Carlo Gambescia
Una risposta a Massimo Maraviglia
Si può insegnare il bene?
Massimo Maraviglia (nella foto) probabilmente rimane, tra le tante persone che ho conosciuto in quindici anni di Web, la più interessante. Alla preparazione filosofica di prim’ordine unisce una notevole capacità di ascolto e argomentazione, pur avendo proprie idee filosofiche e politiche.
I suoi “tag” sono sempre stimolanti. Cosa che non capita di frequente sui social. Ieri per esempio ha pubblicato un ottimo riassunto del Filebo che mi ha spinto a riflettere sulla possibilità di insegnare il bene (*) . Di qui un icastico scambio di battute tra noi che riporto:
Carlo Gambescia Si può insegnare il bene? Esiste una scienza del bene? La conoscenza è virtù? :-) Comunque sia, caro Massimo, sei un ottimo docente.
Massimo Maraviglia Grazie Carlo...sempre gentilissimo!!! ...si potrebbe anche domandare: "Si può fare a meno di una scienza del bene?" ...e: "Quale scienza in ultima istanza non è una scienza del bene?".
In effetti, la risposta di Massimo Meraviglia, seppure breve, come il mio commento del resto, pone un problema di fondo, altrettanto importante, sulla natura cognitiva del sapere morale.
Ora, dal punto di vista filosofico, diciamo “platonico-socratico” ,che è quello di Massimo (credo…), si può concedere che sia più che accettabile il momento costruttivista del pensiero.
Come fare a meno di una scienza del bene? Cioè, di perseguire, dunque costruire, attraverso un metodo, quindi trasmissibile agli altri - perciò “insegnabile” - il bene? Rifuggo dalla definizione di bene, perché porterebbe troppo lontano. Ne do per scontato il contenuto libero. Anche perché sono interessato a un altro aspetto, quello sociologico, che esula sotto l'aspetto disciplinare dalle questioni filosofiche.
Punto di vista, che è il mio, umilissimo per carità. Da sociologo peón rifletto sul momento costruttivo del pensiero e sulla sua trasmissibilità. Due attività che implicano un processo sociale, cioè una dinamica che rinvia all’interazione tra individui e ai prodotti sociali che ne derivano.
Ora, il concetto di individuo implica diversità di condizione, intelligenza, volontà. Quindi il bene, non sempre (diciamo per ora così...) può essere capito e accettato da tutti. Inoltre, il prodotto sociale, non è che l' istituzione, cioè la condensazione sociale di forme di comportamento che hanno logica propria, logica che implica la “routinizzazione” del bene.
Cosa voglio dire? Che la “scienza del bene” non può non fare i conti con la riproduzione sociale del bene, l’istituzionalizzazione. Alla presuntiva perfezione del sistema filosofico, risponde la consuntiva imperfezione dei sistemi sociali, racchiusa nelle inevitabili formalizzazioni-standardizzazioni del bene. O se si vuole di banalizzazione quotidiana del bene. Il che significa che il bene si può anche insegnare, ma che inevitabilmente, ogni individuo reagirà secondo i propri mezzi, e ogni istituzione secondo i propri bisogni.
Di qui però quel fenomeno che si chiama costruttivismo sociale, cioè la credenza, in una realtà politica (non filosofica) che ritiene che individui e istituzioni, visti come privi di logiche proprie, possano essere radicalmente plasmati e riplasmati grazie all’insegnamento del bene. Una trasmissione che però - ecco il punto critico - per ricaduta sociologica, non può non tradursi in forme di routinizzazione del bene. In qualcosa che sarà sempre inferiore all’idea di bene - qualunque essa sia - che il costruttivista politico persegue.
Sicché il totalitarismo politico diventa il prolungamento sociale inevitabile dell’ approccio costruttivista. Esagero? Diciamo che tra il welfare state e lo stato caserma c’è una differenza di grado ma non di specie. Di conseguenza, la “scienza del bene”, di cui non si può fare filosoficamente a meno, sociologicamente parlando rappresenta un rischio politico, di cui si potrebbe - o addirittura si dovrebbe - fare a meno. Ma come?
Puntando sull’educazione individuale, su un processo di crescita del singolo, che non implichi la trasmissibilità sociale e dunque il rischio di politicizzazione- banalizzazione del bene?
Sociologicamente parlando, l’individuo cambia idea, per paura, necessità, convenienza, conformismo, persuasione. Ora, per parafrasare una celebre formula, si può opporre la persuasione filosofica, individuale, alla retorica sociale, collettiva, ma non alla paura, alla necessità, alla convenienza, al conformismo.
Perciò, come si può capire i margini sociologici di una “scienza del bene” sono piuttosto esigui.
Questo però non significa che il bene, qualunque esso sia, non si possa insegnare, filosoficamente insegnare. Certo che si può fare, ci mancherebbe altro. Tenendo però presente che la sociologia ci dice che saranno sempre in pochi a evolvere. Gli altri, la maggioranza, banalizzeranno, per paura, necessità, convenienza, conformismo. Perché, in ultima istanza, le società o sono banali o non sono.
Più si ignora questa regolarità metapolitica più si rischia, pur proponendosi gli scopi più nobili, di trasformare la banalità del bene in banalità del male. Ma questa è un’altra storia.
Carlo Gambescia
Si può insegnare il bene?
Le risposte di Massimo Maraviglia e Carlo Pompei
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Una questione di purezza
di Massimo Maraviglia
Una questione di purezza
di Massimo Maraviglia
Caro Carlo,
La filosofia prende gli argomenti su cui non esiste un accordo e comincia a trattarne. Per questo nella tradizione occidentale, essa coincide con la dialettica, luogo di incontro-scontro nel dialogo di posizioni opposte alla ricerca di una sintesi che tutti possono onestamente riconoscere come vera.
Dunque l’argomento della varietà e della disparità di opinioni, per quanto ritornante nella storia del pensiero, appartiene più alla storia del tentativo ritornante della sua negazione: inutile pensare, troppo complicato; nulla è vero, tutto è troppo difficile; ricerchiamo in eterno e in eterno domandiamo, la risposta è troppo impegnativa …
Questo è il destino del bene nelle reti sofistiche del relativismo e dello scetticismo! Ma la filosofia pisciforme e libera sfugge alle maglie relativistiche e pone continuamente il problema del bene. Quasi non potesse farne a meno. Quasi irretita in altre reti dal suo irresistibile fascino. Quasi chiamata al suo destino: uscire al sole, farsi abbagliare dai suoi raggi, dopo la lunga e faticosa prigionia nella caverna. Il mito platonico tocca corde profondissime … Tre volte grande bisognerebbe chiamare quello della caverna: grande nell’essere, grande nel conoscere, grande nel vivere: il sole dell’essere, la luce del conoscere e poi la passione del vivere che è quella propriamente umana di tornare ostinatamente dentro la caverna per chiamare i compagni di prigionia, ora divenuti amici, a farsi evangelizzare dalla luce. Ma “i suoi non lo riconobbero”: il destino della filosofia e della sua buona notizia al contatto con la res dura del mondo.
Che cosa distingue Cristo da Platone? La vocazione alla riforma politica in Cristo diventa un affare enormemente più complesso. Tutti e due sono nel mondo, solo Cristo non è del mondo, e quindi costringe il pensiero politico a pensare il regno terreno solo attraverso il filtro di quello escatologico (benché anche lungo tale cammino il Filosofo ateniese compia passi da gigante). Mai e poi mai ti sarà concesso di illuminare la caverna in modo definitivo. Il bene ha una sua chimica che reagisce in modo imprevedibile al contatto con la pòlis.
Platone lo capisce: infatti i cavernicoli vogliono uccidere l’uomo libero. Lenin ne trae le dovute conseguenze: useremo lo Stato per schiacciare senza pietà i recalcitranti, gli ostinati, coloro che per interesse o cecità non accettano la Giustizia. Adorno registra la contraddizione e pone l’alternativa: o dedicarsi alla purezza del pensiero, condannandosi all’impotenza; o promuovere un pensiero che si invera nella prassi e si consegna inevitabilmente alle dinamiche di dominio. Forse non c’è rimedio. Se si considera il bene come l’utopia e la sua trascendenza come l’affermazione di un’inconciliabilità, la disfatta è assicurata. Ma il bene è il bene di queste cose, di questa vita, di questo mondo. La sua purezza è la purezza di qualcosa.
Su ciò insiste il Filebo. La purezza è una purificazione di vite concrete, che sono sempre miste, complicate, un pizzico bastarde … compito dell’uomo è ricostruire con la ragione, se mai esiste un costruttivismo è solo questo, questa mescolanza, facendone un’elevata mescolanza di purezze: ciò è piacere e intelligenza! Il bene dunque è la purezza che rende trasparenti le mescolanze, e perciò le eleva verso la loro integrità, dove non manca nulla: bonum ex integra causa. Esso pertanto, contro ogni apparente difformità, è connaturale all’essere, è il naturale cammino di ogni cosa che tappa i buchi delle proprie mancanze e tende al meglio di sé (il Filebo prepara la critica aristotelica alla trascendenza del bene, ma al tempo stesso la rende inutile). Bonum et ens convertuntur.
Perciò non se ne può fare a meno anche in politica. Non si può evitare la banalizzazione del bene: certo, come tu giustamente affermi: la società è banale o non è. Ma non si esce dalla sua necessità, perché il bene della convivenza è la convivenza. Mentre noi lo pensiamo siamo costretti ad essere platonici, cioè dobbiamo pensarlo nella sua purezza, mentre lo viviamo siamo costretti ad essere aristotelici, cioè lo dobbiamo sperimentare nella sua immanenza, mentre lo costruiamo politicamente dobbiamo essere cristiani, cioè capire che il suo Regno non è di questo mondo, ma che in questo mondo può iniziare (altrimenti Cristo non sarebbe al tempo stesso il Messia definitivo e il Signore della storia).
Così facendo fuggiamo da una triplice eresia: il donatismo, il monofisismo, il pelagianesimo: pensare in modo puritano il bene come tutto il rigore che posso imporre agli altri; pensare in modo cataro-manicheo il bene come un’alterità disincarnata che rifiuta il mondo, il quale dunque è consegnato inevitabilmente alle sue logiche; pensare in modo prometeico il bene come mio possesso in modo tale da ritenermi capace di salvare il mondo … così … con la mia forza s-graziata e senza cadere nella dis-grazia.
Alla fine di questo percorso, però, bisogna farsi una risata. Sto leggendo un autore straordinario, un argentino nel quale si respira la metafisica dell’Occidente che, nell’estremo occidente, dalle pianure sterminate della Patagonia alle rarefatte altezze delle Ande, sembra che trovi il suo peculiare compimento. L’esperienza del Sudamerica è un’esperienza squisitamente occidentale: mi trovo molto di più nel misticismo denso di fede e di ironia di un Leopoldo Marechal (l’autore in questione) - il cui mondo pieno di angeli, demoni, preti, avventurieri a cavallo, clown, magnati in ricerca, puttane e filosofi, vive al ritmo di un tango metafisico - che nei costruttivismi ultra-anti-moderni di un Dugin (dove rischia di albergare l’eterna tentazione del radicalismo nichilista … ogni russo, temo, nasconde un Nečaev).
Ora, grazie a Marechal si comprende che l’ironia non è un’arma, uno strumento per altri fini, come in ogni costruttivismo che ne ha bisogno per radere al suolo il passato, ma un effetto: l’effetto comico della giustapposizione della misura umana e dell’eterno. Essa produce conseguenze grottesche e surreali e infine fa ridere di gusto. Forse il primo gesto di Adamo guardando il suo Creatore, e guardandosi al suo cospetto, fu quello di ridere. Forse il Creatore, potendo vedere la scena dall’esterno, fu parimenti colto dall’irrefrenabile voglia di scoppiare a ridere. Dentro questa laïcité occidentale della risata, che relativizza le ricorrenti tentazioni totalitarie della sua storia, c’è il segreto di una convivenza possibile al cospetto, in ricerca, in ossequio, con la passione e infine con il sorriso del bene.
Un caro saluto.
per gli altri interventi rinvio a https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/
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