Lasciando
Piazza Armerina tra le giustissime rabbie, le imprecazioni e le maledizioni di
una guida turistica contro i vigliacchi incendiari che, nuovi iconoclasti di
nuovi Daesh, distruggono la colorata vita di queste terre, io e mia moglie
decidiamo di entrare ancor più nel cuore della Sicilia. È proprio il paese “cui
la colomba prestò il suo collare e il pavone rivestì del manto screziato delle
sue penne”, come ebbe a dire uno dei suoi ultimi nobili abitanti musulmani, Ibn
Hamdis nell’undicesimo secolo. Al suo cuore si arriva fisicamente, percorrendo
le assolate strade che portano verso Enna, dentro ai suoi colori, nel mezzo dei
suoi orizzonti esplosivamente mediterranei. Ma il suo è anche un cuore
spirituale che si è nutrito delle nostre letture comuni: i classici, Verga,
Pirandello, Sciascia, cui si aggiunge un moderno, anzi un modernissimo,
Pietrangelo Buttafuoco. Eccoci allora, attraverso campi d’un giallo accecante e
strade che mettono a dura prova gomme e schiene, a Leonforte, cittadina
d’origine del Nostro. Ci arrampichiamo sul pendio del monte che la ospita fino
a corso Umberto, che sappiamo essere l’ “arteria” principale del paese. Di lì
alla chiesa dei Cappuccini ci vuol niente, ma non ci saremmo mai arrivati senza
un signore di settantaquattro anni, terziario francescano, cui chiediamo
un’informazione e da cui riceviamo un invito a seguirlo: è il sacrestano che si
offre di aprirci la chiesa. Sandali, corpo minuto, pelle scura, dialetto siciliano
con italiano a sprazzi, modi squisiti, ci mostra non senza un pizzico
d’orgoglio la statua della Madonna che il giorno dell’Assunta sarà portata in
processione e, non senza qualche rimpianto, la riproduzione d’un Beato Angelico
un tempo proprietà della chiesa e ora di un collezionista privato.
Ma
quel luogo sacro custodisce anche le memorie della fondazione di Leonforte
nella tomba ricchissima di porfido nero della contessa Branciforti. Essa impone
la sua maestà al visitatore quanto il sacello del conte, Nicolò Placido
Branciforti, nascosto da un ampio e pesante tappeto davanti all’altare,
significa la discrezione del vero potere, il potere cui si deve la nascita
dell’insediamento nel 1610 e la costruzione di un robusto e severo palazzo che
adorna altrove la piazza del paese. Il riposo eterno di questi nobili è
sovrastato e quasi confortato da un capolavoro del seicentesco Pietro Novelli, L’elezione di san Mattia, forse
allusione alla rapida ascesa sociale della famiglia committente nel contesto della
politica del suo tempo, ma ancor più, vogliamo pensare, traduzione pittorica di
quell’ideale di nobiltà che legge il proprio destino attraverso l’idea di
elezione. Essere eletti significa che la propria condizione è un dono, è da
Dio, e in certo modo va compensata attraverso un ruolo pubblico fatto anzitutto
di largizioni, di bene comune, di signorile generosità. Ciò segna
l’autocomprensione di tutta la nobiltà seicentesca, ma in Sicilia sembra che
lasci un segno di aristocratica elevatezza in ogni ceto sociale … magnitudo animi diffusiva sui, la
magnanimità tende per sua natura a diffondersi. Quale ricchezza, dunque, sullo
sfondo di quella dignitosa povertà siciliana, fatta di case basse e scrostate,
calure assolate e abbandoni d’ogni cosa! Quali cadenze di dignità e squisitezza
nell’eloquio del nostro sacrestano che, erede di una Sicilia atavica, ci
racconta dell’oggi di cui siamo sulle tracce, dei Buttafuoco e di Pietrangelo -
“largo di cuore” - che noi speravamo, ingenuamente, di incontrare per strada e
che invece non vedremo, ma di cui, come per contrappasso del grande narratore,
sentiamo raccontare!
E lungo la scia benefica di questo incontro,
proseguendo verso il basso, dove ci è indicata una splendida fontana
seicentesca, la Granfonte, con i suoi “cannoli” stillanti freschissime acque,
eccone un altro. È la sorpresa di una cortesia inaspettata, di una gratuità
imprevista e imprevedibile, assolutamente inutile e, quanto più inutile, tanto
più bella. Di fronte al palazzo dei Branciforti, entriamo nuovamente assetati
in una panetteria chiedendo una bottiglietta d’acqua. Un volta consegnati i centesimi
dovuti alla bellissima ragazza con occhi e capelli neri dietro al bancone, i
biscottini alla mandorla che nella vetrina davanti a noi ci hanno attirato e
stregato non riusciamo a pagarli. Non so capire: forse il gusto della bella
figura con due dei pochissimi – immagino – turisti della zona; forse pietas nei confronti della nostra
golosità; forse pigrizia nel ricevere a fronte del dinamismo del dare … non so.
Fatto sta che la dolcezza del gesto e la grazia naturale con cui è stato
compiuto hanno completato moralmente il già rilevante godimento dei sensi
dovuto alle mandorle, ai pistacchi, alle loro morbidezze, in cui vivono
profumi, sapori e chiarori di questi
luoghi. Quasi a lasciarcene un ulteriore ricordo, il navigatore sbaglia
percorso al ritorno, inducendoci, pur dubbiosi, a inerpicarci su stradine
scoscese in mezzo ai frutteti, dove le pesche di Leonforte, un altro tesoro di
questa terra, crescono da giugno coccolate e impacchettate ancora verdi sui
loro rami perché, protette dai parassiti e dal vento, ne sia favorita la
maturazione.
Che dire di questa
escursione nella Sicilia profonda in cerca di verità e di letteratura? Innanzitutto
dobbiamo tornare alle parole di Pietrangelo: “Alla verità bisogna credere, alla
realtà no. La verità è una cosa, la realtà è un'altra. Ciò che è reale può
essere una menzogna, anzi il micragnoso mondo delle cose è quanto più distante
dal vero, perché l’accadere dei fatti, nel tempo, negli orologi del divenire
lineare, è materia propria dell’illusione e non del disvelamento. Vince nelle
guerre, dissemina la falsità e istituisce il predominio dell’uomo sull’uomo. Il
reale (è) demone del male…”. Leonforte, i suoi territori e i suoi abitanti ci
sono apparsi più veri che reali, più racconto che fatto, più poesia che prosa e
in questa fede antipositivista che ci accomuna a lui e alla sua gente, forse
abbiamo capito qualcosa di più di Pietrangelo, del suo stile barocco, delle
immagini della sua pagina vivace e seducente, della sua innata signorilità. Ma
ciò abbiamo fatto grazie agl’incontri imprevedibili, imprevisti, con i
leonfortesi. Quanto di uno scrittore è spiegato dalla sua appartenenza? Direi
che l’appartenenza è qualcosa che ritorna, in generale, come un fine non
cercato. Ella “ama quei che non l’invoca, ella ama quei che non lo sa e dona la
sua luce fioca a chi per altra luce va”, parafrasando Carlo Michelstaedter. A
noi che cercavano lo scrittore è giunto un altro testo, quello del suo popolo,
che ci ha lasciato l’impronta di lui che non saremmo riusciti a immaginare. Adesso
possiamo capire che cosa vuol dire la luce della Sicilia che abbiamo visto nei paesaggi
e negli occhi delle persone, quasi che veramente un “Signore dell’alba”
preservi quest’isola dai “mali del creato” e dalla “notte buia quando si
addensa” (cfr. Corano, sura CXIII). Adesso,
sazi di sole e di bellezza, dobbiamo ritornare, per le inesorabili leggi
dell’ermeneutica, con sguardi diversi sulle parole del nostro Autore, che
saranno ricche di una felicità in più.
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