Una risposta a Carlo Gambescia:
È un territorio molto vasto, dove
si incontrano numerosissimi problemi sociologici, filosofici e storici.
Giocoforza bisogna scegliere. Ed io voglio giocare questa partita in casa dell’avversario,
quindi mi voglio concentrare sulla questione della libertà. Un teorico
del conservatorismo sionista, Yoram Hazony ha argomentato molto bene dicendo
che è falso dire che la libertà sia un problema individuale. Esiste un’empatia
della libertà, tale per cui non si gode della propria se tutti gli altri individui
con cui abbiamo legami portatori di senso parimenti non ne godono. D’altronde
la qualità del legame non può fiorire nella sua pienezza senza la libertà
complessiva del gruppo. Non posso sentirmi libero se non sono liberi i membri
della mia famiglia, del mio clan, della mia tribù, della mia nazione e infine
se famiglia, clan, tribù, nazione non sono liberi; la schiavitù singola,
infatti, è diversa dalla schiavitù del gruppo, perché nella schiavitù del
gruppo ciascuno soffre per la propria schiavitù e insieme per quella degli altri.
Parimenti la schiavitù collettiva impedisce quelle forme dell’agire comune che
appartengono alla natura umana come le individuali, che pure in talune
occasioni di oppressione comunitaria ne risentono pesantemente. Oggi viviamo
nella condizione per la quale la difesa dei diritti individuali è ritenuta
sufficiente per esaurire la sfera della libertà, solo perché la negazione della
libertà individuale colpisce in modo più diretto ed evidente, anche se non più
profondo di quella collettiva.
La grande disputa tra Gentile e
Croce come noto riguardava anche simili tematiche. Ma come mai, anche Gentile
si poteva ritenere un liberale? Il liberalismo di Gentile è quello della
libertà dello spirito, che genera lo Stato dentro di sé, in interiore homine:
“Ogni individuo agisce politicamente, è uomo di Stato, e reca in cuore lo
Stato, è lo Stato. Ciascuno a modo suo, ma ciascuno tuttavia concorrendo in uno
Stato comune, in virtù dell’universalità che è propria della sua stessa
personalità…Lo Stato, perciò non è inter homines, ma in interiore
homine”. La chiave per capire il senso dello Stato è l’universalità
inerente alla personalità, un’universalità che nasce da dentro e si
realizza fuori, nell’agire politico concreto che non può prescindere dalla
propria comunità, pena lo scadere in una nichilistica autoreferenzialità. Si
deve costruire così l’equilibrio tra il singolo e il tutto, un singolo che nel
tutto si realizza e che nondimeno il tutto mantiene nella sua ragion d’essere più
autentica. Lo Stato liberale ottocentesco assolveva a tale compito? No, perché,
almeno nel caso italiano, il Risorgimento incompiuto lascia fuori dallo
sviluppo etico la nazione e lo riserva a una élite di privilegiati
economici. Il fascismo vorrebbe dare compimento al Risorgimento con una dose
massiccia di antidoto, cioè di libertà nazionale, cioè di potenza e grandezza.
Fatalmente l’individuo ne rimane schiacciato. Realizzato nell’Italia imperiale,
l’uomo nuovo non può più affermarsi contro lo Stato. Ma se non può farlo, la
sua integrazione nello Stato smetterà di essere autentica, ossia libera, e
finirà nel 1943, al primo rovescio.
Alla fine del “liberalismo
fascista” di Gentile sorge in Italia il liberalismo anglosassone, cioè
individuale e procedurale. L’individuo si riprende il palcoscenico e, seguendo
la lezione inglese, per prima cosa attacca lo Stato. Come? Secondo la strategia
anarchica di sempre: depotenziandone la potestas mediante la
trasformazione degli atti di comando personali in complesse procedure burocratiche,
dove si esercita l’inesausta fantasia del peso e del contrappeso e l’antica
vocazione alla dilazione dibattimentale. Rinasce insomma con vigore l’ingegneria
costituzionale e la clasa discutidora. Con essa si ambisce alla
neutralizzazione totale del politico e del conflitto: è pronto il regime degli
ultracorpi che alla fine vince anche sul più agguerrito avversario bolscevico.
Quest’ultimo aveva già immaginato e promosso l’utopia delle cose che si
governano da sé, ma aveva pensato in modo insufficiente l’estinzione dello
Stato. Il liberalismo invece offre la società in sacrificio allo Stato per
placare definitivamente la sua ira. Lo Stato assorbirà la società fino ad
assumere come unica ragione di esistenza la sua vocazione economica. Lo Stato-azienda
fagociterà allora la società, diventando esso stesso società, cioè attività
economica. Torna dunque l’imperativo di Guizot: arricchitevi! A scuola e nell’università
si ragiona per crediti. Gli ospedali diventano aziende sanitarie. Banchieri e
industriali prima diventano autonomi dai governi poi vanno al governo. Infine,
la libertà politica viene totalmente assorbita nell’unica libertà pensabile in
questa logica, la libertà d’impresa.
Ma siccome con la sola prosa non
si vive e questo grande apparato manca sostanzialmente di legittimazione, cioè di un perché, di uno
scopo … siccome per tale motivo esso è soggetto alla grande malattia nichilista
che finirebbe per eroderne le fondamenta e disgregarne il tessuto … siccome
tutto ciò urge e impone la ricerca di un rimedio … allora arriva il soccorso
rosso dei diritti … si rispolverano
antichi dogmi, si ripropongono antiche e mai sopite utopie, che del resto fanno
parte dell’album di famiglia liberale.. si mescolano Thomas More, Oliver
Cromwell, con Fourier e Marx e si propone una nuova formula accattivante per la
società, il godimento universale nella proteiforme veste della pace, della
libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Ma è chiaro che qui la vittima è
proprio la libertà. Lo ha detto il nostro Ford, recita il funzionario del Brave
New World: bisognava scegliere e si è scelto di essere felici, non si può
al tempo stesso essere liberi. O meglio l’unica libertà può essere quella di
godere e contribuire al sistema del godimento … il resto è … vietato … in forza
di legge … direbbe Agamben. Ma Agamben non dice che la sua sinistra famiglia
politica, convolata a nozze con quella liberale, è la vessillifera e la grande
co-protagonista di tale “democrazia governamentale”.
Ecco, come si vede la libertà è
una questione serissima. Direi anzi che è il tema fondamentale del futuro. E l’equilibrio
tra la sua dimensione individuale, sociale e politica non si risolve con
antiche formule. Direi nemmeno con un anticostruttivismo radicale che a mio
parere sottostà un’interna contraddizione. Chi lascia fare e lascia
passare? Chi lascia fare e lascia passare è il sovrano. E può decidere che cosa
lasciar fare e passare. Ma se vogliamo che nessuno decida, tutto si fa e passa.
Ma ciò che si fa e passa, si fa e passa proprio perché qualcuno lo concede.
Qualcuno, fosse anche l’impossibile agorà di tutti gli uomini di tutti i tempi
e i luoghi, qualcuno l’ha concesso. Dialettica della libertà: lasciare che si
esprima una libertà significa sottomettersi alla potenza che quella libertà
esprime e ritirarsi dal limite che era in nostro potere opporle, oppure cadere
di fronte alla sua irresistibile violenza. Chi concede la libertà è colui che è
veramente libero. Chi vince di fronte al limite, è colui che afferma la sua
forza, ossia è ancora il soggetto autenticamente libero. Entrambi sono l’evoliano
“individuo assoluto”.
Ma torniamo al concreto. Ci può
essere una sfera che l’individuo concreto, il membro della società politica, il
cittadino insomma, può non veder toccata? Ci può essere una soglia che il
potere non può scavalcare? Questo è infatti il liberalismo concreto, quello che
porta con sé un’evidenza difficilmente scavalcabile. La risposta è sì e no,
dipende dal punto in cui uno si colloca. È relativamente facile capire quali
sono gli elementi nevralgici di un sistema politico e sociale, quali sono i
crinali del conflitto e le crepe infilandosi nelle quali l’edificio può
cominciare a traballare. Ebbene, la prudenza vuole che ci si tenga lontano da
quei luoghi e in tempi normali si potrà stare relativamente tranquilli. Non
fare l’estremista, intimava mio padre con la saggezza di chi sa come cavarsela
nella vita. Con estremista egli intendeva l’ostinato rompicoglioni che
continuamente insiste nel mettere alla prova con argomentazioni e prassi
radicali le concessioni di libertà offerte dentro i confini del senso comune. La
compagnia telefonica ti dà i minuti illimitati, ma ti intima di non
approfittarne. C’è chi invece prende la logica come una clava e pretende dall’istituzione
compassionevomente dominante una coerenza che arrivi fino al disprezzo di sé.
Così, adeguatamente stimolato il suo sistema immunitario, cioè l’autodifesa
liberale che blinda la democrazia, reagisce e si comporta come tutti gli altri,
mettendo in moto i suoi anticorpi killer.
Allora contro tale possibilità si
può ancora far valere la logica liberale. Contro le degenerazioni del
liberalismo vale solo l’appello al liberalismo? L’amico Carlo, se con pazienza mi
seguisse sin qui, amichevolmente e cavallerescamente ammettendo e non
concedendo tutto il ragionamento fatto sin qui, direbbe di sì. Io dico di no.
Io dico con Feyerabend: “Tutto va bene”, per metodo, per definizione… e qui il
diligente inquisitore tornerebbe a vedere l’inizio del fascismo.
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