martedì 21 gennaio 2020

Il fascino del fascismo.



Una conferenza di Tarmo Kunnas,  venerdì 13 ottobre 2017, Spazio Ritter, Milano
(appunti non rivisti dall’Autore e note di Massimo Maraviglia)

Perché la scelta di questo tema? Da ventiquattro anni, cioè da quando ho iniziato gli studi sul fascismo, ricerco un tema interessante e non studiato. L’idea generale e la vulgata giornalistica di ventiquattro anni fa era che nessun uomo intelligente avesse sostenuto il fascismo, esclusi Knut Hamsun(1859-1952)[1], Ezra Pound (1885-1972)[2] e Louis-Ferdinand Céline (1864-1961)[3]. Il primo era, secondo la medesima vulgata, un vecchio demente, il secondo era completamente pazzo, il terzo era antipatico e corrotto. La scelta del mio tema per la tesi da cui era venuto il testo La tentazione fascista era nata da un’opposizione discreta tale mentalità. Allora nella mia famiglia si era tutti patrioti e anticomunisti, ma nella scelta del tema e nel suo sviluppo la curiosità intellettuale ha prevalso sulle opinioni, sui pregiudizi e le storie personali.
Il fascino del fascismo (tr. it. di Delfina Sessa, Settimo Sigillo, Roma 2017) continua tale filone di studi e costituisce una sintesi che cerca di affrontare le affinità e le complicità tra ottanta intellettuali che avevano aderito al fascismo, volendo rispettare, tuttavia, le specificità individuali. In esso voglio prendere in considerazione il contesto culturale, intellettuale, politico che, per esempio, è molto diverso in Italia, rispetto alla Germania e agli altri paesi dove il fascismo si è presentato o ha vinto. Quindi tra questi intellettuali, da una parte, c’è affinità, dall’altra, diversità. Per esempio sul piano religioso vi sono cristiani luterani, cattolici, ortodossi, pagani eccetera. D’altro canto, di là da tali differenze, nessuno è tuttavia radicalmente ateo e ciò costituisce un’affinità profonda. C’è questa affinità spiritualista di fondo nella diversità di ciascuno. Negli intellettuali, insomma, c’è diversità di orientamento, c’è una certa ambiguità, ma anche un retroterra comune. L’impegno politico era, però, per tutti paragonabile a un’infatuazione o a un innamoramento. In alcuni si trattava di un amore a distanza per i capi (Hitler, Mussolini e gli altri), che viveva un’estasi quasi religiosa senza tuttavia ambire ad alcuna ufficialità. Per altri è stato un trasporto calcolato come una sorta di matrimonio di convenienza. A volte le convenzioni e la paura impedirono agli intellettuali di troncare il rapporto, altre volte essi rimasero fedeli all’amico, al camerata, a colui che era stato compagno di strada, oppure a loro stessi. Vi furono fascisti e nazisti veri e propri che speravano nell’espansione armata e nella vittoria definitiva del fascismo, altri più tiepidi e critici nei confronti delle sue manifestazioni estreme. Alcuni all’inizio non pensavano che il fascismo e il nazismo fossero merce di esportazione. Così furono alcuni intellettuali finlandesi.  Molti intellettuali avevano delle simpatie ma non osavano aderire (si pensi all’italiano Prezzolini[4]). Altri ancora ammiravano il fascismo e nazismo come se fosse stato un’opera d’arte (Brasillach[5], D’Annunzio[6], Marinetti[7] e altri), molti ritenevano che sia il fascismo sia il nazismo fossero indispensabili per la sopravvivenza della civiltà europea (Eliade[8], Pound, Campbell[9], Lewis[10], Benn[11] e altri intellettuali nordici). Il sostegno attivo degli intellettuali europei rivela un aspetto dell’esistenza storica e concreta del fascismo. Gli intellettuali, infatti, cristallizzarono nella loro opera il sentimento della maggioranza delle persone. Le teorie degli intellettuali non erano dunque calate dall’alto, ma si innestavano su un milieu culturale preciso. Complessivamente un carattere fondamentale di tale milieu era costituito dalla percezione della decadenza europea cui si associava la paura per la fine di quello che potremmo chiamare un incanto del mondo, una magia della vita. Tutto ciò convergeva nel tipico orientamento della “lotta contro l’oro” e il materialismo del denaro. Era altresì una reazione contro l’individualismo e la ricerca di un nuovo sentimento della vita, fondato sul tragico contro la happiness liberale: “L’uomo non cerca la felicità, l’inglese cerca la felicità” (Friedrich Nietzsche[12]). La forza attrattiva del fascismo non sempre resse: a volte l’intellettuale si ritrasse con clamore, altre volte si ritirò nel silenzio, ciò avvenne particolarmente con il nazismo. In ogni caso, se si getta uno sguardo ai suoi rappresentanti culturali, il fascismo non fu qualcosa di rozzo, ma si alimentò di una forza morale e di uomini di alto livello. Per questo motivo porre l’attenzione sugli intellettuali significa andare oltre le ideologie ufficiali e programmi dei partiti. Hamsun e Céline, per esempio, erano del tutto avversi allo statalismo fascista, ma cercavano un’etica, un sentimento della vita, un’estetica più profondi. Per la cultura fascista, rilevante è prendere posizione nei riguardi dell’eredità dell’illuminismo del XVIII secolo, anche se tale eredità è ambigua: vi si ritengono collegati sia i comunisti sovietici, sia i radicali francesi, sia i liberali inglesi. Gli intellettuali di destra per questo hanno preso le distanze dall’illuminismo, pur non mancando in essi elementi di tale eredità, si veda per esempio Montherlant[13] e Drieu La Rochelle[14]. Ma vi era una battaglia filosofica in corso: in essa si era o pro o contro l’illuminismo, e i fascisti si schierarono contro.
Il fascismo aveva un’idea ampia della cultura politica. Era una visione completa della vita. La sua definizione della politica non è univoca. La politica si estende nei campi dell’arte, della scienza, della medicina, di tutte le discipline. Insomma la visione della politica si estende e si restringe come una fisarmonica. Se alla massima estensione è una visione totale del mondo delle cose, alla minima diventa un programma politico concreto con determinate istanze di carattere anche amministrativo. In ogni caso la sua affermazione e vittoria è dovuta al fatto che esso ha trovato un vuoto di fronte a sé: il vuoto di un orientamento ideologico in fase di decadenza come era il liberalismo, che nei primi del Novecento aveva perduto la sua attrattiva. Ogni cultura politica, infatti, ha una fase di iniziale entusiasmo e una fase di senescenza critica. Generalmente quest’ultima fase è caratterizzata dal fatto che la cultura politica muore nell’economia. Il fascismo e il comunismo propongono una grande idea, alternativa al liberalismo, che si trovava in una impasse in cui le idee avevano perso il loro fuoco sacro. Anche gli antifascisti intendevano infatti la politica in senso ampio ed entusiasta, arrivando a trattare e approfondire ciò che le altre tradizioni avevano tralasciato.
Esempio di tale onnicomprensività del fascismo è il futurismo che, contro la democrazia parlamentare, voleva rinnovare la politica ponendola in alternativa alle vecchie idee e ai miti defunti del liberalismo. Così il futurismo rivendica l’artista entusiasta e affida all’uomo di cultura il compito di rinnovare la politica dall’interno attraverso la sua estetizzazione, cosa che aveva esempi di tradizione antichissima: potere e bellezza sono sempre andati assieme. Si trattava, come si vede, di una concezione del politico come di una esperienza totalizzante: arte, bellezza, eroismo, atmosfera sacrale, devozione, mistica, ardore: tutto ciò doveva rinnovare profondamente la vita umana prima ancora che la politica.
Già il primo fascismo si diceva contrario alle politiche di partito, al suo piccolo cabotaggio fatto di interessi, negoziazioni quotidiane e sottopotere, volendo per sé l’arte e i grandi ideali. Se il marxismo punta alla scienza; il fascismo punta all’arte: il lirismo nel marxismo è sempre coltivato a fini utilitaristici. Scopo finale del fascismo era la rinascita della patria e il rinvigorimento delle sue energie vitali. Per Ungaretti il fascismo era un movimento che voleva introdurre in Italia i valori e ripristinare le gerarchie: “L’Italia cerca l’elevazione dell’anima” diceva il poeta considerando il fascismo la risposta più adeguata a questo tipo di ricerca. Allo stesso modo Gentile[15] vedeva nel fascismo una politica che avrebbe portato ad una rigenerazione morale dell’Italia.
 L’omologo tedesco di Giovanni Gentile, Martin Heidegger[16], riteneva che la politica fosse uno strumento di rinascita della coscienza umana che doveva riaversi dall’oblio dell’essere quale forza mistica che determina l’esistenza dell’uomo. Heidegger riteneva che l’uomo dovesse vivere in una sorta di armonia panteistica con l’essere. Riprendersi dall’oblio dell’essere significava interagire a fondo con le forze primigenie del mondo, trovando in questa armonia il senso della vita, ed entrando in relazione con il suo mistero e il suo enigma. Questa capacità di sentire il mistero era, secondo Heidegger, stata persa dall’uomo moderno. Il tedesco, per mezzo della politica, doveva riappropriarsene facendo un passo in avanti verso una nuova esperienza di autenticità dell’esistenza. Il rifiuto heideggeriano della politica moderna implicava la riflessione sul modello della pòlis greca la quale costituiva, con la sua cultura, un esempio fondamentale per rifondare il senso dell’esistenza umana nel mondo. Nella pòlis e nel mondo greco l’uomo aveva la percezione di abitare nella dimora dell’essere. La città è il luogo della storia, cioè il luogo in cui e per cui l’Esserci, cioè l’uomo, storicamente sussiste. A tale luogo appartengono i templi, i preti, le feste, i giochi, gli eserciti, le navi, le case. Tutto questo è politica ed è situato nella storia dove ciascuno veramente è.
Josè Antonio[17], dal canto suo,  ritiene che il capo e l’eroe siano al centro della politica. La politica non è un modo di pensare ma un modo di essere. Il fascismo ripristina la verità che è al centro del sistema politico. Una verità che ruota attorno al concetto cattolico di amore. Per José Antonio l’amore si oppone a qualsiasi calcolo, è poesia oltre il calcolo e l’utilità. Così amore e lirismo sono parte imprescindibile di ogni cultura politica: “Non c’è trascinatore che non sia al tempo stesso poeta, così è Mussolini che parla al suo popolo; così Hitler e suo romanticismo tedesco così è il poeta dei romeni, Codreanu[18]”.
Il filosofo Carl Schmitt[19] giustappone ne Il concetto di politico, amico e nemico. La politica è una lotta contro il nemico. In questo senso non si definiscono i confini della politica e della società. Significato politico dell’ente è legato alla società che le ha prodotte. L’estensione dei concetti della politica e il loro significato sono l’esito di una tradizione di interpretazione. Se ne può dedurre che il nazionalismo, per esempio, può essere ammesso da ideologie conservatrici o liberali, oppure rivoluzionarie. Chi identifica il nazionalismo con un’unica ideologia è vittima di un condizionamento pavloviano. Anche l’eugenetica e la sterilizzazione forzata non erano monopolio nazista, ma elementi presenti in stati governati democraticamente come gli Stati Uniti, la Norvegia, Svezia e Finlandia, prima del nazismo. Così i termini politici come fascista, comunista, reazionario e altri sono ambigui dobbiamo evitare ogni determinismo ideologico (il marxismo e il liberalismo sono campioni di questo modo di pensare deterministico).
Il dibattito sul fascismo e le cosiddette “ideologie pericolose” è stato troppo segnato dal determinismo ideologico. I concetti sono invece di molteplici significati, i tempi sono molto diversi, malgrado i numerosi tentativi di sintesi. Il cuore del fascismo è pagano, ma molti fascisti sono buoni cattolici, oppure luterani, oppure ortodossi. Tale ambiguità è dovuta al fatto che gli ideali trasmessi dalle parole sono suscettibili di numerose interpretazioni. Essi si possono intendere in maniera costruttiva e umana, oppure in modo rigido. Quello che conta sono, infatti, coloro che li interpretano. Ciò che conta sono anche le circostanze storiche. In politica le idee vengono continuamente riciclate perché le parole possono suscitare interpretazioni diverse. Decine di intellettuali si avvicinarono alle idee fasciste mossi da motivazioni personali anche se più a fondo c’è una unità di carattere ideale: la reazione alla decadenza europea, pensata nondimeno in modo diverso a seconda dei contesti (decadenti sono gli ebrei per Hitler, i bolscevichi per i finlandesi, per gli italiani decadente era il germanismo austriacante). I rappresentanti delle élites intellettuali,  che avevano identificato la loro visione del mondo col fascismo, avevano eliminato dal fascismo stesso ciò che non era loro gradito. Per loro era la rivolta contro la malattia del secolo che aveva contaminato col suo materialismo la civiltà e in tale malattia era compreso il marxismo e il liberalismo. Ad impedire i processi di decadenza sarebbero state le virtù superumane indicate da Nietzsche, l’eroismo, l’anti- individualismo, il misticismo, l’adesione ad un’etica aristocratica che non escludeva, tuttavia, l’amore per il popolo. La modernità, che considera l’uomo come un essere egoista, è spregevole perché lo allontana dalla generosità morale e dal sentimento tragico della vita. Questo era il loro pensiero, queste erano le loro aspirazioni, anche se, al posto dell’idolo della modernità, hanno finito per installare un altro vitello d’oro. Ma essi ritennero di dover correre questo rischio perché i pregi del fascismo ai loro occhi rimanevano migliori e rendevano sopportabili i suoi errori e i suoi difetti come il razzismo, il militarismo, le persecuzioni.



[1] Scrittore norvegese, premio Nobel per la letteratura nel 1920, dopo la seconda guerra mondiale fu internato in un manicomio a causa delle sue simpatie fasciste. I suoi romanzi -  pervasi da un sentimento di comunione spirituale con le forze del cosmo e della natura (Pan), e non senza sensibilità per le questioni sociali e la sperequazione che dilania le metropoli capitaliste (Fame) - contribuiscono a generare un’immagine del mondo che va al di là del materialismo novecentesco, contribuendo in modo decisivo alla formazione di quel clima culturale avverso alla “decadenza moderna” che è tipico dei movimenti fascisti.
[2] Forse il più grande poeta americano del Novecento, di cultura sterminata, amante dell’Italia e impressionato dai successi di Mussolini, si stabilì nel Bel Paese, sostenendo fino all’ultimo le sue ragioni del suo “Duce”. Esperto di economia, vide nel fascismo un sistema di pensiero capace di restituire dignità al lavoro umano contro le tendenze usuraie e materialiste del liberalismo.
[3] Medico e scrittore francese, precursore della letteratura esistenzialista, nelle sue opere egli compie una ricerca stilistica e formale di grandissima efficacia estetica e comunicativa. In esse domina un pessimismo radicale sulla condizione umana, che gli fa disprezzare i miti ottimistici del progresso, della pace e della prosperità borghese, orientandolo decisamente verso il fascismo, inteso come protesta estrema e violenta contro le idee e gli stili di vita del suo tempo.
[4] Giuseppe Prezzolini (1882-1982), giornalista e scrittore di orientamento nazionalista e poi conservatore, fonda nel 1908 il settimanale “La Voce” per mezzo del quale, assieme al suo amico Giovanni Papini e ad altri prestigiosi collaboratori imprime una svolta alla cultura italiana. Pur essendo ammiratore di Mussolini, non accetterà il fascismo come partito e ideologia.
[5] Robert Brasillach (1909-1945), poeta, drammaturgo e romanziere francese. Genio precoce della letteratura, collabora sin da giovane con alcune prestigiose riviste letterarie, divenendo responsabile delle pagine culturali della rivista dell’ Action française. Senza aver commesso alcun reato, e solo per la usa collaborazione con il maggior periodico politico-culturale della Francia di Vichy, viene arrestato e condannato a morte da De Gaulle nel 1945.
[6] Gabriele d’Annunzio (1863-1938), noto poeta e uomo politico italiano. Nella città di Fiume dà origine all’esperimento politico della Reggenza italiana del Carnaro, nel quale, ribellandosi contro la pochezza del governo italiano, incapace di difendere i diritti dei connazionali fiumani, fonda una repubblica dei combattenti e dei poeti, patriottica, libertaria, innovativamente socialista e profondamente permeata dai suoi ideali estetici. Pur sempre nel contesto di una rivalità personale con la Benito Mussolini, mai farà mancare il suo sostegno al regime, dal quale otterrà a sua volta riconoscimenti e onori.
[7] Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), poeta, letterato e uomo politico, fondatore del movimento futurista, sin dall’inizio gli sono congeniali gli ideali di grandezza nazionale, di modernizzazione, di potenza, e quel peculiare socialismo di cui si fa portatore il movimento fascista, dando voce a quella democrazia delle trincee che il poeta aveva vissuto nell’esperienza della prima guerra mondiale. Convintamente fascista, celebra nell’ultima sua opera il corpo militare della X MAS, ricostituitosi nella Repubblica Sociale Italiana, canto del cigno del fascismo mussoliniano.
[8] Mircea Eliade, forse il più grande storico delle religioni del Novecento, noto per il suo Trattato di storia delle religioni, simpatizza per la Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu negli anni Trenta – movimento filo-fascista e cristiano/ortodosso rumeno con forti tinte antisemite che lo avvicinano sotto questo aspetto al nazionalsocialismo -  e per i regimi autoritari di Antonescu (Romania) e poi di Salazar (Portogallo).
[9] Roy Campbell (1901-1957) scrittore sudafricano “sognava una società arcaica e feudale che credeva di trovare in Spagna (la Spagna di Franco, n.d.r.) dove si trasferì con la moglie. Il suo estremismo di destra era più vicino alla Falange o al fascismo di Mussolini che al nazionalsocialismo (cui si oppone tenacemente durante la seconda guerra mondiale, n.d.r.). In Spagna si convertì, insieme alla moglie, alla religione cattolica” (T. Kunnas, Il fascino del fascismo, p. 87).
[10] Windham Lewis (1882-1957), “amico di Ezra Pound, saggista e illustre artista che fondeva nel vorticismo cubismo e futurismo, si ribellava al ‘liberalismo’ vittoriano. F.T: Marinetti soggiornò a Londra nel periodo in cui vi abitavano Pound e Lewis; nelle idee e nell’arte di entrambi è riscontrabile l’influsso futurista, benché nella patria dell’industrializzazione l’idolatria delle macchine marinettiana non avesse carica  innovativa. Nel 1930 Windham Lewis visitò la Germania e, tornato in patria, si adoperò per far conoscere Hitler e il nazionalsocialismo. Difese la spedizione italiana alla conquista dell’Abissinia e si scagliava con veemenza contro il parlamentarismo britannico, pur proclamandosi estimatore del discernimento e della leadership di sir Oswald Mosley (fondatore della “British Union of Fascists”, n.d.r.). Nel 1939 si dissociò dal sostegno di Hitler” (ivi, p. 85).
[11] Gottfried Benn, poeta tedesco (1886-1956). “Dai tetri affreschi di Morgue ai preziosi mosaici di poesia statica della produzione tarda, dalla prosa assoluta distillata nelle psichedeliche vicissitudini del più celebre dei suoi alter-ego, il sifilopatologo Werff  Rönne, fino alle iridescenti stilizzazioni delle prose mature (Romanzo del fenotipoIl tolemaico), colui che elesse Pallade a nume tutelare (e spettrale) in un mondo disertato tanto dalla ragione quanto dagli dèi, per tutta la vita seguì il fil rouge di una sola, inaggirabile, primaria intuizione: «in pace o in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell’ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista.» Di sé avrebbe forse detto – chiosando con un celebre passaggio di Gehirne – «vivevano tutti con il centro di gravità fisso su meridiani, tra rifrattori e barometri, lui solo gettava sguardi oltre le cose, paralizzato dalla nostalgia di un azimut, gridava invocando una chiara pulizia logica e una parola che finalmente lo afferrasse” (http://poesia.blog.rainews.it/2019/09/portrait-di-gottfried-benn-1886-1956/). Critico feroce del progresso, dell’evoluzione, di ogni determinismo storico, del macchinismo moderno, il poeta aderisce per breve tempo al nazionalsocialismo vittorioso, per poi ritirare il suo consenso pubblico e arruolarsi come ufficiale medico nell’esercito, in quell’emigrazione interna che vide protagonisti molti intellettuali i quali, pur non sostenendo il nazionalsocialismo, non intesero abbandonare la Germania.
[12] Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), filologo e filosofo tedesco, fu grande innovatore del pensiero occidentale che aspirò ad emancipare dalla tradizione cristiana in nome dei valori terreni della vita. Quest’ultima era da lui concepita come volontà di potenza, creatrice di arte, di morale e di stili originali  in coloro che sanno farsene portatori e celebrarla consapevolmente. Di qui il suo sovrumanismo aristocratico, alla ricerca di una grandezza sganciata dalle leggi morali e da quelle religioni che, nate secondo lui da uomini mal riusciti e incapaci di vivere fino in fondo, ambivano a ricondurre tutti  ad un’uguaglianza verso il basso, nemica della libertà, della magnanimità e di ogni bellezza. Il superuomo, fedele alla terra e forte di una volontà incrollabile, diveniva così il nemico principale dei socialismi egualitari e delle democrazie livellatrici. Anche la statolatria e il nazionalismo erano però da lui ritenuti volgari, come tutto quanto tendeva a far scomparire il valore individuale nell’anonimato del gregge. Dalle sue idee  presero spunti numerosi intellettuali che nel Novecento inventarono o aderirono al fascismo, benché in senso stretto sia impossibile qualificare Nietzsche come fascista, non solo per motivi storico-anagrafici, ma anche perché la ricchezza del suo pensiero che è divenuta oggetto di riflessione e ammirazione da parte di uomini di tutti gli orientamenti politici. Avendo la sua filosofia una dimensione epocale – poiché coglie i problemi e le aspirazioni fondamentali dell’uomo moderno – la sua è una presenza costante nel XX secolo, ad ogni latitudine culturale e politica e ovunque si sia preso sul serio il compito di interpretare i problemi e il senso della civiltà contemporanea.
[13] “Il 21 settembre 1972 muore suicida lo scrittore e drammaturgo Henry de Montherlant. Nato a Parigi il 21 aprile 1896, volontario e ferito nella 1a guerra mondiale, fu proscritto come collaborazionista nel dopoguerra, si definiva ‘anarchico di destra’. Come scrittore fu particolarmente precoce: scrisse infatti il suo primo libro La vie de Scipion (mai pubblicato) quando aveva appena dieci anni e a venti anni pubblicò a sue spese La Releve du Matin, dopo il rifiuto di undici editori, un omaggio ai soldati della Grande Guerra. Nel 1923 scrisse Les Olympiques, opera nella quale celebrava i cultori dell’atletica leggera. La tauromachia, di cui fu particolarmente appassionato (a quindici anni uccise il suo primo toro), gli ispirò uno dei suoi migliori libri: Les Bestiaires (1926). I suoi primi successi furono la tetralogia Les jeunes filles (1936-1939) e Les célibataires (1934). In Les jeunes filles Monteherlant si scaglia contro l’esaltazione dei “valori femminili”, a cui addita la decadenza del mondo contemporaneo, a detrimento di quelli “virili”. Montherlant, in quest’opera, alza la sua protesta contro un’epoca in cui i grandi valori individuali vanno spegnendosi e la democrazia diffonde conformismo” (https://www.ugomariatassinari.it/suicido-henry-de-montherlant/)
[14] Pierre Eugène Drieu La Rochelle (1893-1945) scrittore, romanziere e saggista francese, influenzato dall’esperienza della Prima guerra mondiale (raccontata nella Commedia di Charleroi), per tutta la vita cercherà nella politica la risposta alle domande sul destino individuale che mai vedrà separato dall’appartenenza alla Francia. Valori estetici, etici, un senso di estraneità verso la mediocrità borghese, faranno capolino nei personaggi più riusciti di opere come Gilles, L’uomo a cavallo, Fuoco Fatuo, Diario di un delicato. A ciò si associa una peculiare visionarietà politica che gli fa immaginare un “socialismo fascista”, capace di elevare le masse europee al piano di una grandezza superomistica che poteva e doveva essere socializzata e nazionalizzata. L’Europa, che doveva unirsi  per affermare la propria civiltà e tradizione contro l’arrembaggio delle potenze asiatiche e americane, avrebbe trovato nel fascismo quel collante in grado di raccogliere il senso di appartenenza di ogni uomo del Vecchio continente, oltre le decadenti ideologie materialiste della democrazia liberale e del marxismo, Coerentemente vicino alla repubblica di Vichy, si uccide prima di essere catturato dagli antifascisti alla fine del secondo conflitto mondiale.
[15] Giovanni Gentile (1875-1944) insieme a B. Croce, il maggior filosofo italiano del Novecento. Si inserisce nella tradizione idealistica rinnovando genialmente la logica, la metafisica e l’etica hegeliane. Valorizza Marx non tanto come filosofo del comunismo e dell’insurrezione proletaria, ma come filosofo della prassi. Politicamente è convinto che il fascismo sia l’erede genuino della grande stagione del Risorgimento, che nel movimento mussoliniano trova il suo compimento con l’integrazione delle masse nella sostanza etica dello Stato nazionale. Così egli pensa che il fascismo realizzi il meglio del carattere e della storia nazionale, consentendo all’uomo contemporaneo la più profonda partecipazione alla vita dello Spirito. Sempre fedele a Mussolini, che lo ricambia affidandogli importanti incarichi di governo, tra cui l’elaborazione della riforma della scuola, e di politica culturale, come la realizzazione del progetto dell’Enciclopedia italiana, dopo aver aderito alla Repubblica Sociale, muore assassinato in un agguato terroristico messo in atto da partigiani comunisti.
[16] Martin Heidegger (1889-1976) è un grande pilastro della cultura del Novecento, le cui riflessioni hanno avuto influenza determinante, oltre i confini della filosofia  in senso stretto, in diverse discipline come la storia, la linguistica, la critica letteraria, la psichiatria, l’antropologia e la teologia. La sua maggiore opera, Essere e Tempo, viene pubblicata nel 1927. Nel 1933, all’ascesa di Hitler, collabora con le autorità del III Reich e viene nominato rettore dell’università di Friburgo, incarico che lascerà l’anno successivo, rinunciando a ulteriori ruoli di visibilità pubblica, senza mai tuttavia opporsi al regime. “Filosoficamente  il punto nodale del nazionalsocialismo heideggeriano risulta essere la nozione di “orizzonte ontologico”, inteso come trascendenza e superamento del singolo soggetto nella sua individualità. In questo senso, numerose pagine di Sein und Zeit (Essere e tempo) descrivono chiaramente un’idea di storia, di umanità e di essere che, sebbene non giustapponibile da nessun punto di vista al razzismo del Mein Kampf, mostra la fondazione di una ben precisa concezione di Nazionalsocialismo. Questo punto cruciale è accuratamente chiarificato dall’analisi di George Steiner, il quale scrive che vi sono ‘delle connessioni reali tra il linguaggio e la visione di Essere e tempo, specie nelle ultime sezioni, e quelli del Nazismo. Coloro che negano ciò sono ciechi o bugiardi […]. Sia il Nazismo sia l’antropologia ontologica di Essere e tempo sottolineano la concretezza della funzione dell’uomo nel mondo, la primordiale santità della mano e del corpo. Entrambi esaltano la mistica affinità tra il lavoratore e i suoi strumenti in una innocenza esistenziale che deve essere purificata dalle pretese dell’intelletto astratto. A questa accentuazione si accompagna una tensione sul radicamento, sul rapporto intimo fra sangue e ricordo, che un autentico sentire umano ha rispetto alle sue radici natali. La retorica heideggeriana del sentirsi-a-casa, dell’organico continuum che avvicina il vivente al morto ancestrale sepolto accanto, si adatta senza sforzo alcuno al culto nazista del sangue e della terra. Parallelamente, le accuse hitleriane ai cosmopoliti senza radici, alla plebaglia urbana e alla intelligencija senza patria che vive parassitariamente sull’elegante suolo della società, riecheggiano da vicino la critica heideggeriana del “si”, della modernità tecnologica, dell’ indaffarata irrequietezza dell’inautentico’” .
(http://www.kasparhauser.net/culture%20desk/heideggernazismo/cata-esserethule.html).
[17] José Antonio Primo de Rivera (1903-1936) è il fondatore della Falange española, un movimento fascista che dal 1933-34 insieme alle JONS (Juntas de ofensiva nacional sindacalista) contrasta l’egemonia repubblicana e comunista, collaborando con la ribellione franchista nella guerra civile. Imprigionato senza  per motivi esclusivamente politici dal governo repubblicano, viene fucilato nel 1936.
[18] Corneliu Zelea Codreanu (1899-1938) è il fondatore nel 1927 della Guardia di Ferro, movimento fascista e cristiano ortodosso dalla radicale vocazione alla giustizia sociale. Così lo descrive Julius Evola: “Ci viene incontro un giovane alto e slanciato, in vestito sportivo, con un volto aperto, il quale dà immediatamente una impressione di nobiltà, di forza e di lealtà. È  appunto Cornelio Codreanu, capo della Guardia di Ferro. Mentre i suoi occhi grigio-azzurri esprimono la durezza e la fredda volontà propria ai Capi, nell’insieme dell’espressione vi è simultaneamente una singolare nota di idealità, di interiorità, di forza, di umana comprensione. Anche il suo modo di conversare è caratteristico: prima di rispondere, egli sembra assorbirsi, allontanarsi, poi, ad un tratto, comincia a parlare, esprimendosi con precisione quasi geometrica, in frasi bene articolate ed organiche […]Vi sono da un lato coloro che conoscono solo la ‘vita’ e che quindi non cercano che la prosperità, la ricchezza, il benessere, l’opulenza; dall’altro lato vi sono coloro che aspirano a qualcosa più che la vita, alla gloria e alla vittoria in una lotta interiore quanto esteriore. Le Guardie di Ferro appartengono a questa seconda schiera. E il loro ascetismo guerriero si completa con una ultima norma: col voto di povertà a cui è tenuta l’élite dei capi del movimento, con i precetti di rinuncia al lusso, ai vuoti divertimenti, agli svaghi cosiddetti mondani, insomma con l’invito ad un vero cambiamento di vita che noi facciamo ad ogni legionario” Codreanu muore assassinato in carcere su ordine di re Carol per mano alcuni poliziotti corrotti dal suo ministro Calinescu.
[19] Carl Schmitt (1888-1985) tra i principali giuristi e filosofi del diritto del Novecento, indaga con grande acume anche la sfera della politica cercandone le regolarità e i fondamenti nella civiltà occidentale. Diventa per breve tempo presidente dei giuristi nazionalsocialisti tedeschi, per poi ritirarsi nel 1936 dalla vita pubblica a causa dell’attacco della rivista delle SS  “Das schwarze Korps”. Dopo la seconda guerra mondiale, bandito dall’insegnamento universitario, scrive il testo Il nomos della terra che rappresenta una pietra miliare degli studi di geopolitica.

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

martedì 14 gennaio 2020

Un dibattito con Carlo Gambescia a partire dal Filebo platonico: il ruolo sociale del bene e la possibilità di insegnarlo


Carlo Gambescia
Carlo Gambescia

Una risposta a Massimo Maraviglia
 Si può insegnare il bene? 


Massimo Maraviglia  (nella foto)  probabilmente  rimane,  tra le tante persone  che ho conosciuto in quindici anni di Web, la più interessante. Alla preparazione  filosofica di prim’ordine unisce una notevole capacità di ascolto e argomentazione, pur avendo  proprie idee filosofiche e politiche.

I  suoi  “tag” sono sempre stimolanti. Cosa che non capita di frequente sui social.  Ieri per esempio ha pubblicato un ottimo riassunto del Filebo che mi ha  spinto a riflettere sulla possibilità di insegnare il bene (*) . Di qui  un icastico scambio  di battute tra noi  che riporto:

Carlo Gambescia Si può insegnare il bene? Esiste una scienza del bene? La conoscenza è virtù? :-) Comunque sia, caro Massimo, sei un ottimo docente.

Massimo Maraviglia Grazie Carlo...sempre gentilissimo!!! ...si potrebbe anche domandare: "Si può fare a meno di una scienza del bene?" ...e: "Quale scienza in ultima istanza non è una scienza del bene?".

In effetti, la risposta di Massimo Meraviglia, seppure breve, come il mio commento del resto,  pone un problema di fondo, altrettanto importante, sulla  natura cognitiva del sapere morale.
Ora, dal  punto di vista filosofico, diciamo  “platonico-socratico” ,che è quello di Massimo (credo…),  si può concedere  che sia  più che accettabile  il momento costruttivista del pensiero.  
Come fare a meno di una scienza del bene?  Cioè,  di perseguire, dunque costruire,  attraverso un metodo,  quindi trasmissibile agli altri -  perciò “insegnabile” - il bene?  Rifuggo  dalla definizione di bene, perché porterebbe troppo lontano. Ne do per scontato  il contenuto libero. Anche perché sono interessato a  un altro aspetto, quello sociologico, che esula sotto l'aspetto  disciplinare dalle questioni  filosofiche. 
Punto di vista,  che  è il mio, umilissimo per carità.  Da  sociologo peón rifletto sul momento costruttivo del pensiero e  sulla  sua  trasmissibilità.  Due attività che implicano un  processo sociale, cioè una dinamica che rinvia all’interazione tra individui e ai prodotti sociali che ne derivano.
Ora, il concetto di individuo implica diversità di condizione, intelligenza, volontà. Quindi il bene, non sempre (diciamo per ora così...) può essere capito e accettato da tutti.  Inoltre,  il prodotto sociale, non è  che l' istituzione,  cioè la condensazione sociale  di  forme di comportamento che hanno logica propria, logica  che implica la “routinizzazione” del bene.
Cosa voglio dire?  Che la “scienza del bene” non può non  fare i conti con la riproduzione sociale del bene, l’istituzionalizzazione.  Alla presuntiva  perfezione del sistema filosofico, risponde la consuntiva imperfezione dei sistemi sociali, racchiusa nelle inevitabili formalizzazioni-standardizzazioni del bene. O se si vuole di  banalizzazione quotidiana  del bene.  Il che significa che il bene si può anche insegnare, ma che inevitabilmente, ogni individuo reagirà secondo i propri mezzi, e ogni istituzione secondo i propri bisogni.  
Di qui  però  quel fenomeno che si  chiama  costruttivismo sociale, cioè la  credenza, in una realtà politica (non filosofica) che ritiene che individui e istituzioni, visti come privi di logiche proprie, possano essere radicalmente  plasmati e  riplasmati  grazie all’insegnamento del bene. Una trasmissione  che però  -  ecco il punto critico -   per ricaduta sociologica, non può non tradursi in forme di routinizzazione del bene. In  qualcosa che sarà sempre inferiore all’idea di bene - qualunque essa sia - che il costruttivista politico persegue.      
Sicché il totalitarismo politico  diventa il prolungamento sociale inevitabile dell’ approccio costruttivista. Esagero?   Diciamo che tra il welfare state e lo stato caserma c’è una differenza di grado ma  non di specie.  Di conseguenza,  la “scienza del bene”, di cui non si può fare filosoficamente a meno, sociologicamente parlando  rappresenta  un rischio politico,  di cui si potrebbe  - o addirittura si  dovrebbe  -   fare a meno.  Ma come?

Puntando sull’educazione individuale, su un processo di crescita del singolo, che non implichi la trasmissibilità  sociale e dunque  il rischio di  politicizzazione- banalizzazione del bene?   
Sociologicamente parlando,  l’individuo cambia idea, per paura, necessità, convenienza, conformismo,  persuasione.  Ora, per parafrasare una celebre formula, si può opporre la persuasione filosofica, individuale, alla retorica sociale, collettiva,   ma non alla paura, alla necessità, alla convenienza, al  conformismo.  
Perciò, come si può capire i margini sociologici di una “scienza del bene” sono piuttosto esigui.  
Questo però non significa che il bene, qualunque esso sia, non si possa insegnare, filosoficamente insegnare.  Certo che si può fare, ci mancherebbe altro. Tenendo però presente che la sociologia  ci dice che saranno sempre in pochi a evolvere. Gli altri, la maggioranza, banalizzeranno, per paura, necessità, convenienza, conformismo. Perché, in ultima istanza, le  società o sono banali o non sono.    
Più si ignora questa  regolarità metapolitica più si rischia, pur proponendosi gli scopi più nobili,  di trasformare la banalità del bene in banalità del male.  Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

Si può insegnare il bene? 
Le risposte di  Massimo Maraviglia e Carlo Pompei
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Una questione di purezza

di Massimo Maraviglia


Caro Carlo,

La filosofia prende gli argomenti su cui non esiste un accordo e comincia a trattarne. Per questo nella tradizione occidentale, essa coincide con la dialettica, luogo di incontro-scontro nel dialogo di posizioni opposte alla ricerca di una sintesi che tutti possono onestamente riconoscere come vera. 
Dunque l’argomento della varietà e della disparità di opinioni, per quanto ritornante nella storia del pensiero, appartiene più alla storia del tentativo ritornante della sua negazione: inutile pensare, troppo complicato;  nulla è vero, tutto è troppo difficile; ricerchiamo in eterno e in eterno domandiamo, la risposta è troppo impegnativa … 
Questo è il destino del bene nelle reti sofistiche del relativismo e dello scetticismo! Ma la filosofia pisciforme e libera sfugge alle maglie relativistiche e pone continuamente il problema del bene. Quasi non potesse farne a meno. Quasi irretita in altre reti dal suo irresistibile fascino. Quasi chiamata al suo destino: uscire al sole, farsi abbagliare dai suoi raggi, dopo la lunga e faticosa prigionia nella caverna. Il mito platonico tocca corde profondissime … Tre volte grande bisognerebbe chiamare quello della caverna: grande nell’essere, grande nel conoscere, grande nel vivere: il sole dell’essere, la luce del conoscere e poi la passione del vivere che è quella propriamente umana di tornare ostinatamente dentro la caverna per chiamare i compagni di prigionia, ora divenuti amici, a farsi evangelizzare dalla luce. Ma “i suoi non lo riconobbero”: il destino della filosofia e della sua buona notizia al contatto con la res dura del mondo. 
Che cosa distingue Cristo da Platone? La vocazione alla riforma politica in Cristo diventa un affare enormemente più complesso. Tutti e due sono nel mondo, solo Cristo non è del mondo, e quindi costringe il pensiero politico a pensare il regno terreno solo attraverso il filtro di quello escatologico (benché anche lungo tale cammino il Filosofo ateniese compia passi da gigante). Mai e poi mai ti sarà concesso di illuminare la caverna in modo definitivo. Il bene ha una sua chimica che reagisce in modo imprevedibile al contatto con la pòlis
Platone lo capisce: infatti i cavernicoli vogliono uccidere l’uomo libero. Lenin ne trae le dovute conseguenze: useremo lo Stato per schiacciare senza pietà i recalcitranti, gli ostinati, coloro che per interesse o cecità non accettano la Giustizia. Adorno registra la contraddizione e pone l’alternativa: o dedicarsi alla purezza del pensiero, condannandosi all’impotenza; o promuovere un pensiero che  si invera nella prassi e si consegna inevitabilmente alle dinamiche di dominio. Forse non c’è rimedio. Se si considera il bene come l’utopia e la sua trascendenza come l’affermazione di un’inconciliabilità, la disfatta è assicurata. Ma il bene è il bene di queste cose, di questa vita, di questo mondo. La sua purezza è la purezza di qualcosa. 
Su ciò insiste il Filebo. La purezza è una purificazione di vite concrete, che sono sempre miste, complicate, un pizzico bastarde … compito dell’uomo è ricostruire con la ragione, se mai esiste un costruttivismo è solo questo, questa mescolanza, facendone un’elevata mescolanza di purezze: ciò è piacere e intelligenza! Il bene dunque è la purezza che rende trasparenti le mescolanze, e perciò le eleva verso la loro integrità, dove non manca nulla: bonum ex integra causa. Esso pertanto, contro ogni apparente difformità, è connaturale all’essere, è il naturale cammino di ogni cosa che tappa i buchi delle proprie mancanze e tende al meglio di sé (il Filebo prepara la critica aristotelica alla trascendenza del bene, ma al tempo stesso la rende inutile). Bonum et ens convertuntur
Perciò non se ne può fare a meno anche in politica. Non si può evitare la banalizzazione del bene: certo, come tu giustamente affermi: la società è banale o non è. Ma non si esce dalla sua necessità, perché il bene della convivenza è la convivenza. Mentre noi lo pensiamo siamo costretti ad essere platonici, cioè dobbiamo pensarlo nella sua purezza, mentre lo viviamo siamo costretti ad essere aristotelici, cioè lo dobbiamo sperimentare nella sua immanenza, mentre lo costruiamo politicamente dobbiamo essere cristiani, cioè capire che il suo Regno non è di questo mondo, ma che in questo mondo può iniziare (altrimenti Cristo non sarebbe al tempo stesso il Messia definitivo e il Signore della storia). 
Così facendo fuggiamo da una triplice eresia: il donatismo, il monofisismo, il pelagianesimo: pensare in modo puritano il bene come tutto il rigore che posso imporre agli altri; pensare in modo cataro-manicheo il bene come un’alterità disincarnata che rifiuta il  mondo, il quale dunque è consegnato inevitabilmente alle sue logiche; pensare in modo prometeico il bene come mio possesso in modo tale da ritenermi capace di salvare il mondo … così … con la mia forza s-graziata e senza cadere nella dis-grazia. 
Alla fine di questo percorso, però, bisogna farsi una risata. Sto leggendo un autore straordinario, un argentino nel quale si respira la metafisica dell’Occidente che, nell’estremo occidente, dalle pianure sterminate della Patagonia alle rarefatte altezze delle Ande, sembra che trovi il suo peculiare compimento. L’esperienza del Sudamerica è un’esperienza squisitamente occidentale: mi trovo molto di più nel misticismo denso di fede e di ironia di un Leopoldo Marechal (l’autore in questione) - il cui mondo pieno di angeli, demoni, preti, avventurieri a cavallo, clown, magnati in ricerca, puttane e filosofi, vive al ritmo di un tango metafisico - che nei costruttivismi ultra-anti-moderni di un Dugin (dove rischia di albergare l’eterna tentazione del radicalismo nichilista … ogni russo, temo, nasconde un Nečaev). 
Ora, grazie a Marechal si comprende che l’ironia non è un’arma, uno strumento per altri fini, come in ogni costruttivismo che ne ha bisogno per radere al suolo il passato, ma un effetto: l’effetto comico della giustapposizione della misura umana e dell’eterno. Essa produce conseguenze grottesche e surreali e infine fa ridere di gusto. Forse il primo gesto di Adamo guardando il suo Creatore, e guardandosi al suo cospetto, fu quello di ridere. Forse il Creatore, potendo vedere la scena dall’esterno, fu parimenti colto dall’irrefrenabile voglia di scoppiare a ridere. Dentro questa laïcité occidentale della risata, che relativizza le ricorrenti tentazioni totalitarie della sua storia, c’è il segreto di una convivenza possibile al cospetto, in ricerca, in ossequio, con la passione e infine con il sorriso del bene.
Un caro saluto.

                                                                                          


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sabato 11 gennaio 2020

Il piacere secondo Platone: un riassunto del Filebo (dalla traduzione italiana di M. Migliori, Bompiani, Milano 2000)



Qui di seguito presentiamo un riassunto del Filebo platonico, testo del Platone ormai anziano, di grande rilevanza per definire un tema etico che già ha fatto capolino in numerose opere precedenti. Il messaggio definitivo del Filosofo è straordinariamente equilibrato e al tempo stesso esigente. Una vita senza piaceri nessuno la desidererebbe.Non è il caso di fare gli asceti a tutti i costi. Piuttosto bisogna comprendere che lo sforzo della nostra vita dev'essere quello di purificare i nostri godimenti e associarli alla coltivazione delle virtù intellettuali. Ragione e pensiero nel loro più ampio spettro (tutto ciò che è sapere, sia puramente contemplativo, sia dinamicamente pratico), contribuiscono a dare un senso alla nostra vita, che viene completata dalla nostra capacità di apprezzarne le risonanze estetiche. Il bello, la proporzione, la misura, la verità e in ultima istanza il bene, rendono il nostro cammino terreno sensato,  dentro questa sensatezza c'è spazio per il godimento. Un godimento che è tanto più desiderabile quanto più è puro: nella purezza (lasciamo al testo la spiegazione precisa del concetto) sta l'attrattiva e il fascino del piacere, non nella la sua intensità. Ciò apre la strada ad una ricerca che riporta la vita estetica al livello metafisico che le compete, facendola uscire dalla volgarità edonistica alla quale le epoche di decadenza la condannano.


Parte prima: la struttura del reale e la dialettica

11) Nel Filebo all’inizio vengono presentati due problemi: il primo è se il piacere o l’intelligenza, con i valori a ciascuno di essi connessi (symphona), coincida con il bene. In questa prima parte Filebo, che sembra stesse da prima discutendo con Socrate, lascia il campo nella discussione a Protarco.

11d) Il secondo problema è quale sia la disposizione dell’anima in grado di offrire una vita felice a tutti gli esseri umani: se sia lo stato del godere, o quello del pensare. Filebo propende per il primo Socrate per il secondo.

12b) La prima osservazione che viene compiuta da Socrate è che il piacere è multiforme a seconda delle diversissime attitudini di chi lo prova. Protarco dice che se le situazioni sono diverse non lo è il piacere che nelle diverse situazioni rimane uguale a sé. Socrate ribatte che tutti gli aspetti di qualcosa, quanto al genere sono uno, quanto alle sue parti, esse sono diversissime e a volte contrarie. Ma, dice Socrate, non bisogna credere a quel discorso che unifica tutte le cose passando sopra le loro differenze.

13a) In particolare Socrate sostiene che non tutti i piaceri sono la stessa cosa perché non tutti possono essere inclusi nel concetto di bene. Protarco invece sostiene che, se inseriamo i piaceri del genere bene, dobbiamo considerare giocoforza sotto un unico punto di vista. Sembra che Socrate qui contesti non tanto la possibilità di riunificare cose diverse in un unico genere, quanto quella di unificare piaceri diversi, alcuni buoni e altri no, sotto il genere bene.

13e) Socrate fa notare a Protarco, venendo a lui incontro per quel che riguarda la molteplicità dei piaceri e la possibilità in generale di riunirli in un solo genere, che anche le scienze sono molteplici e tra esse dissimili. Una volta ammesso questo, si ripropone il problema se bene sia piacere, sia pensiero oppure sia una terza realtà diversa (cerchiamo di dar vita a un dialogo collaborativo).

14c) Ecco che anzitutto viene discussa la questione dell’uno e dei molti, così come è emerso or ora. “Che i molti siano uno che l’uno sia molti, infatti, è un’affermazione che suscita stupore ed è facile muovere obiezioni a chi sostiene l’una o l’altra tesi.” Socrate anzitutto precisa che l’uno è molti non nel senso in cui lo si può intendere quando si divide un corpo in più parti. Il problema è metafisico non fisico.

14e) Cioè bisogna porre l’uno non tra le cose che nascono periscono ma come “idea”. Bisogna anzitutto verificare se l’unità delle idee metafisiche esiste realmente, e poi come queste unità rimangano tali ne loro rapporto con la molteplicità delle cose.

15d) L’unità dei molti è, dice Socrate, una qualche caratteristica immortale e immarcescibile dei nostri stessi discorsi. Essi si diffondono in una molteplicità di proposizioni e termini, e possono essere avvolti nell’unità di un concetto. Cioè hanno una parte analitica e una sintetica. Questo può indurre in confusione alcuni giovani entusiasti e creare problemi, ma non esiste una via più bella di questa.

16c) Le idee sono costituite da uno e molti. Hanno in sé il limite e l’illimitato. Per comprenderle bisogna anzitutto porre un’unica idea per ogni (genere di) cose; poi vedere se dopo quella idea una, ve ne siano due o tre o un qualche altro numero; poi per ogni idea che così si è trovata bisogna ripetere l’operazione. Ciò finché non si vede quante sono le idee implicite in quella da cui si è partiti. Così si comprende come l’illimitato sia presente nell’uno non genericamente e imprecisamente ma in modo determinato (in modo che si colloca tra l’infinito e l’uno stesso). Altrimenti si corre il rischio di porre l’uno e l’illimitato a caso e questa non è più dialettica ma eristica.

17a) Esempio delle lettere dell’alfabeto e delle note musicali: in entrambi tra l’infinito e l’ uno si determina dialetticamente una quantità precisa. La dialettica stabilisce come si dia tale numero alle cose. L’infinità infatti rende incapace di pensare “perché non hai mai considerato in nessuna realtà il suo numero”.

18a) Filebo domanda che cosa vuole ottenere Socrate con il suo discorso, ma Socrate prima di rispondere fa un’ulteriore considerazione: il numero è anche il tramite che dall’uno consente di arrivare all’illimitato e dall’illimitato di ritornare all’uno, come si vede nelle lettere dell’alfabeto. Qui nell’infinità dei suoni che è possibile mettere con la bocca, una persona divina ha distinto un numero determinato di vocali e di consonanti, cui ha aggiunto un certo numero di lettere mute. Poi ha visto che è impossibile apprenderle una staccata dalle altre, e ha individuato il legame e ha per loro identificato una sola tecnica chiamata grammatica. Bene, per quanto riguarda pensiero e piacere, bisogna affermare che ciascuno dei due è una unità e al contempo è anche molti. Bisogna quindi stabilire quanti sono i concetti da associare rispettivamente a piacere e intelletto. Senza questa indagine dialettica non potremo essere degni di nessun sapere.

19c) Però Protarco invita Socrate a tornare più direttamente al tema e a dare una risposta alla domanda che si era fatta all’inizio, se sia, cioè, il piacere o l’intelletto a essere identificabile con il bene.

20b) Socrate fa l’ipotesi di una terza realtà che sia bene e sia migliore di intelletto e piacere. Se questa realtà apparisse ora chiaramente “il piacere si allontanerebbe dalla vittoria: infatti il bene non si identificherebbe con quello”. Prima di vedere la realtà di questa ipotesi bisogna accordarsi su alcune questioni minori, cioè sui caratteri formali del bene. Il bene è qualcosa di compiuto, autosufficiente, superiore a tutte le realtà; ogni essere che lo conosce lo cerca e lo insegue, volendo prenderlo e possederlo, e non si interessa affatto delle altre cose, fatte salve quelle che si realizzano accompagnate da beni.

20e) A questo punto si può valutare una vita piena di piacere e una di pensiero considerandole separatamente. Qualora si accettasse di vivere una vita godendo dei piaceri più grandi, ma certamente senza il possesso di intelligenza, memoria, scienza, opinione vera, si ignorerebbe proprio se uno gode o non gode, perché si sarebbe del tutto privi di pensiero. Analogamente a nulla varrebbe godere senza la memoria di quello che si è goduto e, senza una opinione vera, si perderebbe la capacità di godere nel futuro. Insomma senza intelligenza “vivresti una vita non degna di un uomo ma di un mollusco”. Nondimeno una vita di intelligenza, senza alcun piacere, né grande né piccolo, ma senza neanche dolore e nessuna affezione simile a queste, a nessuno parrebbe affascinante e degna di scelta.

22a) A tutto ciò è preferibile il piacere misto con l’intelligenza. Chiunque scegliesse i due tipi di vita pura, e non questo misto che appare assolutamente preferibile, lo farebbe per ignoranza o necessità. Di conseguenza bisogna dire che il piacere, cioè la dea Afrodite indicata da Filebo, non va concepito come identico al bene.

22c) Ma, dice Filebo, nemmeno l’intelligenza. Socrate allora si pone il problema di quale dei due valori vada posto in seconda posizione, sostenendo l’opinione che ciò che rende buona la vita mista è più vicino all’intelligenza che non al piacere, facendo l’ipotesi che la causa della vita mista possa essere l’intelligenza e non il piacere. Protarco invita Socrate a dimostrare questa tesi.

23c) Socrate allora riparte con un discorso più ampio. E comincia a dividere tutte le realtà nel tutto in due o, piuttosto in tre. In tutti gli enti, infatti, un Dio ha fatto vedere all’uomo sia l’illimitato sia il limite. Poi oltre ad essi bisogna aggiungere un terzo e un quarto genere: la mescolanza di limite illimitato e la causa di questa mescolanza.

24a) Anzitutto si procede alla analisi dell’illimitato. A questo è associabile il più e il meno, perché entrambi refrattari al limite; poi ancora si possono associare il fortemente e il debolmente, perché entrambi impediscono una quantificazione determinata. Tutte queste idee bisogna che siano riunite nell’unica idea di illimitato. Le contrarie viceversa vanno riunite nel limite. E tra le contrarie possiamo annoverare l’uguale e l’uguaglianza, dopo l’uguale il doppio e tutto ciò che è numero in rapporto ad un numero o misura in rapporto ad una misura.

25b) Dopodiché si procede all’analisi della mescolanza. La mescolanza è sempre una mescolanza di limite e illimitato ed è tale che produce le proporzioni e la misura, come la salute, la bellezza, la forza eccetera.. “La dea stessa, avendo colto la tracotanza e l’universale malvagità di tutti gli enti, nei quali non si trova alcun limite, sia per i piaceri sia per le soddisfazioni, pose legge e ordine, che hanno limite”.

26c) Ma se l’illimitato è tale, l’altro è secondo il limite, il terzo non capisco bene che cosa sia, dice Protarco. Socrate gli ribatte che lui stesso (Protrarco) è sconcertato dalla molteplicità delle realtà prodotte dal terzo genere della mescolanza. Perché qui si dice che se l’illimitato “offriva molte specie, che però,  poste sotto il segno del genere del più e del suo contrario, erano apparse una unità”, “il limite non presenta molteplici aspetti”, e non si è infastiditi dal fatto che non sia uno per natura. Sembra qui che si possa dire che il limite, pur non presentando molteplici aspetti, non si identifica immediatamente con l’uno in quanto principio assoluto. Dunque l’illimitato offre molte specie, il limite, pur non coincidendo con l’uno, no. Il terzo genere è una “unità complessiva derivata dagli altri due, come una “generazione verso l’essere” dipendente dalle misure che si producono come conseguenza del limite.

26e) Nondimeno, aggiunge Socrate, tutte le cose sono generate solo per una certa causa che coincide con “ciò che produce”. Ebbene, ciò che produce precede sempre ciò che è prodotto e si differenzia come causa efficiente dalle altre cause seconde. In ciò consiste il quarto genere che quindi differente dai primi tre e si dice causa della generazione che deve esistere come genere differente che produce la generazione stessa.

27c) La vita mista si determina a partire dal terzo genere “infatti quel genere non è prodotto solo dagli altri due, ma da tutti gli illimitati contenuti dal limite; perciò, giustamente questo vincente modello di vita sarà parte di quello”.

27e) Il piacere è invece illimitato sia in quantità sia in intensità e ciò vale anche per il dolore. In quale genere possiamo invece inserire pensiero, scienza e intelligenza, senza commettere empietà?
28b) Bisogna anzitutto dire che tutti i sapienti concordano nell’affermare che l’intelligenza è “regina del cielo della terra”. E il tutto non lo regge la forza dell’irrazionale, del caso e del fortuito, ma una mirabile intelligenza e saggezza ordinatrice. Così infatti si può giustificare lo spettacolo che offre il cosmo, con il sole, la luna, le stelle eccetera.

29a) Tutti gli elementi dell’universo sono maggiori in quantità e purezza nello stesso universo che non in noi, tanto che ciò che è nell’universo alimenta ciò che è in noi. Gli elementi coordinati in unità li chiamiamo corpo. Anche il nostro cosmo, complessivamente considerato, va chiamato corpo e di tale corpo il nostro singolare organismo si nutre.

30a) Il nostro corpo possiede evidentemente un’anima. Questa anima parimenti verrà da un’anima del cosmo. La causa attua negli elementi del cosmo la natura delle realtà più belle e il maggior valore nel senso che queste realtà più belle essa genera mediante gli elementi del cosmo. Tale causa è presente in tutte le cose e, regolando la relazione tra limite illimitato, dà luogo all’ordine dell’universo che si manifesta negli anni, nelle stagioni, nei mesi. Siccome tale operazione può a buon diritto essere chiamata un’operazione di sapienza e intelligenza, e siccome esse non possono mai generarsi senza anima, si può dire che nella natura di Zeus si trovano un’anima regale e un’intelligenza regale in forza del potere della causa.

30e) L’intelligenza appartiene quindi al genere della causa di tutte le cose, che noi avevamo posto come uno dei quattro generi, mentre il genere piacere appartiene all’illimitato, come genere che “non ha e non avrà mai, in sé e da sé, né principio, né mezzo, né fine.

Parte seconda: i piaceri e le scienze

31b) Ora, dato quello che si è detto, si devono affrontare due problemi:
uno) in che cosa sono presenti piacere e intelligenza?;
due) per quale causa si generano?
Cominciamo a parlare del piacere e del dolore (lasciando perdere per ora l’intelligenza). Essi nascono nel genere misto cioè il terzo, in cui vi è salute e armonia. Infatti quando nei viventi si dissolve l’armonia, si dissolve la natura e si generano i dolori. Quando invece la armonia viene ricostituita si ripristina la propria natura e si genera il piacere. Per esempio la fame è in qualche modo dissolvimento e dolore, mentre il mangiare che riempie è piacere. La sete è parimenti corrompimento e dolore e si cancella con il bere. Così è per il caldo con il raffreddamento e per il gelo con il riscaldamento. In generale alla corruzione corrisponde il dolore; al ripristino dell’essenza di piacere.

32b) L’anima ha la peculiarità di anticipare il piacere con la speranza, e il dolore con lo spavento. Speranza e paura sono in qualche modo pure e non sono mescolanza di piacere e dolore. Bisognerà vedere se il genere della speranza vada desiderato di per sé, mentre piacere e dolore, caldo e freddo, e tutte le affezioni simili si desiderano a volte e a volte no.
32e) E qual è lo stato senza corruzione dell’armonia e senza nemmeno il suo ripristino? C’è una terza condizione senza piacere o dolore? È la condizione dell’intelligenza, la più divina di tutte, che non comporta né piacere né sofferenza. Ciò vale anche come argomento per assegnare all’intelligenza il secondo posto dopo il genere (vita) misto.
33c) Quanto ai piaceri propri dell’anima, essi si generano totalmente dalla memoria. Ma che cosa è la memoria? E che cosa la sensazione? Vi sono affezioni
1) che si esauriscono nel corpo e non arrivano all’anima;
2) che arrivano all’anima, provocando scosse che coinvolgono corpo e anima.
Le affezioni del solo corpo sfuggono all’anima. Questo sfuggire lo chiamiamo “assenza di sensazione”. Quando invece un’affezione passa per il corpo e colpisce l’anima, ciò lo chiamiamo sensazione.

34a) La memoria si definisce come conservazione della sensazione e differisce dalla reminiscenza. Infatti la reminiscenza è quando l’anima, da sola, in sé e senza il corpo, rivive al massimo grado le affezioni che un tempo aveva provato con il corpo; oppure quando l’anima avendo perso il ricordo di una sensazione o di una intellezione, lo recupera di nuovo in se stessa, da sola (senza l’ausilio delle sensazione stessa). Detto ciò possiamo domandare che cosa sia e dove si generi il desiderio.

34e) Perché fame, sete, e molte altre affezioni, le chiamiamo desideri? Quando diciamo che abbiamo sete intendiamo con essa un essere vuoto che corrisponde a un desiderio, il desiderio di riempirsi di una bevanda. In generale possiamo dire che il desiderio è sempre rivolto al contrario di ciò che si patisce. Ora, il desiderio di ciò che non si possiede nel corpo, non può venire dal corpo - che non lo possiede - ma deve venire dall’anima, che ha memoria di ciò che attualmente manca al corpo. Pertanto non si dà un desiderio corporeo, dato che la pulsione va in direzione contraria allo stato attuale del corpo solo in virtù e grazie alla memoria dello stato contrario. Di conseguenza l’anima è la sede di ogni impulso o desiderio e non possiamo dire a rigore che il nostro corpo provi sete o fame o altro.

35d) Chi si trova nel mezzo tra una sofferenza per un’affezione attuale e una soddisfazione del desiderio ancora da ottenere (questa soddisfazione è evocata dalla memoria, ma non ancora ottenuta), soffre e gode al tempo stesso, mentre, se dispera di ottenere soddisfazione, soffre due volte. Di conseguenza l’uomo e gli altri esseri viventi soffrono e godono contemporaneamente.

36c) Ci sono piaceri falsi o veri come vi sono opinioni false o vere? Per esempio sarebbe un piacere falso quello di chi crede di godere e non gode? È giusto sostenere queste cose.

37a) Andiamo ad analizzare più nello specifico. Il problema è la differenza (possibile ma non appurata) tra l’opinare e il godere. Entrambi sono diversi dal loro oggetto. L’opinare è diverso dall’oggetto dell’opinare; il godere è diverso dall’oggetto del godere. Chi opina non intacca l’oggetto anche se opina falsamente. Chi gode non intacca l’oggetto del godere anche se gode falsamente.

37b) Dunque se il godere è sottoposto alle stesse dinamiche dell’opinare, perché il piacere si dice sempre vero, mentre l’opinione si dice vera o falsa? Se noi diciamo che una opinione è vera o falsa la qualifichiamo in un senso o nell’altro. È possibile, allora, che alcune cose abbiano diverse determinazioni, cioè vero o falso, ma piacere e dolore siano sempre e solo quello che sono? No anche i piaceri possono assumere qualificazioni diverse: per esempio se a essi si aggiunge la malvagità, diremmo che una opinione diventa cattiva e lo diventa anche il piacere. Se quindi anche piacere e dolore devono assumere diverse qualificazioni, qualora ci si sbagliasse riguardo l’oggetto per cui si gode o ci si addolora non si dovranno dire falsi il piacere o il dolore? Protarco dice di no perché egli sostiene che non è possibile che un piacere si sbagli. Mentre Socrate sostiene che il piacere può generarsi non sulla base di una opinione corretta ma di una falsa. Protarco ribatte che in tale circostanza si suole dire l’opinione falsa, non il piacere.

38a) Protarco ammette che i piaceri che si generano da un’opinione falsa e da una vera differiscono. Come accade nei miraggi, a partire da qualche sensazione, per esempio la vista di qualcosa, ci si può formare una opinione vera o falsa, ipotizzando in modo corretto o ipotizzando qualcosa di sbagliato. Tale opinione poi diventa un discorso.

38e) Pertanto la sensazione, insieme alla memoria, genera l’affezione, la quale scrive discorsi nelle nostre anime (la nostra anima è come un libro) Se l’affezione è vera scriverà discorsi veri, se falsa scriverà discorsi falsi. Accade che vi sia anche una sorta di pittore che, dopo lo scrivano, dipinge nelle nostre anime delle immagini o rappresentazione di ciò che è stato detto (secondo il seguente ordine: 1) sensazione+memoria=affezione 2) discorso nell’anima 3) se vero, opinione e ragionamento vero 4) pittore 5) l’immagine di ciò che è detto). L’opera del pittore si comprende quando ciascuno vede in se stesso le immagini delle cose opinate o dette, quando queste sono lontane dagli organi di senso. Le immagini di discorsi e opinioni veri sono vere, mentre quelle che provengono da discorsi e opinioni falsi sono false.

39c) Si è detto prima che i piaceri e i dolori propri dell’anima possono precedere il piacere e il dolore che nascono dal corpo, tanto che ci accade di godere e di addolorarci in precedenza per ciò che avverrà in futuro. Noi infatti siamo sempre pieni di speranze. (La speranza - o la paura - fa parte degli scritti/dipinti nati nella nostra anima che Platone ammette accanto a quelli nati dalla sensazione+memoria).

39e) Negli uomini buoni vi sono discorsi che, nati nella loro anima, sono buoni e speranze buone (la bontà dei discorsi e delle speranze non ha un riferimento esterno alle cose, ma un riferimento all’ “essere caro agli dei”: discorsi e speranze buone nascono a motivo del fatto che coloro in cui nascono sono cari agli dei); altrimenti vi sono discorsi, sempre nati nell’anima, cattivi e speranze cattive. Dunque anche i cattivi, non meno dei buoni, hanno piaceri dipinti, ma questi sono verosimilmente falsi e quindi essi godono il più delle volte di falsi piaceri, mentre quelli buoni godono di piaceri veri.

40c) Nell’anima vi sono falsi piaceri e falsi dolori, chi prova un qualsiasi godimento gode sempre realmente, anche se di ciò che non esiste, a volte poi di ciò che non è esistito (piacere che nasce da un discorso falso su cose che non esistono), e addirittura spesso, forse più frequentemente, di ciò che neppure esisterà mai. Questi ultimi sono esattamente i piaceri falsi che dunque nascono da speranze false dovute al non essere cari agli dei e comprovate nella loro falsità dal fatto che le cose sperate non esisteranno..

40e) Le opinioni dannose sono quelle false, allo stesso modo i piaceri cattivi lo sono perché sono falsi. Contro tale opinione si pone il nostro Protarco: infatti non si possono affatto considerare cattivi i piaceri e i dolori per la loro falsità, ma in quanto accompagnati da qualche altra grande vera malvagità. Socrate ribatte che di questi casi si parlerà più avanti, mentre ora bisogna parlare dei piaceri falsi che, più numerosi e frequenti, si generano in noi in altro modo.

41c) Come si generano i desideri? È l’anima che desidera condizioni contrarie a quelle del corpo, mentre il corpo procura piacere o dolore, che sono frutto di un’affezione (sensazione +memoria a stare a quanto detto prima). In questi casi avviene che si trovino fianco a fianco piaceri e dolori, e che si generino insieme le rispettive sensazioni – la sensazione di piacere e di dolore -, pur essendo questi contrari tra loro. Prima abbiamo posto che piacere e dolore accolgono il più e il meno e appartengono all’illimitato.  Valutare un piacere e un dolore significa compararli per capire quando l’uno è più grande, più piccolo, maggiore, più intenso di un altro. Chi valuta l’intensità e il più o il meno di un piacere/dolore può trovarsi nelle stesse condizioni della vista quando vede le cose grandi da lontano e da vicino in modo tale da oscurare la verità e opinare il falso. Poco fa si diceva che opinioni false generano piaceri e dolori falsi, ora invece questi stessi piaceri e dolori vengono esaminati ogni volta in modo diverso da lontano e da vicino, così che i piaceri sembrano più grandi e più intensi se confrontati al dolore, e il contrario succede ai dolori per il fatto di venire contrapposti ai piaceri. Insomma piaceri e dolori se posti in un rapporto reciproco appaiono in comparazione più grandi di quello che sono presi isolatamente. In questo modo non si può dire che l’apparenza sia corretta però si può correggere tale inganno cercando la misura corretta e vera del piacere e del dolore. (Platone vuol dire che quando dolore e desiderio si generano assieme, essi appaiono reciprocamente più grandi: il dolore è grande quanto più sia comparato col desiderio e il desiderio tanto più grande se comparato con il dolore, cioè la sete è tanto più grande se comparata con il desiderio di bere, mentre il desiderio di bere è tanto più grande se comparato con la sete…e questa è una sorta di distorsione cognitiva che falsa la loro misurazione)

42c) In natura alla corruzione dei corpi genera dolori, ma quando ciascuno ristabilito nella sua natura, questo ripristino è un piacere. Ma che cosa succede quando non si verifichi niente di tutto ciò nel nostro corpo? In tale situazione, dice Protarco, non si produrrebbero più né piacere né dolore, benché Socrate gli faccio notare che egli stesso sostiene che è necessario che ci sia sempre uno dei due stati, facendo riferimento ad un éndoxon dei sapienti. Nondimeno tale affermazione non è appropriata perché in realtà ci sono grandi mutamenti che provocano piacere e dolore, ma altri più piccoli che non li provocano.

43c) Quindi, per ciò che riguarda i piccoli piaceri e dolori, si può dire che, non essendo avvertiti, danno luogo ad una condizione neutra. Perciò esistono tre generi di vita, uno piacevole, uno doloroso, uno neutro. Da qui Socrate deduce che il non-soffrire non è mai identificabile con il godere, benché ci sia chi dice che trascorrere la vita senza soffrire equivalga a godere. Ciò sarebbe come dire che, posti tre oggetti, oro, argento, e una materia diversa, e ammesso che la terza non posso diventare oro o argento, la vita intermedia, come terza tra quella piacevole e dolorosa, possa invece essere assimilabile a una delle due. Pertanto chi crede di godere quando non prova dolore ha un’opinione falsa del godere se la natura del non-soffrire e del godere sono tra loro distinte.

44b) Se i tipi di vita fossero due, il dolore sarebbe il male e l’eliminazione del dolore coinciderebbe con il bene. Chi sostiene questa opinione finisce per affermare che i piaceri non esistono affatto, e che quelli che gli amici di Filebo chiamano piaceri, non sono che liberazioni dai dolori. Bisogna dunque analizzare le opinioni di questi e porli a confronto con le idee di Socrate per valutare meglio i piaceri e il loro potere.

44d) Per comprendere tale posizione antiedonista bisogna constatare che essa parte dall’idea che bisogna assumere un punto di partenza dall’alto: se vogliamo capire la natura di un’idea, dobbiamo esaminare gli oggetti che la posseggono in modo più evidente. Per esempio se vogliamo esaminare il piacere dobbiamo esaminare gli oggetti che più  piacciono o meglio gli stessi piaceri e tra essi i più acuti e intensi. Ma i piaceri più vicini e più grandi sono quelli che riguardano il corpo, e in particolare un corpo nella malattia, perché i piaceri sono più forti e grandi laddove siano preceduti da grandissimi desideri. I corpi nella privazione provano infatti piaceri più grandi, una volta soddisfatti. Inoltre i piaceri più grandi non si trovano nella temperanza (“nulla di troppo”), ma nella sregolatezza: gli intemperanti sono preda fino alla follia di un intenso piacere che procura loro discredito. Pertanto si può dire che i più grandi piaceri e i più grandi dolori si generano in una certa cattiva condizione dell’anima del corpo.

45e) Il modo d’essere dei piaceri nelle malattie è misto al dolore: si veda per esempio il grattarsi per chi è malato di scabbia, in cui in realtà sembra esservi più un male misto a piacere.

46b) Nella mescolanza di piaceri e dolori, vi sono mescolanze relative al corpo, relative all’anima per se stessa, e relative all’anima e al corpo insieme. In queste ultime la mescolanza è chiamata a volte piacere o a volte il dolore. Quando uno infreddolito si riscalda o accaldato si rinfresca, la mescolanza di dolce e amaro presenta un intreccio difficilmente districabile. In alcune mescolanze di questo tipo c’è dolore e piacere in eguale misura, in altre prevale uno dei due. Nella scabbia e nei pruriti prevale il dolore, in altre situazioni il piacere è mescolato in misura maggiore del dolore e, dove a un piccolo dolore segue un grande piacere, il piacere è considerato massimo, secondo l’opinione comune.

47c) Questo vale anche per le mescolanze di affezioni del solo corpo. Ma vi sono casi in cui l’anima fornisce affezioni contrarie a quelle del corpo ponendo insieme dolore contro piacere e piacere contro dolore, tanto che entrambi si fondono insieme, come prima abbiamo visto. Di fatto in questi casi, in cui l’anima è in contrasto con il corpo, si produce una mescolanza unica di dolore e piacere. Vi sono poi le mescolanze di piacere e dolore prodotte dall’anima in se stessa. Collera, paura, rimpianto, cordoglio, amore, gelosia, malevolenza sono questi dolori pieni di smisurati piaceri o piaceri misti a dolore come avviene negli spettacoli tragici dove contemporaneamente si piange godendo.

48a) O come avviene anche nelle commedie. Pertanto vi è  necessità di un’ulteriore indagine su come nella commedia si dia una disposizione della nostra anima in cui vi è mescolanza di dolore e piacere.

48b) Ora si procede all’approfondimento della mescolanza tipica della commedia a partire dai seguenti ragionamenti. Data la malevolenza come un “godere dei mali dei vicini”, e dato che l’ignoranza è un male, così come lo è la stupidità, si comprende in questo modo la natura del ridicolo. Al suo fondo c’è una malvagità particolare che si trova nella condizione della ignoranza di sé.

48d) L’ignoranza di sé va considerata sotto tre aspetti: riguardo alle ricchezze (credersi più ricco di quanto si sia - 1), riguardo a grandezza, bellezza e dotazione del corpo (2), riguardo ai beni dell’anima, alla virtù e alla sapienza (3). Quest’ultima ignoranza di sé potremmo definirla come un male totale. L’ignoranza di sé si può ulteriormente dividere in due tra chi, avendo falsa opinione di sé, ha tuttavia forze potenza, cioè è capace di vendetta per le derisioni, e chi non ha forza e potenza ed è incapace di vendicarsi delle derisione. Questi sono ridicoli, quelli temibili, odiosi e turpi.

49c) Comprendi anzitutto il potere della malevolenza. Se gioire per i mali dei nemici non è ingiusto, godere per i mali degli amici è ingiusto. Ma gli amici che sono ignoranti di sé e non dannosi sono ridicoli. Quando ne ridiamo proviamo piacere. Ma ridere per gli amici ridicoli, implicando malevolenza, è un male. Dunque qui c’è una mescolanza di piacere e malevolenza, considerando la malevolenza equivalente al dolore dell’anima e il ridere equivalente al piacere. Da tutto quanto abbiamo detto si comprende come nelle tragedie, nelle commedie, ma anche nell’intera tragedia e commedia della vita, in infiniti casi, i dolori e il piacere si mescolano. Quindi in conclusione sia il corpo senza l’anima, sia l’anima senza il corpo, sia tutti e due insieme nelle loro affezioni sono pieni di piacere mescolato a dolore.

50e) Non tutti i piaceri sono cessazione di dolori; alcuni lo sembrano ma non lo sono, altri sono mescolati con dolori e con pause nel dolore. Veri piaceri sono “i colori cosiddetti belli, le figure, la maggior parte degli odori e dei suoni, e tutte le realtà la cui mancanza non viene avvertita e non comporta dolore, e la cui presenza offre riempimenti percepibili e piacevoli, privi di dolori” (piacere senza interesse di Kant, n.d.r.). Proviamo a specificare: figure belle non sono quelle della pittura, che sono belle in relazione a qualcos’altro, ma quelle della geometria che sono sempre in se stesse, belle per natura. Allo stesso modo belli intendo i colori che lo sono in sé, i suoni limpidi e chiari che producono un’unica frase musicale pura, tra gli odori, i quali appartengono a un genere meno divino, sono piacevoli quelli che non si mescolano necessariamente a dolori (Platone predilige tra odori e colori, i colori perché, dentro il sensibile, ritiene che la vista sia il senso più nobile e “metafisico”, n.d.r.). A questi aggiungiamo i piaceri relativi alle conoscenze, se non comportano una fame di sapere che produce sofferenze. Tali ultimi piaceri, non misti a dolore, sono riservati a pochi. Dunque, date queste riflessioni, abbiamo distinto i piaceri puri da quelli impuri, e possiamo individuare nei piaceri intensi una mancanza di misura, e in quelli non intensi la giusta misura.

52d) Più vicino alla verità è ciò che è puro, integro, sufficiente, al contrario del molto, dell’intenso, del grande. Per esempio, nel genere del bianco, la purezza non consiste nell’essere più grande o più abbondante, bensì nell’essere più integro e nel non avere nessuna parte di altro colore. Poco bianco puro è più bianco, più bello e più vero di tanto bianco mescolato. Così è per i piaceri: ogni piacere privo di dolore, per quanto piccolo e raro, è più piacevole, più vero e più bello di uno grande e di uno frequente.

53c) Alcuni uomini raffinati (forse Aristippo) ci dicono che il piacere è sempre generazione, e non vi è un essere del piacere (endoxon, il ragionamento assume che piacere=generazione, n.d.r.)). Per capire meglio la questione vediamo che ci sono sempre due generi di cose: quelle in sé e per sé e quelle che tendono ad altro. Il primo genere è sempre venerabile, l’altro gli è inferiore. La realtà in sé (sostanza, n.d.r.) viene prima di quella che è in funzione della realtà in sé (accidente, n.d.r.). La generazione è sempre in funzione dell’essere. Ma il piacere è una generazione e allora in funzione di quale realtà essa generazione dovrà porsi?

54c) Da un lato vi è il bene, dall’altro vi è ciò che è in vista del bene. In generale il fine del divenire è sempre un essere-bene. Ma il piacere, in quanto generazione, è in funzione di un essere che è bene, dunque è diverso dal bene e chi dice che il piacere coincide con il bene sbaglia (confutazione di Protarco, n.d.r.). Bisogna ridere di coloro per cui il piacere coincide con il bene e che non rinuncerebbero ad una vita di bisogni per non rinunciare ai piaceri connessi alla loro soddisfazione. Se poi diciamo che il bisogno, in quanto contrario del piacere, è pure contrario alla generazione, e dunque si può chiamare distruzione, allora chi scegliesse il piacere sceglierebbe di provare bisogno per poi provare il piacere della soddisfazione e quindi sceglierebbe sia la distruzione sia la generazione – (posizione dichiarata implicitamente assurda di chi sceglie di avere bisogno per il gusto di soddisfarlo, Engels: il sistema socialista raggiungerà una capacità produttiva tale da dover/poter suscitare bisogni per poi soddisfarli n.d.r.). Così (chi si dedica esclusivamente al piacere) escluderebbe quel terzo tipo di vita che non implica il godere o il soffrire ma il pensare nel modo più puro possibile. Che il piacere non sia identificabile con il bene si dimostra anche dicendo che è assurdo affermare al tempo stesso che solo nell’anima risieda il bello e il buono, e che in essa sia buono solo il piacere - giacché questo coinciderebbe con il bene – finendo per escludere ciò che è diverso dal piacere ma pur sempre buono come il coraggio, la temperanza, l’intelligenza e altro. Altresì è assurdo che, identificando il bene con il piacere, l’uomo migliore del mondo sia cattivo quando soffra, e il peggiore sia buono quando gode.

55c) Siccome l’analisi verte sul genere di vita misto, e prima si sono analizzati i piaceri, ora bisogna completare la ricerca, analizzando intelligenza e scienza per depurarle da ciò che in loro eventualmente è marcio. Una volta individuata la loro parte pura bisogna mescolarla alla parte più pura del piacere. L’insegnamento della scienza è finalizzato alla produzione, all’educazione e all’allevamento. Tra le tecniche manuali ve ne sono di purissime e meno pure. Le componenti di tali tecniche sono il contare, il misurare e il pesare. A ciò dobbiamo aggiungere il congetturare e l’esercitare i sensi nella pratica empirica e nell’esercizio. Tra le tecniche ve ne sono di poco esatte come l’arte del flauto - che armonizza gli accordi non secondo misura ma secondo congetture dedotte dalla pratica, mescolando molto di incerto e poco di sicuro -, come la medicina, l’agricoltura, la nautica e la strategia. Invece precisissima è l’arte delle costruzioni sia di navi sia di edifici. Pertanto vi sono tecniche con maggiore e minore esattezza.

56c) Tra le tecniche precise bisogna collocare l’aritmetica. Ma ve ne sono di due tipi, quella comune e quella dei filosofi. La prima numera unità disuguali, come due eserciti, due buoi, due oggetti qualsiasi, i più piccoli o anche i più grandi di tutti; l’altra non si unirebbe alla prima se non prima stabilendo che nessuna delle innumerevoli unità è diversa da un’altra. Alla prima corrisponde il calcolo in architettura e nel commercio, alla seconda quello nella filosofia che si occupa di geometria.

57a) Abbiamo visto dunque che ci sono scienze più pure di altre, dato che vi sono tecniche superiori per rigore e verità e molte tecniche pur avendo un nome comune sono duplici. Allora perché non è possibile pensare che vi siano piaceri più puri di altri?

57e) La potenza della dialettica ci rinnegherebbe se giudicassimo qualche altra scienza superiore a lei. Essa è la scienza dell’essere, di ciò che realmente è e che è per natura sempre identico a se stesso, ed è la conoscenza di gran lunga più vera … E che dire di Gorgia, secondo cui la persuasione è superiore a tutte le altre?

58b) La retorica (praticata da Gorgia) è molto utile, ma la dialettica è la più grande in quanto ha di mira la chiarezza, il rigore e l’assoluta verità, per quanto piccola e poco utile sia. Essa possiede la purezza dell’intelligenza e dell’intelletto più di tutte le altre perché meglio aderisce alla verità.

58e) Le altre tecniche sono nell’ambito delle opinioni, così come lo studio della natura che non riguarda l’essere ma il divenire delle cose. Ma su una realtà che non è stabile non si potrà mai avere una conoscenza stabile e quindi non si potrà mai avere una scienza che abbia in sé la verità.

59b) La stabilità, la purezza, la verità di ciò che chiamiamo genuinità noi le troviamo nell’ambito di quelle realtà che sono sempre identiche a se stesse e stabili, assolutamente senza mescolanza. Tutte le altre sono secondarie e inferiori. A tali realtà, che sono le cose più belle, bisogna attribuire i nomi più belli, e i nomi più belli sono intelligenza e pensiero.

Parte terza: il Bene come misura e la gerarchia dei valori

59e) Ora pensiero e piacere, quanto alla loro reciproca mescolanza, ci stanno davanti come se fossero materiali che stanno davanti ad artigiani che li devono impiegare. Pertanto nel discorso ora bisogna realizzare la mescolanza, non senza prima aver ribadito le reciproche nostre posizioni, quella di Filebo secondo cui il piacere è il fine appropriato degli esseri viventi, quella di Socrate che afferma essere buono e piacevole due cose diverse e che il pensiero partecipa del bene più del piacere. Ci si trova d’accordo sul fatto che la natura del bene è superiore alle altre perché, se posseduta completamente, garantirebbe assoluta autosufficienza. Tuttavia da soli né pensiero, né piacere offrono piena autosufficienza. Pertanto nessuno dei due modelli di vita - fondato sul piacere o sul pensiero - è degno di scelta da parte di tutti e buono in assoluto.

61a) Per stabilire che cosa è degno di scelta in seconda posizione, dopo che la prima è occupata dalla mescolanza di pensiero e piacere; per sapere se la seconda posizione è occupata dall’uno o dall’altro bisogna anzitutto guardare al bene. Sicuramente la casa del bene è nella vita mista.

61c) Per ricostruire la vita mista nel discorso, Socrate immagina che lui e Protarco siano due coppieri che hanno di fronte due sorgenti, una di miele-piacere, l’altra di acqua-pensiero. Il compito è mescolarle nel modo migliore possibile, sapendo che è rischioso mescolare a caso, mentre è meglio mescolare le parti più vere di ciascun componente, poi verificare se, così mescolate insieme, sono sufficienti per offrirci una vita più desiderabile (la vita mista auspicata da Platone è dunque una commistione di “purezze”: il piacere più puro e l’intelligenza più pura, n.d.r.).

62a) Siccome nella vita reale non ha senso possedere solo una teoresi purissima, ma bisogna vivere anche con un sapere meno puro, ma più rispondente al nostro livello di esistenza, bisognerà, tra le scienze, accogliere tutte, quelle più pure e teoretiche e quelle meno pure e tecniche, nella mescolanza.

62d) Dopo aver fatto tale selezione per le scienze, bisognerà anche selezionare i piaceri? Bisognerà dunque far entrare prima i piaceri veri, poi quelli necessari, poi tutti gli altri? Dal punto di vista del piacere sembrerebbe di sì, perché da un lato è bene che un genere, come lo è il piacere, abbia il maggior numero di relazioni con gli altri generi possibili (in generale Platone afferma che la “completezza” di un genere si raggiunga mediante il maggior numero di relazioni possibili con altri generi, e questo valga anche per il genere “piacere”); dall’altro in una mescolanza per un componente di tale mescolanza, come lo è l’intelligenza, è meglio avere una conoscenza di tutte le cose con le quali è mescolato, cioè appunto di tutti i piaceri, affinché essi siano conosciuti nel modo più completo possibile. Questa è la risposta che verrebbe dai piaceri.

63c) La risposta invece che verrebbe dal pensiero è la seguente: visti gli svantaggi dei piaceri intensi e grandi e invece la familiarità dell’intelligenza stessa con i piaceri veri e puri, e il loro legame con la virtù della conoscenza del bene, la mescolanza è auspicabile con questi ultimi e non con gli altri. Ora il discorso sembra compiuto.

64c) Manca solo di stabilire un’analisi della mescolanza in relazione al bene. Quindi si domanda che cosa nel misto può sembrare insieme la cosa di maggior valore e la causa principale che ha fatto diventare un tale tipo di vita cara tutti noi. Si risponde dicendo che una mescolanza senza misura e proporzione non è un vero misto, ma un puro insieme non amalgamato che rovina i propri componenti. Si precisa poi che misura e proporzione realizzano bellezza e virtù e nel bello si “rifugia” la potenza del bene, cui è connessa anche la verità. Quindi il bene qui è colto per mezzo del bello, della proporzione e della verità. Se ciò è possibile, è però anche possibile vedere e prendere il bene da solo come causa della bontà della mescolanza e delle realtà - bellezza, proporzione, verità - che vi sono connesse nella mescolanza. Infatti la mescolanza è buona perché essa è bene (palindromo concettuale, n.d.r.).

65a) Ora, bellezza, verità e misura sono più affini al piacere o all’intelligenza? Certamente la verità è più simile e vicina all’intelligenza (si pensi solo al piacere dell’amore, che ammette lo stesso spergiuro e quindi la massima mancanza di verità). La misura è più simile all’intelligenza poiché il piacere può essere smisurato mentre l’intelligenza è misura. Quanto alla bellezza, nessuno penserà che l’intelligenza possa essere brutta, mentre i piaceri più grandi generano vergogna per la loro bruttezza.

66a) Quindi nella gerarchia dei valori al primo posto va messo ciò che è nei pressi della misura; al secondo ciò che è nei pressi della proporzione e del bello; al terzo intelligenza e pensiero; al quarto le cose che appartengono alla sola anima nell’ambito delle scienze tecniche e delle opinioni rette; al quinto i piaceri puri dell’anima, alcuni dipendenti dalle scienze altri dalle sensazioni; al sesto l’ordine del canto (con riferimento non ulteriormente approfondito ad Orfeo, n.d.r.).

66d) Ora, tirando le fila, si ribadiscono le posizioni iniziali di Filebo - il piacere è per noi il bene - e di Socrate - l’intelligenza è molto superiore al piacere e migliore per la vita degli uomini. Poi si ribadisce che è stato trovato nel misto qualcosa di superiore a intelligenza e piacere. Infatti né piacere, né intelligenza sono autosufficienti e, quindi, essendo il bene autosufficiente, si afferma che questi non possono coincidere con il bene. Tuttavia l’intelligenza è “infinitamente” più vicina al bene rispetto al piacere. Di conseguenza il piacere va al quinto posto e solo gli animali possono essere presi ad esempio di una preferenza e di un primato dato al piacere.

Finale aperto: “Rimane ancora, Socrate, una piccola cosa…” da trattare …  di cui poi, però, non si parla.

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