo Gambescia:

http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2021/11/massimo-maraviglia-un-non-conformista.html

 Ringrazio l’amico Carlo Gambescia che dedica una così attenta critica a un mio scritto e con essa lo valorizza, peraltro sintetizzando molto bene, da vero studioso delle idee, i tratti salienti delle mie opzioni politiche e onorandomi con una locuzione che mi piacerebbe veramente fosse corrispondente alla realtà: “Non conformista degli anni Venti del XXI secolo”. La discussione con Carlo è sempre feconda, anzitutto per la natura sociologica del suo approccio al dibattito pubblico e poi per il suo realismo politico, che si trova ad essere al tempo stesso una componente essenziale del pensiero reazionario e un pilastro di quello liberale. Entrambi poi hanno i loro cieli utopici da guadagnare: uno la sua età dell’oro, eroica, tradizionale, sacrale; l’altro la sua società matura, libera dove l’individuo si autogoverna sin dove può e dove per il resto ci si affida alla santità del nomos basileus e alla razionalità non costruttivista delle élites. Dove finisce la realtà, dove inizia l’utopia? Questo è il nostro terreno di incontro e di scontro.

È un territorio molto vasto, dove si incontrano numerosissimi problemi sociologici, filosofici e storici. Giocoforza bisogna scegliere. Ed io voglio giocare questa partita in casa dell’avversario, quindi mi voglio concentrare sulla questione della libertà. Un teorico del conservatorismo sionista, Yoram Hazony ha argomentato molto bene dicendo che è falso dire che la libertà sia un problema individuale. Esiste un’empatia della libertà, tale per cui non si gode della propria se tutti gli altri individui con cui abbiamo legami portatori di senso parimenti non ne godono. D’altronde la qualità del legame non può fiorire nella sua pienezza senza la libertà complessiva del gruppo. Non posso sentirmi libero se non sono liberi i membri della mia famiglia, del mio clan, della mia tribù, della mia nazione e infine se famiglia, clan, tribù, nazione non sono liberi; la schiavitù singola, infatti, è diversa dalla schiavitù del gruppo, perché nella schiavitù del gruppo ciascuno soffre per la propria schiavitù e insieme per quella degli altri. Parimenti la schiavitù collettiva impedisce quelle forme dell’agire comune che appartengono alla natura umana come le individuali, che pure in talune occasioni di oppressione comunitaria ne risentono pesantemente. Oggi viviamo nella condizione per la quale la difesa dei diritti individuali è ritenuta sufficiente per esaurire la sfera della libertà, solo perché la negazione della libertà individuale colpisce in modo più diretto ed evidente, anche se non più profondo di quella collettiva.

La grande disputa tra Gentile e Croce come noto riguardava anche simili tematiche. Ma come mai, anche Gentile si poteva ritenere un liberale? Il liberalismo di Gentile è quello della libertà dello spirito, che genera lo Stato dentro di sé, in interiore homine: “Ogni individuo agisce politicamente, è uomo di Stato, e reca in cuore lo Stato, è lo Stato. Ciascuno a modo suo, ma ciascuno tuttavia concorrendo in uno Stato comune, in virtù dell’universalità che è propria della sua stessa personalità…Lo Stato, perciò non è inter homines, ma in interiore homine”. La chiave per capire il senso dello Stato è l’universalità inerente alla personalità, un’universalità che nasce da dentro e si realizza fuori, nell’agire politico concreto che non può prescindere dalla propria comunità, pena lo scadere in una nichilistica autoreferenzialità. Si deve costruire così l’equilibrio tra il singolo e il tutto, un singolo che nel tutto si realizza e che nondimeno il tutto mantiene nella sua ragion d’essere più autentica. Lo Stato liberale ottocentesco assolveva a tale compito? No, perché, almeno nel caso italiano, il Risorgimento incompiuto lascia fuori dallo sviluppo etico la nazione e lo riserva a una élite di privilegiati economici. Il fascismo vorrebbe dare compimento al Risorgimento con una dose massiccia di antidoto, cioè di libertà nazionale, cioè di potenza e grandezza. Fatalmente l’individuo ne rimane schiacciato. Realizzato nell’Italia imperiale, l’uomo nuovo non può più affermarsi contro lo Stato. Ma se non può farlo, la sua integrazione nello Stato smetterà di essere autentica, ossia libera, e finirà nel 1943, al primo rovescio.

Alla fine del “liberalismo fascista” di Gentile sorge in Italia il liberalismo anglosassone, cioè individuale e procedurale. L’individuo si riprende il palcoscenico e, seguendo la lezione inglese, per prima cosa attacca lo Stato. Come? Secondo la strategia anarchica di sempre: depotenziandone la potestas mediante la trasformazione degli atti di comando personali in complesse procedure burocratiche, dove si esercita l’inesausta fantasia del peso e del contrappeso e l’antica vocazione alla dilazione dibattimentale. Rinasce insomma con vigore l’ingegneria costituzionale e la clasa discutidora. Con essa si ambisce alla neutralizzazione totale del politico e del conflitto: è pronto il regime degli ultracorpi che alla fine vince anche sul più agguerrito avversario bolscevico. Quest’ultimo aveva già immaginato e promosso l’utopia delle cose che si governano da sé, ma aveva pensato in modo insufficiente l’estinzione dello Stato. Il liberalismo invece offre la società in sacrificio allo Stato per placare definitivamente la sua ira. Lo Stato assorbirà la società fino ad assumere come unica ragione di esistenza la sua vocazione economica. Lo Stato-azienda fagociterà allora la società, diventando esso stesso società, cioè attività economica. Torna dunque l’imperativo di Guizot: arricchitevi! A scuola e nell’università si ragiona per crediti. Gli ospedali diventano aziende sanitarie. Banchieri e industriali prima diventano autonomi dai governi poi vanno al governo. Infine, la libertà politica viene totalmente assorbita nell’unica libertà pensabile in questa logica, la libertà d’impresa.

Ma siccome con la sola prosa non si vive e questo grande apparato manca sostanzialmente  di legittimazione, cioè di un perché, di uno scopo … siccome per tale motivo esso è soggetto alla grande malattia nichilista che finirebbe per eroderne le fondamenta e disgregarne il tessuto … siccome tutto ciò urge e impone la ricerca di un rimedio … allora arriva il soccorso rosso dei diritti …  si rispolverano antichi dogmi, si ripropongono antiche e mai sopite utopie, che del resto fanno parte dell’album di famiglia liberale.. si mescolano Thomas More, Oliver Cromwell, con Fourier e Marx e si propone una nuova formula accattivante per la società, il godimento universale nella proteiforme veste della pace, della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Ma è chiaro che qui la vittima è proprio la libertà. Lo ha detto il nostro Ford, recita il funzionario del Brave New World: bisognava scegliere e si è scelto di essere felici, non si può al tempo stesso essere liberi. O meglio l’unica libertà può essere quella di godere e contribuire al sistema del godimento … il resto è … vietato … in forza di legge … direbbe Agamben. Ma Agamben non dice che la sua sinistra famiglia politica, convolata a nozze con quella liberale, è la vessillifera e la grande co-protagonista di tale “democrazia governamentale”.

Ecco, come si vede la libertà è una questione serissima. Direi anzi che è il tema fondamentale del futuro. E l’equilibrio tra la sua dimensione individuale, sociale e politica non si risolve con antiche formule. Direi nemmeno con un anticostruttivismo radicale che a mio parere sottostà un’interna contraddizione. Chi lascia fare e lascia passare? Chi lascia fare e lascia passare è il sovrano. E può decidere che cosa lasciar fare e passare. Ma se vogliamo che nessuno decida, tutto si fa e passa. Ma ciò che si fa e passa, si fa e passa proprio perché qualcuno lo concede. Qualcuno, fosse anche l’impossibile agorà di tutti gli uomini di tutti i tempi e i luoghi, qualcuno l’ha concesso. Dialettica della libertà: lasciare che si esprima una libertà significa sottomettersi alla potenza che quella libertà esprime e ritirarsi dal limite che era in nostro potere opporle, oppure cadere di fronte alla sua irresistibile violenza. Chi concede la libertà è colui che è veramente libero. Chi vince di fronte al limite, è colui che afferma la sua forza, ossia è ancora il soggetto autenticamente libero. Entrambi sono l’evoliano “individuo assoluto”.

Ma torniamo al concreto. Ci può essere una sfera che l’individuo concreto, il membro della società politica, il cittadino insomma, può non veder toccata? Ci può essere una soglia che il potere non può scavalcare? Questo è infatti il liberalismo concreto, quello che porta con sé un’evidenza difficilmente scavalcabile. La risposta è sì e no, dipende dal punto in cui uno si colloca. È relativamente facile capire quali sono gli elementi nevralgici di un sistema politico e sociale, quali sono i crinali del conflitto e le crepe infilandosi nelle quali l’edificio può cominciare a traballare. Ebbene, la prudenza vuole che ci si tenga lontano da quei luoghi e in tempi normali si potrà stare relativamente tranquilli. Non fare l’estremista, intimava mio padre con la saggezza di chi sa come cavarsela nella vita. Con estremista egli intendeva l’ostinato rompicoglioni che continuamente insiste nel mettere alla prova con argomentazioni e prassi radicali le concessioni di libertà offerte dentro i confini del senso comune. La compagnia telefonica ti dà i minuti illimitati, ma ti intima di non approfittarne. C’è chi invece prende la logica come una clava e pretende dall’istituzione compassionevomente dominante una coerenza che arrivi fino al disprezzo di sé. Così, adeguatamente stimolato il suo sistema immunitario, cioè l’autodifesa liberale che blinda la democrazia, reagisce e si comporta come tutti gli altri, mettendo in moto i suoi anticorpi killer.

Allora contro tale possibilità si può ancora far valere la logica liberale. Contro le degenerazioni del liberalismo vale solo l’appello al liberalismo? L’amico Carlo, se con pazienza mi seguisse sin qui, amichevolmente e cavallerescamente ammettendo e non concedendo tutto il ragionamento fatto sin qui, direbbe di sì. Io dico di no. Io dico con Feyerabend: “Tutto va bene”, per metodo, per definizione… e qui il diligente inquisitore tornerebbe a vedere l’inizio del fascismo.

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