sabato 15 dicembre 2018

Regali


Chissà perché a Natale, proprio a Natale, insorgono i nemici del consumismo. E' vero: oggi lo fanno meno che ieri. Un po' perché si va mestamente nella direzione di una laicizzazione completa della ricorrenza...che a breve diventerà quello che già è nelle scuole progressiste più à la page: la festa d'inverno. Un po' perché in omaggio a tale laicizzazione, le luci, i colori e i negozi pieni scandalizzano sempre meno i benpensanti. Tuttavia, siccome la tentazione del predicozzo è universale e alligna specialmente nelle illuminate menti laiche, queste ultime non resistono alla seduzione del Natale e approfittano per somministrarci la loro omelia: che cosa rimane di spirituale in una festa che è divenuta una grande orgia commerciale? Che cosa rimane oltre alla patina di buoni sentimenti che copre ben più prosaici interessi economici? Ecco allora - pressante, urgente e altamente significativo - il loro invito alla sobrietà, al raccoglimento, ad allargare lo sguardo al mondo, ai problemi insoluti, alle urgenze che richiedono il "nostro impegno". Sobrietà, problemi, impegno? Proprio a Natale? Proprio nella festa dell'Incarnazione di Nostro Signore? Provate a pensarvi mentre porgete un regalo che vi è costato molto, moltissimo. Pensate alla reazione di colui che lo riceve: la vorreste sobria, "problematica", compassata, calma e "impegnata" fino al disprezzo, o preferireste un'esplosione folle di gioia e di gratitudine? E preferireste regalare qualcosa a una persona che sapete a sua volta generosa, oppure a un tirchietto rinsecchito e pusillanime, benché estremamente "consapevole"? Bene, allora, cari signori della natalizia lotta al consumismo, il sospetto è che voi lo facciate in nome della vostra avarizia e della vostra aridità. In fondo se credi poco, scommetti poco, spendi poco e morirai nel poco in cui hai vissuto. Salvo godere di nascosto, quando nessuno vede, dei tuoi vizi privati, raffinati e decadenti, estremamente dispendiosi ma per niente consumisti, perché strettamente censitari e d'élite. Bene, carissimi puritani della laicité natalizia, caro ugonotto che nel tuo attico a Brera canti l'Internazionale, caro giornalista dal sublime sentimento morale, prima di visitare la cappella spoglia dei Poveri di Lione, vieni da noi!. Noi ti invitiamo a godere come un matto. Noi, che abbiamo ricevuto da Gesù il più grande dei regali, smaniamo dalla voglia di regalare, perché celebriamo la luce che ha vinto le tenebre. E se tu non la vuoi accogliere, fa niente. Noi ti vogliamo inondare di luci e di colori, e vogliamo spendere tutti i soldi che abbiamo, e brindare e ridere e scherzare e trovarci tutti assieme. Nulla si lesina, nulla si risparmia, nulla si trattiene quando sei in overdose di grazia. E chi la vuole spiritualizzare commette un grave peccato contro l'Incarnazione. Voi parrucconi della morigeratezza, voi robespierre della parsimonia accomodatevi nelle vostre camarille catare e gnostiche! Noi ce la godiamo perché lo spirito ha vivificato la carne e ci annuncia che tutto è buono agli occhi del Bambino che nasce. Così portiamo acqua mulino del materialismo consumista? Ben venga il materialismo: noi non lo temiamo, perché Dio ha redento la materia. Liberi, vagliamo tutto e teniamo ciò che è buono...liberi di godere, liberi di gioire per un dono ricevuto, liberi di dare, liberi di regalare!

N.B. I testi di questo blog sono liberamente riproducibili, ma non a fini di lucro e a patto di citare in modo chiaro e visibile la fonte (vendemmietardive@blogspot.com) e l'autore,  mantenendo inalterato contenuto e titolo.

martedì 4 dicembre 2018

La testa degli altri



Che assurda banalità: "Imparare a pensare con la propria testa"!...L'esperienza dice che chi pensa con la propria testa, generalmente pensa male. L'autonomia del giudizio - questa grande chimera del nostro tempo - è nella maggior parte dei casi un'illusione narcisistica. L'originalità è un pessimo indizio, quando si va in cerca della verità delle cose. Ciò che viene spacciato per pensiero critico è spesso la replicazione coattiva di modelli non già "critici" ma "tossici", capaci come le droghe di produrre sensazioni piacevoli, di prestigio, di onniscienza, di onnipotenza. Essi piacciono perché solleticano l'Io a trovarvi quelle conferme di cui ha bisogno. Perciò vengono subito abbracciati con istantaneo innamoramento. Quell'amore smodato che il nostro orgoglio riserva a...noi stessi. Quindi? Quindi un primo passo per pensare bene è fare un piccolo sforzo ascetico, quella fatica autoeducativa di pensare con la testa degli altri. Finché non si prova a pensare con la testa degli altri non ci si accorge che, oltre alle nostre giulive e sicure associazioni, esiste un pensiero che ha regole, dinamiche e caratteristiche indipendenti dalle inclinazioni soggettive. Finché uno è preda del proprio pensiero non conosce e capisce altro che se stesso... Invece il pensiero deve circolare e viaggiare attraverso le grandi menti della storia: solo lì si alimenta, solo dalle altezze dei giganti, noi nani possiamo vedere qualcosa. L'unica modo per essere autonomi e critici è riconoscere e dichiarare serenamente che abbiamo delle fonti di ispirazione e che ne scorgiamo la grandezza, a volte malgrado noi! Smettiamola allora di dire: "Io penso"; "Secondo me";  "A mio parere". Consentiamone l'uso al solo scopo di circoscrivere e limitare le nostre affermazioni. Se invece vogliamo ancora sottolineare che noi siamo il Soggetto originale di ciò che diciamo, finiremo preda di tutti gli onanismi di questo tempo...l'unica epoca che mentre decade glorifica se stessa,

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sabato 1 dicembre 2018

Le intoccabili parole del Figlio

Avete mai pregato con la disperata fede di chi ha veramente bisogno di Dio? Avete mai pregato con fedele speranza il vostro Signore e Dio? Avete mai pregato con tutta l’anima, con la mente e con il corpo, con l’intensità di chi chiede una parola e una luce nella coscienza? Avete sperimentato la luce della preghiera?
Io non sono assiduo e costante nel dialogo con Dio. Sono un laico impenitente, pigro, accidioso, abbastanza godereccio: sono l’immagine più nitida dell’anti-mistica. Eppure…Eppure tutti i cristiani, per quanto tiepidi e scalcagnati come me, sanno di che cosa parlo. Lo sanno perché in qualche momento della loro vita hanno pregato…proprio così, proprio in quella maniera.
Ora, provate a pensare a questa scena: mentre pregate, arriva un tizio che vi dice che state sbagliando, che non state chiedendo  la cosa giusta, che non avete il giusto concetto di Dio, che avete bisogno non di Dio ma di un corso accelerato di teologia per laici…Ecco voi pregate, ma in realtà avete bisogno solo di un po’ di scienze religiose. Infatti avete il torto di rivolgervi al Padre come vi hanno insegnato da bambini. Vi segnate ancora come vi hanno insegnato. Vi inginocchiate quando vi hanno insegnato….e infine pronunciate quella frase scandalosa: “Non indurci in tentazione”. Ma non sapete, cari miei, che Dio non tenta nessuno? Non vi è mai venuta in mente, mentre dicevate il Padre nostro questa dotta citazione di san Giacomo? Non vi sovviene qualche dubbio sulla base delle vostre assidue letture bibliche?
Beh, al teologo col ditino alzato, bisognerebbe rispondere che il genere letterario “preghiera” è diverso dal genere “trattato di esegesi e teologia biblica”. È strano ma i nostri espertissimi interpreti che discettano per una vita di forme letterarie non hanno colto questa semplice e lapalissiana verità che anticipa e rende vane tutte le loro raffinate concettualizzazioni. Quando si prega, tanto per andare alle fonti del “genere letterario”, cioè agli atti linguistici che si compiono in quel frangente e al cuore dell’uomo che li compie, ci si rivolge a Dio per tutto. Non si fanno differenze. Tutto è ricondotto a Dio. Tu, o Padre che puoi tutto e che sei l’origine e il fine di tutto, non m’indurre in tentazione,  perché tu hai potere anche sulle mie tentazioni, perché a te nulla sfugge, e anche se io decido di allontanarmi da te, anche su questa mia decisione si stende la potenza della tua grazia…quindi, Padre, ti prego, non indurmi in tentazione!.
Gesù prega con il cuore e insegna agli uomini a pregare con il cuore. Le sue parole sono definitive. La sua profondissima intelligenza del cuore umano ne raccoglie le trame nascoste e le riconduce al Padre. Per questo ci insegna a pregare così, con quel verbo greco “eisfero” che, ripetendo la preposizione “eis” vuole dire inequivocabilmente “portare in”…. come ha giustamente inteso san Gerolamo….con un calco perfetto del latino sul greco egli traduce “non inducas in tentationem”, dove ducere=fero=portare, e in=eis=in.
E la Chiesa, che per due millenni ha pregato con il suo popolo di santi e martiri, con i suoi capi, vescovi e pontefici, quel Padre nostro, osando dire ciò che il suo Signore aveva invitato a dire (che bello quell’osare della liturgia: “Vedi come ardisco parlare al Signore mio”)? La Chiesa infinitamente saggia mai ha pensato che si potesse modificare la parola del Figlio. Sacra è quella parola. Intoccabile, immutabile, stabile ed eterna come tutti i decreti di Dio. La Chiesa custodisce gelosamente. La Chiesa non è padrona. Il papa è il servo non è il capo. I vescovi collaborano non comandano. Nelle cose di Dio, tutto va lasciato com’è.
Come sarebbe bello se in ogni documento ecclesiale ci fosse questo preambolo: “Non cerchiamo novità”! Perché la novità umana è vecchia come l’orgoglio. È arrogante come la sete di potere. L’unica vera novità è di chi fa nuove tutte le cose. Quanto a noi bisogna lasciare tutto com’è, bisogna lasciar essere. Il sacro è separato dal profano perché il profano si manipola, il sacro va lasciato stare. Non stupisce che nell’epoca della manipolazione universale qualcuno voglia reimpastare la Parola, scandalizzando il popolo di Dio…oppure solleticando i bassi istinti delle masse, ansiose di progresso e di aggiornamento. Non stupisce ma indigna. I tuoi pastori sono nomadi e non sanno dove andare. Nessun stabilità è ammessa nel nomadismo universale di questo mondo di trasformazioni uniformi. Trasformare tutto per lasciare intoccato il nucleo dell’unica volontà di potenza che anima la voglia troppo umana di essere come Dio. Ecco il segno dell’ufficialità della chiesa, la cui gerarchia  non è più quella visibile con gli occhi della fede, ma quella che è, quella che brutalmente si impone, credendo di essere la vera Chiesa in opposizione alla Chiesa di sempre. Chiesa ufficiale che si aggiorna, che agisce di compromesso, che si modernizza, che fa politica come un partito fra i tanti.
La forza del Logos di Dio è tuttavia quella che è. Nessuno può mutarne forma e contenuto. La forma è quella più adatta al contenuto. I Vangeli sono scritti in greco. Qui non agisce il caso ma la Provvidenza. È bene cercare gli originali semiti per capire maglio il testo. Ma non bisogna mai sostituire le induzioni al testo. Né le interpretazioni. Sappiamo che di fronte a un testo non è possibile evitare di interpretare. Ma il Vangelo va seguito sine glossa, come diceva san Francesco, l’alter Christus. Non confondiamo l’umano e il divino, prima che Dio li confonda felicemente alla fine dei tempi. Non indurci in tentazione è testo; non abbandonarci alla tentazione è glossa.

Non ci montiamo la testa…restiamo la Chiesa di sempre, sulla quale non prevarranno le porte degli inferi… lasciamo tutto come è… non proviamoci… non facciamola grossa… non usciamo dal seminato…non tocchiamo le intoccabili parole del Figlio!

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mercoledì 28 novembre 2018

Agli occhi di Dio



Che cosa ti ha reso giusto agli occhi di Dio, Walter?
Forse il temperamento e l’innocenza dello sguardo?
Forse l’equazione della tua persona e del pensiero?
La forza di un’utopia sovranamente abbracciata?
O l’indipendenza severa del tuo giudizio?
O ancora la fiera battaglia contro il mondo e le sue miserie?
Non so se queste siano solo parole, stese sulla realtà refrattaria delle persone che non ci è possibile vedere in verità.
So che un cuore inquieto rompe ogni velo.
Sono sicuro che non cercavi sicurezza; sono contento perché non eri contento. E ciò è lucido splendore della tua persona, senza possibilità di menzogna, senza coprire, senza mistificare.
Mai fermo è stato il soffio del tuo spirito, mai risolto l’enigma della vita, mai tranquillo il cammino.
Il nero dubbio risplende in te, non patina di bontà, non ipocrisie e rimpianti per te, ma il nostro fango dal quale levarsi e gridare: questa è la tua giustizia.
Dio ti ha voluto inquieto e tu hai risposto spezzando la voce, le parole e il tuo corpo…
Per questa trama infinita di opposti, per questo bruciare infinito che hai amato, Dio si è specchiato in te e ti ha saputo suo.



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Un'armonia ascendente


Siamo stati un'armonia ascendente. La giustizia è un certo ordine delle cose e della vita. La bellezza è proporzione, splendore, perfezione, incastro perfetto degli opposti in una totalità chiara e luminosa. Ieri ho visto tutto questo. Ieri la memoria di Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi e Carlo Borsani ha incontrato questo punto altissimo in cui giustizia e bellezza si sono date la mano ...
... Anzitutto nella celebrazione composta del sacrificio dei sacrifici a Messa. La presenza reale del Capro Espiatorio in mezzo ai militanti composti, la cui postura era di per sé espressione del rispetto attentissimo per quanto è grande e trascende la nostra piccola umanità, ha portato anche Sergio, Enrico e Carlo lì in mezzo a tutti. In mezzo a tutti il Cristo Eucarstico ha condotto la loro umanità bella e trasfigurata ormai nell'eternità. Non c'era bisogno di un'espressione individuale di fede, che pure in molti ha fatto capolino, perché la verità e la giustizia si trovavano lì nell'oggettività coinvolgente del sacro, nell'oggettività coinvolgente del Logos che era in tutti, per tutti, al di là di tutti...
...E poi la musica: gli uomini che si sono incontrati in quell'arte poetica e musicale che rimanda alla bellezza travolgente, che muove le corde profonde delle comunità. Una musica intervellata dalla recita di brani che hanno riportato le vicende tragiche dei nostri eroi al presente. Immagine perfetta della tragedia, che perciò è bella, anche se racconta fatti orrendi...
...E un pubblico che non era un pubblico, ma un protagonista che conosce il suo compito. Un pubblico in continuo, lento, silenzioso, giustissimo e doverosissimo pellegrinaggio verso la lapide che ricorda Sergio, a portare simboli di luce e di bellezza, lumini e fiori bianchi: bellezza, luce e innocenza...
...E il "presente" sempre gridato più forte che si può, in mezzo a fiaccole accese a splendere come fanno forza e tenacia, fuoco acceso per sempre, fuoco artefice, fuoco dello spirito che tende verso l'alto...
...E quelle braccia tese serissime come la nostra storia, eppure beffarde per irridere i tromboni di questa italietta vigliacca e resistenziale...
...Ieri siamo stati un'armonia ascendente...e per un istante che dovrà durare siamo diventati uomini migliori.

I ragazzi di Pino


I ragazzi di Pino non hanno voglia di studiare. E come si potrebbe quando si è rimasti affascinati? (Quando si è ancora dentro al tremore del fascino). Ma che cosa li affascina? Non sono i discorsi di un deputato o di un capocorrente di partito. Troppo poco: i ragazzi di Pino non sono mica scemi. E’ una storia, cioè lo sviluppo coerente di fatti che investono la tua vita e la vita degli altri. Avere una storia (e fare una storia) non è cosa semplice. Vuol dire cogliere l’unità degli eventi laddove vi è solo dispersione. E l’unità dà sempre senso e direzione. Ecco perché, ai loro occhi abituati alla storia, studiare significa accogliere la borghese prospettiva di una vita da individuo, magari una vita ben riuscita, magari ricca e piena di onori, ma dentro quella prigione che non ha muri che ti dice che, dove finisce il tuo mondo, lì anche finisce la tua avventura. I ragazzi di Pino invece lucidamente affermano di venire da un altro mondo e di volerne un altro ancora. Viaggiano fra tre mondi, seduti sulle spalle di giganti che hanno vissuto la bella tragedia dell’Italia, e vedono un po’ più lontano dei loro amici del presente. E quel futuro che scorgono li strappa a loro stessi. Essi hanno, grazie a quel futuro, una singolare vocazione a vivere il presente da militanti. Il vocabolo “militante” contiene la parola miles, cioè soldato, ma non riguarda il mondo della guerra guerreggiata. Il Maestro dice che la guerra guerreggiata è solo la piccola guerra santa. Il grande jihad è un’altra cosa. Diremmo che non è cosa da militari, ma da militanti, da coloro cioè che hanno trovato nella vita un tesoro spirituale, se ne fanno portatori coscienti e coerenti e ne fanno la milizia della loro esistenza. Bene: il tesoro ti strappa a te stesso, è il futuro dell’utopia che stira il tuo spirito verso le regioni iperboree della verità. Stira nel senso proprio del termine, perché intanto, mentre si allunga verso la meta, lo spirito vive nel presente e raffina gli artigli razionali della lotta. Sì, perché il militante è giovane e pertanto ingenuo sul novantanove per cento delle cose della vita, ma su quel centro utopico dell’esistenza è allenato da un lungo, appassionato e talora acrobatico esercizio della ragione e del corpo. I ragazzi di Pino non hanno voglia di studiare, a scuola tardano spesso, perché sono impegnati altrove a distribuire volantini…però sono dei razionalisti. L’utopia risveglia la ragione, perché è la messa a prova delle sue capacità, chiamate ad applicarsi fino all’impossibile assoluto che giace appena al di là dei suoi confini. I ragazzi di Pino hanno trovato un senso nella storia, sanno che questa è l’età oscura, vivono appieno lo sbandamento della post-modernità, ma possiedono un tesoro coltivato con la ragione e con la ragione tracciano una strada. E discutono negli scantinati, e si dividono in microcorrenti di pensiero, ma si aiutano, amano e si divertono, come quelli della loro età, solo che sono un po’ più ricchi. Un vecchietto li guida. Essi ben conoscono la fallibilità di tutti e sanno anche che, dopo aver fatto fuoco sul quartier generale, devono romana pietas ai loro capi. Essi ben sanno che è difficile per lui. Ma trovano che il cuore vibra alle stesse note. Trovano nell’uomo quella stessa esperienza utopica e razionale che li anima…e dunque per ora vanno.
E’ vietato solo essere nostalgici, ammanettando al passato quella tridimensionalità della storia nella quale si milita. Perché altrimenti tutto sarebbe morto, mentre i ragazzi di Pino cercano sempre, nel loro grande opus contra naturam, di vedere nella morte la bellezza del futuro, di quel futuro assoluto della Rivoluzione in cui sempre si sforzano di dislocare la propria vita. La morte viene anche per Pino, ma già i suoi ragazzi cercano l’oltre, lasciandosi dietro solo quella lacrima che non sono riusciti a ricacciare, come fanno gli uomini.

Praga una notte, parlando sempre assieme




Praga è essere prigionieri del tempo. Il tempo che ci domina dall’alto delle sue lapidi e dei fiori secchi e lievi sul volto petroso di Jan Palach. Il tempo che ci cattura con la meccanica precisa e colorata del suo grande orologio (dalla torre fa girare lancette e santi benedicenti, macchina ingenua, ogni ora, ogni giorno per noi col naso all’insù e un po’ di computazionale commiserazione). Il tempo passato degli odii santi, con le barbare schiere hussite che lottano assetate del sangue di Cristo. Tutto ci parla di tempo e di vita, ragazzi, e tutto è così vicino ed estraneo. E noi una notte a parlarci e a non capirci come perfetti vicini e perfetti estranei, solo perché il tempo mi ha messo in una cattedra e voi sui banchi. Semplicemente perché siamo un po’ sfasati e ci troviamo l’un l’altro a desiderare di essere quello che non siamo: quelli di prima, matti, belli e semplici come siete voi; quelli di dopo un po’ più liberi e grandi, come sarei io. Che vi devo dire? Praga mi ispira discorsi e nostalgie il cui senso è difficile da spiegare. Sono in vena di consigli: vi vorrei tutti poeti e rivoluzionari, perché troviate quello che veramente siete e che io cercherei di essere, mentre tramonta quest’Occidente pieno di stanchezze. E vorrei che sul tramonto cui io e voi siamo destinati Qualcuno portasse sempre un pizzico di luce giovane e di futuro. Praga ci tiene prigionieri a parlare assieme, non sapendo che poco più in là la Moldava scorre e non è più la stessa … e il suo silenzio è interrotto dalle risa dei ragazzi che bevono birra, corrono e amano, separati solo dal tempo dai loro coetanei che sorridono pieni di struggente benevolenza, con le loro barbe mezze bianche, fumando il sigaro che gli avete offerto per sembrare più vecchi.

Sicilia Felix (da "L'intellettuale dissidente")


Lasciando Piazza Armerina tra le giustissime rabbie, le imprecazioni e le maledizioni di una guida turistica contro i vigliacchi incendiari che, nuovi iconoclasti di nuovi Daesh, distruggono la colorata vita di queste terre, io e mia moglie decidiamo di entrare ancor più nel cuore della Sicilia. È proprio il paese “cui la colomba prestò il suo collare e il pavone rivestì del manto screziato delle sue penne”, come ebbe a dire uno dei suoi ultimi nobili abitanti musulmani, Ibn Hamdis nell’undicesimo secolo. Al suo cuore si arriva fisicamente, percorrendo le assolate strade che portano verso Enna, dentro ai suoi colori, nel mezzo dei suoi orizzonti esplosivamente mediterranei. Ma il suo è anche un cuore spirituale che si è nutrito delle nostre letture comuni: i classici, Verga, Pirandello, Sciascia, cui si aggiunge un moderno, anzi un modernissimo, Pietrangelo Buttafuoco. Eccoci allora, attraverso campi d’un giallo accecante e strade che mettono a dura prova gomme e schiene, a Leonforte, cittadina d’origine del Nostro. Ci arrampichiamo sul pendio del monte che la ospita fino a corso Umberto, che sappiamo essere l’ “arteria” principale del paese. Di lì alla chiesa dei Cappuccini ci vuol niente, ma non ci saremmo mai arrivati senza un signore di settantaquattro anni, terziario francescano, cui chiediamo un’informazione e da cui riceviamo un invito a seguirlo: è il sacrestano che si offre di aprirci la chiesa. Sandali, corpo minuto, pelle scura, dialetto siciliano con italiano a sprazzi, modi squisiti, ci mostra non senza un pizzico d’orgoglio la statua della Madonna che il giorno dell’Assunta sarà portata in processione e, non senza qualche rimpianto, la riproduzione d’un Beato Angelico un tempo proprietà della chiesa e ora di un collezionista privato.
Ma quel luogo sacro custodisce anche le memorie della fondazione di Leonforte nella tomba ricchissima di porfido nero della contessa Branciforti. Essa impone la sua maestà al visitatore quanto il sacello del conte, Nicolò Placido Branciforti, nascosto da un ampio e pesante tappeto davanti all’altare, significa la discrezione del vero potere, il potere cui si deve la nascita dell’insediamento nel 1610 e la costruzione di un robusto e severo palazzo che adorna altrove la piazza del paese. Il riposo eterno di questi nobili è sovrastato e quasi confortato da un capolavoro del seicentesco Pietro Novelli, L’elezione di san Mattia, forse allusione alla rapida ascesa sociale della famiglia committente nel contesto della politica del suo tempo, ma ancor più, vogliamo pensare, traduzione pittorica di quell’ideale di nobiltà che legge il proprio destino attraverso l’idea di elezione. Essere eletti significa che la propria condizione è un dono, è da Dio, e in certo modo va compensata attraverso un ruolo pubblico fatto anzitutto di largizioni, di bene comune, di signorile generosità. Ciò segna l’autocomprensione di tutta la nobiltà seicentesca, ma in Sicilia sembra che lasci un segno di aristocratica elevatezza in ogni ceto sociale … magnitudo animi diffusiva sui, la magnanimità tende per sua natura a diffondersi. Quale ricchezza, dunque, sullo sfondo di quella dignitosa povertà siciliana, fatta di case basse e scrostate, calure assolate e abbandoni d’ogni cosa! Quali cadenze di dignità e squisitezza nell’eloquio del nostro sacrestano che, erede di una Sicilia atavica, ci racconta dell’oggi di cui siamo sulle tracce, dei Buttafuoco e di Pietrangelo - “largo di cuore” - che noi speravamo, ingenuamente, di incontrare per strada e che invece non vedremo, ma di cui, come per contrappasso del grande narratore, sentiamo raccontare!
 E lungo la scia benefica di questo incontro, proseguendo verso il basso, dove ci è indicata una splendida fontana seicentesca, la Granfonte, con i suoi “cannoli” stillanti freschissime acque, eccone un altro. È la sorpresa di una cortesia inaspettata, di una gratuità imprevista e imprevedibile, assolutamente inutile e, quanto più inutile, tanto più bella. Di fronte al palazzo dei Branciforti, entriamo nuovamente assetati in una panetteria chiedendo una bottiglietta d’acqua. Un volta consegnati i centesimi dovuti alla bellissima ragazza con occhi e capelli neri dietro al bancone, i biscottini alla mandorla che nella vetrina davanti a noi ci hanno attirato e stregato non riusciamo a pagarli. Non so capire: forse il gusto della bella figura con due dei pochissimi – immagino – turisti della zona; forse pietas nei confronti della nostra golosità; forse pigrizia nel ricevere a fronte del dinamismo del dare … non so. Fatto sta che la dolcezza del gesto e la grazia naturale con cui è stato compiuto hanno completato moralmente il già rilevante godimento dei sensi dovuto alle mandorle, ai pistacchi, alle loro morbidezze, in cui vivono profumi, sapori e  chiarori di questi luoghi. Quasi a lasciarcene un ulteriore ricordo, il navigatore sbaglia percorso al ritorno, inducendoci, pur dubbiosi, a inerpicarci su stradine scoscese in mezzo ai frutteti, dove le pesche di Leonforte, un altro tesoro di questa terra, crescono da giugno coccolate e impacchettate ancora verdi sui loro rami perché, protette dai parassiti e dal vento, ne sia favorita la maturazione.
Che dire di questa escursione nella Sicilia profonda in cerca di verità e di letteratura? Innanzitutto dobbiamo tornare alle parole di Pietrangelo: “Alla verità bisogna credere, alla realtà no. La verità è una cosa, la realtà è un'altra. Ciò che è reale può essere una menzogna, anzi il micragnoso mondo delle cose è quanto più distante dal vero, perché l’accadere dei fatti, nel tempo, negli orologi del divenire lineare, è materia propria dell’illusione e non del disvelamento. Vince nelle guerre, dissemina la falsità e istituisce il predominio dell’uomo sull’uomo. Il reale (è) demone del male…”. Leonforte, i suoi territori e i suoi abitanti ci sono apparsi più veri che reali, più racconto che fatto, più poesia che prosa e in questa fede antipositivista che ci accomuna a lui e alla sua gente, forse abbiamo capito qualcosa di più di Pietrangelo, del suo stile barocco, delle immagini della sua pagina vivace e seducente, della sua innata signorilità. Ma ciò abbiamo fatto grazie agl’incontri imprevedibili, imprevisti, con i leonfortesi. Quanto di uno scrittore è spiegato dalla sua appartenenza? Direi che l’appartenenza è qualcosa che ritorna, in generale, come un fine non cercato. Ella “ama quei che non l’invoca, ella ama quei che non lo sa e dona la sua luce fioca a chi per altra luce va”, parafrasando Carlo Michelstaedter. A noi che cercavano lo scrittore è giunto un altro testo, quello del suo popolo, che ci ha lasciato l’impronta di lui che non saremmo riusciti a immaginare. Adesso possiamo capire che cosa vuol dire la luce della Sicilia che abbiamo visto nei paesaggi e negli occhi delle persone, quasi che veramente un “Signore dell’alba” preservi quest’isola dai “mali del creato” e dalla “notte buia quando si addensa” (cfr. Corano, sura CXIII). Adesso, sazi di sole e di bellezza, dobbiamo ritornare, per le inesorabili leggi dell’ermeneutica, con sguardi diversi sulle parole del nostro Autore, che saranno ricche di una felicità in più.

Piovuti a Madrid (aprile 2018)


Scivolare sempre scivolare su marciapiedi troppo lisci…non c’è abitudine allo scroscio qui a Madrid: “No es habitual” avverte l’autista del pullman…e guarda le nubi minacciose al nostro arrivo. Grazie, sole della Meseta che te ne sei scappato proprio quando volevamo salutarti!!! E allora noi…annacquati al Prado… innevati alla Valle de los Caidos… umidi al parque del Buen Retiro… zuppi sull’Avenida grande… devoti alla rana di Salamanca perfettamente a suo agio nei rivoli e negli stagni…a nulla rinunciamo…e ci vendichiamo di tutti gli eccessi di liquidi acquosi…con ripetute immersioni di churros nelle loro piscine di cioccolata…Intanto che scivoliamo di qui e di là…in tutti i caffè…e slalomiamo tra le tapas di San Miguel…Goya ci ha detto di non preoccuparci…ché tutte le oscurità le aveva assorbite lui ed erano lì cutodite nelle sue pinturas…e se qualche raggio passava le nubi era merito suo…Cervantes non era spaventato e pazientemente aspettava la liberazione del sole, compagno di cella…Lope De Vega ci ha invitato all’Accademia dei notturni...ma noi gentilmente declinando abbiamo ballato in strada, di fronte a un pupazzo dell’uomo ragno, un rap divinatorio…danza italiana del sole… e abbiamo dipinto a nostra volta un quadretto danzante…dove lui ci riconosce e ci omaggia della sua luce bianca.

Novembre 2018, torno a salutarti


Nulla mi hai insegnato fuorché il vento tra i capelli a cento all’ora, per sfizio di velocità e maschile sintonia con i cilindri della tua honda four.
Non hai voluto formarmi, tu che la bella forma avevi dentro e fuori, così, senza artificio, solo con la tua sigaretta e il bicchiere, con le tue mani allegramente bucate, mite, scanzonato, giocoso come bambino con cui tutti i bambini vogliono giocare.
Sei stato tutto lavoro e niente apparato, tutto grazia e mai legge, padre capitato lì per ignoto destino, non ti sei scomposto, ma hai provato ad amare.
Amare è da dentro, non superficie; amare è da maleducati, perché non bada alle convenzioni; amare non vuole educare, ma è solo stile che per sua natura si diffonde come la bontà.
Stile di vita: con pochi e sottili tratti, come un sapiente pittore, puoi disegnare un’esistenza. Non servono grandi cose, solo il gusto di offrire, solo la piccolo gioia di spendere senza pensieri, solo ridere per sfottere la vita, solo perdersi e perdere, perché chi vince lo fa per sé, mentre chi perde ti vuol bene e ti lascia andare avanti.
Stile di vita di chi non vuol morire e chiede sempre di guarire, perché un giorno guadagnato è come tutti gli altri che ha faticato, per poter dire che ha senso vivere così, che ha senso un giorno in più, che ha senso sorridere un’altra volta ...ciao papà!